di Marta Equi Pierazzini
«Si può dire che tutta la drammaticità, la fatica, il peso dell’andare contro corrente, lo sconquasso nelle proprie vite personali, nei rapporti perché fossero più veri, adesso non va di ripeterlo. Chi vuole lo legga nei libri, però sappia che c’è stato. […] Se uno tiene troppo a mente la fatica che ha fatto, cosa ci ha rimesso, è meglio che a un certo punto guardi cosa ci ha guadagnato, cosa gliene è venuto di buono. Che cosa sarebbe stato, dio ne guardi, se quell’operazione non fosse stata fatta. E allora, adesso, basta parlare del costo. E uno parla proprio, invece, della merce: quanto era proprio bella, pregiata e che non aveva prezzo, praticamente.» (Carla Lonzi, 1982)
Carla Lonzi pronuncia queste parole a marzo dell’82, in dialogo con la compagna di Rivolta Femminile Jacqueline Vodoz, a bilancio di una vita, come riportano nella sua biografia Marta Lonzi e Anna Jaquinta, in apertura del volume di poesie Scacco Ragionato. Morirà pochi mesi dopo, il 2 agosto: oggi sono 40 anni dalla sua morte.
La vita luminosa di Carla e il suo pensiero fiammeggiante mi accompagnano, ci accompagnano sempre.
L’analisi e il commento sui molti aspetti del lavoro di Carla, li lascio ai diversi studi specialistici usciti negli ultimi anni (a partire dalle seminali ricerche di Maria Luisa Boccia), impegnati a raccontare, da molteplici punti di vista, la traiettoria complessa di questa pensatrice. Adesso non va di ripeterlo, come dice Lonzi.
Qua vorrei soffermarmi su un unico punto. Carla non solo lavorò strenuamente per la libertà femminile, per la differenza femminile e per il suo riconoscimento, ma si dedicò anche, e con continuità, a una critica appassionata al mondo della cultura e alle micropratiche dei suoi attori principali, come campo che effettivamente potrebbe fare la differenza e che spesso abdica al suo potenziale di cambiamento per diventare dispositivo di riproduzione tacita del potere. Lo fa analizzando non solo i testi del pensiero ma vagliando la “credibilità del processo”[1] con cui i prodotti culturali sono creati così come le pratiche quotidiane degli artisti, giornalisti, editori, scrittori con cui entra in contatto.
Il pensiero di Carla Lonzi è carne viva, non materia fumosa di un mito da celebrare o di un contenuto esoterico da riscoprire, e può essere ricordato solo riportandolo al concreto di ogni giorno.
In quest’ottica, dell’articolo “Indagine su Carla Lonzi, femminista dimenticata”, di Nicola Mirenzi, Il Venerdì di Repubblica, 29 luglio, c’è un passaggio in particolare che vorrei commentare, proprio a partire dal dimenticata del titolo.
Giovanni Agosti (Statale Milano) “è uno dei pochi” a inserire Lonzi nei programmi di studio, si legge.
Forse l’autore intende uno dei pochi accademici (andrebbe comunque ricordato il lavoro di Michele Dantini e di Francesco Ventrella) perché in verità, quando si parla di Carla Lonzi dalla prospettiva disciplinare della storia dell’arte il contributo di pensiero, scrittura e didattica delle Professoresse Laura Iamurri e Lara Conte (Roma Tre) è imprescindibile. Ma potrei anche citare Linda Bertelli, Lucia Cardone, Barbara Casavecchia, Lucia Farinati, Vanessa Martini, Raffaella Perna, Elvira Vannini, Angela Vettese, Giovanna Zapperi, solo per rimanere negli ambiti che gravitano intorno alla storia dell’arte e agli studi sulle immagini (e a studiose di madrelingua italiana, sebbene non tutte lavorino solo in Italia). Altri nomi di studiose andrebbero fatti se allargassimo il campo ad altre discipline: oltre a Maria Luisa Boccia e Annarosa Buttarelli, filosofe che l’articolo menziona, anche Sandra Burchi, Ida Dominijanni, Liliana Ellena, Monica Farnetti, Manuela Fraire, Luisa Muraro, Vinzia Fiorino, Debora Spadaccini e molte altre ancora; tante altre che lavorano al margine e negli interstizi tra discipline, cosa che ancor di più non aiuta il riconoscimento, e naturalmente quelle che fanno il lavoro del pensiero fuori dall’Accademia (per esempio le artiste, penso a Claire Fontaine, Chiara Fumai, Silvia Giambrone o le curatrici, come per esempio Cecilia Canziani, Francesca Pasini, Paola Ugolini), e poi ancora i luoghi delle donne, che al pensiero e memoria di Lonzi si dedicano. Ed ecco che il campo si allarga, lo spazio[2] si anima…
Che la scholarship su Lonzi non sia vasta è vero, ma nel fare l’esempio delle eccezioni che si sono dedicate a lei, omettere tutti i nomi femminili, seppur senza pensare di far dolo, funziona come dispositivo silenziatore, ancora una volta, del lavoro del pensiero e della vita delle donne, si cancella il loro spazio di visibilità e dunque di potenziale memoria.
