Ieri, mercoledì 4 novembre, è passata alla Camera dei deputati, non ancora al Senato, la legge contro l’omotransfobia, senza dare risposta alle obiezioni di molte femministe. Nella dichiarazione finale prima del voto, l’on. Walter Verini del Pd ha affermato che il suo partito «ha rispettato e si è confrontato con importanti filoni del movimento femminista» sulle critiche e le obiezioni formulate al testo di legge.
Quali erano le obiezioni delle femministe che i deputati PD e alleati non hanno preso in considerazione? Principalmente due (che la redazione del sito condivide): le donne in quanto tali non sono una minoranza da tutelare, come vuol far credere questa legge, le donne sono parte dell’umanità su cui il diritto si basa per avere autorità; l’identità di genere è diventata una nozione ambigua e non va inserita in un testo di legge che, per sua natura, deve parlare con chiarezza.
(La redazione del sito)
La lettera:
«Caro Verini, siamo colleghi giornalisti e se consenti ti darei del tu. Nel corso della tua dichiarazione finale prima del voto alla Camera sulla legge contro l’omotransfobia hai affermato che il Pd ha rispettato e si è confrontato con “importanti filoni del movimento femminista” sulla legge contro l’omotransfobia.
Da collega ti chiedo le fonti dell’informazione che hai ritenuto di dare: dove, quando, in quale circostanza e con la partecipazione di chi sarebbe avvenuto detto confronto.
A noi femministe non risulta alcun contatto, né alcuna richiesta di confronto e di dibattito da parte vostra. Le richieste sono venute da noi e non hanno avuto alcun riscontro.
Ti richiedo pertanto un chiarimento a riguardo.
Grazie, Marina Terragni»
(www.libreriadelledonne.it, 5 novembre 2020)
di Lia Cigarini e Luisa Muraro
Lea Vergine non è più tra noi ma è ancora dentro di noi nel ricordo e ancor più nella riconoscenza: lei è tra le donne che hanno aiutato la nascita della Libreria delle donne di Milano.
L’abbiamo conosciuta nel 1975, quando, in cerca di soldi, ci siamo rivolte ad alcune artiste come Carla Accardi, Dadamaino, Valentina Berardinone e Nilde Carabba. Altre si uniranno. Lea Vergine ha messo insieme le opere (serigrafie) di queste artiste accrescendo così il loro valore anche in senso commerciale.
In un’intervista di Massimiliano Gioni, curatore della mostra di Palazzo Reale La Grande Madre (2015), Lea racconta: «Nel 1975, la Libreria con Luisa Muraro e Lia Cigarini mi chiese di presentare una cartella di artiste. Rimango un po’ perplessa. Scrivendo per la prima volta su nove artiste insieme, tra le quali Carla Accardi, Dadamaino e Amalia Del Ponte, ho cominciato a prendere coscienza di separazioni terrificanti…» E aggiunge: «avevo un subbuglio dentro di me, forse un autentico star male. Così mi sono detta è il momento di fare una ricerca seria e, nel 1978, ho cominciato a lavorare alla mostra L’altra metà dell’Avanguardia inaugurata a Palazzo Reale di Milano nel 1980».
Lea Vergine aveva già pubblicato Il corpo come linguaggio (la Body Art e storie simili) e scoprì, in seguito all’incontro con la Libreria, l’importanza che la politica delle donne dava e dà all’essere corpo. Questa coincidenza è diventata un legame duraturo con la Libreria delle donne di Milano, che resta vivo e che noi affidiamo anche a quelle che non l’hanno conosciuta.
(www.libreriadelledonne.it, 21 ottobre 2020)
di Marta Equi
Martedì 20 ottobre è mancata la curatrice e critica d’arte Lea Vergine.
La celebrano rendendo conto del suo ricco e articolato percorso professionale Art Tribune e molte altre testate dedicate all’arte, e non solo. [1]
Personalmente la associo ad un progetto importante per la storia della Libreria delle Donne di Milano, che è particolarmente interessante perché fa luce sulla relazione originaria tra politica della Libreria e pratiche artistiche, che prosegue fino ad oggi con le attività della Quarta Vetrina.
A Lea Vergine dobbiamo la mostra «L’Altra Metà dell’Avanguardia 1910-1940», tenutasi a Palazzo Reale nel 1980 e dedicata a rivelare il lavoro delle artiste nei movimenti di avanguardia. Quella mostra fondamentale, «un taglio simbolico per le donne nella storia dell’arte» scrive Lia Cigarini [2], fu ispirata dai progetti e dalle riflessioni che la curatrice incontrò alla Libreria delle Donne di Milano, come racconta lei stessa in un’intervista. [3] Vergine curò infatti la «Cartella delle Artiste» (1975) con opere di Carla Accardi, Mirella Bentivoglio, Valentina Berardinone, Tomaso Binga, Nilde Carabba, Dadamaino, Amalia del Ponte, Grazia Varisco, Nanda Vigo.
La cartella fu pensata non solo come «momento di solidarietà verso il movimento delle donne e in particolare verso la Libreria delle donne», come scrivono le artiste coinvolte (la Libreria nacque infatti anche grazie al sostegno di questa iniziativa), ma anche come gesto dal potenziale trasformativo e trasgressivo rispetto alle logiche del mercato dell’arte, proponendo prezzi politici e logiche distributive alternative ai canali tradizionali. «È un piccolo inizio» – concludono le artiste nel comunicato del ’75 – «Altre donne compiono altre azioni, inventano altri gesti. Un giorno tutti questi gesti si potranno incontrare.» [4]
Ancora una volta, il femminismo delle origini mi trasmette energia, voglia di inventare, e di trasgredire.
(www.libreriadelledonne.it, 21 ottobre 2020)
[1] Per esempio: Nicoletta Spolini, Addio a Lea Vergine, critica d’arte, moglie di Enzo Mari. Vogue, 20 ottobre 2020; Matteo Bergamini, Lea Vergine, Scrivere leggendo L’arte, Exibart, 20 ottobre 2020.
[2] Lia Cigarini, Niente è più come prima. In catalogo della mostra «Vetrine di Libertà», a cura di Francesca Pasini e Chitra Cinzia Piloni, Nottetempo, 2019.
[3] L’altra metà dell’avanguardia. Modernismo e questioni di genere in una mostra storica. Lea Vergine intervistata da Massimiliano Gioni. In catalogo «La Grande Madre», a cura di Massimiliano Gioni e Roberta Tenconi, 2015, SKIRA, pagine 267-270.
[4] Le citazioni derivano dalla cartolina di invito alla presentazione della Cartella delle Artiste, riportata nel catalogo della mostra «Vetrine di Libertà», a cura di Francesca Pasini e Chitra Cinzia Piloni, Nottetempo, 2019
di Paola Mammani
L’Associazione Luca Coscioni, l’Associazione Italiana genitori di ragazze affette dalla sindrome di Rokitansky, Certi Diritti, Famiglie Arcobaleno, Agedo e l’Ufficio Nuovi Diritti della CGIL di nuovo manifestano per chiedere alla politica una legge che tuteli la gestazione per altri.
I fautori dei nuovi diritti chiedono sia regolamentata “solamente” la cosiddetta gpa non commerciale – o solidale, come anche la chiamano – e sembrano ignorare che quando la gpa fosse ammessa per legge, diventerebbe immediatamente un affare di avvocati, cliniche, centri di raccolta di gameti, in un crescendo di servizi offerti per realizzare sul mercato il maggior profitto possibile, e di conseguenza sparirebbe, per quello che è esistita, la gestazione non commerciale.
(www.libreriadelledonne.it, 22 ottobre 2020)
di Giorgia Baschirotto
Tu che lavori nel campo della moda, che cosa pensi del numero di Vanity Fair “Le donne italiane” affidato a Francesco Vezzoli?
Ingenuità o provocazione? Mi piace pensare che la scelta di Francesco Vezzoli di scattare una persona transgender per la copertina del numero di Vanity Fair da lui curato, “Le donne italiane”, sia una scelta mirata, consapevole, volta a suscitare una reazione e ad alimentare un dibattito.
