Una buona notizia per il movimento
20 Marzo 2007
Giuliana Sgrena
Daniele è libero! Finalmente. Le ultime ore d’attesa sembrano una eternità, per tutti, ma soprattutto per chi deve essere liberato e sa benissimo che si avvicina un momento estremamente delicato: speranze e timori si sovrappongono fino all’ultimo. Sono le sensazioni che ho rivissuto in queste ore. Mentre giravo per gli Stati uniti sfasata negli orari con l’Italia e con Kabul, cercavo di comunicare ai miei accompagnatori la mia inusuale ossessione per gli sms. Poi finalmente il risveglio con la buona notizia. Così ieri ho potuto raccontare nella conferenza ai pacifisti di Los Angeles che il collega rapito in Afghanistan era libero e gli amici di Emergency, che si sono organizzati anche qui, potranno essere orgogliosi che Gino Strada e la sua organizzazione hanno potuto contribuire a questa liberazione. Daniele è libero, anche se questa esperienza sarà dura da superare, ma il nostro mestiere è sempre piu pericoloso. Occorrerebbe una riflessione sulla informazione nei luoghi di guerra: ieri l’Istituto per la sicurezza dell’informazione internazionale ha reso noto che dall’inizio della guerra in Iraq sono stati uccisi 187 giornalisti e collaboratori (di questi 157 erano iracheni). Non si puo rinunciare ad informare, in modo indipendente, sui conflitti che insanguinano questa terra. Ma come, se non si può lavorare sul terreno? Daniele, io e molti altri che sono stati rapiti, e purtroppo non tutti sono sopravvissuti, stavamo semplicemente facendo il nosto lavoro, come deve essere fatto. La mancanza di informazione o una informazione surrogata dai giornalisti embedded dovrebbe essere un problema di tutta l’opinione pubblica che vuole essere informata.
E’ un problema che si discute molto anche qui negli Stati uniti, almeno negli ambienti dove presento il libro «Friendly fire» (Fuoco amico). Nel paese ritenuto un esempio di libertà di informazione ci si accorge che la censura è invece molto forte sui temi cruciali come la guerra e l’Iraq. Ma anche l’Afghanistan emerge ormai con forza. E la manifestazione del 17 marzo a Washington partendo dalla necessita di ritirare le truppe Usa dall’Iraq, rivendicava la fine di tutte le occupazioni: dall’Afghanistan fino alla Palestina. Questo movimento è tuttavia fragile, anche se suscita molte speranze anche dalla nostra parte dell’oceano ben sapendo che solo gli Usa potranno cambiare veramente la situazione visto che la macchina da guerra piu potente e quella di Bush. Nel momento in cui la maggioranza della popolazione statunitense sembra aver preso coscienza della necessita del ritiro dall’Iraq e che il numero dei veterani impegnati contro la guerra aumenta, si acuiscono anche le divisioni: l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali paradossalmente sembra ridurre la mobilitazione. C’è chi spera in un cambiamento con l’elezione alla presidenza di un democratico e chi ritiene che questo cambiamento non ci sarà, o comunque non sarà tale da realizzare gli obiettivi del movimento no-war. Del resto le dichiarazioni sia di Hillay Clinton che di Obama sull’Iraq non sono certo confortanti. E il movimento sembra per molti versi poco incline alla mediazione politica. Quindi si assiste da un lato alla radicalizzazione e dall’altra a una attesa che rasenta la smobilitazione. Le manifestazioni del quarto anniversario dell’inizio della guerra in Iraq lo hanno dimostrato.