Se davvero si vuole che l’eredità di Lonzi non vada perduta bisogna che chi dice di occuparsi di cultura si impegni nel concreto a cambiare le proprie pratiche quotidiane e a custodire così, con cura, la possibilità che vi sia spazio per la voce e la soggettività delle donne, non soltanto nel ricordo, seppur dovuto.
Scrive Lonzi nel 1978: “Mi rendo conto, siccome la cultura esistente è quella maschile, succede che quello che noi scopriamo fuori, va a finire che l’uomo se lo piglia e lo mette, malamente, nella sua cultura. Siamo sempre state derubate così, magari senza accorgercene”.[3]
(www.libreriadelledonne.it, 2 agosto 2022)
[1] Testo senza titolo pubblicato in Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959, catalogo della mostra, Paris, Centre Georges Pompidou, 25 giugno – 7 settembre 1981, a cura di Germano Celant. CNAC/Centre George Pompidou e Centro Di, Paris/Firenze 1981. Testo in lingua originale in C. Lonzi, Scritti sull’Arte, Et/Al EDIZIONI, Milano 2012, a cura di Lara Conte, Laura Iamurri, Vanessa Martini, pp. 653-654.
[2] Nello scrivere questo paragrafo penso al lavoro di Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Einaudi, 2022
[3] C. Lonzi, Taci, Anzi, Parla, Scritti di Rivolta Femminile, 1978.
di Luciana Tavernini
In paesi a regime parlamentare la proposta di un disegno di legge innovativo indica che una parte dell’opinione pubblica ha preso coscienza dell’ingiustizia di una determinata situazione e, con la discussione che suscita, permette di sviluppare il dibattito.
Ho dunque accolto favorevolmente la presentazione al Senato del DDL S. 2537 soprattutto perché, sul modello neoabolizionista, amplia la legge Merlin prevedendo la punibilità del prostitutore, colui che paga per avere accesso al corpo di una donna, e istituisce fondi per chi desidera uscire dal sistema prostitutivo, soprattutto donne e bambine. Infatti «i dati raccolti da United Nation Office on Drugs and Crimes (UNODC) nel Global Report on Trafficking Persons del 2018 mostrano come su un campione di 12.162 donne vittime di traffico di persone, ben 77% di esse sono trafficate a fine di sfruttamento sessuale nel mercato della prostituzione, mentre tra le bambine e le ragazze, su un totale di 4.863 vittime accertate, il 72% è trafficato per lo stesso fine e destinato allo stesso mercato». Inoltre «i dati pubblicati dalla Commissione europea nel 2018 mostrano che tra le vittime di tratta per sfruttamento sessuale, ben il 95% è composto da donne e bambine».*
Quando sentii parlare per la prima volta della legge svedese che dal 1999 considera il prostitutore colpevole di violenza, quindi da punire, e che ha ridotto del 65 % il numero di persone in prostituzione, il primo effetto fu di incredulità, ma poco dopo fu di chiarificazione.
Dalla lettura del libro Stupro a pagamento di Rachel Moran, una delle sopravvissute al sistema prostitutivo, e direttamente da lei, avendo avuto la possibilità di conoscerla personalmente e di ascoltarla anche nella sua video-intervista a Nuccia Gatti No room inside me for me, avevo imparato che la prostituzione è uno stupro a pagamento. Produce forme di dissociazione nelle prostituite, oltre alla riduzione della loro speranza di vita, e dunque la prostituzione è un delitto contro la persona.
Può allora la legge lasciare impunito colui che produce questa riduzione a merce del corpo femminile, spezzettandolo e separandolo dalla pienezza dell’unità della persona?
Certo che le pretese maschili di considerare le donne corpi a loro disposizione sono dure da smantellare. Basta pensare che solo dal 1996 lo stupro in Italia è diventato reato contro la persona, mentre prima la donna non veniva neanche presa in considerazione perché lo stupro era considerato solo come delitto contro la morale.
Carla Corso, che aveva fondato nel 1982 il Comitato per i diritti delle prostitute per protestare contro le violenze di cui erano autori impuniti i militari della base statunitense di Aviano, nel libro scritto con la sociologa Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, descrive la sua esperienza, ne mostra i pericoli ed è ben consapevole che nello scambio prostitutivo non è previsto il piacere femminile.
Ma una modalità di relazione tra uomini e donne che non preveda la ricerca del piacere di lei può essere chiamata sesso?
Lo scambio di denaro giustifica la privazione del piacere di lei e la trasforma in lavoro?
Non basta che passi del denaro perché sia rispettata la dignità del lavoro, come conferma la sentenza n. 141 del 2019 della Corte Costituzionale.
Chiamare la prostituzione Sex work è dunque solo una ripulitura della terza industria illegale dopo quella della droga e della vendita di armi. Una ripulitura simile al chiamare gli schiavi “addetti alle piantagioni” come proponeva uno schiavista contrario all’abolizione della schiavitù. Infatti il titolo del libro, che guarda con grande attenzione alla situazione italiana, afferma con forza che la prostituzione è: Né sesso né lavoro.
Se dunque è una violenza maschile contro le donne, perché non dovrebbe essere prevista una punizione per chi la mette in atto? La legge, soprattutto per gli uomini, discrimina tra ciò che è lecito e perciò si può fare, e ciò che è proibito.