Mi piace pensare che questo numero sia non una reale, seppur spiacevole, dedica alle donne, quanto un invito a reagire e a rifiutare rappresentazioni stereotipate, patinate e in questi termini non necessarie, come non è necessario il bisogno di riconoscimento e la valorizzazione delle donne da parte del mondo maschile ed editoriale in quanto ennesima forma di subalternità.
Le donne hanno già ampiamente affermato il loro valore e manifestato la loro autorità, e continueranno a farlo con forza senza il bisogno di essere ricordate e vezzeggiate da l’ennesimo settimanale, il quale riflette la presunzione di poter dare uno spazio speciale alle donne come se si trattasse di una minoranza da esaltare e proteggere. Una “minoranza” che rappresenta più della metà dell’umanità e le cui battaglie e conquiste non possono essere confuse o confrontate con quelle di alcune comunità come quella trans, nella speranza di accaparrarsi il consenso di lettori che senza troppo senso critico si lasciano trarre in inganno dall’unione di termini oggi molto di moda come “inclusività” e “transizione”.
Mi piace pensare che l’abuso di parole come “emozioni”, “empatia” ed “estetica”, assieme alle lacrime dipinte sui manifesti femministi da Vezzoli, sia un’insolente parodia, un’esortazione a dire “basta!” o piuttosto a riderci su, con l’elegante superiorità di chi non accetta né concepisce definizioni.
Spero di non sbagliarmi.
(www.libreriadelledonne.it, 7 ottobre 2020)
di Clara Jourdan
Quando giorni fa ho sentito a una rassegna stampa che il giornale satirico francese Charlie Hebdo aveva ripubblicato la vignetta offensiva su Maometto che scatenò il sanguinoso attentato del 7 gennaio 2015 alla redazione parigina della rivista, non potevo crederci. Di nuovo? L’occasione era l’apertura del processo contro i sopravvissuti complici o organizzatori dell’attentato. Per ribadire la libertà di espressione che non si piega di fronte a niente. Eppure cinque anni fa qualcuno aveva riconosciuto che era stato un grave errore politico pubblicare quella vignetta: una crudeltà ingiustificata verso milioni di persone di fede islamica e una provocazione al terrorismo. Facile e stupido fare dello spirito su qualcosa di sacro per gli altri, e irresponsabile in una situazione di convivenza già fragile. Allora perché di nuovo adesso? Per il potere delle gonadi maschili (biologico o culturale che sia). Non me lo spiego altrimenti. Molti uomini non sanno resistere all’impulso a sfidare, a provocare, a far vedere chi sono. Costi quel che costi. E infatti puntualmente è arrivato un altro attentato, piccolo, appena simbolico, perché si sappia che le gonadi le hanno anche gli altri. Il problema non è tanto il rischio di attentati, è che così si continua ad alimentare sfiducia e ostilità in un mondo sempre più conflittuale, e per di più in nome di una civiltà (“libertà di espressione”) che è anche la mia. Di che ti sorprendi, mi dico. Sono millenni che uomini scatenano guerre, per questi motivi. Sì, ma adesso che il patriarcato è caduto sono caduti anche i veli che coprivano tali imprese virili. Adesso sappiamo che è la sessualità maschile (come si esprime storicamente) a fare problema, a minacciare e distruggere la pace e la convivenza civile. Non possiamo impedirlo? Almeno non chiamatela libertà di espressione.
(www.libreriadelledonne.it, 29 settembre 2020)
di Laura Colombo
La riapertura dei cinema dopo il periodo di lockdown ci ha accolto con l’uscita di alcune grandi produzioni, film spettacolari e grandi kolossal, che mai come quest’anno ho salutato con favore. Voglio soffermarmi su Tenet di Christopher Nolan, un film straniante, che seduce e disorienta insieme. Sono state scritte molte parole sull’evoluzione della ricerca di Nolan, che in quest’ultimo lavoro fa precipitare chi guarda nel circolo del tempo, con balzi in avanti, schivate indietro, attese sospese, smarrimenti risolutori. Molto è stato scritto anche sulla bravura del Protagonista (John David Washington) e del suo compagno Neil (Robert Pattinson). Invece sul personaggio femminile ho letto parole di critica e di svalutazione, io stessa durante la visione ero disturbata dalla figura altera ma debole e sottomessa della moglie del cattivo (la coppia è interpretata da Elizabeth Debicki e Kenneth Branagh). Mi sono chiesta perché.
Credo sia perché mostra molto bene quello che nessuno vuole vedere: il ritratto realistico di una vittima di abusi domestici. Parla di questo la fissazione che la donna ha per suo figlio, diventando il bambino l’unica motivazione della sua vita. Racconta la violenza domestica anche tutto quello che fa Sator, il marito, che la inonda di affetto e doni in pubblico, controllandola emotivamente, finanziariamente e fisicamente in privato. Non si può etichettarla come una macchietta o come un personaggio marginale senza perdere l’essenziale. È difficile ammettere che si possa finire in quella posizione, ci chiediamo come e perché sia arrivata lì, cosa che le vittime di abusi domestici si chiedono costantemente. Alta istruzione, carriera e soldi non mettono al riparo da relazioni inizialmente affascinanti e intriganti che possono finire nel controllo e nell’abuso. Per uscire è necessario un aiuto esterno. Anche il grande cinema aiuta, rappresentando in modo magistrale quello che non vogliamo vedere.
(www.libreriadelledonne.it, 24 settembre 2020)
di Umberto Varischio
Una giovane donna viene investita e uccisa dal fratello perché ha una relazione d’amore con un giovane transessuale.
Gli sguardi (e le parole) si concentrano su di lui e la giovane viene messa in secondo piano se non dimenticata. Nel discutere appassionatamente della necessità della legge sulla omotransfobia ci si distrae da un dato di fatto: si tratta di un femminicidio, come ci ha ricordato Marina Terragni, ed è stato commesso da un uomo il cui sguardo sulla sorella cerca di riportarla all’interno del patriarcato attraverso il potere di vita o di morte che alcuni uomini pensano di avere sulle donne, soprattutto se appartenenti alla propria famiglia. Uno sguardo che pretende di ristabilire il pieno dominio maschile e mette in discussione la libertà femminile, arrivando sino all’omicidio.
Su di un altro piano, ma attraverso lo stesso sguardo si chiede, sia in Francia che in Italia, a giovani donne, studentesse di scuola media superiore, di recarsi a scuola vestite come si deve, perché indossare vestiti corti o minigonne potrebbe turbare i loro professori (maschi).
Molti commenti rimproverano le ragazze perché andare a scuola non è la stessa cosa che andare in discoteca o a una festa; in certi luoghi bisogna andare vestite in un certo modo, decentemente.
Anche qui ci si scorda che la “luna” è rappresentata dallo sguardo maschile e da come questo sguardo costituisce l’ambito in cui le donne possono abitare il mondo.
Quando si parla di donne molti hanno l’abitudine di guardare il dito (il comportamento delle donne, le loro scelte) e non la luna (il patriarcato, i femminicidi, lo sguardo maschile).
Bisogna cambiare (noi uomini), anche gli sguardi.
(www.libreriadelledonne.it, 24 settembre 2020)
di Lia Cigarini
Una lunghissima amicizia quella con Rossana. L’ho incontrata nel Partito Comunista che avevo 18 anni, ora ne ho 83. Per me Rossana è stata un riferimento importante: una donna più grande di me che si muoveva con autorità nella politica maschile. Nella relazione con Rossana ho sentito la forza che dà alla singola donna avere una genealogia femminile alle spalle. Tuttavia il legame con il gruppo del Manifesto finì (1967) con la mia scelta di dedicare tutta la mia passione politica al movimento di libertà delle donne.
Il mio brusco allontanamento però non impedì a Rossana di pubblicare un testo del mio gruppo di donne, Il maschile come valore dominante, nel secondo numero della rivista Il manifesto (1969). Perché il bello di Rossana è che continuava a dialogare anche di fronte a posizioni nettamente in contrasto. Dava valore alla relazione.
Negli anni il dialogo e il confronto tra me e Rossana si è svolto a distanza e sostanzialmente epistolare. Salvo l’incontro a Roma (1996) nel quale Rossana presentò il mio libro La politica del desiderio.
