di Silvia Baratella
L’8 marzo ho udito più volte su Radio Popolare il seguente comunicato delle giornaliste:
«Oggi 8 marzo le lavoratrici di Radio Popolare aderiscono allo sciopero transfemminista di Non una di meno. Rifiutiamo la violenza di genere e la cultura patriarcale che esclude, discrimina, opprime le donne e le persone non eterosessuali. Scioperiamo per la fine delle disuguaglianze e contro le politiche di sopraffazione che sottendono alle guerre».
Mi chiedo: con queste parole d’ordine, perché scioperano solo le lavoratrici e i lavoratori no?
Scioperare comporta la trattenuta di una giornata di stipendio. In virtù di quale privilegio gli uomini vanno esentati da questa “tassa”, versata per obiettivi che li riguardano? Insomma, mentre le giornaliste eterosessuali scioperavano anche per gli uomini gay, gli eventuali giornalisti gay di Radio Popolare non scioperavano per le donne, ma nemmeno per sé stessi. Sì sì, hanno scioperato anche donne lesbiche e comunque gli uomini sciopero-esenti sono in grande maggioranza eterosessuali. Si sa. Ma questo non cambia il curioso rapporto fra chi sciopera e chi dovrebbe beneficiarne.
Un po’ come quando, dopo il lavoro, lei cucina e lava i piatti della cena che ha gustato anche lui, e lui lo considera dovuto. No?
Postilla: il comunicato, scritto da giornaliste professioniste, ha il pregio di essere conciso, facendo così risaltare il paradosso. Che dipende comunque da chi lo sciopero l’ha ideato così.
(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2022)
di Laura Colombo
Il sito della Libreria delle donne ha ripreso, pubblicandolo, l’articolo di Barbara Spinelli di sabato 26 febbraio 2022, nel quale la giornalista fa un’analisi delle gravi responsabilità e degli errori dell’Occidente rispetto a quanto sta accadendo in questi giorni in Ucraina, ovvero la guerra di invasione e aggressione russa ai danni di uno Stato sovrano.
È sempre buona cosa guardare indietro e analizzare la storia e la propaganda, per orientarsi in una realtà complessa e poter avere una visione più ampia. La verità non ha un colore e i confini non sono mai netti: la Nato è un’alleanza militare che, dalla caduta dell’URSS, si è spinta sempre più a Est e l’Occidente non ha arginato a sufficienza questo movimento.
E però. Sento dentro una stonatura profonda, un malessere, un senso di repulsione verso queste analisi, perché escludono l’imprescindibile della guerra: morte, sofferenza, distruzione ai danni di donne, uomini, bambini e bambine. Provo rabbia perché questa parte è tralasciata, elusa, evitata. Non intendo debba essere presente come premessa “doverosa”, che la renderebbe inessenziale. Al contrario, ritengo debba essere la posizione da cui partire per fare analisi di respiro più ampio, ancor più in questo momento di guerra guerreggiata. Rabbia e avversione arrivano quando si leggono parole vuote di realtà, lontane da quello che sta accadendo nel presente a migliaia di persone in carne ed ossa, costrette a scappare dal proprio Paese, a nascondersi in rifugi gelidi e senz’acqua, persone che stanno morendo sotto le bombe lanciate da un tale (un dittatore, come lo chiamano le Pussy Riot) che porta il nome di Vladimir Putin.
Scelgo di dare spazio a questa incrinatura e di stare dalla parte dei civili, delle persone, dalla parte dei più deboli che per lo più sono donne, massacrate dalla violenza di altri uomini. È la stessa dalla quale stanno anche molti russi e bielorussi che manifestano nonostante la dura repressione, è quella di Davide contro Golia.
La fine della guerra chiedono le piazze delle manifestazioni pacifiste, come, mi domando io? Le sanzioni possono incidere, ce lo racconta Anna Zafesova dalle colonne della Stampa (I musi lunghi degli oligarchi rivelano le crepe nel regime, 1/3/2022). Anche il lavoro di diplomazia dell’Europa è stato importante, e ora lo è di più. Vale la pena rileggere un articolo di Romano Prodi del lontano 2014, L’Ucraina si protegge se resta autonoma (il Messaggero, 19/10/2014) che delinea una possibile via d’uscita nella neutralità dell’Ucraina, “mettendo da parte ogni idea di renderla membro della Nato”. In questi anni Angela Merkel ha negoziato con Putin ed è forse la leader occidentale che ha più conoscenza e autorità per condurre una trattativa che scongiuri il peggio.
(libreriadelledonne.it, 4/3/2022)
di Paola Mammani
Ho provato un grande disagio nell’ascoltare le dichiarazioni di quasi tutti i politici nostrani, sull’aggressione di Putin all’Ucraina. Sgomenti, accorati, come se non avessero nessuna parte nella vicenda. Eppure Sergio Romano, ex-ambasciatore presso la Nato e l’Unione Sovietica, da tempo addita le gravi responsabilità dell’Europa nel non contenere l’aggressione più o meno esplicita che l’ampliamento dell’Alleanza atlantica a tanti paesi dell’est europeo, ha rappresentato per la Russia. Lo dice da anni dalle pagine del Corriere*. Negli ultimi giorni lo ha ripetuto su altri quotidiani,** il Corriere essendo più impegnato con le solite firme da prima pagina a stigmatizzare il comportamento di Putin e soprattutto, a me pare, a definire amici di Putin tutti coloro che si azzardano a dare credito a quelle riflessioni. Che sono state ripetute sabato scorso, 26 febbraio, sulle colonne de il Fatto Quotidiano, da Barbara Spinelli che ha indicato i punti essenziali della politica aggressiva ed imprevidente degli USA e degli stati europei, incapaci di trattare degnamente con la Russia e con Putin. Con questo dolendosi anche delle proprie posizioni assunte ai tempi della guerra nel Kosovo. E invece loro, no! Nessuno ha da rammaricarsi, da ravvedersi di alcunché. Quasi tutti indignati, a ripetere quanto sono bravi e buoni a condannare l’aggressore e ad essere al fianco degli aggrediti, ora anche con le armi, esplicitamente e alla luce del sole, con l’Europa intera. Ma loro erano lì, a ricoprire le più alte cariche nelle istituzioni europee, a presenziare nei governi e nel Parlamento nazionale per impedire tutto questo. Per trattare degnamente e proficuamente con il più grande stato confinante con l’Unione europea, cui tanti e profondi interessi ci legano. Erano là, sui quotidiani, con il potere della penna, per renderci avveduti del pericolo e per indicare rimedi in tempo utile e pretenderne l’attuazione.
Non ho nulla in contrario, in via di principio, a che le analisi di Romano e Spinelli, vengano discusse o anche smentite, ma mi piacerebbe sentire l’aspirazione a concepire una politica estera altra. Invece continuo a leggere le solite firme, di inguaribili ammalati di anticomunismo, di studiosi di storia per molti versi miti e cortesi, e di altri, variamente competenti, tutti dediti all’intemerata, perfino al dileggio fino alla ridicolizzazione di quanti cedono alla tentazione di cercare ragioni, spiegazioni, alle scelte di Putin. Tentare di individuare torti o responsabilità, Dio non voglia, nei comportamenti dell’Occidente, della UE, degli Usa o della Nato, sembra essere solo cialtronaggine o malafede. Come se non fosse sempre questa, l’unica sensata via d’uscita dalle difficoltà più gravi: guardare a quello che si può e si deve correggere, dal luogo in cui si è. Per dirla con le parole di Barbara Spinelli – Ammettere i nostri errori sarebbe un contributo non irrilevante alla pace che diciamo di volere -. O con quelle del premio nobel Giorgio Parisi che, ripercorrendo i rapporti est/ovest per la regolazione degli esperimenti nucleari, con evidente riferimento all’oggi, afferma– …se non si fa uno sforzo sincero per capire le ragioni dell’altro, è molto difficile arrivare ad un accordo che poi sia rispettato da tutte le parti… -.***
E invece i loro scritti sono zeppi di espressioni come “Zar folle”, “autocrate sempre più isolato e fuori controllo”, in una lunga giaculatoria di autoassoluzioni. Leggo con attenzione e tristezza le loro argomentazioni che hanno sempre il sapore di contro-argomentazioni – alla lettera, contro qualcuno, come per un regolamento di conti – e non riesco a liberarmi da una parola che mi assedia: guerrafondai. Un’esagerazione? Non mi pare, perché se con il pensiero e la penna non si cerca di trovare le ragioni e i motivi fondati che hanno innescato l’aggressione, sarà difficile individuarne una via d’uscita durevole.
* Russia e sanzioni, se la Nato diventa un ostacolo per l’Europa – di Sergio Romano
** Intervista a Sergio Romano: “L’Ucraina sia neutrale come la Svizzera”
(www.libreriadelledonne.it, 2 marzo 2022)
Invito a Convegno
di Città Vicine
Cercare, riconoscere, valorizzare i segni della libertà femminile.
Là dove è solo un germoglio ancora fragile, o una piantina da far crescere con cura, o un albero ben radicato che già offre ombra e riparo alle altre donne.
Creare occasioni di incontro e di scambio, di confronto e di crescita per dare e darsi coraggio, riflessioni, pensiero.
Continuare il lavoro di creazione di ordine simbolico e di rappresentazione del sesso femminile che scardini la cultura patriarcale alle radici in tutte le sue manifestazioni, dalle più evidenti alle più sottili, dalle più vistose da cronaca nera a quelle della microfisica del quotidiano, da quelle dei singoli uomini a quelle istituzionali, altrettanto violente e opprimenti.
Questa libertà che le donne si sono date e si danno disorienta l’uomo, ne agita i peggiori fantasmi e fa paura. Il disordine patriarcale colpisce alla ricerca di nuove strategie, di nuove vie di fuga. Ne sono esempi l’attacco alla differenza sessuale in nome dell’ideologia di genere nelle sue varie espressioni, dall’ormonizzazione delle e degli adolescenti alla neutralizzazione del linguaggio, il macabro ritmo dei femminicidi (uno ogni tre giorni), l’attacco alla legge 194 con il 70% dei medici obiettori, l’aggressione alle madri e l’allontanamento dei loro figli e figlie attraverso un uso spregiudicato della cosiddetta PAS (sindrome da alienazione parentale), l’invidia maschile della generatività femminile che si vorrebbe ridurre alla gestazione di un “prodotto”, commerciabile e scambiabile.
Le donne sono in cammino: la libertà femminile esiste, è necessario l’avvento di una nuova civiltà.
Questo ha espresso il femminismo fin dalla sua nascita, questo hanno ribadito molte piazze il 27 novembre scorso, questo ha riaffermato il convegno di Catania del 25 novembre contro “Il filo nero della violenza”.
Parliamone insieme e confrontiamoci al Convegno delle Città Vicine, il 19 febbraio 2022 dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 16 tramite la piattaforma zoom al seguente link https: us06web.zoom.us/j/
Per qualsiasi indicazione rivolgersi a: Segreteria CASA COMUNE MAG Giulia Pravato tel. 045/8100279, info@magverona.it
(www.libreriadelledonne.it, 14 gennaio 2022)
di Silvia Baratella
«Neve testimonia dunque che anche le femmine più giovani erano riconosciute come persone a pieno titolo in queste antiche società». “Neve” è il nome dato alla neonata di 40/50 giorni sepolta nel Mesolitico e scoperta di recente nel sito archeologico ligure di Arma Veirana, in Val Neva. La frase che cito viene dalla notizia apparsa il 14 dicembre ’21 su Metronews.it (vd. articolo riportato in calce).
A parte quell’“anche”, la definizione di Metro è la migliore che ho trovato sulla stampa, le altre parlano di “trattamento egualitario”. La piccola Neve, sepolta amorevolmente con un corredo ricco di ornamenti, alcuni già portati da membri della comunità di sua madre e offerti per il suo funerale, prova che le bambine erano amate e rimpiante, «riconosciute come persone a pieno titolo» appunto. Ma senza “anche”. Essendo l’unica sepoltura ritrovata di creatura piccola di quella civiltà, nulla è dato di sapere sui bambini maschi. E poco si sa anche su adulte e adulti. Tuttavia la stampa, forse anche in base alle parole del direttore degli scavi, l’ha unanimemente comparata a un maschio che non c’è, decretando pure che non può essere stata trattata meglio di lui.
Gli archeologi e le archeologhe del team parlano di “uguaglianza” anche tra generazioni: non è scontato infatti che ogni civiltà attribuisca alle creature piccole lo stesso valore, e grazie a Neve ora sappiamo che quella società gliene dava tanto.
Ma poiché il discorso poi slitta sul rapporto tra i sessi, non ha senso presumere che il trattamento riservato alle femmine potesse essere solo egualitario o al di sotto rispetto ai maschi. A fronte di un corredo funebre così ricco, nulla vieta di ipotizzare che le bambine fossero tenute in maggior conto dei bambini. Non ci sono prove, neanche in questo caso (ma gli studi dell’archeologa Marija Gimbutas dovrebbero averci insegnato che i rapporti tra i sessi nella preistoria non hanno nulla di scontato e che ci sono prove di un principio di civiltà femminile), ma è un’idea utile a superare l’orizzonte ristretto del maschile come misura dell’umano. C’è una misura femminile del mondo, e non è speculare al maschile. Per esempio, la civiltà di Neve avrebbe potuto anche basarsi su un ordine simbolico materno, e dare grande valore sia alle bambine che ai bambini in quanto nate e nati di donna.