Julie Bindel, autrice di Il mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, un’inchiesta a livello mondiale con oltre 250 interviste a persone coinvolte a diverso titolo nella prostituzione, invitata in un recente convegno organizzato al Senato, ha raccontato un episodio capitatole mentre volava verso New York, seduta tra un giovane svedese e uno olandese. Il primo sentiva che la prostituzione avrebbe sminuito anche lui e i suoi rapporti con le donne, il secondo la considerava un divertimento lecito senza curarsi delle conseguenze sulle donne.
Perché non usare una legge che punendo indica agli uomini che comprare l’accesso al corpo femminile non è lecito?
Certamente vi sono uomini che sanno capire quando una loro azione fa del male, che sanno come il piacere sia più grande quando è scoperta insieme della diversa sessualità di entrambi. Che sanno cos’è l’irrinunciabile per la dignità del lavoro e che, quando viene lesa per le donne, anche per loro è a rischio. Uomini che si sono modificati in relazione con donne che, amando sé stesse, sanno amare e farsi amare. Sapranno questi uomini, nel dibattito che già questa proposta sta suscitando perché tocca gli interessi delle lobby che lucrano sul corpo delle donne, far sentire quanto la prostituzione riguardi anche loro?
(*) Questi dati sono citati nella relazione introduttiva al DDL S. 2537 XVIII Leg., Modifiche alla legge 20 febbraio 1958, n. 75, e altre disposizioni in materia di abolizione della prostituzione
– Julie Bindel, Il mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, VandA.epublishing, 2019
– Carla Corso, Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, Giunti, 1991
– Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, VandA.epublishing, 2019
– Rachel Moran, Stupro a pagamento, Round Robin, 2018
– Caterina Gatti, No room inside me for me, docufilm, 36’, 2021, per informazioni nuccia.gatti@gmail.com
– Prostituzione, l’Italia è pronta per il modello nordico? Confronto tra modelli legislativi UE e presentazione del progetto di rafforzamento della legge Merlin, Convegno al Senato su iniziativa della senatrice Maiorino https://youtu.be/uxQTBL0HGfQ L’intervento di Julie Bindel è a h.1’30”
– La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti. Redazione allargata di Via Dogana 3, 6 ottobre 2019. Nel sito della Libreria delle donne gli articoli sul tema.
(www.libreriadelledonne.it, 18 luglio 2022)
di Stefano Sarfati Nahmad
Era gennaio 2009, suona il telefono: “Pronto, sono Lisetta Carmi, Stefano? Ho letto il tuo articolo sul Manifesto Ascolta Israele e volevo dirti che mi è piaciuto molto”.
Era la voce di una persona già di una certa età, sicura di sé e quello che mi stava offrendo non era un apprezzamento ma un’autorevole approvazione.
Mi disse che anche lei era di origine ebraica e che come me era assolutamente indignata dalla politica israeliana.
Ci incontrammo a Milano e mi raccontò la storia della sua vita, che da ragazza aveva studiato il pianoforte ad alto livello facendo anche concerti, ma che poi l’aveva abbandonato per la passione politica; che aveva fatto la fotografa; che in India il suo maestro Babaji le aveva detto che doveva aprire un ashram a Cisternino, cosa che infatti fece. Ricordo che mi sembrò strano dall’India andare proprio a Cisternino, provai anche a chiedere una spiegazione ma il suo era il linguaggio mistico indiano non razionale occidentale così rinunciai.
La rividi una seconda volta a Cisternino, un’estate che ero in vacanza in Puglia. Parlando con lei cercavo i segni della fotografa dei travestiti dei vicoli di Genova, ma oramai parlava più come un santone indiano, diceva di aver vissuto diverse vite.
Ho capito dopo che quella telefonata nel gennaio del 2009, in cui parlava la Lisetta dell’impegno politico, arrivava da una vita precedente.
(libreriadelledonne.it, 10/7/2022)
di Anna Di Salvo
Nell’estate del 2000, donne di Catania, Catanzaro, Milano, Foggia e Roma, si trovarono insieme nell’incontro stanziale “Politica con vista”, al centro valdese Adelfia di Scoglitti (Ragusa), per dare vita alle Città Vicine: un tessuto di relazioni tra donne e qualche uomo di città diverse che da allora in poi, nei ventidue anni di attività, hanno “riedificato” le città, divenute man mano più di trenta, alla luce del desiderio femminile.
Tra le organizzatrici di quell’incontro e le fondatrici delle Città Vicine nel luglio 2000 c’era Vivien Briante, che nel maggio scorso è stata strappata a questo mondo lasciandoci sgomente e addolorate. Vivien è stata una femminista brillante e attiva nel progetto del Se-No del gruppo Le Lune (dal 1987 al 1992) e nel divenire della politica delle relazioni della Città Felice a Catania. Infatti dal 1992, insieme ad altre donne di Catania, con La Città Felice avevamo alimentato la nostra passione politica con il pensiero e la pratica della differenza sessuale, seguendo l’elaborazione e il percorso della Libreria delle donne di Milano che avevamo avuto modo di conoscere e approfondire nei convegni al Centro Virginia Woolf di Roma e al Circolo della rosa di Milano nella sede di via Correnti nonché ai campi valdesi di “Agape”. Proprio in quel periodo prese l’avvio anche la nostra collaborazione con la rivista “Via Dogana” che si proponeva con una edizione rinnovata e ricca riguardo alle esperienze e al pensiero: un importante stimolo per noi, anche grazie alle presentazioni mensili dei numeri della rivista che organizzammo a Catania, di crescere politicamente e creare autorità in città per l’originalità di pensiero e pratiche che proponevamo e mettevamo in essere.