In questa occasione si confermò la sua disponibilità al dialogo e al confronto come anche si confermavano le ragioni del nostro dissidio.
Qui voglio ricordare la sua fedeltà alla lotta di classe insieme alla lotta delle donne. E dire la mia stima per la sua passione politica.
(www.libreriadelledonne.it, 23 settembre 2020)
di Paola Mammani
Sono sempre più frequenti immagini di premiazioni di gare sportive femminili in cui il posto più alto del podio, quello della vincitrice, è occupato da atlete molto alte e robuste, atlete trans.
Ai lati, donne che appaiono qualche volta addirittura minute e non solo per effetto dei gradini più bassi del secondo e terzo posto. Scena non bella a vedersi. Torna alla mente la vocetta maliziosa della pubblicità ingannevole di un popolare giochino d’azzardo, che dice: Ti piace vincere facile, eh? Vinci spesso, vinci adesso.
In occasione del trionfo di Valentina Petrillo, trans ipovedente, che pochi giorni fa a Jesolo, nelle gare paralimpiche femminili di corsa, ha vinto l’oro nei 100, nei 200 e nei 400 metri, mi pare sia stato preso qualche particolare accorgimento. La maggior parte delle foto e dei video la ritraggono da sola o sulla pista, quando le altre sono a distanza, ciascuna nella propria corsia. La premiazione non viene immortalata sul podio, e la seconda e la terza classificate, sono semplicemente ai lati, un po’ distanti. Ma non c’è accorgimento che tenga. In un filmato di gara su Rai sport si vede bene che lei si lascia tutte le altre alle spalle, di una, dieci, tante lunghezze. Ma non è così che si vince, nell’agonismo arrivano le migliori, si contende a volte per frazioni di secondo.
Decisa e un po’ su di giri, come si conviene a una vincitrice, dichiara: «A livello morale io mi sento donna e quindi è giusto che io gareggi come donna». Più che di livello morale, però, si tratta di livello di testosterone, il suo è rientrato nei limiti stabiliti dal CIO (Comitato Internazionale Olimpico) e le ha permesso di segnare un altro primato: sarebbe la prima trans al mondo a gareggiare fra le donne, con documenti ancora maschili.
Mentre scrivo scopro in internet un articolo intitolato: Valentina Petrillo, atleta transgender e ipovedente: «Non corro con le donne per vincere facile: inseguo un sogno e la felicità». Allora lo sai? mi viene da dire. Non ho dubbi circa la felicità di realizzare un sogno, ma qui si tratta proprio di vincere facile, di vincere spesso, di vincere adesso e senza rischio. La pubblicità ingannevole, come rimedio al danno, suggerisce: giocate senza esagerare! Ma le atlete trans che rischiano veramente poco, esagerano pure. Nelle interviste di Petrillo e altre si coglie la smania di dichiarare sempre la stessa cosa: sono qua, è giusto, è questo il mio posto. Che sia l’effetto di quanto hanno dovuto penare prima, tra i loro simili, uomini, o di quanto hanno dovuto penare comunque, non so, e certo mi dispiace, ma da qui a non vedere l’iniquità che c’è nella loro presenza nelle gare delle donne, ce ne corre…
Negli Usa, la coalizione Save Women’s Sports chiede atti di tutela nei confronti delle donne discriminate da un’impari competizione con atleti biologicamente maschi, cui nessun abbassamento di testosterone in circolo toglierà mai le masse muscolari di cui godono.
Nella lettera inviata da oltre 300 atlete alla NCAA – National Collegiate Athletic Association che gestisce le attività degli atleti di più di un migliaio di College fra Stati Uniti e Canada – si legge: Noi atlete abbiamo opinioni diverse su molti argomenti, ma siamo unite su questo fatto: proteggere l’integrità degli sport femminili è pro-donna, pro-equità […]. Crediamo fermamente che tutti dovrebbero avere l’opportunità di competere, ma la vera parità atletica per le donne richiede che gli sport femminili siano riservati alle donne biologiche. La protezione dell’integrità degli sport femminili ha, per decenni, svolto un ruolo fondamentale nel porre rimedio alla discriminazione passata nei confronti delle donne e nel conferire loro il potere di raggiungere il pieno potenziale atletico.
La nuotatrice medaglia d’oro olimpica Donna de Varona, tra le firmatarie della lettera, sensatamente propone la creazione di una categoria apposita per le atlete transgender che vorrebbero gareggiare nelle competizioni femminili. Non risolve tutto, ma potrebbe essere un inizio.
(www.libreriadelledonne.it, 23 settembre 2020)
ROSSELLA BERTOLAZZI della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vince il premio Compasso d’oro 2020
L’ADI, Associazione per il Disegno Industriale, ogni due anni assegna il premio Compasso d’oro ADI, il più antico e prestigioso premio di design a livello mondiale.
Dal Catalogo dell’Associazione, un breve profilo e le motivazioni che hanno portato all’assegnazione del premio Compasso d’oro ADI 2020 a Rossella Bertolazzi.
Rossella Bertolazzi ha iniziato a scrivere negli anni Sessanta di società e ambiente per varie riviste, tra cui Linus. Tenendo come riferimento costante l’idea di progettualità e il femminismo ha lavorato nelle redazioni di riviste di cultura materiale (La Gola), come caporedattore per Sapere, SE scienza e esperienza, IKON, Ottagono; come direttore per Cronache filmate del XX secolo, tra i primissimi periodici multimediali; e poi come autrice televisiva per Mediaset, Telepiù e Rai. E’stata capoprogetto della trasmissione La scuola in diretta (Rai Educational), in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, con due redazioni a Milano e a Napoli. Dal 2001 dirige la Scuola di Arti Visive di IED Milano, dove ha fatto nascere corsi inediti come Sound Design. Ideatrice e collaboratrice di numerose mostre alla Triennale di Milano e a Roma, tra cui Personal Design: dall’oggetto al soggetto (2003, con Studio Azzurro), nel 2019 ha curato con Davide Sgalippa La luna è una lampadina e ha lavorato al volume Dialogues – Architecture Interiors Design sui 25 anni dello studio Locatelli Partners.Non amando le luci della ribalta ma la sostanza delle cose, ha saputo contribuire in modo determinante alla divulgazione, allo sviluppo critico e all’insegnamento della cultura del design e della comunicazione visiva nel nostro paese. Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente che l’accompagna da tutta la vita e le ha consentito di puntare sempre all’innovazione e al bene dei suoi studenti.
(www.libreriadelledonne.it, 18 settembre 2020)
di Paola Mammani
Nell’ultima settimana di agosto abbiamo appreso della decisione di non assegnare più premi al miglior attore e alla migliore attrice, al festival del cinema di Berlino. I curatori hanno detto: Non separare più i premi nella professione di attore secondo il genere sessuale è un segnale verso una maggiore consapevolezza di genere nell’industria cinematografica. Altri hanno commentato: Un segnale di sensibilità e maggiore consapevolezza che abbraccia uno dei temi più dibattuti in ambito LGBTQ. E abbiamo appreso che la questione è stata più volte sollevata dall’attrice Kate Dillon della serie Orange is the new black che non riconoscendosi in un genere binario, ha pubblicamente chiesto che sia eliminata la distinzione tra uomo e donna.
Dunque la motivazione sarebbe che poiché vi sono alcuni/alcune che non vogliono essere definite né donne né uomini, e affermano di essere altro, un terzo, un quarto sesso/genere, un non sesso, eccetera, è meglio non usare più le espressioni miglior attore, migliore attrice. E sia. In questa specie di idioletto universale, mi ci metto anch’io e dico che per me il nuovo corso indica, semplicemente, che si intende premiare la bravura più grande, il meglio. Quante volte alcune di noi hanno bisticciato con la lingua, con il maschile e il femminile grammaticale, se intendevano affermare, per esempio, che Elsa Morante è la più grande, non solo delle scrittrici, ma la più grande fra tutti, scrittori e scrittrici, del secondo novecento italiano? Da Berlino, dalla stampa, viene una mezza soluzione linguistica: esaltare l’abilità, la funzione, la capacità attoriale, in questo caso, e vinca chi fa meglio!