(www.libreriadelledonne.it, 24 dicembre 2021)
metronews.it, 14 dicembre 2021
La piccola Neve, in Liguria la più antica sepoltura di una neonata
di Osvaldo Baldacci
L’hanno chiamata Neve. È stata scoperta in Liguria la più antica sepoltura di una neonata in Europa risalente a 10.000 anni fa: si tratta di un’eccezionale testimonianza del Mesolitico e rivela una società di cacciatori-raccoglitori che teneva in particolare considerazione anche i suoi membri più giovani. Il ritrovamento è avvenuto nel sito dell’Arma Veirana, in provincia di Savona ed è oggi pubblicato su “Scientific Reports”, rivista del gruppo “Nature”.
I ritrovamenti e la più antica sepoltura di una neonata
Scavando in una grotta del comune di Erli, nell’entroterra di Albenga, un team internazionale di ricercatori ha scoperto la più antica sepoltura fino ad oggi mai documentata in Europa relativa a una neonata mesolitica. Le attività di scavo e di ricerca sono state condotte in regime di concessione da parte del Ministero dei Beni Culturali, per conto della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Imperia e Savona, rilasciata al professor Fabio Negrino, in quanto coordinatore e responsabile scientifico del progetto.
Un antichissimo rito funebre per la sepoltura di una neonata
La scoperta permette di indagare un eccezionale rito funerario della prima fase del Mesolitico, di cui sono note poche sepolture, che testimonia un trattamento apparentemente egualitario di un loro giovanissimo membro. La comprensione di come i nostri antenati trattassero i loro morti ha un enorme significato culturale e consente di indagare sia i loro aspetti comportamentali sia quelli ideologici.
Esiste una buona documentazione di sepolture riferibili alla fase media del Paleolitico superiore (Gravettiano), nonché alle sue fasi terminali (Epigravettiano recente). Non frequenti sono le sepolture riferibili al Mesolitico e particolarmente rare, per tutte le epoche considerate, quelle attribuibili a soggetti infantili. La scoperta di Neve è quindi di eccezionale importanza e ci aiuterà a colmare questa lacuna, gettando luce sull’antica struttura sociale e sul comportamento funerario e rituale di questi nostri antenati.
Lo studio delle gemme dentarie
L’istologia virtuale delle gemme dentarie della neonata, realizzata presso il laboratorio di luce di sincrotrone Elettra a Trieste, ha stabilito la sua età di morte, avvenuta 40-50 giorni dopo la nascita; ha inoltre evidenziato come la madre di Neve avesse subito alcuni stress fisiologici, forse alimentari, che hanno interrotto la crescita dei denti del feto 47 e 28 giorni prima del parto. L’analisi del carbonio e dell’azoto, sempre estratto dalle gemme dentarie, ha inoltre evidenziato che la madre si nutriva seguendo una dieta a base di prodotti derivanti da risorse terrestri (come ad esempio animali cacciati), e non marine (come la pesca o la raccolta di molluschi).
Gli ornamenti
La sepoltura ha restituito, insieme ai resti del piccolo corpo, un corredo formato da oltre 60 perline in conchiglie forate (Columbella rustica), quattro ciondoli, sempre forati, ricavati da frammenti di bivalvi (Glycimeris glycimeris) e un artiglio di gufo reale. Lo studio degli ornamenti, costituiti da conchiglie cucite su di un abitino o un fagotto in pelle, ha evidenziato la particolare cura che era stata investita nella loro produzione; inoltre, diversi ornamenti mostrano un’usura che testimonia come fossero stati prima indossati per lungo tempo dai membri del gruppo e che solo successivamente fossero poi stati impiegati per adornare la veste della neonata. Neve testimonia dunque che anche le femmine più giovani erano riconosciute come persone a pieno titolo in queste antiche società.
(https://metronews.it/2021/12/14/la-piccola-neve-in-liguria-la-piu-antica-sepoltura-di-una-neonata/)
di redazione del sito
Stupro a pagamento è il titolo dell’ultimo numero di “Solidarietà internazionale”, Rivista bimestrale di Solidarietà e Cooperazione CIPSI (a. XXXII, n. 5 – settembre-ottobre 2021). Il CIPSI, Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale, unisce 38 associazioni che operano nei paesi impoveriti con un approccio di partenariato ed è indipendente da qualsiasi vincolo di carattere politico o ecclesiale.
«Questa copertina di “Solidarietà internazionale” nasce da un’idea accolta dalla rivista e condivisa nel gruppo prostituzione dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (O.I.V.D.), un laboratorio nel quale donne di diverse culture religiose e laiche sono accomunate dal contrasto alla violenza più antica perpetrata sulle donne. Esce in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre).»
Indice dei contributi:
Stupro a pagamento di Laura Caffagnini
Sporcarsi le mani nella prostituzione di Paola Cavallari
La mia storia di sopravvissuta di Liliam Altuntas
Abolizionismo: la storia e le leggi in Italia di Grazia Villa
Insieme per eliminare lo sfruttamento sessuale di Doranna Lupi
Pornografia, il laboratorio della violenza di Ilaria Baldini
Una questione maschile di Marco Deriu
Talitha Kum, una rete contro la tratta di persone di Laura Caffagnini.
Per ogni informazione, vai a: https://www.cipsi.it/2021/11/stupro-a-pagamento-e-uscito-il-n-5-di-solidarieta-internazionale/
(www.libreriadelledonne.it, 30 novembre 2021)
di Silvia Marastoni
«In data 22-23 novembre 2021 il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bologna hanno convenuto di archiviare l’accusa fatta nei nostri confronti “non emergendo elementi che consentano la sostenibilità dibattimentale dell’accusa”» stessa. Inizia così il comunicato con cui Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi hanno annunciato la conclusione della vicenda processuale che – dal febbraio 2019 – li ha assurdamente coinvolti. Accusati (prima lui, poi anche lei, e indirettamente pure l’Associazione Linea d’Ombra, che insieme hanno fondato a Trieste) di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a scopo di lucro, in concorso con una “cellula triestina” composta da decine di persone, “con le aggravanti ad effetto speciale del concorso di tre o più persone e dell’uso di documenti contraffatti […]” e “con l’ulteriore aggravante d’aver commesso il fatto al fine di trarre profitto”.
Come in molti altri casi – in Italia e non solo –, all’origine di queste imputazioni insensate, per non dire persecutorie, c’è la solidarietà con le persone migranti: l’aver ospitato due notti nella propria casa una famiglia iraniana di origine curda (padre, madre e due bambini), aiutandola anche a recuperare le poche centinaia di euro inviate da un fratello lontano attraverso un servizio di money transfer.
Nata – val la pena di ricordarlo – per iniziativa di un pubblico ministero già in precedenza tra gli “inquisitori” dei volontari dell’associazione Ospiti in Arrivo di Udine (anch’essi poi tutti prosciolti), l’inchiesta, ricorda il comunicato, è stata in seguito trasferita ad altra sede, «dato che Lorena, giudice onorario presso il tribunale dei minori di Trieste, rientra nei ranghi della magistratura per la quale è competente appunto il tribunale bolognese. Il procedimento giunge quindi nelle mani di un magistrato non interessato a un’intenzione politica punitiva nei confronti di chi agisce solidalmente con i migranti, il quale non ha difficolta a ravvisare il carattere artificioso della presunzione di collegamento fra Gian Andrea, Lorena e la cosiddetta cellula triestina e, ancor più, lo scopo di lucro», e «chiede quindi l’archiviazione che il giudice per le indagini preliminari conferma».
«Il succo di questa vicenda», sottolineano Gian Andrea e Lorena, «sta appunto nel rendere ancora una volta evidente il carattere politico delle denunce nei confronti degli attivisti solidali con i migranti: così è caduta la denuncia contro Mediterranea e prima ancora quella contro Carola Rackete. Crediamo che cadrà anche quella di Andrea Costa di Baobab di Roma. Diverso è caso di Mimmo Lucano perché gli inquirenti ritengono che si tratti di un esempio pericoloso in quanto avrebbe potuto diffondersi presso altri piccoli comuni spopolati come esempio di rinascita sociale».
Di Lorena, Gian Andrea e Linea d’Ombra, dell’impegno con cui quotidianamente, da anni, accolgono in Piazza della Libertà (da loro rinominata Piazza del Mondo) chi transita da Trieste in arrivo dall’infernale viaggio lungo la rotta europea dei Balcani, della pratica politica a matrice femminile e materna fondata sulla relazione e la cura dei corpi che Lorena ha “inventato”, dei loro periodici viaggi solidali oltre il confine e delle tante altre iniziative che nel tempo hanno promosso (tra cui ricordo in particolare Un Ponte di Corpi) su questo sito abbiamo più volte parlato*.
Con loro, “amici politici” della Libreria e della rete delle Città Vicine, abbiamo discusso dell’esperienza di Linea d’Ombra in un ricco, intenso incontro “virtuale” nel maggio scorso**, e speriamo di poterlo rifare presto in presenza.
Oggi, mentre ai confini europei (e non solo) si ripetono ancora quotidianamente respingimenti, naufragi e altre inaccettabili violenze, in molte-i festeggiamo almeno questa buona, attesa notizia: come tante-i in questi giorni hanno scritto, per Lorena e Gian Andrea “giustizia è fatta”.
* Vedi ad esempio:
https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/la-carrettina-verde-e-il-ponte-di-corpi/
https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/solidarieta-e-umanita-non-sono-reato
https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/la-solidarieta-diventa-reato-irruzione-a-linea-dombra
** Vedi il video: https://youtu.be/-Ng9O5Pwbtk
(www.libreriadelledonne.it, 26 novembre 2021)
di Doranna Lupi
Discanto. Voci di donne sull’enciclica Fratelli tutti (AA.VV., Paoline, 2021) è un libro che raccoglie, nel panorama delle molte letture e dei molti commenti all’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco, contributi unicamente femminili. Questo però non è un testo che parla unicamente del tema delle donne, bensì le autrici esprimono da donne le loro reazioni senza vittimismi o timori e manifestano le loro voci autorevoli, ponendosi come interlocutrici attraverso le modalità tipiche del femminismo: il partire da sé, la valorizzazione della propria esperienza nei contesti dove operano, lo sguardo sull’universale che non perde mai di vista il dato che l’umanità è due e che le tensioni tra sorelle e fratelli, nella chiesa come nella società, vanno affrontate superando ogni forma di apartheid mentale e culturale verso le donne.
È la voce di un gruppo di donne, alcune in relazione tra loro, appartenenti a diverse religioni, giornaliste, teologhe, insegnanti, sorelle religiose, tutte studiose accomunate dall’essere pensanti, che hanno accolto l’invito al dialogo di Papa Francesco, lasciandosi interpellare in maniera profonda, da differenti punti di vista.
«“Se la musica del vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provoca a lottare per la dignità di ogni uomo e donna.” Questo è il canto che intona Papa Francesco, il suo sogno che apre nell’enciclica il discorso sulla fraternità, con un linguaggio poetico e innovativo. Siamo tutti umani, siamo tutte creature che vivono nel mondo, occorre sognare insieme per coltivare il sogno di un’umanità migliore. Il cuore pulsante dell’enciclica resta sempre costruire questa fraternità che noi sappiamo essere anche sororità.» Lidia Maggi esorta il papa a non temere, in futuro, di sbilanciarsi; a continuare a rischiare quel linguaggio personale, capace di sorprenderci come pochi predicatori sanno fare, anche se parlare di fraternità universale dimenticando le tensioni tra fratelli e sorelle solleva un problema che non è solo linguistico.
Ci sono state, infatti, delle polemiche sul fatto che l’enciclica, ispirata da un’espressione di Francesco d’Assisi, s’intitolasse solo “Fratelli tutti” senza le sorelle, con una sorta di esclusione per tutte le donne. L’assenza del riferimento dal titolo delle sorelle non è neppure stata attenuata da un sottotitolo o da una parola al riguardo all’interno del testo.
Questa mancanza, spiega Maria Cristina Bartolomei, è dovuta a un’impostazione distorta che va smascherata e corretta alla radice. È essenziale che sia riconosciuta la necessità di soggettività e autorità femminile, nelle interazioni sociali.
Per questo la scelta del discanto, antica forma musicale che sviluppa una seconda linea melodica speculare alla prima, creando così un effetto armonico, è stata l’ispirazione per accostare e rendere presenti le sorelle accanto ai fratelli, con parole nate dalla loro competenza ed esperienza femminile del mondo.
Il papa usa spesso simbolicamente la figura geometrica del poliedro, dove al centro ci sono i poveri e intorno ci sono le periferie, ma le donne non sono la periferia del mondo perché stanno dentro ai processi della storia e non solo come vittime, anche se vengono considerate ancora tali da una società patriarcale e a volte anche da una chiesa che assume un volto patriarcale. La ricerca di dialogo che intesse tutta l’enciclica, dialogo con le religioni, dialogo con tutta l’umanità, a maggior ragione dovrebbe esserci con le donne.
«Solo chi è affetto da cecità storica da cecità politica e anche se vogliamo dire religiosa, non riesce a vedere questo protagonismo, ormai evidente. Per non vedere questa nuova realtà bisogna mettersi il burqa della mente», così Grazia Villa nel corso di una recente presentazione del libro.
I sogni si costruiscono insieme è il titolo del contributo di Rosanna Virgili che riprende le parole del papa contro la guerra e la pena di morte, affiancandole all’urlo d’impotenza contro la guerra, al dolore e alla pietà delle madri che attraversa come un filo rosso sangue tutta la bibbia, e va ascoltato. Il sogno diventerà realtà solo se uomini e donne lo faranno accadere insieme, altrimenti rimarrà solo un miraggio.
Come giungere a quest’umanità rinnovata, a questa “fraternità” universale? Uomini come Francesco d’Assisi e Benedetto, allo stesso modo di Gesù con Maddalena, si sono aperti nelle loro relazioni con Chiara e Scolastica, ai doni della sororità, allo spazio fecondo e profetico che si dà nell’accogliere anche le emozioni, il parlare che coinvolge sensi e affetti, pensieri e gesti.