Fu quindi dal 1987 al 2005 un lungo periodo di attività politica trascorso con Vivien Briante, molto intenso e appassionato in cui vennero prodotti scritti, iniziative e mostre… Poi, con grande dispiacere da parte mia e di molte, Vivien prese la decisione di lasciarci e dedicarsi principalmente alla Chiesa Valdese di Catania, e profuse il suo impegno per consolidarne la fertile attività, nonché collaborare alla divulgazione e alla valorizzazione della dottrina valdese a Catania. Il suo modo disciplinato e intelligente di condurre la pratica e l’elaborazione politica insieme ad altre e altri sia nell’ambito delle Città Vicine che della Città Felice, rimane una modalità e un riferimento prezioso del quale le donne e gli uomini che l’hanno conosciuta e lavorato con lei sapranno tenere conto e fare tesoro.
(www.libreriadelledonne.it, 6 luglio 2022)
di Donatella Massara
Questa è la notizia che mi è stato proposto di pubblicare sul gruppo Facebook La Biblioteca femminista.
«Marie-Claire Chevalier è morta.
Quel nome probabilmente non dirà molto. È però l’origine di una delle più grandi leggi femministe, nel senso nobile del termine, del Novecento.
Marie-Claire è stata stuprata all’età di 16 anni. Da questo stupro, rimane incinta e decide di abortire. Visto che questo atto era illegale in Francia all’epoca, viene denunciata dal suo stupratore e la fantastica Gisèle Halimi, avvocata, difende Marie-Claire in un processo che si svolge nel 1972. Il processo di Bobigny. L’effetto mediatico è mostruoso, Marie-Claire viene assolta, e la legge Veil che consente la IVG [interruzione volontaria di gravidanza, Ndr] sarà adottata il 17 gennaio 1975. Liberando così Marie-Claire e migliaia di donne del passato, presente e a venire.
Quasi 47 anni dopo l’approvazione di questa legge, Marie-Claire è morta e ha raggiunto Gisèle e Simone (Simone Veil, ministra della sanità francese che varò l’omonima legge, NdR).
Grazie ragazze.»
Grandissime!!! Avevo 22 anni quando nel marzo del 1973 distribuii “fra le donne del quartiere” il volantino che raccontava la battaglia di Gisèle Halimi con Marie-Claire Chevalier e Simone de Beauvoir. Iniziava la lotta per la libertà di aborto, per una gravidanza decisa dalle donne per l’auto determinazione del corpo femminile. Allora ero una ragazza. Mi dichiaravo femminista da alcuni anni. Non conoscevo le donne di via Cherubini che fonderanno poi la Libreria delle donne. Ero una lupa solitaria. Non ricordo neanche da chi fosse stato stampato quel volantino, probabilmente dal Partito radicale. Non mi importava. Sapevo che quanto stava succedendo andava bene, molto bene.
Sapevo che eravamo oltre i diritti perché il diritto deriva da un’affermazione contro un sopruso, da una potenza politica o è una spartizione. Sul corpo femminile e la gravidanza NON si legifera, le donne decidono del proprio corpo e di se stesse. Di questo ero convinta. Logico. Non sapevo che alle donne del quartiere stavo dando una bomba simbolica da lanciare contro il potere soprattutto maschile. O meglio: stavo dando un taglio simbolico dal potere maschile. Quello che è stato messo in scena in questi giorni di abrogazione americana del diritto di aborto. Il taglio simbolico c’è stato. Non c’è ricucitura possibile. Lo stiamo vedendo.
(www.libreriadelledonne.it, 4 luglio 2022)
di Umberto Varischio
Dopo la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti su quello che semplicisticamente viene definito il “diritto di aborto”, ho cercato sui giornali italiani qualche articolo scritto da un uomo che riflettesse sull’accaduto e cercasse di farlo eventualmente partendo dalla propria esperienza.
Debbo dire che articoli “al maschile” ne ho trovati diversi, ma tutti (salvo quello di Alberto Leiss sul Manifesto del 28 giugno) avevano un’impostazione simile a quello di Paolo Giordano sul Corriere della Sera di sabato 26 giugno 2022. Un articolo magari condivisibile nei contenuti: la difesa dei diritti delle donne, l’analisi dei pregiudizi maschili sull’aborto, ragionamenti su cosa significa per una donna intraprendere il percorso per effettuare un aborto (sic!), ragionamenti sulla messa in discussione di questo diritto che non tocca solo le donne, ma anche gli uomini ecc. Qualche uomo, negli USA, si spinge fino a essere disponibile a cedere la sua identità digitale per evitare alla donna il pericolo di essere individuata quando si dovesse recare in un altro Stato per eseguire l’aborto o per acquistare la cd. “pillola del giorno dopo”. Tutte posizioni condivisibili ma…
Un passaggio dell’articolo di Giordano riguarda (finalmente, ho pensato leggendolo) la questione del rimosso: «A più di quarant’anni dall’approvazione della 194, l’aborto è ancora qualcosa di cui non si parla, mai, neppure in privato, con la sola eccezione degli ambienti femministi. È un rimosso obbligatorio non solo per le donne che lo affrontano da sole ma perfino per le coppie stabili». Letto, mi sono ricreduto: il rimosso era solo questo?