Una specie di controprova della mia versione dei fatti, che equivale a dire che la grandezza femminile è sempre più visibile pubblicamente e non ha bisogno di una specifica quota né di specifica nominazione per emergere, viene dal festival del cinema di Venezia.
Presenza molto numerosa di donne, con prestazioni di grande qualità, dicono, sia delle attrici, sia delle registe, queste ultime anche in maggioranza numerica rispetto agli uomini: proprio una di loro, poi, risultata vincitrice del Leone di Venezia. Insomma, la coppa Volpi a Favino potrebbe essere stata attribuita solo perché era previsto un premio per la migliore interpretazione maschile. E allora, perché non regolarsi come a Berlino, e assegnare due coppe Volpi, ex equo, a due donne?
Mentre da questa parte dell’Atlantico, dunque, sembra aperta nel cinema la contesa per l’attribuzione di senso ai termini uomo, donna, sesso e genere, senza che le donne abbiano niente da perdere, anzi, parrebbe, perfino da guadagnare, da Hollywood arriva la definizione delle donne come categoria da tutelare nella produzione cinematografica. Assieme alle minoranze etniche, alle persone LGBT e a quelle disabili, dovrebbero raggiungere la quota del 30% fra le maestranze, perché un film possa concorrere all’Oscar. Condizioni simili poste anche per la scelta di ruoli attoriali e di altre figure artistiche e professionali rilevanti.
Qualcuna nota che nel cinema americano è già così, si sta solo formalizzando quanto è accaduto e accade. Dall’introduzione di ruoli di rilievo per i neri a metà dei Sessanta, ai tanti amori omo e storie trans, con immancabile gpa a seguito, che oggi spuntano nelle serie tv, spesso senza alcun nesso rilevante con la storia complessiva. È il loro modo di lottare contro le discriminazioni.
È grottesco? Rasenta il ridicolo che le donne, quella metà dell’umanità senza la quale non esisterebbe l’umanità intera, siano comprese fra le categorie da tutelare e per di più fino al limite del 30%?
Grande è la confusione sotto il cielo. Sembra proprio così. La situazione, quindi, è eccellente, Confucio. Anche questo potrebbe essere vero: contorsioni della realtà e del linguaggio, di fronte alla presenza incalzante delle donne.
(www.libreriadelledonne.it, 17 settembre 2020)
La sentenza n. 12193/2019 delle Sezioni Unite della Cassazione ha offerto consistenza giuridica a quello che noi donne della Rete Italiana contro l’Utero in Affitto sosteniamo da sempre: e cioè che il primo diritto, interesse e bisogno di ognuna-o che nasce è non essere strappato alla madre che l’ha partorito, oltre che sapere che è proprio da lei che è venuto al mondo.
Alcuni mesi prima della sentenza ci eravamo infatti rivolte a Sindaco, Giunta e Consiglio Comunale di Milano perché decidessero di interrompere le trascrizioni in automatico – che si andavano ormai consolidando come consuetudine – degli atti di nascita esteri di bambine e bambini nati da utero in affitto. Atti di nascita in cui la verità sulle origini delle creature veniva sostituita e “surrogata” dalla pretesa di essere indicati come padri o madri in assenza di legame genetico, sulla base della semplice “intenzione” – nonché del fatto di avere pagato per questo supposto “diritto” – perfezionando in questo modo la cancellazione della madre prevista dai contratti di surrogazione.
Abbiamo chiesto che nell’atto di nascita venisse indicato solo il genitore biologico, suggerendo eventualmente l’istituto dell’adozione in casi particolari da parte del-della partner del padre come strada possibile per garantire la continuità affettiva. Siamo state ascoltate. Il Comune di Milano ha bloccato le trascrizioni ben prima della sentenza 12193/2019 che ha indicato con chiarezza questa strada.
Abbiamo perciò appreso con stupore dell’ordinanza n. 8325 del 2020 con cui, a pochi mesi da quella sentenza, la stessa Cassazione (prima sezione) riapre nuovamente la questione. L’ordinanza propone la questione di costituzionalità dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 (l’articolo di legge che vieta e sanziona il ricorso a utero in affitto in Italia), degli artt. 18 del d.p.r. n. 396 del 2000 e 64, comma 1, lett. g, e della legge n. 218 del 1995 nella parte in cui non consentono che si riconosca l’inserimento del cosiddetto “genitore d’intenzione” nell’atto di stato civile di un minore nato da utero in affitto. Secondo l’ordinanza, la sentenza delle Sezioni Unite si porrebbe in contrasto insanabile con il parere espresso in materia dalla Grande Camera della Corte Europea.
Non è nostro compito né intenzione addentrarci nei formalismi di questioni giuridiche di cui ci pare di poter rilevare la pretestuosità. La sostanza è nel reiterato tentativo di far rientrare dalla finestra ciò che credevamo definitivamente cacciato dalla porta: il riconoscimento di genitorialità piena per chi genitore non è sulla base di un supposto “diritto” economicamente acquisito, là dove i soldi possono tutto, anche violare la dignità di una donna con ogni evidenza in stato di bisogno (di più d’una, considerando anche le fornitrici di ovociti) e pregiudicare il destino di una creatura a cui viene inflitta una ferita così profonda e insanabile: dove sarebbe l’amore di genitore, quando è il proprio desiderio a contare più di tutto e tutti?
Consentire la trascrizione integrale all’anagrafe degli atti di nascita realizzati all’estero per le nate e i nati da utero in affitto (per non parlare dell’eventualità di giudicare incostituzionale il divieto di surrogazione espresso dalla legge 40) spalancherebbe le porte a una pratica di cui la stessa Corte Costituzionale ha ribadito l’illegittimità, affermando che “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” (sentenza 272/2017).
Esprimiamo pertanto l’auspicio che la Corte Costituzionale voglia attenersi a quanto già limpidamente espresso e ribadito e voglia respingere in toto quanto proposto dall’ordinanza 8325/2020 della Cassazione.
Rete femminista Italiana contro l’Utero in Affitto, 10 settembre 2020
(www.libreriadelledonne.it, 15 settembre 2010)
di Laura Minguzzi
Maria Kolésnikova è una flautista e una donna politicamente impegnata. Presidente di un Circolo Culturale di Minsk, oggi è detenuta nella regione di Gomel. È stata arrestata dalle guardie di frontiera di Mozyr. Una fonte citata dall’agenzia Interfax-Ukraina dice che non ha attraversato la frontiera ucraina perché durante «il tentativo di deportazione di fatto all’estero contro la sua volontà ha strappato il passaporto». Maria è stata la responsabile della campagna elettorale di Viktor Babáriko, prima che fosse arrestato, poi stretta collaboratrice di Svetlana Tikhanóvskaja, candidata alle elezioni presidenziali del 9 agosto e reale vincitrice, costretta a riparare in Lituania l’11 agosto. Donne che hanno fatto conoscere in tutto il mondo la Bielorussia, paese sconosciuto ai più, se non a chi ama l’arte perché a Vitebsk è nato Marc Chagall, diventata un’enclave del mondo ex-comunista, dopo la caduta del muro di Berlino. Donne protagoniste non per caso di una rivoluzione simbolica. Dico non per caso perché in passato forte è stata la presenza di donne che hanno governato la regione e ricordo la figura storica di Eufrosinja di Polozk, badessa di due monasteri, non dimenticata, essendo stata proclamata santa e protettrice del paese. Dopo lo scisma della Chiesa d’Oriente (1054) esercitò con autorità un ruolo politico di mediazione fra le due chiese con l’intento di non interrompere le relazioni e gli scambi fra cattolici e ortodossi.