La Chiesa cattolica ha molte cose da farsi perdonare, ma anche molto da offrire, spiega ancora Grazia Villa, a patto che sappia diventare «una Chiesa samaritana, maddalena e mariana» come viene affermato nel documento finale del Sinodo in Amazzonia, spogliata d’impalcature, orpelli, strutture anche patriarcali. Potrebbe così correre leggera verso lo stesso sogno di un’umanità risorta: Visto poi che “i sogni si costruiscono insieme”, il sogno diventerà realtà solo se le donne lo faranno ancora accadere.
(www.libreriadelledonne.it, 15 novembre 2021)
di Laura Colombo
I dati sono oggettivi? Ci parlano più e meglio delle parole? Sappiamo leggerli, interpretarli, comprenderli, quando sentiamo una notizia? Che cosa ci manca e che cosa possiamo fare per non cadere in errore e per saperci orientare in questo presente? Sono alcune delle domande che girano nella mia testa da quando ho cenato con alcune amiche qualche giorno fa. Una di loro, molto colpita da quanto aveva appena sentito in televisione, riportava la notizia che l’80% degli ingressi in terapia intensiva è costituita da persone non vaccinate e che il giornalista, commentando la notizia, diceva che “i numeri parlano da sé”, nel senso dell’efficacia della campagna vaccinale. L’amica era invece piuttosto perplessa, quello che coglieva dai numeri era un preoccupante 20% di persone che, nonostante il vaccino, finivano in rianimazione. Un’altra amica, che i dati li mastica per lavoro, ha subito rimesso ordine: quando si guarda un dato, non bisogna mai dimenticarsi di capire quale sia il denominatore, ovvero l’insieme di partenza cui si riferisce il numero. Il senso cambia se guardiamo i pazienti in relazione alle popolazioni da cui provengono, anziché guardare il totale dei posti occupati in terapia intensiva. In questo caso, quanta popolazione non è vaccinata e quanta lo è.
Chi lavora coi dati può essere molto efficace nel farci comprendere i fenomeni, per esempio rappresentando i dati in modo che il fatto descritto sia manifesto. La cosiddetta data visualization, in questo caso, avrebbe potuto rendere esplicita in un colpo d’occhio l’affermazione che i numeri parlano da sé, per esempio visualizzandoli in questo modo:
C’è evidentemente una grande responsabilità dei giornalisti quando riportano le notizie dando per scontata un’interpretazione o, se va male, non avendo coscienza di quello che stanno scrivendo. La responsabilità è grande soprattutto in questo presente che, non a torto, è stato definito l’era dell’infodemia, ovvero un momento storico caratterizzato dalla circolazione eccessiva di informazioni non sempre accurate, che rendono faticoso orientarsi proprio perché è arduo capire quali siano le fonti affidabili.
È anche un momento storico caratterizzato dall’esplosione dei dati digitali, prodotti da ciascuna e ciascuno nella propria vita quotidiana: diventa quindi importante avere alcuni strumenti basilari per capire, possedere una grammatica del dato, avere a disposizione una cassetta degli attrezzi semplice ed efficace per non perdersi. Non dobbiamo diventare data scientist, dobbiamo solo abbandonare disorientamento e confusione quando ci troviamo davanti a numeri e grafici, tabelle e mappe.
Per fortuna ci sono strumenti agili che ci aiutano, uno di questi è il libro fresco di stampa di Donata Columbro, Ti spiego il dato (Quinto Quarto, 2021), che ci accompagna con spiegazioni chiare, unite ai disegni efficaci di Agnese Pagliarini, nei terreni ardui della lettura di notizie, grafici, mappe e nella spiegazione semplice di come proteggere i nostri dati. Ce l’abbiamo in Libreria, ed è possibile ordinarlo online a questo link: https://www.bookdealer.it/goto/9788885546264/607. È un libro che, a mio parere, non dovrebbe mancare in casa nostra perché, citando la quarta di copertina, non c’è niente da fare, dobbiamo arrenderci: i dati sono ovunque.
(www.libreriadelledonne.it, 25 ottobre 2021)
di Diotima
La cesura provocata dai tempi difficili della pandemia ci ha fatto scoprire bisogni essenziali che non conoscevamo, con un conseguente scarto del desiderio, che si è messo in movimento verso ciò che ancora non sappiamo.
Molte si sono interrogate sull’irrinunciabile nelle nostre storie, ovvero ciò per cui sentiamo che l’esistenza ha un gusto e un valore, senza dei quali rimarremo nella grigia ripetizione dell’esistente.
La pandemia ci ha portato alle radici della vita, dove il bisogno e il desiderio non sono nettamente separati, ma sono espressioni diverse dello stesso movimento, che coinvolge i bisogni del corpo, i semi del sogno, il desiderio infinito e la necessità di parole vere che ci aiutino nel nostro percorso.
La forza del femminismo è dalle origini quella di esprimere il senso di quel che viviamo come fulcro politico di una trasformazione di noi in relazione al mondo e di uno slancio collettivo. C’è in questo una corrispondenza con quel che scriveva Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel: «L’uomo ha cercato un senso della vita aldilà e contro la vita stessa; per la donna vita e senso della vita si sovrappongono continuamente» (p. 59). Per questo la scommessa che abbiamo davanti oggi è di stare alle radici della vita senza lasciarci distrarre e di dire ciò che stiamo sperimentando di nuovo e irrinunciabile per noi. Il senso della vita che così portiamo ad uno scambio nel linguaggio simbolico può essere ripreso ed essere elemento orientante per tutte e tutti. Ci sono in esso i semi di una trasformazione politica.
Il seminario di quest’anno ruota attorno ad alcune domande. Cos’è per noi l’irrinunciabile e quali sono i passi da compiere affinché diventi politico, cioè elemento orientante e modificatore delle relazioni che abbiamo con il mondo? La pandemia ha creato nuovi bisogni: come distinguere i bisogni autentici dai loro surrogati?
In quali condizioni dire la verità dei bisogni libera il desiderio verso nuove strade? Quali legami profondi ci sono tra le esigenze e i sogni soggettivi e quelli del pianeta Terra? In altre parole: come fare sì che la nostra storia e la storia della Terra trovi degli scambi efficaci? Come e in che forma tutto ciò ha a che fare con un agire giusto, non di una giustizia astratta, bensì lì dove siamo e dove facciamo cose concrete?
Bibliografia:
Simone Weil, La prima radice, ed. Comunità.
Agnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli.
Françoise Dolto, I vangeli alla luce della psicoanalisi. La liberazione del desiderio, et al. Edizioni.
Diotima, Femminismo fuori sesto. Un movimento che non può fermarsi, Liguori.
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, et al. Edizioni.
L’irrinunciabile
Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 1° ottobre 2021, alle 17 in aula T5, per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 5 novembre.
Venerdì 1° ottobre, ore 17: Wanda Tommasi – Effetto notte. Come si sono trasformati i bisogni e il desiderio
Venerdì 8 ottobre, ore 17: Caterina Diotto – Orientarsi con l’eco
Venerdì 15 ottobre, ore 17: María Milagros Rivera Garretas, Il bisogno di sentir piacere
Venerdì 22 ottobre, ore 17: María José Gil Mendoza – Non tornare a dormire
Venerdì 29 ottobre, ore 17: Anna Maria Piussi – Quando il desiderio si trasforma in bisogno radicale
Venerdì 5 novembre, ore 17: Antonietta Potente – Mi manca e basta.
Gli incontri si terranno in aula T5, nel palazzo dei dipartimenti umanistici, Università di Verona, via San Francesco 22. Per avere molto spazio sicuro abbiamo scelto un’aula davvero grande, che comprende, già distanziate, più di 150 persone. Non c’è numero chiuso, ma vi chiediamo di iscrivervi ad ogni incontro per avere l’elenco dei vostri nomi (con e-mail) in caso di necessità. L’indirizzo a cui iscriversi è: seminariodiotima2020@gmail.com. Bisogna portare in aula il green pass, secondo la normativa di agosto. Dopo qualche giorno si darà la possibilità di seguire la registrazione dell’incontro su youtube. Vale per crediti D.
(www.libreriadelledonne.it, 9 settembre 2021)
di Giovanna Nuvoletti
di Fiorella Cagnoni
Sapeva mostrare enfasi senza essere enfatica. La donna (a parte Elisabetta II) più dotata di perfetto understatement.
Era avventurosa, però. Capace di balzi spericolati. Sia nella professione di editora sia nella vita privata. Per quello, e per la sua aria sempre un po’ ironica ma sempre in agguato a fiutare libri, pesantezze da evitare, conflitti inutili, pericolose prolissità, – per me era La californiana evasa. Quell’atteggiamento audace ma non sventato, sicuro ma non sconsiderato. Vissuto, sapiente ma mai ridondante.
La costante più ridicola del nostro discutere riguardava l’inconscio, che per decenni lei sosteneva non esistere e per me è il puntello pericolante ma ineliminabile della vita. Poi qualcosa l’ha resa meno drastica, e a maggio di quest’anno ha voluto esser taggata nel post in cui annunciavo un webinar su La Carta Coperta, l’inconscio nelle pratiche femministe.
Sulla scrittura mi fidavo ciecamente. Quando lavoravo a un libro gliene mandavo le prime dieci pagine e se lei diceva va bene continuavo, – seguendone le raccomandazioni, per esempio di togliere un personaggio superfluo o di mettere un maneggio dove compariva un cavallo. Quando mi ha detto lascia perdere, – ho lasciato perdere. L’ultima volta le ho mandato i primi capitoli di una nuova storia gialla e mi ha scritto “Auguri a Alice Carta. Mi raccomando non essere prolissa, non superare le 150 pagine!” Al momento il libro è finito e sottoposto alla prima lettura – sarebbero 180 ma taglierò certi inutili elenchi di alibi e moventi.
Di ritorno dalla Gran Bretagna nel 1984 andai in casa editrice, in via Turati, con le lettere Sackville West – Woolf, l’edizione Hutchinson che Sylvie Coyaud e io avevamo trovato e comprato a Londra. «Tu devi fare questo libro. E soltanto io e Sylvie lo possiamo tradurre,» dissi. Papale papale. Del resto a lei non piacevano le mezze misure.
Via Turati era un luogo magico, profumato di intelligenza e di passione oltre che di carta stampata. E lei e Rosaria erano incantevoli, insieme.
Poi ci ha lasciato tradurre per La Tartaruga Nera pure Plotting and Writing Suspense Fiction di Highsmith e Seducers in Ecuador di Sackville-West. Era soddisfacente, aiutare La Tartaruga. Amorevole.
Anche sulla celeste stirpe equina mi fidavo ciecamente. Ho ricominciato con lei a montare a cavallo in Maremma, – le piaceva galoppare in salita: che è più sicuro, perché anche la cavalla, o il cavallo, si stanca parecchio e non esagera.
Quando suo figlio Roberto viveva là ci andavamo in vacanza, con Rosaria, Pat, (che poi l’ha sposato, Roberto) talora altre amiche. Di ritorno dal mare, bevevamo per aperitivo un Fragolino locale, che portato a Milano faceva pietà ma sul posto era perfetto.
Suo figlio Nicola invece, mentre era all’università, ha lavorato per qualche anno nel periodo natalizio al negozio di giocattoli della mia famiglia, – esperienza speciale per lui come per altri figli e figlie di amiche e un bel ricordo per me.
La sua morte muove in me pensieri quasi disperati sulla fine di un’epoca tanto felice, e su quello che ne resterà.
Certo, aveva quasi novant’anni e certo nessuna, nessuno, è immortale. Non avevo mai pensato alla sua morte però, e ieri ho pianto, – pianto davvero a lungo come non mi accadeva da decenni.
Ma quella felicità c’è stata, e fortunate noi. Quelle che l’abbiamo vissuta, insieme.
Pensava d’esser dimenticata e le dispiaceva, pativa la fatica che abbiamo fatto e facciamo a costruire salda memoria delle nostre vite. Ma a me pare che l’ammirazione per lei sia vasta, robusta, profonda.
Troverà un posto perfetto. Magari con Margherita Tosi, che si intendevano benissimo anche quando non erano d’accordo.
(www.libreriadelledonne.it, 7 agosto 2021)
di Clelia Mori
C’è un momento in cui l’arte diventa politica o invece l’arte è sempre politica? Una difficoltà invisibile nell’inquadrare politicamente l’immagine spunta fuori quasi automaticamente quando si parla d’arte e Katia Ricci mi ha chiesto di scrivere cosa intendo quando dico che “fare arte è politica”.
È un’affermazione che ho fatto nell’incontro su Zoom “Raccontarsi con l’arte e la politica” in cui si discuteva di due libri: “Lupini violetti dietro al filo spinato” e “Le immagini che restano”, che è anche un’esposizione di disegni nella Quarta Vetrina della Libreria delle donne di Milano e riguarda il valore politico dell’opera.
In queste discussioni emerge spesso una spinta emotiva, tutta da indagare: la “difficoltà invisibile” di cui parlavo, a contenere, per condividerlo, il valore simbolico di un’opera. È una spinta che tende a esulare dal linguaggio artistico e a delimitarlo. Ma questo linguaggio non è facilmente delimitabile perché è propulsivo dell’origine di ogni discorso artistico. Il suo alfabeto è posseduto solamente dall’artista. Sta nella sapienza linguistica artistica il potere simbolico di definire da subito l’opera nel suo essere insieme fatto estetico e atto politico.