Quello che cercavo in questi interventi, e che non ho trovato, era un ragionamento che partisse dal concepimento (che in questo caso è un concepimento a due, una donna e un uomo), atto che non dovrebbe essere visto come un accadimento quasi inevitabile, un evento naturale che porta necessariamente alla nascita di una nuova vita.
Ma quello che non ho trovato, nell’articolo di Giordano e negli altri, è stato un ragionamento sulla sessualità maschile e sul ruolo di noi maschi nella contraccezione. Se esiste un rimosso in questo evento, secondo me, è proprio questo.
(www.libreriadelledonne.it, 27 giugno 2022)
di Grazia Villa
I commenti di Laura Colombo e Tiziana Nasali all’intervento di Federica D’Alessio sul disegno di legge presentato dalla senatrice Alessandra Maiorino, ispirato al cd. modello nordico, recentemente pubblicati sul sito della Libreria, mi spingono a prendere parola ancora sul tema prostituzione.
Un percorso politico
Dagli incontri in Libreria delle donne del 2018 e dopo la diffusione di Stupro a pagamento di Rachel Moran e di Il mito Pretty Woman di Julie Bindel sono nate e cresciute relazioni, pensieri e azioni politiche.
Un dibattito sempre aperto: dalla domanda Quanto ci tocca la prostituzione? del saggio di Luciana Tavernini nel libro Né sesso né lavoro all’affermazione «la prostituzione ci riguarda tutti e tutte» dell’incontro di Via Dogana 3.
Con le molte presentazioni di questi tre libri si sono rafforzate le relazioni già esistenti, come quella con le attiviste di Resistenza Femminista, e ne sono sorte di nuove con donne di altre associazioni e gruppi femministi, non già come mero agglomerato di sigle, ma attraverso relazioni duali che si sono consolidate e hanno determinato uno spostamento di orizzonti e un agire politico condiviso. Tra queste: la nascita all’interno dell’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne del gruppo Prostituzione che ha messo a tema il rapporto tra religione, patriarcato e prostituzione; la costruzione di una Rete abolizionista, con la stesura di un Manifesto per abolire la prostituzione.
Lo spostamento maggiore credo sia stato determinato dalla scelta di dare autorità alla parola delle sopravvissute e di organizzare con loro seminari e incontri on line, di andare nelle scuole per coinvolgere ragazze e ragazzi e infine di prendere in esame anche le proposte di legge abolizioniste, compresa ora quella presentata dalla senatrice Alessandra Maiorino.
Non è la prima proposta ispirata al modello nordico, come ho avuto modo di analizzare in Né sesso né lavoro, ma oggi assume un carattere di originalità forse più che per alcuni contenuti, per l’iter seguito nella sua stesura.
La presentazione del ddl trae origine, per la prima volta dopo l’approvazione della legge Merlin, da una poderosa indagine del Senato e da una lunga serie di audizioni, sulla spinta degli esiti della sentenza della Corte costituzionale del 2019 che ha riaffermato la legittimità della stessa legge Merlin, riconoscendo di fatto la sua attualità e applicabilità.
Prima di giungere al deposito del disegno di legge sono stati organizzati numerosi confronti, anche vivaci, che hanno coinvolto molte donne impegnate nella lotta per l’abolizione della prostituzione, la maggior parte slegate dall’appartenenza politica della stessa senatrice.
Ho avuto modo di partecipare a questi incontri, tutti diretti ad analizzare il fenomeno prostitutivo, dove sono stati ribaditi i suoi legami con il patriarcato e le logiche mercantili e si è affermato con forza che nessuna distinzione può essere introdotta tra prostituzione libera o coatta, entrambe basate «sulla taciuta disponibilità del corpo femminile per un maschio pagante». È stata assunta soprattutto la forte nominazione dell’atto prostitutivo come stupro a pagamento, come atto di sopraffazione violenta in sé, indipendentemente dalle circostanze in cui si consuma, con la conseguente scelta di smascherare la falsa rappresentazione del sex work.
Da qui l’interrogativo sulla necessità o meno di modificare la stessa legge Merlin e sull’opportunità di introdurre in Italia il “modello nordico”.
Anche all’interno di questo dibattito si è posta la questione messa a fuoco negli articoli di Laura Colombo e di Tiziana Nasali, spesso sollevata direttamente da parte mia, sull’efficacia di un rafforzamento del sistema sanzionatorio in materia di prostituzione e sulla necessità di allargare la fattispecie di reato prevista dall’art. 3 della legge Merlin con l’introduzione di uno strumento repressivo che non riguardasse solo i reati connessi allo sfruttamento della prostituzione, bensì anche il mero acquisto di prestazioni sessuali.