La flautista Maria Kolésnikova si è fatta beffe della polizia di frontiera e dei residui sovietici della polizia di Stato (KGB) con una mossa semplice e per questo simbolica. Li ha spiazzati col suo gesto di fare in mille pezzi il passaporto, rendendo così impossibile la messinscena della fuga di un’oppositrice. È stato uno svelamento frutto di un’idea semplice ma efficace. Prendersi gioco della burocrazia, dell’identità è stata una schivata che solo una donna poteva fare. La libertà vale più dell’identità, una bella lezione di libertà e di autorità femminili. Le donne bielorusse in primo piano stanno lottando con azioni pacifiche ed efficaci, ispirate dalla forza che il popolo bielorusso infonde loro grazie anche alla durata delle manifestazioni pubbliche che dopo il risultato scontato delle elezioni farsa che il paese non riconosce, si avvicendano nelle strade e nelle piazze. Formano catene tenendosi per mano per chilometri e chilometri, si vestono di bianco, offrono fiori, non cedono alle provocazioni violente. Queste donne libere pensano a un paese libero da un dittatore che sta giocando alla guerra come se il patriarcato non fosse finito.
Nel frattempo, secondo le ultime notizie le autorità bielorusse hanno comunicato che Maria Kolésnikova deve rispondere dell’accusa di “tentato colpo di Stato”. Il Consiglio di Coordinamento dell’opposizione bielorussa al regime di Lukashenko è ridotto a un solo membro: in seguito agli arresti e alle fughe all’estero delle ultime settimane è rimasta la sola Svetlana Aleksiévich, premio Nobel per la letteratura nel 2015, che ha subito ieri un tentativo di irruzione nel suo appartamento di Minsk da parte di uomini mascherati. Per questo un gruppo di diplomatici europei è corso in aiuto della scrittrice. La ministra degli esteri svedese Ann Linde ha twittato un’immagine dell’autrice a casa sua circondata da diplomatici. «Le molestie, gli arresti e l’esilio forzato dell’opposizione in Bielorussia sono una grave violazione delle proteste pacifiche contro il regime bielorusso. Sono felice di condividere questa foto scattata a Minsk con Svetlana Aleksiévich circondata da diplomatici europei» ha scritto Linde.
(www.libreriadelledonne.it, 10 settembre 2020)
di Lola Santos Fernández, Ana Silva Cuesta, María-Milagros Rivera Garretas
Ci arriva la notizia di un magistrato del tribunale costituzionale spagnolo indagato per aver picchiato la moglie che, secondo il giornale, uscì sulla terrazza della sua casa di Madrid gridando e chiedendo aiuto. Come in altri casi di violenza maschilista, furono i vicini o le vicine, allertate dalle urla della donna, ad avvisare la polizia che, recatasi al domicilio della coppia, arrestò il presunto maltrattatore e lo portò al posto di polizia, continua la notizia.
Scopriamo che il magistrato si chiama Fernando Valdés Dal-Ré, e che alcune di noi l’hanno conosciuto quando era professore di diritto del lavoro. Un uomo apparentemente affabile, con un percorso professionale immacolato, progressista, e titolare di una scuola da cui provengono donne e uomini che hanno avuto successo in campo giuridico. Membro fino ad oggi del tribunale costituzionale, massimo organo di difesa della Costituzione e dei suoi diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita e all’integrità fisica.
Il mondo giuridico, malato e devastato dalla schizofrenia che recupera la vecchia divisione patriarcale tra privato e pubblico, esplode dall’alto. L’Alto tribunale sembra albergare nel suo seno il più alto di tutti i delitti: la violenza contro le donne, che è violenza contro la vita, contro il senso della giustizia e contro l’apertura all’altro. Questi, e non altri, dovrebbero essere i principi informatori e ispiratori di un ordine di convivenza che riconosce e impara dall’ordine simbolico della madre. Quello che invece fa il diritto, è voltargli le spalle e disprezzarne in maniera profonda tutte le implicazioni, come la più elementare che ha a che vedere con la cura dei corpi, l’opera della madre.
La notizia ci turba, tocca quella parte nostra di giuriste che si è formata dando credito a norme che ci allontanavano da nostra madre e dal suo ordine di senso. Credito che da tempo è andato svanendo per lasciare in noi un vuoto consistente e attento al senso di giustizia. Ed è proprio questo senso che ci dice, un giorno dopo, quando gli stessi mass media smentiscono goffamente ed eliminano precipitosamente la notizia dai titoli, che la negazione della violenza da parte della donna maltrattata da un magistrato costituzionale non indebolisce, come pretendono i giornalisti, bensì rafforza la verità dei fatti. Importa molto anche che il racconto dei fatti davanti all’istanza giudiziaria sia cambiato da un giorno all’altro, così come il rifiuto della moglie del magistrato di sottoporsi alla pratica della prova medico-legale sul suo corpo. Davanti all’impossibilità di sapere cosa dice il corpo e le sue cicatrici, la verità resta allora sospesa, filtrando nell’aria, innalzandosi oltre il diritto processuale e i suoi oscuri tracciati procedimentali. Che valore potrebbe avere per noi il comunicato del tribunale costituzionale che si appella alla presunzione di innocenza di uno dei suoi magistrati? Sentiamo che è un grido malato, disperato e inefficace. Un grido che finisce per collocare ogni cosa al suo posto, lasciando sgombra l’evidenza del fatto che probabilmente uno dei suoi uomini è incapace di sopportare nella vita quotidiana la grandezza femminile.
Perché una donna doveva credere nella giustizia amministrata da uomini come quello che ha accanto? Nelle mani di chi stiamo mettendo noi donne la cura dei nostri corpi, delle nostre vite, della nostra dignità? Capiamo bene che la moglie abbia ritirato o non abbia mai fatto la denuncia.
Come potevano Antigone o Medea aver fiducia nel loro padre, nel loro fratello o nel loro marito, uomini che non distinguono il bene dal male? Si tratta di un’impossibilità grande che fa ammutolire. Impossibilità che solo qualche volta si muta in sollievo per la donna quando chi giudica il maltrattatore è un’altra donna – una giudice –, una simile, che proprio perché lo è e non vi rinuncia porta alla giurisprudenza e alla giustizia una grande opportunità: di iscrivere nelle sue risoluzioni giudiziali la differenza di essere donna, dando valore ed essendo fedele alla genealogia femminile. Una fedeltà che può spiegare che, ad oggi, Elena Garde, la giudice specializzata in violenza sulle donne che istruisce il caso di Fernando Valdés, non abbia archiviato la causa – nonostante non possa contare nemmeno sulla denuncia della donna –, valutando indizi di maltrattamento fisico e portando al supremo tribunale la sua esposizione ragionata dei fatti. Per lei è stata sufficiente la testimonianza di uno dei giovani che chiamò la polizia che, secondo le sue dichiarazioni, sentì come la moglie del magistrato gridava e chiedeva aiuto, perché sa che la verità è rimasta in alto, fluttuando nelle altezze, aspettando il suo vero posto. Intendiamo che questo dovrebbe essere un diritto di qualunque donna, la scelta della giudice per giudicare il presunto maltrattatore in ordine alla comprensione che i diritti delle donne possono essere tali solo se nascono dal riconoscimento della differenza sessuale, o dell’inviolabilità del corpo femminile, che è sacro. Altrimenti, che cosa resta alle donne se non vogliamo che la nostra dignità subisca un doppio attacco, prima con le botte e dopo pubblicamente nei tribunali? Chi tutela la dignità delle donne maltrattate? E la loro vita?
Adesso il presunto violento è libero e temiamo per la vita di sua moglie, che speriamo se ne sia andata di casa o stia in buona compagnia, benché, come ha puntualizzato una donna che ci guida nella ricerca di giustizia, chi deve stare lontano è lui. Lontano da lei e lontano dalla giustizia. Solo così, allontanando i maschilisti e misogini dalla sua amministrazione, forse un giorno noi donne potremo aver fiducia nel diritto.
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan, www.libreriadelledonne.it, 31 agosto 2020. Originale: El que ha de estar lejos es él: magistrados y maridos, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/10/270/, 13 agosto 2020)
di Donatella Massara
Quando è circolata la notizia che stava per essere approvata una legge come quella Zan un attimo di stupore mi ha preso. Proprio un attimo. Di meraviglia. Poi mi sono rimessa in strada. Ma certo, con tutto il dibattito o meglio scontro che c’è stato sulla rete sui trans le trans sulla differenza sessuale piuttosto che di genere interviene anche il parlamento. Poi non ci sono stati i passi fatti per ottenere il matrimonio fra gente dello stesso sesso? È bastato un attimo e dalla legge per il divorzio a quella che permetteva l’aborto e quella faticosa contro la violenza sessuale ecco che siamo alla legge che condanna l’omotransfobia.
