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Intervista con la scienziata indiana che lotta contro l’agricoltura delle multinazionali
di Susanna Ripamonti

E’ la storia di Davide contro Golia quella che racconta Vandana Shiva, personaggio ben noto nella galassia “No Global”, che da almeno 15 anni combatte per svelare il grande bluff delle multinazionali: le corporazioni come la Monsanto, che arrivarono in India promettendo ai contadini raccolti miracolosi, ricchezza e benessere e rivelarono molto presto l’inganno nascosto dietro al miraggio di seducenti campagne pubblicitarie. Lei, scienziato prestato all’agricoltura, ha fondato un’organizzazione, Navdanya, che raccoglie dieci milioni di agricoltori indiani. Ha attraversato l’India, girando da un villaggio all’altro, spiegando ai contadini che il modello di sviluppo proposto dalle multinazionali li avrebbe trasformati da consumatori di semenze a consumatori di prodotti chimici e di semi geneticamente modificati, che non si sarebbero più riprodotti. Un meccanismo che avrebbe indotto qualcosa che è paragonabile alla tossicodipendenza: la dipendenza dai narcotici dell’agricoltura.

Vandana Shiva, lei poche settimane fa era a Firenze in occasione del Social Forum. Che cosa pensa del movimento No Global?

 

“Tanto per cominciare, forse non si dovrebbe chiamare più No Global, ma Pro Local, nel senso che è un movimento che cerca di promuovere la diversità, la democrazia, il rispetto delle differenze. L un movimento forte e vibrante, che ha saputo raccogliere attorno a sé forze diverse, manifestando pacificamente nonostante minacce, provocazioni e pressioni”.

 

C’è un filo che lega la sua attività in India con questi nuovi movimenti occidentali?

 

“Partiamo da lontano: 10 o 15 anni fa, i modelli di sviluppo dividevano nettamente il Nord dal Sud del mondo: il Nord rappresentava lo sviluppo e il Sud il sottosviluppo. Io non sono stata mai d’accordo con questa rappresentazione della realtà, che rispecchiava un obiettivo preciso: l’Occidente voleva mantenere le sue ricchezze e il Terzo mondo era costretto a rincorrere quel tipo di sviluppo. Oggi la globalizzazione ha prodotto almeno un effetto positivo: le cose per cui combattono i contadini italiani sono sostanzialmente simili a quelle per cui lottano gli indiani. Entrambi vogliono difendere la qualità della loro vita, produrre in modo sano, su una terra sana”.

 

E’ sicura che questa consapevolezza sia così diffusa?

 

“Diciamo che in Europa come in India c’è ormai la consapevolezza che le multinazionali che controllano le sementi e privatizzano l’acqua sono un nemico da combattere. Prima della globalizzazione eravamo divisi adesso la stessa globalizzazione ci ha uniti”.

Lei in India ha cercato di costruire delle alternative concrete. Come si può riassumere l’esperienza di Navdanya?
“C’è una parola indiana, Satiagre, che spiega il nostro lavoro. Vuol dire combattere per la verità, con la forza della non-violenza. Noi abbiamo stretto un patto con i contadini, convincendoli a non collaborare con le multinazionali. Abbiamo creato una banca dei semi, tutelando l’incredibile varietà di specie che produciamo. Le multinazionali ci dicevano che avevano inventato semi resistenti alla salinità, alle alluvioni, alla siccità. Ma noi abbiamo risposto: Li abbiamo già”. La loro ingegneria genetica è assolutamente primitiva rispetto alla ricchezza delle nostre risorse. Abbiamo
una tale varietà, che possiamo fare a meno di loro. L’alternativa è semplice: contrapporre la biodiversità all’omogeneizzazione”.

 

Non è così facile contrastare, col semplice mezzo della parola, una multinazionale. Come avete fatto?

 

“Noi diamo alternative a contadini che stanno morendo e che si suicidano perché non riescono a saldare i loro debiti. Ma le multinazionali hanno rivelato da sole il loro bluff. Facciamo un esempio: in tre stati dell’India del Sud avevano pubblicizzato e venduto un seme di cotone che avrebbe dovuto dare raccolti miracolosi, ma in effetti ha prodotto solo un decimo delle promesse. Il 26 marzo scorso, i contadini che erano caduti in questa trappola hanno constatato di aver perso un miliardo di rupie: il guadagno mancato, rispetto all’uso di semi di cotone tradizionali. Ora stiamo cercando di fare causa alle aziende che hanno venduto miraggi”.

 

Avete provato a stabilire rapporti di collaborazione con l’Onu?

 

“L’Onu ha firmato due trattati che aiutano molto il nostro lavoro: uno per la fesa della bio-diversità e uno, stipulato n la Fao, dopo dieci anni di interminabili trattative, sulle risorse genetiche delle ante. Entrambi riconoscono i diritti dei agricoltori, ma adesso si tenta di vanificarli a favore del Wto. In agosto, quando si tenne a Johannesburg il summit del mondo su accessibilità e sviluppo, noi abbiamo cercato di difendere il trattato sulla bio-diversità, spiegando che l’Onu non può sottostare ai diktat dei Wto, che invece vuole imporre la tutela dei brevetti”

 

Le vostre forme di lotta sono sempre state Pacifiche?

 

“Noi lottiamo contro aziende che hanno riconvertito in agricoltura i prodotti chimici dell’industria bellica. Ma abbiamo sempre presente l’insegnamento di Ghandi. Negli anni 30 gli inglesi volevano privatizzare i 7mila chilometri di costa indiana e proibire la libera produzione del sale. Ghandi disse la natura ci ha dato il mare e noi ne abbiamo bisogno per la nostra sopravvivenza. Le vostre leggi sono immorali e noi non ubbidiamo a leggi immorali. Noi oggi diciamo esattamente la stessa cosa: la natura ci ha dato gratuitamente i semi che appartenevano ai nostri antenati e noi continuiamo a volerli usare liberamente”.