“Lupini violetti dietro al filo spinato”, scritto da Katia Ricci, contiene i disegni delle artiste deportate del campo di concentramento tedesco di Ravensbrück che sono stati messi nella conferenza, forse con troppo entusiasmo se ragioniamo sulle diverse violenze e non parliamo del valore politico dell’immagine, in relazione con quelli di “Le immagini che restano”, realizzati da Paola Gaggiotti, che rappresentano una violenza subita nell’infanzia. Come filo rosso tra loro, la conoscenza del disegno espressa in modi singolari per la varietà delle artiste. Disegni dal passato insieme a disegni del presente. Un passato e un presente violenti che inquietano nel decifrarli. Entrambe le autrici, una scrittrice e l’altra disegnatrice, erano presenti e hanno raccontato il loro legame con le immagini, ma una sola di loro era anche autrice di una parte delle immagini proposte.
E qui il discorso su arte e politica si è ingarbugliato soprattutto rispetto alla possibilità di determinare se l’arte, oltre ad aiutare a raccontarsi, sia anche politica. Non si è riuscite ad affermarlo se non parzialmente. Per Francesca Pasini, curatrice della Quarta Vetrina, pare occorrano precise condizioni di tempo, presenza e luogo perché si possa “probabilmente” definire politica l’arte: «non sempre» ritiene lo sia perché «arte e politica non è una ricetta, va costruita», ma da chi se non dall’artista? È qui, per me, che il discorso si è ingarbugliato: quando lei ha parlato della relazione sul tempo presente e su quello passato e ormai lontano, sulla presenza di una sola artista (ma le altre non potevano), sull’esposizione in un luogo preciso (ma i luoghi e i tempi sono tanti e l’estetica e la politica passano anche da lì), sulla politica delle relazioni e la relazione dell’artista con la sua opera e il mondo, sulla violenza nelle sue varie espressioni maschili sapendo che, però, Ravensbrück la delegava alle Kapò. (Video Zoom di “Raccontarsi con l’arte e la politica” 22 maggio 2021: sito Libreria delle donne di Milano o su You Tube).
Raccontarsi con l’arte e la politica è un gesto che avviene in presenza, ma avviene, ed è importante affermarlo, quando le opere sono già state fatte. Le opere, nuove o vecchie che siano, sono sempre contemporanee a chi le guarda e anche l’artista lo è, se lo si sa vedere, perché parla coi suoi segni. Se se ne parla è perché i lavori sono lì, presenti, esposti davanti a noi e ci stimolano. Se poi c’è l’autore o l’autrice è un dono in più dell’arte, che ci ha fatto ri-conoscere l’artista nel momento in cui propone la sua opera.
Raccontarsi con l’arte e con l’aiuto della politica può accadere solo perché qualcuno o qualcuna si è già espressa con le sue “pratiche artistiche”, come le chiama Donatella Franchi. Le pratiche artistiche sono il linguaggio che un artista sceglie per rappresentare con segni non alfabetici una forma visiva. E, quando pratica, l’artista è solo o sola a fare. Nessun altro o altra può fare per lei. Nessun altro può rendere visibile un’immagine che esiste solo nel desiderio personale. Si tratta di sentire. Sentire dentro l’immagine che vuole andare a vivere fuori. Si sente ancora prima di immaginare, pensare, dire o raccontare. E questo sentire si scava piano piano il suo varco per venire alla luce.
Non è detto che le pratiche artistiche/politiche una volta decodificate siano subito riconosciute, ma non è importante perché i segni le hanno già scritte, sintetizzate in luci e ombre nello spazio per parlare alla sensibilità di chi le guarderà.
L’artista parte sempre da sé e dalle sue relazioni col mondo e il suo esprimersi è interpretato in modo variabile col passare del tempo e di chi l’osserva, come ha ben dimostrato Katia Ricci nel suo libro che, partendo dai disegni delle artiste di Ravensbrück, è arrivata alla vita della sua famiglia e delle sue donne, in Puglia, rompendo l’abitudine ormai istituzionale a un solo tipo di racconto sui campi di concentramento. Katia ha reso, come è normale, le autrici e i loro disegni contemporanei a lei, ai lavori di Paola Gaggiotti e a noi che ne stavamo parlando e ha dato un’altra impostazione politica ai disegni di Ravensbrück: li ha resi più duttili alla realtà del mondo esterna al campo.
Un artista, nella sua solitudine, sintetizza un mondo di parole in segni che contengono un prima, un durante e presuppongono un dopo. Il prima e il durante sono le sue relazioni di vita. L’artista non si stacca mai da sé, è impossibile volerlo e le sue relazioni lo inseguono. Se si desidera condividere il suo lavoro esecutivo perché si è fatto parte delle sue relazioni si toglie all’artista parte del valore politico della sua produzione, lo si attribuisce ad altro, esterno, e si rende incerta la sua arte e il suo linguaggio. La relazione con l’artista è sempre un elemento esterno all’opera che lavora invece come input al dialogo politico. Sono momenti politici differenti il “fare” e il “parlare del già fatto”: uno è interno all’opera, l’altro è esterno e l’esposizione e il dibattito vengono sempre dopo. Non si può parlare di un disegno che non c’è.
Un’opera non nasce mai nel vuoto del bianco della tela o della pagina. È già nella testa dell’artista, anche senza forma, e man mano nella sua testa si costruisce e Paola Gaggiotti ci ha raccontato come ha scelto di disegnare, di far nascere le sue immagini partendo da quelle che le erano rimaste più chiare in testa. A un certo punto l’artista sa che deve affrontare il vuoto della tela, del foglio o di un altro supporto e lo trasforma perché è arrivato il momento di dire quella cosa, comprensibile o incomprensibile che sia agli altri e alle altre. Quanto l’opera sarà capita lo dirà il tempo, la sensibilità di chi vede e questo forse non è neppure importante quando nasce l’urgenza di dire… Diventa importante dopo. Lo stesso recupero storico dell’arte femminile e la costruzione ancora faticosa e incompleta di una genealogia artistica femminile – Tomaso Binga, ormai novantenne, una delle poche grandi artiste ancora viventi, non è presente nella mostra “Io dico Io – I say I” alla GNAM di Roma – ci dicono del bisogno di sensibilità e di cura intorno all’arte in genere e in particolare a quella delle donne. Matrice, il libro di Donatella Franchi, ha cercato di dircelo.
Alla luce di tutto questo, non possiamo essere noi, di fronte all’opera, ad affermare che se non ci sono certe condizioni di tempo, presenza e luogo quell’opera non è politica e, se invece ci sono, allora diventa politica.
Se lo affermiamo, nella convinzione che sia necessario un raffinato ragionamento che aiuti una certa pratica artistica ad emergere, automaticamente, lavoriamo per togliere dignità politica ai linguaggi artistici, compreso quello dell’autore o dell’autrice a cui ci riferiamo. Il motivo è semplice: viene a mancare la possibilità del riconoscimento della dignità della parola/segno che sta alla base del fare artistico. Si sposta all’esterno dell’opera parte della sapienza artistica e questo non può accadere perché essa sta sempre e solo dentro. Ovviamente stiamo parlando di «immagini che si possano definire tali» perché affermano «una parte della verità della realtà», il loro “montaggio” è poi il compito della critica (Francesco Ferrari, Un certo modo di sentire qualcosa, Antinomie 2021).
Le immagini e le situazioni si sentono. E se non si sentono bisogna mettersi in attesa ad aspettare di sentirle, non occorre sovrapporvisi. Di questa postura del sentire parla María-Milagros Rivera Garretas nel video della Libreria delle donne sul suo libro Emily Dickinson, vita d’amore e di poesia. E ne scrive Didi Huberman in Sentire il grisou a proposito delle immagini. Sentire è il termine che ci serve per capire e fare l’arte.
Una volta che l’opera è terminata ed è pronta a camminare in mezzo alla gente, nel tempo di ogni luogo che la ospita, allora lì nasce l’altra politica: la pratica politica di chi osserva più o meno magistralmente.
La forza dell’arte, e soprattutto quella delle artiste, sta nel riconoscere la loro sapienza linguistica indipendentemente da tutto quello che le circonda, perché un luogo in cui sono nate le loro opere c’è: è nella loro testa ed è una sintesi di sensibilità, desiderio, piacere, paura, felicità, dolore e tutto quello che l’umano sentire femminile permette di esperire nel piacere del possesso di un altro linguaggio espressivo che va oltre la parola, arriva sempre prima di lei e la contiene già.
Lo sappiamo guardando la funzione dell’arte nell’uso che ne ha fatto e ne fa qualsiasi potere e lo sappiamo la mattina quando ci svegliamo e ci guardiamo intorno per capire dalle immagini che ci circondano chi, cosa e dove siamo, per rimetterci in piedi, continuare quello che abbiamo lasciato in sospeso il giorno prima e andare avanti nei nostri progetti. Oggi che ci siamo date, da molto, il potere di decidere quello che vogliamo rappresentare e come farlo, firmandolo, non possiamo tornare indietro per nessun motivo esterno a noi. Ne va della nostra verità dell’arte come artiste.
(www.libreriadelledonne.it, 20 giugno 2021)
di Silvia Marastoni
Siamo madri, sorelle, donne tunisine che, nella frontiera del Mar Mediterraneo, hanno perso i propri cari – figli, figlie, fratelli e sorelle – morti o scomparsi a causa delle politiche migratorie europee che negano diritti, storie e vite umane. Molti dei nostri cari sono ancora oggi dei numeri senza volto, scomparsi nell’indifferenza politica e sociale.
Per restituire un nome a queste persone e per riconoscere le loro storie, abbiamo deciso di partecipare al progetto della #copertadiYusuf, nata a Lampedusa all’indomani dell’annegamento del piccolo Yusuf, ennesima vittima del mare spinato.
Filo alla mano, trama e ordito, costruiamo la “Coperta della memoria – Tunisia”. Ogni “mattonella” che compone la coperta corrisponde alla storia di una persona scomparsa o morta lungo la rotta migratoria.
Ogni “mattonella” rappresenta una persona che ancora cerchiamo e per cui chiediamo verità e giustizia.
Affinché i nostri figli e le nostre figlie, i nostri fratelli e le nostre sorelle annegati nel Mediterraneo spinato non siano dimenticati: intrecciamo la nostra memoria con quella di altre famiglie e altre madri in Italia e in Tunisia, per costruire un racconto comune, contro la rimozione istituzionale e politica dei diritti.
La coperta della Memoria – Tunisia nasce quindi con lo scopo di non permettere che l’indifferenza trascini nell’oblio queste storie e cancelli le responsabilità di queste morti.
Per fare del racconto un mezzo di contrasto della violenza della frontiera. Per fare della memoria uno strumento di lotta collettiva”.
Dal 5 giugno scorso, le donne tunisine autrici di questo testo si sono unite alle molte/ai molti che hanno aderito all’iniziativa lanciata dal Forum Lampedusa Solidale dopo la morte del piccolo Yusuf, il bambino di soli sei mesi annegato nel naufragio dell’11 novembre scorso nel Mediterraneo che – come hanno scritto le sue promotrici/i suoi promotori – “ha passato più tempo nel ventre della sua mamma che su questa terra”.
Un progetto che “intreccia nella memoria trama del presente e ordito del passato”, perché nel futuro nessuno possa dire “io non sapevo”; che “vuole dare voce ai desideri, alle competenze e alle idee soprattutto delle donne”, di chi non vuole arrendersi all’idea che il mare che ci circonda e che è sempre stato fonte di vita per chi vive su queste isole e lungo tutte le coste del bacino del Mediterraneo sia trasformato in un luogo di morte, di paura e di guerra”. Di chi “ha voglia di dire che il Mediterraneo deve tornare a essere fonte di vita, una madre che abbraccia e protegge i suoi figli e le sue figlie”.
Sulla pagina Facebook che hanno aperto, La couverture de la mémoire – Tunisie / La coperta della memoria – Tunisia, anche le donne tunisine hanno iniziato a pubblicare da qualche giorno le foto dei quadrati che insieme lavorano a maglia e a uncinetto: tra i primi, quello dedicato “a Musa Balde, il ventitreenne originario della Guinea aggredito e picchiato il 9 maggio a Ventimiglia, poi rinchiuso nel Centro di permanenza per i rimpatri di Torino in una cella d’isolamento, dove tredici giorni dopo si è suicidato”: “Ucciso”, scrivono nel messaggio che accompagna la “mattonella” di lana, “dalla violenza politica e istituzionale italiana. Per i tuoi diritti calpestati. Per il tuo sogno di libertà”.
Insieme alle tantissime altre arrivate e ancora in arrivo a Lampedusa, andrà a comporre “una coperta infinita, simbolo del legame tra le storie dei singoli, primo passo verso la nascita di una comunità, che diventerà patrimonio condiviso innanzitutto per quella di Lampedusa e Linosa”. E, accanto alle “mattonelle” di lana” cucite, i biglietti “con un titolo e una storia, un pensiero, un racconto, il luogo o la data di quando è successo, un desiderio” che le accompagnano.
Chi desidera partecipare all’iniziativa può spedire un quadrato di lana (10x10cm) realizzato ai ferri o a uncinetto e il proprio messaggio, accompagnati da una liberatoria firmata che ne autorizzi la pubblicazione e – se lo si vuole – il proprio nome a: Biblioteca Ibby Lampedusa, via Roma 34 – 92031 Lampedusa (AG).
Solo questi saranno singolarmente pubblicati, ma tutti quelli ricevuti verranno comunque cuciti e faranno parte della “Coperta di Yusuf”.
(www.libreriadelledonne.it, 17 giugno 2021)
di firmatarie/firmatari
Abbiamo letto il comunicato delle giovani ebree ed ebrei circolato su vari social, e citato dal Manifesto, e vogliamo esprimere il nostro appoggio alle loro coraggiose parole di verità.
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei che, da molti anni, si battono perché si favorisca una soluzione politica giusta per le popolazioni che abitano fra il Giordano e il Mediterraneo.