Il nostro parlamento ha visto grandi cambiamenti: svecchiamento anagrafico prima di tutto e poi una specie di sinistra -comunque una sinistra- al governo, con una presenza femminile che stranamente continua a essere scarsa anzi sempre meno significativa ecco non poteva che cimentarsi anche in una legge contro l’omotransfobia. Una volta le fobie le curavano le analisi adesso sono vietate per legge. È un mondo un poco strano che avanza. Un mondo però maschile. Maschile perché intorno al tema della sessualità c’è uno scontro fra maschi ai quali la parola delle donne non arriva? Non che non ci siano donne nel movimento lgbt è che non le vedo visibili come donne. Il femminismo quello che ha prodotto grandissimi cambiamenti nella società non è materia di scambio, in questo caso. È il femminismo invece che ha prodotto le grandi trasformazioni sociali liberando onde di libertà e di liberazione femminile che hanno trovato modo di diventare materia solida nella società. Anche la legge contro l’omotransfobia così come il matrimonio omosessuale derivano dal femminismo. Non avrebbero avuto accesso alla parola legislativa se prima non ci fosse stata la modificazione simbolica con il senso forte che ha nelle esistenze delle donne. Ma chi può dirlo? Lo può dire il grande numero di persone di sesso femminile che si riconoscono nel femminismo, un movimento che agisce pubblicamente dalla metà del XIX secolo. Che un piccolo gruppo Facebook che amministro con Loretta Meluzzi conti quasi 22000 iscritte in sei anni è un risultato che merita considerazione.
Sono soprattutto gli uomini che hanno agito sul piano della lotta politica, della battaglia legale per il riconoscimento dei diritti. È stato il partito radicale a promuovere le campagne per il divorzio e via dicendo. Le donne si occupano delle donne e dei corpi femminili da difendere vedi la battaglia politica per la libertà di aborto. È la differenza sessuale e non di genere la soglia da passare per ragionare e praticare la politica femminista. Sono i temi che mi riguardano da vicino. I temi che concernono l’affermazione giuridica della identità sessuale mi riguardano meno. La mia battaglia politica è nella società pubblicamente espressa dalla mia esperienza. L’intervento della deputata americana contro il linguaggio sessista di un nemico politico va nel senso della differenza sessuale. Perché ha il coraggio -giusto dirlo- di affrontare una posizione che ha segnalato quanto c’è di umiliante nell’uso sessista dei riferimenti a un essere di sesso femminile. E ha dato il posto dell’umiliazione a chi l’ha attaccata. Dovere attaccare su un insulto che afferisce alla sfera sessuale invece che a quella politica è umiliante bisogna saperci fare. Anche su Nilde Iotti presidente della Camera sono stati usati nomi sessisti. Umiliante sentirli dire occorre attaccarli. Queste battaglie mi riguardano di più. Non c’è pericolo che queste lotte servano agli uomini per affermare il potere delle lobbies. Sulle questioni di diritto delle identità lgbt io vedo una lotta di potere e non mi interessa molto parteciparvi. Però non posso trascurare quel moto di meraviglia che questa legge ha suscitato in me. È una legge imprecisa che insieme ai diritti lgbt vuole introdurre anche le donne. Imprecisa al massimo e che però così forse cerca di correggere quella definizione di identità di genere che porta via tanta politica femminista agita per affermare la soggettività femminile e il senso libero della differenza sessuale. Tutto vero, inoltre di quale pratica politica parliamo con la legge Zan dove il femminismo non ha nominazione? Il femminismo con la sua tradizione di pratica politica in rapporto alle leggi? L’essere sopra la legge non sotto.
Eppure quell’attimo di meraviglia non lo trascuro. È con la meraviglia che mi sono detta: bene che siano punibili comportamenti parole ideologie politiche contro l’omosessualità.
(www.libreriadelledonne.it, 9 agosto 2020)
di Paola Mammani
È ormai noto che il testo di legge unificato, depositato alla Camera dall’onorevole Zan, per introdurre nel codice penale reati di omotransfobia, ha subito una critica radicale da parte di molte femministe per l’utilizzo dei termini genere e identità di genere. L’ambiguità derivante da tali espressioni ha dato luogo, nei paesi anglosassoni e non solo, a insostenibili contraddizioni, agite anche nei tribunali, che possono arrivare a mettere in discussione la semplice esposizione del pensiero, se ritenuto lesivo o non inclusivo dell’altrui identità di genere.
Concordo con le preoccupazioni connesse all’utilizzo delle espressioni genere e identità di genere. Quello che più mi sconcerta della vicenda, è che nella gabbia del genere sembrano andare perdute importanti acquisizioni del pensiero politico delle donne, e in particolare che ciò per cui lottiamo è il senso libero della differenza sessuale.
Nel ’69 avevo 18 anni, ci ho messo tanto a venire a patti con il mio essere donna. Sulla strada della libertà, prima di approdare al pensiero e alla pratica politica delle donne, ho incontrato i gay, il Fuori, il collettivo della casa occupata di via Morigi a Milano e Mario Mieli e i suoi Elementi di critica omosessuale, infine la prima donna, fra le mie conoscenze, dichiaratamente lesbica, Rosetta Froncillo*, che faceva del suo orientamento sessuale una questione politica. Per dire che vi sono stati tempi in cui omosessuali, lesbiche, bisex, trans e qualunque cosa una, uno, volesse dirsi e viversi, era faccenda di libertà, di libertà sessuale e non di legge. Tempi in cui uomini e donne intelligenti e audaci hanno avuto il coraggio e l’inventiva necessari per ribaltare il mondo, per dare un senso libero al loro essere nati appartenenti a uno dei due sessi, alla ricerca della loro sessualità e dei loro orientamenti sessuali. Hanno elaborato pensieri e fatto scoperte fondamentali per quella che ora chiamiamo politica, con la P maiuscola.
Le donne hanno scoperto che l’unico modo per guadagnare la libertà è sottrarre valore e riconoscimento a chi esercita il potere, e così hanno irreversibilmente minato la struttura di dominio del patriarcato. Per questo, sapendo che la partita si gioca altrove, non hanno mai chiesto una legge contro la misoginia, ma hanno mantenuto un atteggiamento di attenzione e insieme di sostanziale superiorità nei confronti della legge; attenzione perché ne riconoscono il grande valore simbolico, superiorità perché sanno che una parola ben detta, una parola sapiente scardina e supera la legge: ricordiamoci del #meetoo.
Hanno scoperto di volere e potersi amare, anche senza essersi dette o sentite lesbiche e anche per questa scoperta, forse, hanno affermato che sulla sessualità non si legifera.
Infine hanno svelato che la legge di per sé non ha nessun effetto se non cambiano le coscienze: nel nostro caso, quali che siano le sanzioni previste, l’omofobo resta omofobo.
Mi chiedo come è potuto accadere che parlamentari ed esponenti di associazioni di lesbiche (L) gay (G) bisessuali (B) trans (T) queer (Q) e quant’altro si voglia (+) – LGBTQ+ appunto – non abbiano sentito la forza e la gioia di questa grande tradizione di ricerca della libertà e di elaborazione di pensiero politico, che avrebbe potuto e ancora può sottrarre il nostro paese alle miserie cui è andato incontro il mondo anglosassone.
A seguito delle polemiche è stata aggiunta al testo della proposta di legge la parola sesso, accomunando così le donne tutte, più della metà dell’umanità, alle minoranze ritenute bisognose di particolare tutela: quegli omosessuali, lesbiche e trans che forse dalla loro esperienza viva avrebbero potuto e potranno trarre materia per dare all’idea e alla pratica della libertà un contributo diverso dalla richiesta di sanzioni penali per i cosiddetti reati d’odio che possano riguardarli.
In ogni caso, se alcune e alcuni oggi pensano che una legge li aiuti, credo debbano impegnarsi a nominare la loro realtà con speciale attenzione al linguaggio e rispetto per quelle donne, quasi tutte, che non hanno mai chiesto di essere comprese in questa legge.