L’interrogativo riguarda tutte le conseguenze giuridiche da trarre, una volta abbracciata la definizione di stupro a pagamento e di violenza sessuale per l’atto prostitutivo, consegnatoci dalle donne sopravvissute al sistema prostitutivo. Tutto ciò rispetto all’ordinamento esistente, al diritto penale e alla sua efficacia deterrente, a normative fortemente segnate dal diritto sessuato al maschile, al rischio del legiferare sui corpi delle donne.
L’esperienza maturata da molte di noi in materia di violenza contro le donne (sessuale, domestica, psicologica, economica) fino al femminicidio, circa la problematicità del rapporto tra diritto punitivo dei comportamenti maschili e la mancata diminuzione dei reati, tra la condanna sociale che passa dalla censura di una codificazione alla reale presa di coscienza degli uomini del disvalore della violenza maschile, ci metteva in guardia sulla scelta di optare per una nuova fattispecie di reato, ma non poteva esimerci dal confronto con lo strumento penale, una volta acceduto al termine… “stupro”.
Il dubbio riguardava la valutazione proprio dello spostamento, anche sul piano simbolico, del focus dalla “vittima” al “cliente” (tutti termini virgolettati perché pronunciati solo per poi bandirli) attuabile attraverso la sanzione, pur se graduata, del cd. acquisto di prestazioni sessuali: se, come e quanto possa contribuire ad aumentare una possibile presa di coscienza degli uomini prostitutori, nella certezza comunque che nessuna legge possa sostituire tale processo di autocoscienza!
La legislatrice ha sottoposto, anche su questo punto, il testo di legge al vaglio di sopravvissute, giuriste, operatrici dei centri antiviolenza, esperte sulle diverse applicazioni del modello nordico in Svezia, Norvegia, Francia.
Dopo una prima direzione di proporre una nuova legge in materia di prostituzione, anche grazie a questi serrati confronti, la scelta è stata quella di salvaguardare non solo lo spirito, ma anche l’impianto della Legge Merlin, ritenuta non sacrificabile, ancora attuale, un vero e proprio faro non solo nella disciplina in materia, ma anche per la sua posizione rivoluzionaria sul rapporto tra i sessi.
La decisione pertanto è stata quella di mantenere intatta la disciplina dell’art. 3 della stessa legge aggiungendo un art. 3/bis che prevede l’introduzione della punizione di chi «compie atti sessuali con persone che esercitano la prostituzione, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità».
In un primo tempo con la sola sanzione amministrativa, seguita da una ammonizione prefettizia in caso di comportamenti “non episodici”. La sanzione penale scatterebbe successivamente in seguito alla reiterazione di tali comportamenti, in violazione della stessa ammonizione prefettizia.
Non tutte queste soluzioni di tecnica legislativa sono state condivise, alcune potrebbero ancora comportare dei correttivi in sede di approvazione del disegno di legge.
In particolare le osservazioni sollevate da parte di alcune di noi avvocate riguardano la decisione di ricorrere al meccanismo dell’ammonizione prefettizia, già utilizzato per lo stalking e rivelatosi pressoché fallimentare, nonché ai percorsi di recupero del prostitutore assimilati a quelli destinati alla violenza (ahimè ormai definita di genere), che non sempre hanno portato frutti di cambiamento né comportamentale, né sociale, soprattutto se utilizzati malamente come scorciatoie rispetto all’applicazione della pena e quindi eliminando anche l’effetto deterrente della stessa.
Quindi alcune delle osservazioni e criticità espresse negli articoli pubblicati sul sito della Libreria sono non solo condivisibili, ma sono state oggetto di esame e hanno trovato soluzioni a volte accettabili, altre ancora perfettibili.
Interrogativi per un confronto
Qui vorrei riprendere invece le argomentazioni che mi hanno lasciato perplessa e che mi inducono a porre ulteriori interrogativi per riaprire eventualmente un confronto libero.
– Il dibattito sulla prostituzione riguarda il tema della libertà sessuale (addirittura della libertà femminile!) oppure riguarda la violenza e la mercificazione dei corpi delle donne? Si tratta di autodeterminazione o di stupro a pagamento?
– Se dalle donne alla cui parola abbiamo dato autorità, lo scambio sesso-denaro viene sempre considerato un atto di sopraffazione, qualificato come violenza e come stupro, la sua punizione entra nel merito della relazione tra i sessi oppure si limita a sanzionare la commissione di un reato?
– Il modello nordico è un modello proibizionista? Il suo scopo è veramente quello di reprimere il desiderio sessuale maschile, proibendone o limitandone le pur sempre lecite e libere pulsioni? Non interviene invece sul potere, sul rapporto di forza sottostante al diritto di comprare e sottomettere al mercato la libertà sessuale?
– La nuova disciplina legifera sui corpi delle donne oppure sulla mercificazione dell’atto sessuale al di là dello sfruttamento? Si entra ancora «nel merito dell’intimità del corpo» come accadeva prima della legge Merlin, con l’invasività sui corpi delle donne ad opera del sistema poliziesco, cui fa riferimento Silvia Niccolai (citata)?