Barbara Agostini, Gloria Antezana, Marina Ascoli, Marina Astrologo, Davide Calef, Giorgio Canarutto, Giuseppe Damascelli, Lucio Damascelli, Lello Dell’Ariccia, Marina Del Monte, Anna Farkas, Ida Finzi, Anna Foa, Bettina Foa, Enrico Franco, Liliana Gandus, Nicoletta Gandus, Valeria Gandus, Bella Gubbay, Joan Haim, Annie Lerner, Stefano Levi Della Torre, Nyranne Moshi, Patrizia Ottolenghi, Sergio Ottolenghi, Renata Sarfati, Stefano Sarfati Nahmad, Eva Schwarzwald, Bruno Segre, Emanuele Segre, Simona Sermoneta, Shmuel Sermoneta-Gertel, Sergio Sinigaglia, Stefania Sinigaglia, Susanna Sinigaglia, Deborah Taub, Jardena Tedeschi, Mario Tedeschi, Alida Vitale
Not in our names
Siamo un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani.
In questo momento drammatico e di escalation della violenza sentiamo il bisogno di prendere la parola e dire Not In Our Names, unendoci ai nostri compagni e compagne attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunità ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso.
Abbiamo già preso posizione come gruppo quest’estate condannando il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo israeliano (https://www.joimag.it/contro-lannessione-una-voce-ebraica-italiana-una-protesta-globale/) e il nostro percorso prosegue nella sua formazione e autodefinizione.
Diciamo Not In Our Names:
– gli sfratti a Sheikh Jarrah e la conseguente repressione della polizia
– gli ultimi episodi repressivi sulla Spianata delle Moschee
– il governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora
– i giochi di potere (di Netanyahu, Hamas, Abu Mazen) che non tengono conto delle vite umane
– i linciaggi e gli atti violenti che si stanno verificando in molte città israeliane
– il bombardamento su Gaza
– il lancio di razzi indiscriminato da parte di Hamas
– la riduzione del dibattito a tifo da stadio
– l’utilizzo strumentale della Shoah sia per criticare che per sostenere Israele
– le posizioni unilaterali e acritiche degli organi comunitari ebraici italiani
– gli eventi di piazza organizzati dalle comunità ebraiche con il sostegno della classe politica italiana, compresi personaggi di estrema destra e razzisti
– la narrazione mediatica degli eventi in Medio Oriente che non tiene conto di una dinamica tra oppressi e oppressori
– qualunque iniziativa e discorso che veicoli rappresentazioni islamofobe e antisemite.
La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi.
All’interno delle nostre società riteniamo necessaria ogni forma di solidarietà e mobilitazione, ma ci troviamo spesso in difficoltà. Pur coscienti che antisionismo non sia sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa più o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarietà difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione.
(seguono firme)
di Caterina Diotto, Laura Minguzzi, Mariateresa Muraca, Anna Maria Piussi, Chiara Zamboni [1]
Report dell’incontro in libreria il 24 aprile 2021, rielaborato da Maria Teresa Muraca e pubblicato su Educazione Aperta – Rivista di pedagogia critica, 15 maggio 2021
Laura Minguzzi: il libro di Chiara Zamboni Sentire e scrivere la natura ha attirato il mio sguardo appena entrata in Libreria. Un saggio che si legge come un romanzo filosofico che tocca diversi piani della realtà attraversando e collegando in profondità differenti linguaggi. Gli ambiti trattati sono tanti, uno spaziare ampio e profondo che si radica nel presente e ci sollecita, spingendoci a ripensare un percorso soggettivo, attraverso figure indimenticabili e incancellabili della letteratura, della politica, della filosofia, della scienza e della storia (Ingeborg Bachmann, Meister Eckhart, Anna Maria Ortese, Laura Conti, María Zambrano, Maurice Merleau-Ponty e altre), che abbiamo incontrato nel nostro cammino, conosciuto, letto o studiato e alle quali ci siamo ispirate. Laura Conti per esempio nel bel capitolo che le dedica Chiara Zamboni è per noi la madre fondatrice del movimento ecologista, poiché si è posta come figura di connessione fra l’orizzonte simbolico della madre e l’orizzonte simbolico della natura, incarnando il suo sapere scientifico con l’amore per il vivente con tutti i suoi limiti.
Mariateresa Muraca: a Laura Conti infatti sono dedicate alcune pagine molto belle del libro, in particolare quelle in cui si approfondisce il «taglio sessuato […] delle forme umane di partecipazione con la natura […] che ci impegnano in scelte di pensiero e politiche» [2] (p. 58). Come anticipava Laura, queste pagine sono attraversate da una parola, che cattura e allo stesso tempo spiazza, suscita molti interrogativi. È la parola “amore” che tu, Chiara, riprendi da una riflessione di Questo pianeta [3], in cui appunto Laura Conti afferma di essere motivata nel suo impegno ecologista non da questioni etiche ma dall’amore per la vita nel suo insieme, «amo il sistema vivente, voglio proteggerlo» dichiara. Dunque, scrivi dell’amore come il perno della conoscenza e dell’azione politica di Laura Conti; un orientamento nei confronti del mondo che «accetta sia le parti buone che quelle negative», sia le reazioni aggreganti che favoriscono il rilancio del vivente sia le reazioni disgreganti; una posizione simbolica che fa vivere il paradosso per cui noi amiamo il mondo dall’interno, lo consideriamo nel suo insieme e contemporaneamente siamo del mondo. Il tema dell’amore comunque è presente in tutte le pensatrici con cui dialoghi. Di Anna Maria Ortese argomenti la condizione preconoscitiva e il lato invisibile dell’amore per il mondo, che è proprio dell’esperienza di partecipazione comune alla terra – intesa come corpo celeste, parte di una galassia a sua volta in relazione con altre galassie. Rispetto a María Zambrano ti soffermi sulla qualità individualizzante dell’amore, che vincola alla singolarità di ogni cosa (quella foglia, quella casa, quel blu del quadro, quel prato di periferia), senza consumarla proprio perché tiene vive le differenze. Un passaggio che fa riflettere è quello in cui, scrivendo di María Zambrano e Maurice Merleau-Ponty, affermi: «entrambi sono impegnati filosoficamente a dare voce al mondo e a fare della scrittura il luogo di espressione del legame vivente con la natura. […] Merleau-Ponty per fedeltà al mondo […] Zambrano per amore» [4].
Chiara Zamboni: mi è sempre stato difficile adoperare la parola amore, perché può essere adoperata in modo molto superficiale. Tuttavia molte grandi filosofe del Novecento ne hanno fatto il fulcro del loro pensiero: Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt, María Zambrano e anche scrittrici che qui cito: Ortese, Bachmann. In più scienziate come Laura Conti, Barbara McCklintock e filosofe della scienza come Evelyn Fox Keller. Prima di scrivere questo libro non avrei mai pensato di introdurre il tema dell’amore parlando della natura. Ma mi sono trovata costretta a farlo alla fine del libro perché sono loro ad avere questa posizione. E ne ho preso atto. E allora ci si può interrogare su perché queste grandi pensatrici abbiano avvertito la necessità di fare riferimento all’amore per parlare del mondo. È un passaggio simbolico, che ha a che fare con l’accettare tutto ciò che appartiene alla natura e al mondo, senza dare un giudizio. Amore indica il passaggio simbolico per descrivere questo accogliere che non è puramente contemplativo, ma ci lega e ci impegna. D’altra parte il limite (e la forza) di tale disposizione simbolica è che non la si può imporre a nessuno. Non è normativa. Non è un valore etico a cui educare. È una posizione, che sappiamo porta ad una serie di effetti trasformativi del nostro rapporto con il mondo. Ora, è vero che Merleau-Ponty parla invece di fiducia nei confronti del mondo e di fedeltà al rapporto che si ha con esso. Merleau-Ponty aveva una posizione di pensiero che riconosceva espressamente la propria dipendenza maschile dal materno. Bene, penso che l’accettazione di una radicale dipendenza dal materno porti più al sentimento della fiducia che a quello dell’amore. È per questo che Merleau-Ponty parla di fiducia e fedeltà alla Terra. Non di amore.
Caterina Diotto: nella scrittura e nella pratica di pensiero di Laura Conti c’è un altro concetto che mi ha affascinata e che vorrei approfondire: l’energia. In Ambiente Terra [5] Laura Conti presenta quella che Chiara ha chiamato una “visione di sistema”. Un sistema che non si isola nell’astrazione ma è sempre sistema vivente, in cui tutti siamo calati e a cui tutti partecipiamo. Il concetto di energia rappresenta una forza che permea tutto questo sistema e lo innerva mostrandosi in forme diverse tra loro: energia termica, energia elettrica, energia meccanica, luce. Per Laura Conti un pensiero che sia davvero “ecologico” deve riuscire a “tenere insieme” processi apparentemente molto lontani fra loro, e questo è possibile solamente considerando l’energia come processo trasformativo trasversale a tutto. Solo analizzando la produzione industriale e agricola, l’utilizzo delle risorse e le tipologie di risorse impiegate, il lavoro e l’entropia attraverso la chiave dell’energia saremo in grado di comprendere il reale costo ecologico dei processi produttivi rispetto al sistema vivente, perché solo attraverso l’energia i processi sono interconnettibili. Ho trovato questo concetto di energia e il cambio di prospettiva che porta con sé – che risale ormai alla fine degli anni ’80 – un colpo di genio, una chiave di lettura nuova che apre un orizzonte di comprensione pratica del mondo più complessa, molteplice e articolata. In Sentire e scrivere la natura viene messa in luce la novità di questa concezione. Tuttavia ho avuto anche la sensazione che questo concetto di energia come continua trasformazione rappresentasse uno dei “fili rossi” che percorrono e collegano insieme l’intera riflessione del libro, una chiave di lettura che permette di considerare la molteplicità delle autrici e degli autori trattati non come un insieme frammentario ma come le “forme” temporanee che il rapporto di pensiero dell’essere umano con la natura ha assunto. Chiara, vorrei chiederti cosa pensi di questa mia interpretazione.
Chiara Zamboni: prima della tua domanda non avevo pensato che in effetti il concetto di energia, che Laura Conti mette al centro come chiave per leggere i fenomeni del cosmo nel suo insieme, è qualcosa – un’intuizione – che mi ha guidato nello scrivere il libro. Non ridico quel che hai già detto sull’energia nel nostro cosmo. Dico solo che Laura Conti ha formulato interventi politici in parlamento per favorire quelle azioni che possiamo compiere che siano aggreganti di energia e ostacolare tutto ciò che porta alla degradazione dell’energia. Potremmo valutare ad esempio il progetto politico dei Verdi in Germania oggi con questi parametri. Ora, in effetti nel libro ho valorizzato tutte quelle figure che fanno riferimento a una energia in divenire, natura naturans nel suo essere generante, dinamica. Così in Zambrano penso ai semi di luce generanti nella natura. Hanno a che fare con la parola vivente che ha questa capacità di mettere al mondo, e hanno a che fare con una ragione materna. In Merleau-Ponty mi riferisco ad esempio alla figura della deiscenza: cioè la realtà in divenire è come un frutto che si dischiude e i semi si diffondono. In Ortese sono le cose stesse ad essere in continuo divenire, in trasformazione, mai identiche a sé stesse. In questo senso l’energia aggregante, generante, è uno dei fili conduttori del libro: la natura naturans nel suo movimento di dischiudere, fiorire, iniziare sempre di nuovo. Dove le stesse cose e noi siamo presi da questo movimento. Da questo divenire.
Caterina Diotto: mi ha colpito molto anche il concetto del sentire, che introduci fin dalle prime pagine. «Sentire è più del percepire. Succede quando si avverte che il fatto percepito è onirico e in divenire. Quando nel percepire insistono il passato e il presente avviato al futuro. Mi riferisco all’esperienza comune per la quale in questa erba secca dell’estate sentiamo l’odore dell’erba secca di altri luoghi e altri anni passati e che verranno. E quando la casa di oggi è anche la casa sconosciuta incontrata nei sogni» [6]. Leggerlo mi ha fatto ripensare a una frase di Ingeborg Bachmann nella prima conferenza delle sue Lezioni di Francoforte, che hanno il titolo collettivo di Letteratura come utopia: «Nel migliore dei casi, al poeta riusciranno due cose: rappresentare, rappresentare l’epoca sua, e presentare qualcosa per cui il tempo non è ancora venuto» [7]. In questa frase Bachmann racchiude per me l’anelito trasformativo e politico della letteratura, la capacità di presentare qualcosa per cui il tempo – che interpreto più come il tempo della codificazione simbolica della cultura – non è ancora venuto. Qualcosa di nuovo, che non si è mai detto prima. Ma come si fa a dire qualcosa che non si era mai detto prima, dove si fonda questa capacità trasformativa dell’arte? Quest’apertura all’inatteso, che ha una forte valenza politica oltre che conoscitiva? Se questa apertura non fosse possibile, vorrebbe dire che siamo in grado di guardare solo indietro, mai avanti. Allora molti hanno già scritto di questa capacità dell’arte, ma raramente si è parlato del come questo sia possibile, come avvenga, dove si origini. Leggendo Sentire e scrivere la natura ho pensato che il concetto di sentire potrebbe costituire una risposta a questa domanda perché rappresenta una condensazione, un intreccio di rimandi fra elementi consci, inconsci, reali e onirici, passati e presenti “avviati al futuro”, come scrivi. Vorrei chiederti se ti riconosci in questa interpretazione.