(*) Matilde Finocchi, Rosetta Froncillo, Alice Valentini, E la madre, tra l’altro, è una pittrice… Dialoghi fra lesbiche, Felina editrice, 1980
(www.libreriadelledonne.it, 16 luglio 2020)
di Emanuela Mariotto
Seguo con attenzione il dibattito che, sui quotidiani e sui social, si sta svolgendo intorno alla proposta di legge Zan contro l’omofobia e la transfobia. Su questo ddl, infatti, si è aperto un conflitto aspro non solo tra i partiti, ma, anche, nel mondo femminista che si divide.
Le femministe radicali sono per una opposizione totale alla legge e alla definizione “identità di genere”, ancor più dopo che, forse per dare un contentino alle donne, è stato introdotto nel testo anche il reato di misoginia; altre femministe, Boccia, Melandri, Serughetti, si schierano a favore e auspicano una approvazione rapida; Arcilesbica tenta un’ultima mediazione e chiede di sostituire “identità di genere” con “transessualità”.
Sesso, genere, identità di genere: intorno a questi concetti ruotano dibattito e conflitti. A ragione, io penso. L’identità, infatti, è, come afferma Linda Laura Sabbadini, «una costruzione sociale in divenire». Tutte e tutti lo sperimentiamo nelle nostre vite. Quello che emerge nitidamente da questo conflitto è il legame inscindibile tra il corpo, la percezione di sé e il linguaggio. Ogni mutamento che avvenga nel linguaggio ha il potere di influire sull’identità personale, infliggendole, come nel caso di questa legge con il concetto di genere, contraccolpi negativi.
Hanno ragione quelle donne che non vogliono essere chiamate “persone che mestruano”, come avviene in Gran Bretagna e che è costato non pochi attacchi all’autrice di Harry Potter. Hanno ragione quelle che ritengono occultante del sesso femminile il concetto di genere, così come, ad esempio, io rifiuto la definizione cisgender per rappresentare il mio pacifico incontro con il mio sesso di nascita.
Si ripropone la questione tra Alice e Humpty Dumpty:
«– Quando io uso una parola – disse Humpty Dumpty con un certo sdegno – quella significa ciò che voglio che significhi, né più né meno.
– La questione è – disse Alice – se lei può costringere le parole a significare così tante cose diverse.
– La questione è – replicò Humpty Dumpty – chi è che comanda, ecco tutto.»
Nella sostanza, chi è il padrone del linguaggio? Grazie al femminismo siamo consapevoli che è sul piano simbolico che si gioca la nostra libertà e che proprio sul simbolico si concentrano, pervasivamente nella società della comunicazione, gli attacchi più infidi del patriarcato vecchio e nuovo, anche se travestito da difensore delle donne.
(www.libreriadelledonne.it, 5 luglio 2020)
Renata Sarfati ha segnalato e tradotto per noi questo appello ricevuto dall’organizzazione Jcall for peace (Jewish call for peace), una rete europea che si propone di fare pressione sullo stato di Israele e sui paesi europei affinché intervengano (ndr).
Noi, donne israeliane, funzionarie elette, esponenti della società civile, opinioniste e attiviste di base, con diverse convinzioni politiche e rappresentanti diversi gruppi sociali, religiosi, nazionali ed etnici, abbiamo in comune un profondo impegno nei confronti di una soluzione negoziata con due stati del conflitto israelo-palestinese, soluzione che potrà garantire la nostra sicurezza e la piena uguaglianza in quanto donne ed esseri umani. Nel 20° anniversario della risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, crediamo che soprattutto ora debbano essere ascoltate le voci delle donne sulle questioni esistenziali che ci troviamo ad affrontare oggi. Siamo profondamente preoccupate dell’imminente prospettiva di un’annessione israeliana di parte o tutta la West Bank nel quadro del piano del presidente Trump per il futuro dell’area. Vi invitiamo ad associarvi a noi affinché facciate tutto ciò che potete per fermare tale misura ed impedirne le disastrose conseguenze per la nostra sicurezza, democrazia, benessere, uguaglianza, ed il nostro futuro e quello della nostra regione.
La crescente occupazione ha alimentato oltre un secolo di acrimonia, incertezza, insicurezza umana, instabilità e violenza. Dal 1967, il crescente controllo militare israeliano sull’intera area tra il Mediterraneo e il fiume Giordano e l’espansione degli insediamenti ebraici oltre la linea verde, non solo hanno ulteriormente compromesso i diritti umani e collettivi dei palestinesi, ma sfidano anche i principi di libertà, uguaglianza e giustizia.
Se il prolungarsi del conflitto ha avuto un impatto dannoso su tutto, esso ha particolarmente colpito le donne. Ripetuti cicli di tensione, guerre e conflitti hanno marginalizzato le donne e favorito molteplici abusi di genere nella vita quotidiana, hanno radicato un’insicurezza fisica, economica, sociale e politica, intaccando i valori democratici di libertà, uguaglianza e tolleranza reciproca. Col protrarsi del conflitto, le donne sono state sistematicamente messe in disparte.
Siamo ora particolarmente preoccupate del fatto che, nel mezzo della pandemia del Covid-19 con tutte le sue ramificazioni umane, socioeconomiche e globali, dal 1° luglio 2020, la nuova coalizione del governo israeliano pianifica l’annessione unilaterale di parti della West Bank. Questa misura, in linea con il piano dell’attuale amministrazione di Washington di legittimare il controllo permanente israeliano sulla West Bank, frammenterebbe irreparabilmente i palestinesi geograficamente e demograficamente, evitando sostanzialmente l’indipendenza di uno stato palestinese autosufficiente accanto a Israele, e suonando così le campane a morto ad un accordo di pace duraturo. Tale misura viola la legge internazionale e tutte le relative risoluzioni dell’ONU, crea una discriminazione istituzionalizzata riducendo i palestinesi allo stato di sudditi contro la loro volontà. L’annessione costituisce quindi un irreversibile pericolo ed è una minaccia esistenziale per i palestinesi, per gli israeliani, per la stabilità della regione e per un già fragile ordine globale.
L’annessione unilaterale è un atto di coercizione che istituzionalizza l’ineguaglianza e umilia la dignità umana. Incarna inoltre l’esclusione di genere. E’ stato concepito quasi interamente da uomini senza alcun riferimento alle varie prospettive di donne appartenenti a diversi ambienti sociali. E omette di prendere in considerazione gli effetti nocivi di un patriarcato consolidato sulla legittimità, il tessuto morale e il percorso dinamico di Israele e di tutti i popoli della regione.
Da un punto di vista umano e femminista, l’annessione non può non essere contestata. Abbiamo bisogno del vostro sostegno e del vostro impegno in una collaborazione globale per salvare la speranza di una risoluzione del conflitto che sia giusta, paritaria e duratura, per noi e per le generazioni future. Dobbiamo perciò continuare a perseguire una pace negoziata e giusta tra Israele e i suoi vicini.
Segue la lista delle firmatarie
June 2020
Israeli Women’s Urgent Appeal Against Annexation
We, Israeli women—elected officials, civil society leaders, opinion-shapers and grassroots activists–from diverse political persuasions and representing a variety of different social, religious, national and ethnic groups, have in common a deep commitment to a negotiated two-state solution to the Israeli-Palestinian conflict that will guarantee our safety and full equality as women and as human beings. On the 20th anniversary of the pathbreaking UN Security Council Resolution 1325, we believe that especially now women’s voices must be heard on the existential issues facing us today. We are profoundly concerned about the imminent prospect of an Israeli annexation of parts or all of the West Bank within the framework of President Trump’s plan for the future of the area. We call on you to partner with us to do all you can to halt such a step and prevent its disastrous consequences for our security, democracy, wellbeing, equality, and the future of ourselves and our region
The ongoing occupation has fueled over a century of acrimony, uncertainty, human insecurity, instability, and violence. Since 1967, the ongoing Israeli military control over the entire area between the Mediterranean and the Jordan river—and with it the expansion of Jewish settlements beyond the Green Line—has not only further undermined Palestinian human and collective rights, but also defies the principles of liberty, equality and justice.