– La legge Merlin ha ordinato la chiusura delle case di prostituzione entro soli sei mesi di entrata in vigore della legge, con sanzioni pesanti per l’inottemperanza, ha introdotto fattispecie penali ad hoc sulla prostituzione, mentre i suoi detrattori ritenevano sufficienti le disposizioni del codice Rocco (vedi ancora Niccolai), possiamo affermare allora che «abbia fatto un vuoto normativo»?
– Certamente è un esempio di diritto sessuato femminile, ma possiamo annoverarla tra le disposizioni di un diritto leggero? Se è vero che non ha legiferato sui corpi, ma agendo sul meccanismo dello sfruttamento e della sua dura punizione, non ha introdotto un di più di normazione, anziché un di meno, attingendo alle regole di un diritto “forte”?
– Una norma penale crea sempre un soggetto debole da proteggere? Alcune disposizioni di diritto forte sono a salvaguardia della dignità umana, della vita del pianeta, del futuro delle generazioni e sono dunque a sostegno della forza e non già della debolezza: nel caso della prostituzione non vanno forse nella direzione di sostenere chi intraprende un percorso di liberazione e di sottrazione al potere maschile, per cui esigere una punizione e una riparazione diventano espressioni di autonomia e non già di vulnerabilità?
Alla stessa direzione, infine, sono da ascrivere le altre novità del disegno di legge Maiorino tutte orientate a rafforzare i percorsi di uscita dalla prostituzione, altro baluardo del modello nordico, poco conosciuto e meno menzionato rispetto al contestato volto della repressione, in realtà vitale per il riscatto delle donne che decidono di liberarsi da violenze e schiavitù.
Le domande che mi sono permessa di porre sono forse retoriche e sottendono una mia posizione, c’è ancora molto su cui ragionare, magari insieme a chi ha intrapreso un percorso frutto di una pratica politica tra donne, nata dal desiderio di mettere in atto un diritto esperienziale, il più possibile sottratto al diritto sessuato maschile.
Certamente questa pratica politica non potrà avere né come unico scopo, né come obiettivo principale l’approvazione di una legge, come sappiamo strumento utile, a volte necessario, a volte dannoso, a volte da eliminare, sul quale sempre vigilare con un «pensiero operante», anche questo un lascito di Lina Merlin.
Nel difficile rapporto tra diritto positivo e corpi delle donne rimangono in sospeso molte disposizioni, oggi quelle sulla GPA o sulla cd. “identità di genere”, che hanno generato e genereranno ancora conflitti, anche tra donne, magari le stesse protagoniste del percorso narrato.
Le relazioni politiche che abbiamo costruito potranno creare uno spostamento anche in queste materie? Lo scopriremo, se decideremo di non sottrarci alla sfida!
(www.libreriadelledonne.it, 23 giugno 2022)
di Annie Marino
Mi è stato chiesto di riflettere su ciò di cui si è parlato durante l’ultima riunione della Libreria e su cosa già esisteva prima del mio intervento e che lo ha generato.
Mi sembra importante ricordare che in quell’intervento dicevo che la mia esigenza, il mio desiderio, ovvero quello che mi ha guidata alla Libreria, è di conoscere i contenuti oltre, insieme, prima ancora della storia. È chiaro che le due cose non possono prescindere l’una dall’altra, ma lasciate che mi aiuti e dica con sincerità cosa intendo per contenuti.
Per me i contenuti sono quello che cerco e quello che io cerco è un’esistenza sempre libera: è quello che voi conoscete ed è quello che avete avuto perchè ciascuna di voi lo ha dato all’altra. Come è stato fatto, questo? Tutto ciò che ho cercato di dire in poche parole, ecco, questo, tutto, chiaramente fa la storia della Libreria.
A me non piace sentir parlre di racconti del passato per quanto riguarda la Libreria, ma mi piacerebbe, ad esempio, sapere dove – in quali libri – posso trovare quello che sto cercando. Perchè i libri, insieme all’altra, sono quello che ha fatto libera la vostra vita: per “fare”, avreste potuto far dell’altro, invece, quello che avete creato è stata una libreria.
La Libreria non chiama a sé giovani donne, ma chiama a sé giovani donne che cercano. Molte di loro credono di cercare cose diverse, forse un lavoro appagante, forse la riconciliazione familiare, forse un altro luogo. E guardate quante cose crediamo di desiderare tutti, donne e uomini! Lo spazio esiste, ma sembra sempre pieno. A tutte le donne, però, basterebbe essere leggere e poter dire la propria verità.
Io e le altre ragazze vi chiediamo di dirci quello che avete trovato cercando, di accompagnarci, di guidare la nostra ricerca, di ascoltarci e, anche, di lasciarci esplorare.
Vi chiediamo che la Libreria sia riconoscibile come il luogo delle vie possibili per tutte le donne che cercano.
