Szymborska, storia lirica del mondo quotidiano
8 Novembre 2012
Franco Marcoaldi
Esce, postuma, una raccolta con i suoi ultimi versi. Che si intitola “Basta così”.
Il primo febbraio di quest’anno moriva Wislawa Szymborska e subito dopo è accaduta una cosa impensabile nel mondo editoriale italiano: grazie agli appassionati omaggi comparsi sulla stampa, e soprattutto grazie a un incisivo intervento in televisione di Roberto Saviano, l’opera della grande poetessa polacca—come per miracolo—ha occupato la testa della classifica dei bestseller. Un miracolo, appunto. Eppure facilmente spiegabile, perché i versi della “signora di Cracovia” indicano ancora una volta, in modo inequivocabile, che esiste una “poesia per tutti”. E quando quella poesia raggiunge tali vertici di intensità, non conosce rivali. Perché nello spazio di pochi versi le parole arrivano dritte al cuore, al cervello e allo stomaco del lettore: come una frustata, o come una dolentissima carezza. Il nitore espressivo della Szymborska ci costringe a risvegliarci dal nostro letargo mentale offrendoci uno sguardo sghembo e imprevedibile sul mondo, accompagnato da uno humour perfido, intimamente refrattario a qualunque pompa o solennità: bastano eventi minuscoli, in apparenza insignificanti, che aprono però sempre e comunque sulle cose ultime, sull’essenziale. Come stanno a dimostrare gli stessi titoli dei suoi ultimi libri, via via sempre più minimali, ridotti all’osso: Attimo, Due punti, Qui. Ora però, alla semplicità, si aggiunge una vera e propria preveggenza: Basta così suona infatti il titolo della raccolta postuma curata da Ryszard Krynicki e tradotta da Silvano De Fanti per Adelphi. Si tratta di poche, fiammeggianti poesie, a cui altre si sarebbero aggiunte, se non fosse sopraggiunta la morte dell’autrice. Ma quelle poche, amorevolmente intessute dal curatore e che qui compaiono anche sotto forma autografa, su foglietti scritti a mano con una grafia minuta e crivellati da continue correzioni, scuotono il lettore più ancora che in passato. Forse proprio perché sono gli ultimi suoi versi. E dunque si è indotti a centellinarne la lettura: gustando a fondo e con pazienza ogni singolo giro di frase, allo stesso modo di un nettare prezioso. Un’essenza che ci rende assieme più ebbri e lucidi, pronti a seguire la poetessa nelle diverse tappe del suo viaggio: mentre simpatizza per un tale che in solitudine «lavora alla Raccolta dei rifiuti», senza dare mai «fiato alle trombe»; oppure, mentre manifesta la sua palese insofferenza verso chi invece riesce a mettere «tutto in ordine dentro e attorno a lui». Verso chi ha risposte per qualunque cosa e «appone il timbro a verità assolute,/ getta i fatti superflui nel rita documenti/, e le persone ignote/ dentro appositi schedari». Come è possibile una simile, ottusa sicumera, a fronte dello straziante enigma della vita? Come accettare la meschinità di chi passa disinvolto davanti a un cane legato a una catena, talmente corta da non consentire al povero animale di arrivare alla ciotola dell’acqua? Che fare davanti a una Natura talmente «pazza» da imporci la fame, quando è evidente che « là dove c’è fame finisce l’innocenza»? Come dichiararsi pacificati e soddisfatti in presenza di quell’ingorgo ontologico fatto di «parole per spiegare le parole», «cervelli intenti a studiare il cervello», «boschi ricoperti di bosco fino al ciglio», «occhiali per cercare gli occhiali»? Forse la nostra forza, e assieme la nostra dannazione — rammenta la Szymborska in uno dei suoi guizzi vertiginosi — si racchiude nella mano, in una semplice mano fatta di ossa, muscoli e cellule nervose: « più che sufficiente/ per scrivere Mein Kampf/ o Winnie the Pooh». Oltre che, se Dio vuole, per regalarci un libro non finito, minuscolo e memorabile, come Basta così.