Chiara Zamboni: per risponderti partirei dalla scrittura. È centrale nel libro la scrittura in rapporto al sentire. Ho fatto riferimento a quelle scritture letterarie e filosofiche in cui la lingua adoperata è materna, poetica e accompagna le cose. Le cose tendono ad esprimersi e la lingua prende e rilancia tale espressione. Le cose si mostrano quasi balbettando nella tensione ad esprimersi. Ogni cosa ha risonanza. Ad esempio, se sovrappensiero tamburelliamo sul tavolo, il tavolo risponde alle nostre dita con il tatto – è elastico – e risuona di piccoli suoni ritmici. Quando sentiamo in questo modo il tavolo – il tavolo che risponde al tatto, che risuona nel tamburellare, che è nel tempo e si trasforma – siamo dentro una relazione viva con il tavolo, molto diversa dalla percezione oggettiva. Infatti diciamo che sentiamo il tavolo nelle sue risposte al toccarlo. In più la relazione tra me e il tavolo è tessuta di inconscio. Un inconscio che qui intendo come qualcosa che fa parte integrante della nostra partecipazione al mondo e alle cose. Dunque un inconscio non rimosso, ma un inconscio che fa tessuto, legame tra me e le cose. Tra me e le altre e gli altri. Sappiamo che i sogni, che sono la porta principale dell’inconscio, ci fanno entrare in case dove ci sono tavoli che conosciamo, ma che hanno un’atmosfera inconsueta. È lo stesso per le città che abitiamo. Ci svegliamo e ci chiediamo: che vorrà dire quella atmosfera nella città di sempre, ma altra dal solito? Era la città che conosco bene, ma perché era così diversa? Sentiamo che c’è il presentimento di qualcosa. L’imminenza di qualcosa che sta per avvenire. Le esperienze più vive della realtà mostrano più facilmente questa atmosfera inconscia, che pure c’è abitualmente. Ci mettono sul chi vive. Qualcosa sta per accadere, che l’esperienza segnala. È il pre-sentimento, il sentire prima che qualcosa diventi conoscenza. È segnale, traccia di futuro molto prossimo. La scrittura poetica – sia letteraria sia filosofica – non solo accompagna le cose ma riprende il loro gesto di significare, di dare un segnale, una traccia. Perché non è una scrittura soggettiva rispetto a una cosa da descrivere oggettivamente. E dunque, alcuni testi di Bachmann fanno proprio questo: riprendono la dimensione inconscia delle cose, l’aspetto per cui le cose alludono, danno segnali, attirano la nostra attenzione per significare qualcosa di presente e allo stesso tempo imminente. Ma non solo Bachmann, ovviamente. Mettersi in sintonia con questo modo di sentire le cose, legato all’inconscio e al linguaggio poetico, richiede un altro paradigma, che metta da parte la disposizione soggetto-oggetto e dove la ragione ha radice nel sentire attraversato dall’inconscio. È questa una delle principali scommesse del libro.
Laura Minguzzi: in Luogo eventuale, Ingeborg Bachmann [8] è testimone della malattia di Berlino. Può vedere e mostrare l’inquietudine della città, la sua difformità. La costruzione del muro taglia l’est dall’ovest della città, operando una violenza che incide gli animi. Il nodo essenziale è che essi negano questa ferita, non la vedono. In questo passaggio è già racchiuso il nucleo filosofico più importante del testo. Ogni accadimento è degno di attenzione, l’io che scrive non è più un soggetto contrapposto alla storia. Il mondo è mostrabile a partire da un io che non offre alcuna prospettiva identitaria ma si fa specchio di un esterno in divenire, le cui forze lo attraversano. Da un lato l’io si fa specchio della realtà. L’io si fa nulla, si scioglie nella realtà e dall’altro si differenzia e ne fa conflitto. È un paradosso tipico del linguaggio mistico ma lo si sperimenta anche quando si vuole parlare della natura. Lo stile di scrittura che segue è la strada per far vivere a noi lettrici e lettori una città malata dall’interno, folle in quanto nega la realtà e si trincera in un’armonia fittizia… La percezione per il lato inconscio del sentire porta con sé strati naturali e storici intimamente connessi.
Anna Maria Piussi: questo è un filo di interesse che ho seguito nel percorrere il libro e che rimanda a scritti precedenti di Chiara, in particolare al saggio Sentire, nel libro collettaneo da lei curato La carta coperta [9], ma anche alla messa a tema dell’inconscio come passaggio ineludibile per l’articolazione di nuove vie simboliche e politiche, in lavori anteriori. Proprio nel periodo di uscita di Sentire e scrivere la natura, mi stavo cimentando sul “sentire” e “scrivere” come questioni epistemologiche e politiche. E questo, in particolare, mentre curavo l’edizione italiana di un libro dal titolo Segnali di vita [10] di un’autrice argentina impegnata a sperimentare forme di pensiero e di scrittura in grado di far sentire con tutti i sensi l’accadere delle cose, i movimenti trasformativi di sé e del mondo della scuola, nel dare conto pubblicamente, ma non convenzionalmente, di pratiche educative innovative da lei attivate insieme con altre. Da anni, non da sola ma con altre, sono alla ricerca di un linguaggio e di una scrittura che mostrino, non dimostrino, l’evidente, quell’invisibile che emerge alla visione quando l’esperienza si allarga e si intensifica grazie all’attenzione fluttuante, al sentire tra conscio e inconscio. Linguaggio e scrittura che restituiscano al mondo degli scambi umani – in primo luogo l’educazione e la formazione, ma anche la politica – la consistenza di un reale vivo, trasformativo, in divenire, nei suoi lati di luce e di ombra, comunque non oggettivabile in descrizioni, spiegazioni, interpretazioni. In modo da far sentire e far vivere in presa diretta gli accadimenti da parte di ascolta o legge, attivandone il desiderio di mettersi in gioco nel divenire del tessuto visibile e invisibile del mondo, ma senza cadere nel mito ingenuo dell’immediatezza e della naturalità, che, come nota Chiara soprattutto a partire dalla “seconda” Ortese, alla fine coincide con il già codificato nei significati dominanti. Da tempo anche nelle scienze umane si va affermando il paradigma ecologico, della complessità, che si proclama centrato sulle interconnessioni, ma spesso scade in un razionalismo riduzionistico, dimentico della necessità, per il soggetto conoscente e pensante, di una sperimentazione esistenziale, di quella trasformazione che consenta di riconoscere i propri legami con il mondo, di essere appartenenti al e dipendenti dal sistema che si intende conoscere (e che mai è del tutto oggettivabile e spiegabile), a partire dal radicamento nel corpo sessuato anche nel suo lato inconscio e onirico. Se il sentire con tutti sensi e con attenzione coinvolta, amorosa e aperta alla presenza delle cose, delle persone e del mondo, è la via previlegiata di quel realismo onirico nel conoscere e nel “sapere con tutta l’anima” prossimo all’esperienza femminile, che procede per risonanze secondo una ragione poetica di matrice materna (v. María Zambrano), questo sentire si accompagna a una dislocazione simbolica ed esistenziale anche nel linguaggio: da qui la necessità di trasformare la relazione che abbiamo con la lingua, trasformando la lingua stessa. Prendendo le distanze da una relazione strumentale con le parole, hai fatto riferimento all’“ecologia della lingua” di cui parla Anna Maria Ortese in Corpo celeste: una cura della lingua necessaria alla precisione dell’esprimere, ma attenta a non perdere né il sentimento dell’insondabile né il logos della singola cosa nel suo divenire. È per questo che fin dalle prime pagine del tuo libro (e senza spiegazioni: da qui lo spaesamento iniziale!), troviamo una costellazione e una moltiplicazione di nomi e di figure come terra, suolo, cose, natura, mondo, vita… non del tutto separate ma neppure intercambiabili; e che solo a un certo punto della lettura riconosciamo essenziali a quel tuo linguaggio laterale che nella scrittura costeggia il fluire delle questioni da te vissute e pensate (senza mai pretendere conclusioni definitive), e ci chiama a spostamenti del pensiero mentre ci rivela l’inquietudine di una ricerca a cui ci inviti a partecipare?
Chiara Zamboni: sì, ho cercato di evitare le definizioni del tipo “questo è il significato di Terra”, “questo è il significato di mondo”, “questo è il significato di Natura”, “questo è il significato di vita”. L’ho fatto consapevolmente. Sono concetti che si rimandano l’uno all’altro in una costellazione, dunque sono legati, ma non sono sinonimi né interscambiabili. La Terra rimanda alla solidità del passo che vi cammina con fiducia; la natura a qualcosa di generante a cui possiamo fare singolarmente riferimento per continuarne l’opera; il mondo al nostro stare in relazione e così via. Ognuno ha una sua tonalità, per cui non sono sinonimi, ma prendono significato gli uni dagli altri. Ho trovato anche molto interessante proprio quello che tu riferisci di Ortese: l’invito ad una ecologia delle parole sullo stesso piano di una ecologia del vivente. Attenzione alle parole come a tutti gli esseri. Quando parla di ecologia delle parole, Ortese non intende una esattezza rigida, ma un’esattezza che è tale perché si adatta al divenire delle cose e dei contesti. Non a caso proprio lei usa tante parole diverse per dire di certe cose, perché sono le cose a cambiare continuamente, ad essere in divenire. L’esattezza nasce dall’essere fedele ai cambiamenti dei contesti.
Laura Minguzzi: è significativo che Ortese sostenga che l’amore per la natura è ponte per il paziente lavoro della cultura che lega cosmo ed essere umano. In altre parole occorre paradossalmente curare la lingua, se si ama la natura. E viceversa. Abbiamo bisogno di un’ecologia della lingua. Una lingua impoverita fa smarrire il senso delle cose e dei nomi, la pratica della scrittura aumenta il senso di realtà della Terra. Come è stato già accennato, il pensiero di origine femminista ha duramente criticato il sottrarsi del pensiero razionalista da ogni dipendenza nei confronti della natura e da ogni riconoscimento dei debiti verso ciò che ci ha permesso e ci permette di vivere, la madre prima di tutto. Attraverso “la porta stretta” del riconoscimento di tali dipendenze può avvenire la significazione libera di quel che siamo e sentiamo in rapporto alla natura. La presunzione di pensare di controllare il sistema vivente è effetto della mancanza di riconoscimento del fatto che ne siamo dipendenti. Solo collocandoci dentro al sistema e non all’esterno oggettivandola possiamo comprenderla. Una transizione ecologica si può realizzare se incarnata in ciascuno, ciascuna di noi. Chi è la Terra? La terra siamo noi. Una linea continua tra me e lei, senza contrapposizioni o dualismi intercambiabili o sostituibili. Per far capire il salto concettuale che ci solleciti a fare nell’accostarsi alla natura, tu adoperi un insieme di immagini che viene dalla cultura persiana mazdea e da Zoroastro, che Zambrano conosce bene. Il passo più significativo della concezione della natura a cui questa cultura ci invita, è quello di non chiederci che cosa sia la Terra, ma chi sia la Terra.
Chiara Zamboni: stare alla domanda «Che cos’è la Terra?» ci pone nella posizione di chi vuole conoscere un oggetto e lo descrive. La Terra risulta allora un oggetto di conoscenza e basta. È bene notare che porsi la domanda «Chi sia la Terra?» non significa ribaltare un oggetto in soggetto. Non si tratta di considerare la Terra come un soggetto a pieno titolo accanto ad altri soggetti. Al limite portatore di diritti, come alcune correnti ecologiche affermano. Saremmo ancora nel paradigma culturale moderno dove c’è un soggetto e un oggetto, e dove ci sembra di aver cambiato chissà che portando la Terra da oggetto a soggetto. Invece nella cultura persiana mazdea, una cultura medievale, la Terra porta con sé una forma “immaginale” che esiste da sempre per suo conto e contemporaneamente è in un processo trasformativo che in parte dipende da come noi ci rapportiamo ad essa. È in divenire e chiama noi ad esserci, partecipando alla sua trasformazione. Esiste un circolo tra la Terra e noi. Possiamo tradire questo richiamo oppure possiamo assecondare il divenire della Terra e di tutti i suoi esseri «facendola ancora più bella», come è scritto nei testi mazdei. Proprio perché l’essenza “immaginale” della Terra è sì eterna, ma nel suo divenire ci impegna per intensificare la sua qualità esistenziale. Veniamo coinvolti nella sua trasformazione. Zambrano rende più contemporanea questa concezione attraverso una visione più materialista di quanto non fosse quella persiana medievale. Ma di un materialismo qualitativo dove il Chi è la Terra porta attenzione alla molteplicità delle cose del mondo. Al loro modo qualitativo di darsi. Attraverso il nostro sentire, in cui è coinvolto il corpo, la carne, tutti i sensi (udire, toccare, vedere, gustare). È questo il modo che lei suggerisce per contribuire alla qualità della Terra nel suo divenire, per una trasformazione che dipende in parte da noi e dal nostro coinvolgimento sensibile sensoriale. Emerge una idea di ragione radicata nel sentire.
Mariateresa Muraca: l’attenzione a livelli diversi, compresenti, della realtà, e quindi alla dimensione sognante, onirica e inconscia apre a uno spazio in cui l’essenza delle cose si intensifica ed è possibile cogliere nessi tra creature, che sfuggono ad altre forme di comprensione. Ne scrivi in modo molto bello, quanto di soffermi sul sentire originario che – come spieghi – è un termine intenzionalmente adoperato da Zambrano al posto di inconscio. Scrivi: «In Dell’Aurora Zambrano non richiama, come invece fa altrove, la legge simbolica paterna, che separa e distingue. In questo senso porta la scrittura sulle tracce di un’esperienza sognata e reale allo stesso tempo, in cui ognuno ha una collocazione, che però è misurata da un ordine profondamente diverso dall’ordine della legge. […] Quando tratta della natura come in Dell’Aurora, ne sottolinea l’impronta materna, perché vi è alluso un ordine, che non ha bisogno della legge dell’individuazione. È nel tessuto simbolico materno che il limite tra l’onirico e il sogno è poroso, e per questo è possibile un va e vieni tra l’umano e le cose, tra l’essere umano e l’animale, il vegetale» [11]. L’attenzione per la dimensione inconscia quindi consente di mettere in luce l’asimmetria femminile, come il di più del pensiero delle donne rispetto al riconoscimento delle interconnessioni proprio dell’ecologia. Queste connessioni, infatti, sono espresse e significate dalle donne con uno «sguardo altro, sostenuto dagli aspetti fantasmatici, inconsci, che […] sperimentano con il corpo. Il corpo non è mai davvero “proprio” ma in relazione alla madre alla nascita e al rapporto con altre donne. Il corpo nella generazione. Un corpo aperto costitutivamente all’altro. Infinitamente. Tra simbolico e immaginario» [12].