While the prolonged conflict has had an adverse impact on all involved, it has particularly affected women. Repeated cycles of tension, wars and strife marginalize women and invite multiple gender-based abuses in daily life, entrench physical, economic, social and political insecurity, and chip away at the democratic values of freedom, equity and mutual tolerance. Women have been systematically shunted to the sidelines as the conflict continues.
We are now particularly alarmed that, in the midst of the COVID-19 pandemic with all its human, socioeconomic and global ramifications, as of July 1, 2020, Israel’s new coalition government plans to unilaterally annex portions of the West Bank. This step, in line with the present administration in Washington’s plan to legitimize permanent Israeli control over the West Bank, would irreparably fragment Palestinians geographically and demographically, thus effectively preventing the independence of a viable Palestinian state alongside Israel, and thereby sound the death knell for a durable peace accord. Such a step violates international law and all relevant UN resolutions, creates institutionalized discrimination, and would reduce Palestinians to the status of subjects against their will. Annexation therefore poses an irreversible danger and constitutes an existential threat to Palestinians, to Israelis, to regional stability and to an already fragile global order.
Unilateral annexation is an act of coercion which institutionalizes inequality and flouts human dignity. It also epitomizes gender exclusion. It was conceived almost entirely by men without any reference to the diverse perspectives of women from different social locations. And it fails to consider the adverse effects of entrenched patriarchy on the legitimacy, moral fabric, and dynamic trajectory of Israel and all the peoples in the region.
From a human and feminist perspective, annexation cannot go unchallenged. We need both your support and engagement in a global partnership to save the prospect for a just, equal, and lasting resolution to the conflict, for ourselves and future generations, as we continue to pursue a negotiated and fair peace between Israel and its neighbors.
List of Signatories
Sarai Aharoni | Colette Avital | Naomi Chazan |
Yael Dayan | Nabila Espanioli | Zehava Galon |
Galia Golan | Hanna Herzog | Eva Illouz |
Rachel Liel | Eti Livni | Jessica Montell |
Shaqued Morag | Achinoam Nini (Noa) | Israela Oron |
Dorit Rabinyan | Alice Shalvi | Anat Saragusti |
Shahira Shalabi | Aida Touma Sliman | Ksenia Svetlova |
Tamar Zandberg |
Additional signatures (updated 28/06/2020)
Amaf Kochava | Anca Ditroi | Ankonina Dee |
Ariav Pnina | Arieli Chen | Ashkenazi Rena |
Aviram Hanna | Balser Diane | Bar Noa |
Bar-din Dalia | Bar-din Talma | Barak Wolfman Naama |
Bartor Assnat | Batzir Chaya | Becher Suzie |
Ben Eliyahu Hadass | Benbasat Rivka | Benziman Rachel |
Ben Yakir Dina | Berger Eva | Bergman Rotem Ruti |
Betzer Merav | Berlovitz Yaffah | Biadi Shlon Adella |
Bloom Sarit | Brenner Miriam | Brill Adi |
Brinner Sulema Leyla | Chen Pascale | Cohen Sara |
Danon Ofra | Demlin Robi | Diamond Rivi |
Diner Ester | Donath Orna | Dovrat Irit |
Dvortchin Ilana | Eisner Shiri | Elias Dana |
Engelberg Michal | Erdinast-Vulcan Daphna | Erel Tamar |
Eviatar Zohar | Gazit Irit | Gilat Orly |
Giniger Ariella | Gouri Hamutal | Gozansky Tamar |
Grossman Sari | Guedalia Yasmine | Hacker Daphna |
Hadar Bracha | Halevy Rachel | Halperin-Kaddari Ruth |
Harkavi Tania | Harpaz Orpa | Hasid Shiri |
Hefetz Rabbi Nava | Heiman Michal | Jaussi Rivka |
Joel Daphna | Kadima Hagar | Kamir Orit |
Kaplan Vardit | Katriel Tamar | Katz Ruti |
Katz Shir | Lahav Pnina | Lasky Gaby |
Langer-Gal Anat | Laoorpscho Ilana | Lapin Debbie |
Lavie Joshua | Lerner Adi | Levinstein Sue |
Linder Miri | Livne Holtzman Adi | Loevy Netta |
Marian Kadishay Ronit | Maroshek Uki | Mass Ader Galit |
Mazor Noa | Miro Noa | Moor Avigail |
Nativ Galia | Naveh Hadassah | Oppenheim Ron |
Oren Sternberg Nirit | Ortman Hava | Paneth Peleg Michal |
Peleg Ginzburg Neta | Peress Sharon | Porat Sara |
Potel Adriana | Raanan Yeela | Reisman-Levy Anat |
Resh Nura | Ronen Raya | Rosen Alisa |
Rosenthal Batya | Rotlevy Saviona | Rubin Cooper Yasmin |
Sa’ar Amalia | Sadan Elisheva | Samash Tamar Tali |
Sapoklinsky Tirsa | Savir Aliza | Savir Kadmon Miki |
Sela Michal | Shadmi Erella | Shahar Peer-li |
Shaked Chani | Sharabi Tehila | Shofman Gutman Limor |
Shoshani Suzi | Silver Vivian | Södergren Kerstin |
Stern Sharon | Stern Levi Iris | Suissa Rachel |
Suman Tov Erel Avital | Szor Abigail | Tal Hila |
Trainin Ray | Ulus Ilana | Veiga Nirit |
Weidman Sassoon Galit | Weiner Hagar | Yaakobi Michal |
Yanovsky Aliza | Yavin Roni | Yehonatan Rikiy |
Zach Ruth | Zig Dorit | Zig Naama |
Zinder Merav |
(www.libreriadelledonne.it, 3 luglio 2020)
di Silvia Baratella
Leggo su Internazionale on line l’approfondito reportage di Adil Mauro dell’8/6/2020, «Uomini che si mettono in discussione», che parla dell’associazione Maschile Plurale, nata da un gruppo di uomini con l’intento di contrastare la violenza contro le donne e sono in relazione con il femminismo.
Trovo questo passaggio:
«Uno degli aspetti più discussi dentro Maschile plurale è la relazione con i vari femminismi e le loro istanze. “Un tema che, in particolare, ha creato divisioni tra noi è quello del rapporto con la violenza”, ammette Ciccone. “In un paio di situazioni uomini che facevano parte della rete sono stati accusati dalle proprie compagne di aver avuto comportamenti psicologicamente violenti e una parte del femminismo ha colto l’occasione per esprimere il fastidio e la diffidenza verso il movimento maschile, sostenendo che non ci sono uomini affidabili e buoni, e che dietro gli uomini c’è sempre una fregatura”.»
Ecco, Stefano Ciccone la fa facile, ci sono critiche più impegnative e credo che valga la pena di condividerle. Io sono una delle femministe che hanno creduto nella scommessa di Maschile Plurale. Non ho mai cercato “uomini buoni”, ma un cambio di civiltà nelle relazioni fra uomini e donne sì.
Nel 2014 avvenne uno di quegli episodi. Una donna denunciò sui social il comportamento del suo ex-compagno, uno che era nella rete di Maschile Plurale. L’associazione negò il fatto, parlò di attacco politico, di “vendicatività” e “fragilità” di lei, e si appellò al noto argomento “è la tua parola contro quella di lui”. Insomma, hanno fatto quello che gli uomini di solito fanno con le donne, negare credibilità alle loro parole e giudicarle. Però loro non erano i “soliti” uomini…
La mia critica non è che tra di loro ci fosse un “cattivo”, ma di aver agito (quasi) tutti al solito modo maschile. Perché? Molti di loro avevano un profondo legame di amicizia con il denunciato. Si fidavano di lui e non di lei. È umano. Ma avrebbero potuto dirlo onestamente: spiacenti, abbiamo scoperto che non riusciamo a credere a te perché il nostro amico è lui. Era una difficoltà soggettiva che loro, dopo tanti anni di lavoro sulla presa di coscienza, avrebbero potuto riconoscere senza attaccare lei. Invece l’hanno fatto, e ora lamentano il fastidio e la diffidenza che hanno suscitato. Ma non possono cavarsela così: sta a loro cambiare strada. Possono farlo, ne sono sicura.
Milano, 14 giugno 2020
(www.libreriadelledonne.it, 26 giugno 2020)