Chiara Zamboni: è importante avere molta attenzione a una dialettica da trovare sempre di nuovo tra il discorso ecologico, che vede giustamente interconnessioni e relazioni di cui noi facciamo parte, da un lato, e dall’altro l’esperienza femminile di queste interconnessioni. Noi non parliamo di queste interconnessioni del sistema come fanno gli ecologisti cioè come se si guardasse la terra da fuori, da un pianeta lontano. Come se ci si potesse estraniare dai legami contingenti che abbiamo con questo grande tessuto di interconnessioni e vederlo come se fosse un grande oggetto visto dall’alto. Perché ciò che caratterizza il nostro discorso è che, proprio perché ne facciamo parte, ne parliamo dall’interno, a partire dalla nostra posizione. Noi sentiamo le relazioni, e in questo sentire tutto il nostro corpo è coinvolto, tanto è vero che si parla impropriamente di “nostro” corpo perché in realtà è aperto agli altri, alle cose, e questo proprio fin dalla nascita, perché siamo venute e venuti al mondo in relazione alla madre e il processo di soggettivazione avviene a partire da questa relazione iniziale costitutiva. L’esperienza femminile è particolarmente legata al corpo, al suo lato inconscio attraversato da fantasmi e sogni e dai fili invisibili che ci legano agli altri e alle cose. Restando fedeli al corpo, si è fedeli ad una soggettività femminile che si rapporta al mondo con le sue interconnessioni a partire da sé e non dall’esterno, solo guardando il sistema di connessione come oggetto. Come abbiamo imparato nelle pratiche femministe a parlare del nostro corpo soggettivamente e tenendo conto del nostro sentire, così occorre tenere sempre ben presente il filo di questa esperienza soggettiva della natura e del cosmo, per non perdere la qualità in più della nostra conoscenza. E la scommessa sta proprio nel mostrare che non si tratta allora da parte delle donne di relativismo soggettivo, né di chiusura in una identità. Anzi, l’opposto. Perché il sentire fa risuonare i legami con il mondo mettendo in campo conoscenza, percezione e inconscio. Molto di più e di più complesso della semplice conoscenza oggettiva.
Laura Minguzzi: ti pongo anche una domanda sull’autorità femminile. Il sentire è ciò che ci mette in rapporto con l’esperienza, che è potenzialmente significante, e che però ha bisogno di essere dipanata per divenire simbolica. Affinché l’esperienza si dispieghi nel discorso c’è bisogno di assumere autorità per poter dire alcune cose lasciando in silenzio altre, per sapere cosa dire e cosa tacere, dato che l’esperienza è un bene fragile, che può essere distrutto sia interpretandola senza residui, come se non avesse niente di enigmatico, sia distorcendola in significati che la tradiscono.
Chiara Zamboni: il sentire è al centro di questo libro. È il sentire con tutti i sensi, attraversato dalla dimensione onirica, inconscia. Noi sentiamo quando un’esperienza che ci accade è per noi fondamentale, rivelativa. Porta con sé qualcosa che ci attira e che non conosciamo in anticipo. Per questo ha qualcosa di enigmatico. Anche le esperienze più semplici e più evidenti lo sono. Tutte le pensatrici che ho coinvolto in questo libro, ne sono consapevoli. E ci offrono vie per capire come trovare le parole per dire un’esperienza senza tradirla. Portarla a discorso senza distruggere il nucleo enigmatico di verità che un’esperienza che ci accade porta con sé. Tutte sono impegnate in questo, ma non parlano di autorità, che pure mi sembra necessaria. Infatti dire la verità di un’esperienza significa contemporaneamente sottrarsi alle interpretazioni dominanti che già circolano sull’esperienza. Ne ha parlato Luisa Muraro in Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia. È un tema molto importante nella prospettiva politica della libertà delle donne. Salvo eccezioni, le donne trovano in altre donne l’autorizzazione a dire la verità di quel che sentono. È per questo che è ed è stato così importante il femminismo. So che è stato nella politica delle donne che ho trovato l’autorizzazione a trovare le parole per dire l’esperienza.
Anna Maria Piussi: nel libro tu discuti sia anche di posizioni esplicitamente femministe (v. Rosi Braidotti), che riducono anche la vita umana a zoe, intesa come “forza dinamica della vita in sé, capace di autorganizzazione”, forza trasversale che supera gli storici dualismi culturali e consente la pensabilità di un egualitarismo zoe-centrato come nucleo della svolta postantropocentrica. La vita biologica, potenziata e allargata dalle tecnologie, diventa in quest’ottica unica misura dell’umano. La concezione di vita come potenza autonoma e anonima, immanente e in trasformazione, avvicina Braidotti agli antispecisti, che pur riconoscendo le diversità tra specie, le collocano tutte, anche quella umana, indifferentemente nel grande alveo della vita animale. Ne parli in alcune pagine del libro, ma mi piacerebbe qualche approfondimento da te, anche in forza dei risvolti politici di tali posizioni.
Chiara Zamboni: mi ha molto colpito che alcune posizioni femministe contemporanee portino l’attenzione alla vita, ma intesa come vita anonima, impersonale, biologica che risulta interpretante di tutte le forme di vita e le riduce a questo unico piano. Mi ha colpito anche che esse affermino che la posizione della donna è più vicina a questa vita biologica proliferante, perché una donna è coinvolta in una generazione anonima della vita, nell’esperienza della maternità. Si tratta di un proliferare di materia vivente, che si differenza al suo interno ma sempre su base biologica. Questa riduzione della donna e della maternità al puro aspetto biologico, alla pura vita senza specificazioni, è vicina alle posizioni antispeciste, che fanno dell’essere umano e di tutte le altre specie qualcosa di appartenente alla pura vita animale, in quanto viene privilegiato l’aspetto dell’essere corpo tra altri corpi. Le differenze sono ridotte a corpi in divenire. Per queste concezioni tutto è vita, tutto è corpo. In modo indistinto. Le differenze vengono sminuite. Ma, noi sappiamo che la realtà delle differenze è invece fondamentale. Iniziamo dagli esseri umani. Sappiamo che nella gestazione la creatura che viene al mondo ascolta ancora prima di nascere la voce della madre e la sua lingua. Quindi l’essere umano nasce con un corpo segnato dai suoni della lingua materna. Ma pensiamo anche agli animali. Ogni specie ha forme di espressione simboliche e linguistiche molto variegate. Basta leggere un po’ di etologia, ma molto meglio avere un rapporto di amicizia con alcuni animali. Si pensi ai nostri gatti o ai nostri cani. Così anche le api hanno forme simboliche di comunicazione tra loro molto articolate. I delfini hanno un linguaggio giocoso tra loro e anche con gli umani. Fatto anche di finte e di inganni. Io penso anche proprio alle cose, che sono pure corpi in divenire. Nel libro parlo delle cose, dei loro modi singolare di mostrarsi. Chi è attento alle cose, fa attenzione alle forme diverse con cui si espongono allo sguardo, all’udito al tatto. Certo, occorre cambiare il modo di intendere il sentire. Ma pensiamo ai venti. Ognuno di loro ha un modo di risuonare. Ognuno con un loro suono specifico. Lo scirocco è un vento umido, pieno di profumi, denso, trasformatore. Il vento di nordest suona in modo diverso tra le case, perché altra è la direzione che prende rispetto allo scirocco, e suscita allegria. Le cose, toccate, creano esperienze diverse. Quello che vorrei suggerire è che esiste una molteplicità di piani d’espressione non solo umana. Dunque certo siamo corpi, ma corpi che portano al mondo forme simboliche di espressione diverse. Cancellare il piano dell’espressione simbolica a favore solo del corpo è molto pericoloso per tanti motivi. Tra gli altri, allora, non si porta attenzione a come adoperiamo il linguaggio, che può degenerare. C’è un campo di conflitto simbolico e politico su questo all’interno stesso del femminismo ed è bene avere chiari i termini della questione.
Riferimenti bibliografici
Bachmann I., Luogo eventuale, SE, Milano 1992.
Bachmann I, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993.
Conti L., Questo Pianeta, Editori Riuniti, Roma 1982.
Conti L., Ambiente terra. L’energia, la vita, la storia, Mondadori, Milano 1988.
Punta T., Segnali di vita. Diario di bordo dalla scuola, edizioni Junior, Parma, in corso di pubblicazione.
Zamboni C., Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020.
Zamboni C. (a cura di), La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, Moretti & Vitali, Bergamo, 2019.
Note
[1] L’occasione per questo dialogo è stata offerta dalla presentazione del libro presso la Libreria delle donne di Milano il 24 aprile scorso.
[2] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020, p. 58.
[3] L. Conti, Questo Pianeta, Editori Riuniti, Roma 1982.
[4] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., pp. 127-128.
[5] L. Conti, Ambiente terra. L’energia, la vita, la storia, Mondadori, Milano 1988.
[6] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., p. 11.
[7] I. Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993, p. 28.
[8] I. Bachmann, Luogo eventuale, SE, Milano 1992.
[9] C. Zamboni (a cura di), La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, Moretti & Vitali, Bergamo, 2019.
[10] T. Punta, Segnali di vita. Diario di bordo dalla scuola, edizioni Junior, Reggio Emilia, in corso di pubblicazione.
[11] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., p. 109.
[12] Ivi, 67.
(Educazione Aperta – Rivista di pedagogia critica n. 9/2021, 15 maggio 2021)
di Marina Magnani
Relazione introduttiva all’incontro del 19 marzo 2021 a Ravenna
La presentazione del libro La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi era stata programmata con la Casa delle donne di Ravenna più di un anno fa, nel mese di marzo, all’insegna dell’“inviolabilità del corpo femminile”, poi rimandata a novembre 2020 a causa della pandemia, nell’ambito della rassegna “Una società per le relazioni. Strade alternative alla violenza”. A onor del vero ci tengo a precisare che la pandemia non fu la sola causa dello spostamento. In realtà si verificò un disaccordo politico fra le promotrici dell’evento, riguardante il sostegno che Laura e io dichiarammo pubblicamente alla posizione critica espressa da una parte del movimento femminista italiano al ddl Zan. All’interno della Casa delle donne vi fu un netto rifiuto di confronto su alcune tematiche controverse ma che alcune sentivano come irrinunciabili. In seguito la proposta fu ulteriormente spostata a causa della seconda ondata pandemica, ma grazie a una tenace ricerca di nuove interlocutrici siamo riuscite a mantenere questo impegno, che con Laura Minguzzi e Marirì Martinengo avevamo preso da tempo e a cui non volevamo rinunciare. Oggi, 19 marzo 2021, dedichiamo questo appuntamento a tutte le donne che desiderano approfondire e sviluppare il “pensiero della differenza” nella storia, una pratica relazionale che necessariamente parte da sé, in un calendario di manifestazioni che il Comune di Ravenna organizza in occasione del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza alle donne. Con Laura avevo da alcuni anni iniziato una relazione in occasione di un dibattito per ricordare il cinquantenario del ’68, dal punto di vista del movimento delle donne, promosso dal Gruppo Donneversoilmareperto, di cui io faccio parte. La invitai in quanto Laura è originaria di Torri di Mezzano, un piccolo paese del comune di Ravenna e mi incuriosiva il suo percorso politico ed esistenziale, avendo letto che da tempo viveva a Milano e in relazione con la Libreria delle donne. La conobbi, infatti, attraverso il sito della Libreria. Fu un incontro fertile poiché fu proprio in quella serata che lei ci parlò della Comunità di storia vivente, della cui pratica lei stessa è componente attiva, e in me nacque un forte desiderio di saperne di più e approfondire la sua conoscenza.
Di certo non servono date celebrative per sentirsi donna, tuttavia, se è vero che la storia siamo noi, è anche troppo semplice dire che la storia è la somma di tutto quanto è successo dai tempi dei tempi e che conoscerla è un modo per allargare lo sguardo, per uscire dal proprio orizzonte, quando ognuna/ognuno sa benissimo di vivere una sua propria storia. Abbiamo vissuto millenni di storia positivista, tradizionale, anche detta oggettiva, della dominanza del patriarcato, dove i rapporti basati su gerarchie di predominio, supportati dalla forza, dalla paura, dal dolore oggi si devono poter definitivamente interrompere, per trovare un modo di risvegliare, dal coma profondo in cui giacciono, troppo spesso inermi, una politica del nostro corpo, del nostro eros, un desiderio di connessione biologica con la storia della consapevolezza, nel solco già segnato da una parte del femminismo della seconda metà del ’900.
Tra l’altro la storia, se considerata come una forma di oggettività, è già per definizione un distacco dalla vita, è già una certa morte, mentre la conoscenza che muta secondo la nostra coscienza, della nostra lettura degli eventi, del nostro modo di interrogare, e soprattutto di sentire il mondo, può essere capace di porre nuove questioni, fino a diventare un processo che “resuscita i morti”. Gli storici cercano la verità in ciò che è realmente accaduto, ben sapendo che la verità non solo non si possiede ma semmai si cerca insieme con gli altri. Tuttavia, come ben sappiamo, noi donne siamo praticamente assenti dalla storia. E allora, come può esserci verità nella filosofia, nella storia tradizionale se il pensiero e le esperienze delle donne sono assenti? Quindi c’era una volta l’uomo, ma c’era una volta anche la donna, ideatrice oggi di una nuova pratica di autorità femminile, che cerca di mettere in atto il percorso già indicato da María Zambrano (1904/1991), filosofa spagnola del secolo scorso: «per essere veramente umana, la storia deve scendere fin nei luoghi più segreti dell’essere, fino alle viscere, a quella parte meno visibile del nostro corpo, perché quella è il luogo in cui la nostra differenza sessuale mette radici e radica il suo sentire. E il sentire ci costituisce più di ogni altra facoltà psichica: le altre le possediamo, mentre il sentire lo siamo».
Riflettiamo allora sul fatto che il tempo che passa deposita dentro il nostro essere profondo alcune esperienze, che domandano sensibilmente di uscire alla luce, di essere riascoltate, narrate, riconsiderate e rinarrate e immaginiamo che questo processo possa mutare non solo il corso della narrazione della storia ma anche chi l’ha vissuta: quindi con l’audace scommessa che il far emergere – dal varco tra le viscere – elementi apparentemente ignoti, impensabili, imprevedibili arricchisca, di fatto, la storia e il simbolico femminile.
La pratica della storia vivente della Comunità di Milano, iniziata nel 2006, ha prodotto la realizzazione del libro La spirale del tempo, edito da Moretti & Vitali, nella collana curata dalla filosofa Annarosa Buttarelli, preceduto nella stampa dalla pubblicazione degli atti dei Convegni tenutisi tra il 2012 e il 2014. Il libro contiene tre testi teorici e dieci racconti di storia vivente di Marie-Thérèse Giraud, Laura Modini, Giovanna Palmeto, Marina Santini, Luciana Tavernini, Rosy Daniello, Adele Longo, Anna Potito, Katia Ricci, María Milagros Rivera Garretas, nonché di Laura Minguzzi e Marirì Martinengo, nostre ospiti.
Tuttavia, il merito di riconoscere negli scritti l’origine di un nuovo modo di fare storia, una storia a partire da sé, dalla genealogia materna, va dato a una storica medievalista, docente all’università di Barcellona, María Milagros Rivera Garretas, in occasione nel 2005 della presentazione del libro La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, “donna sottratta”, scritto da Marirì Martinengo, che poi sarà considerato il libro istitutivo della storia vivente. In particolare, dalle stesse parole di Marirì: «C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi», María Milagros ebbe la felice intuizione e il coraggio di definire la storia vivente una forma di conoscenza femminile, che lega esperienza, parola e scrittura insieme, mostrando l’intimo legame tra il desiderio per la storia e la propria esperienza personale, che richiede di essere reinterpretata, molto semplicemente perché le interpretazioni date non bastano più. A differenza di quanto avviene nella storia tradizionale, finalmente non è più il soggetto che indaga un oggetto, ma è lo stesso soggetto il documento principale cui attingere, «un corpo pensante, non silente, anzi sentente».
Quindici anni sono passati da quella innovativa proposta politica e storiografica, altre donne si sono aggiunte alla Comunità di Storia vivente di Milano, mentre altri gruppi si sono formati e si stanno formando in diverse città italiane, e anche in quelle di lingua latina nell’America meridionale.
19 marzo 2021
(www.libreriadelledonne.it, 14 maggio 2021)
di Silvia Marastoni
In vista del prossimo incontro zoom con Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi (Libreria delle donne di Milano, 12 maggio 2021, ore 20.30-22.30) pubblichiamo il testo dell’invito rivolto a donne e uomini per dar vita, il 6 marzo scorso, a “Un ponte di corpi”.
Un’iniziativa che ha attraversato l’Italia “dal sud al nord, dall’est all’ovest”, e “si è spinta dentro l’Europa, fra le frontiere”, coinvolgendo 36 diverse città, dai confini occidentali spagnoli a quelli orientali, in Grecia, “mentre una farfalla gialla volava sopra i reticolati”.
La “carrettina verde” che da quasi due anni, ogni giorno, Lorena Fornasir porta in Piazza della Libertà – da lei rinominata Piazza del Mondo – insieme a suo marito, Gian Andrea Franchi e alle volontarie/ai volontari che condividono la loro “impresa” ha “pensato di fare il gesto simbolico e concreto di invitare un gruppo di donne sul confine più violento, più mortifero, quello della Croazia che si erge ad antemurale dell’Europa contro l’estraneo, contro il migrante, il profugo”. Per portare anche lì, su quel confine, la voce e il simbolo di una pratica di accoglienza che è politica della relazione di matrice femminile e materna, fondata sulla cura a partire dai corpi.
“Un ponte di corpi”
C’è un carrettino verde che tutti i giorni si porta sulla piazza del mondo (*) per accogliere chi riesce a varcare il bordo mortifero del confine. Conserva storie di corpi e di dolore e, tra le sue bende e pomate, la memoria di una pratica della cura che le donne conoscono bene. La donna, con il suo corpo pensante, è l’anticonfine per eccellenza. Contiene in se stessa la negazione del confine poiché è un corpo naturalmente aperto alla generatività, alla creatività, al pensiero sorgivo, al perturbante che la abita come intima estraneità. Il carrettino della cura ha scritto un manifesto per convocare donne e uomini a chiedere l’apertura delle frontiere.
Le donne, soprattutto loro, ma non solo, sono chiamate ad assumere il mandato che altre donne, madri, sorelle amiche, compagne, hanno trasmesso in modo tacito alle donne di questo altro mondo che noi abitiamo. Si tratta di una eredità che scorre sul filo del legame che accomuna la nascita, la vita, la sopravvivenza, purtroppo anche la morte ma dove l’amore tiene assieme i legami spezzati da una parte all’altra del mondo. Chi è mandato in salvezza, il figlio o uomo di altre terre, bimbo o minore solo, può trovare altre mani che lo accolgono e lo accompagnano nel desiderio di una vita degna di essere vissuta.
Perché corpi di donne sui confini? Perché il corpo femminile è il corpo attraverso cui si ri-produce la vita e il confine è uno di principali dispositivi che la controlla e la violenta. Perché il confine è profondamente androcentrico, dato che l’antica inferiorizzazione della donna dipende dalla volontà di controllo del maschio che nasce dalla paura della vita e quindi dal bisogno di dominarla.
Il gesto del carrettino verde, in verità una carrettina dedita alla cura, è un gesto che rimanda alle radici arcaiche del dominio dell’uomo sulla donna, di cui il confine è oggi un dispositivo caratteristico in quanto impedisce il libero movimenti dei corpi che vengono da luoghi di morte, di cui l’Occidente porta la responsabilità.
Noi vogliamo portare un segno di vita sul confine e contemporaneamente in molti luoghi in cui donne e uomini si riconoscono nella pratica della cura. Dopo più di un anno passato a curare centinaia di corpi, di piedi di cammino, feriti dal cammino, dall’impedimento del cammino, dall’inseguimento di chi cammina proveniente da luoghi di morte per cercare di vivere una vita degna, il carrettino verde ha pensato di fare il gesto simbolico e concreto di invitare un gruppo di donne sul confine più violento, più mortifero, quello della Croazia che si erge ad antemurale dell’Europa contro l’estraneo, contro il migrante, il profugo, che viene spinto dal suo bisogno-desiderio di vita, a dirci, ben al di là della sua consapevolezza, che anche noi non viviamo se abbiamo paura di lui, che la nostra vita agiata è ben misera cosa se non sa aprirsi all’altro, se non è un tessuto di solidarietà.
Con il nostro corpo di donne su un confine di morte vogliamo dire che il migrante è portatore di vita, ciò che va ben oltre la ricerca di un luogo in cui poter lavorare e vivere tranquillamente e che l’accoglienza è un gesto di vita non solo verso i migranti ma verso di noi, verso tutti.
Noi siamo coloro che dicono no alla paura e all’odio per lo straniero, per il diverso, per l’altro, perché da sempre noi donne siamo state considerate inferiori all’uomo.
Noi siamo coloro che maledicono i confini perché quelle strisce di terra o di mare sono bagnate di sangue, selezionano chi può passare e chi no, chi può vivere e chi può morire, chi può essere torturato e chi può essere deportato.
Noi siamo coloro che vogliono gridare la voce della maternità, che è la voce della solidarietà, della vita che donne di altre terre hanno generato, consegnandola alle donne di questo mondo affinché la conservino e la promuovano.
(*) Piazza Libertà di fronte alla stazione di Trieste è il luogo dove arrivano i migranti dalla rotta balcanica
(www.libreriadelledonne.it, 7 maggio 2021)
di Luisa Muraro
Desidero far risuonare anche nel sito della Libreria un importante consiglio della linguista Cecilia Robustelli, profondo, semplice e impegnativo, che mi è capitato di ascoltare. Dice: occorre nominare le donne e usare il femminile, prendendo le distanze dall’utilizzo di simboli neutri. I sessi sono due, le donne vanno valorizzate e nominate con la lingua esistente.
(www.libreriadelledonne.it, 19 aprile 2021)
di Laura Minguzzi
Ricordo in sintesi i fatti: all’incontro di Ankara del 7 aprile scorso, una signora in giacca fucsia, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, rimane in piedi, senza sedia, e nessuno gliela porge. L’inatteso della differenza sessuale ha colto Charles Michel di sorpresa e ha messo in evidenza l’inadeguatezza di una politica maschile.
«Il 20 marzo la Turchia, con decreto presidenziale, è uscita dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. […]
Che altro può accadere? Il cerimoniale dell’incontro di Ankara è stato definito con un delegato del gabinetto del Presidente del Consiglio europeo. Per questo è giusto chiamare in parlamento Michel per un chiarimento, come ha fatto la capogruppo dei Socialisti e Democratici Iratxe García. “Non accettiamo che le nostre istituzioni debbano prostrarsi di fronte a un regime ostile allo stato di diritto”. […] Una bruttissima pagina per l’Europa che però svela una fragilità ancora più grave, quella di un continente vittima degli egoismi nazionali.»
Ecco alcuni stralci di un articolo di Massimiliano Smeriglio dal Manifesto di sabato 10, che offrono al nostro sguardo un quadro e una lettura, comuni alla gran parte della stampa occidentale, dell’umiliazione subita da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea.
Proviamo a spostarci su un altro scenario, sbilanciamoci dalla parte di un’Europa e non solo, dove le donne sono ovunque e disegnano contesti, politiche e orizzonti non delimitati da confini nazionalistici o patriottici e il nostro sguardo vedrà tutt’altro quadro. Nasce da questa consapevolezza, che esiste altro, il grande scompiglio e la grande indignazione che il mancato riconoscimento dell’autorità di Ursula von der Leyen ha provocato in me e in mezzo mondo.
Se usciamo dalla gabbia dei diritti e dalle griglie dei protocolli, possiamo vedere come sia stata volutamente obliterata la svolta che alcune donne, in varie posizioni di potere, con determinazione hanno prodotto nella visione dell’Europa. Per esempio, Ursula von der Leyen è stata la promotrice nel suo ruolo di presidente della Commissione dell’Unione della Cura: una priorità che assume un significato simbolico oltre che economico. Un programma europeo che pone in primo piano non i diritti astratti ma ciò che Simone Weil chiamava gli obblighi dell’anima. La fisica soprannaturale che mette al centro la fisicità dei corpi e delle relazioni che fanno società. Non a caso anche Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, in una recente intervista citava le sue telefonate con la cancelliera Angela Merkel e con la stessa Ursula von der Leyen come una differenza qualitativa della loro modalità di agire e governare. Abbiamo a che fare dunque con i fondamenti del vivere e non si tratta di uno sgarbo personale che si può rimediare con una telefonata di scuse o altre argomentazioni di carattere sostanziale. Nel Sole 24 ore di sabato scorso, Michel ha sottolineato quanto abbiano pesato sul suo comportamento poco civile le preoccupazioni sulla posta in gioco geopolitica dell’incontro con Erdoğan, a lungo preparato a Bruxelles, per cercare di modificare i Trattati e la politica aggressiva e ricattatoria del governo turco riguardo a varie crisi in atto (migratoria, energetica, pandemica ecc.). L’atto mancato di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, Freud insegna, è stato la rivelazione di una complicità simbolica fra due uomini di potere che, benché appartenenti a due sistemi politici e a due religioni differenti, sono entrambi affetti dalla stessa cecità: non vedono e se vedono, non comprendono o non accettano ciò che la realtà offre al loro sguardo: il mondo è cambiato e la pandemia ha tolto gli ultimi veli di nebbia. Le donne esistono, agiscono e hanno parola sulla scena pubblica a tutti i livelli, a dispetto della parità non raggiunta, e bisogna farci i conti, volenti o nolenti. Il fatto che nelle istituzioni europee sia presente questa diarchia irrisolta, che non tiene conto di due soggetti asimmetrici, fra Commissione europea e Presidenza del consiglio europeo non potrà che produrre altre tensioni e “incidenti” oltre che allontanare la soluzione dei problemi e il miglioramento della vita dei suoi abitanti. Nell’intervista al Sole, Michel parla di pari legittimità di entrambe le istituzioni e del fatto che ci saranno sempre tensioni e l’Europa deve trovare il modo di camminare su queste due gambe. D’accordo, ma resta il fatto che a capo della Commissione oggi siede una donna ed è evidente che proprio questo fatto elementare ed epocale crea la complessità che non si vuole vedere e considerare.
(www.libreriadelledonne.it, 13 aprile 2021)