(www.libreriadelledonne.it, 17 giugno 2022)
di Vita Cosentino e Antonietta Lelario
Nel panorama delle riviste che si occupano di scuola, è uscito il primo numero on line di Paesaggi Educativi, Nuova Serie, rivista del dialogo fra insegnanti, genitori, alunne ed alunni. https://www.paesaggieducativi.it/la-rivista/#
La rivista, espressione dell’Associazione Paesaggi Educativi attiva dal 1999 (vedi www.paesaggieducativi.it), vuole essere “uno strumento diretto a contribuire, con il lavoro della conoscenza, alla creazione di una civiltà della cura basata soprattutto sulle ‘pratiche diffuse di mutuo soccorso’; queste pratiche sono una condizione essenziale per uscire dalla pandemia in modo positivo in ogni ambito”. L’intento è quello di riprendere il progetto del movimento per l’autoriforma, sollecitando coloro che in questi anni “hanno salvato la scuola dal tracollo con il loro impegno quotidiano” a dare voce a “iniziative miranti a realizzare un processo di cambiamento dal basso”, come si legge nel breve articolo di Bruno Miorali Ricominciamo dal movimento per l’autoriforma!
In questo numero si possono leggere di Vita Cosentino e Antonietta Lelario, insegnanti che hanno partecipato all’autoriforma gentile, gli articoli che ne ricostruiscono la storia e mostrano l’attualità e la necessità di questa politica trasformativa. (Marina Santini)
AUTORIFORMA ANCORA
di Vita Cosentino (Libreria delle donne di Milano)
Autoriforma è il nome di una politica trasformativa che si basa su quello che c’è di buono e che funziona in una determinata situazione, sui desideri e i bisogni profondi che emergono, senza far conto di progetti legislativi o di soldi per il cambiamento. Come tale l’autoriforma è sempre a portata di mano e capace di riattivarsi se ci sono forze soggettive disponibili a mettersi in gioco. Nella scuola l’autoriforma è stata un movimento significativo costituito da donne e da uomini insegnanti, si è diffuso in molte città italiane dagli anni ’90 del secolo scorso, e ha influenzato per parecchi anni il dibattito culturale sul senso di questo luogo centrale e decisivo per la società, come si è ben visto anche durante la pandemia.
Per parlare dell’autoriforma della scuola e capirne in profondità modalità e moventi, è necessaria una lunga premessa che riguarda la scoperta di una nuova concezione della politica maturata nel seno del femminismo italiano.
Lia Cigarini e Luisa Muraro la definiscono “un processo di sottrazione di sé all’ordine del discorso dominante e di conquista dell’indipendenza simbolica”. È un’idea che “pratica una politica di trasformazione del mondo a partire dalla soggettività che si sottrae allo schiacciamento dell’organizzazione sociale” (introduzione agli scritti di Simone Weil, Oppressione e libertà, Orthotes, 2016).
In questa scoperta di quasi cinquanta anni fa, il fulcro sta nella soggettività e la politica coincide con le pratiche. Non c’è una teoria che precede. La teoria viene pensata man mano interrogando le pratiche in atto fatte circolare tramite il racconto ragionato. Una pratica non è un semplice fare, ma un agire in relazione avendo dentro la modificazione di sé, cioè operare una modificazione dei contesti modificando se stessi e non, volontaristicamente, volendo cambiare il mondo.
In questo modo, nel femminismo della differenza sono cominciate pratiche politiche inedite che man mano sono state nominate con le parole: partire da sé, affidamento, autorità, relazione di differenza, per citarne alcune. Tutte fanno perno sulla relazione duale che è stata esplicitamente mutuata dal setting analitico. C’è quindi un debito alle modalità della psicanalisi, ma l’elemento di vera novità sta nel fatto che la relazione duale è immaginata e pensata come una forma della politica, anzi di più, la forma politica di base che non ha bisogno di altro, cioè di partiti o altre organizzazioni, per correre nel mondo. È una forma vuota perché si incarna in quella donna lì, in quell’uomo lì. C’è un’intenzionalità ma tutto dipende dalle soggettività che entrano in relazione.
Questa lunga premessa serve a spiegare come anche l’autoriforma della scuola abbia all’inizio una relazione duale. Infatti ha preso impulso dall’incontro e dalla relazione di fiducia che è nata tra me che scrivo e Guido Armellini, un docente di Bologna, autore di numerosi articoli sulla scuola. Nella politica di relazione un incontro che si sente come significativo è potenziato dalla consapevolezza che si tratta di “politica” e quindi si alimenta di quella speciale passione che ne è la cifra. Una politica inedita, che coincide con la vita stessa.
Io già da qualche anno facevo parte di quel movimento nazionale di donne insegnanti che ha preso il nome di “Pedagogia della differenza”, proprio perché la politica di relazione è entrata potentemente nella scuola alla metà degli anni ’80.
Ricordo che quando cominciai a praticare la relazione di affidamento nella scuola media in cui lavoravo, ho sperimentato un capovolgimento che ha coinvolto emozioni profonde: se prima tra insegnanti serpeggiava invidia e rivalità, dopo si è aperta la possibilità di fidarsi, di contare su un’altra donna per portare nel mondo i propri desideri, non stando più alle logiche precedenti. Per raccontare un episodio significativo, questo capovolgimento di sguardo ci portò quasi subito alla rottura della sezione sindacale, che si riuniva prima di ogni collegio per contestare per principio, punto per punto, le proposte della preside. Quando noi insegnanti femministe dicemmo che non ci stavamo più a quella logica di potere e contropotere perché la preside era una donna come noi e la trovavamo capace e interessata alla scuola, la sezione sindacale si spaccò e cambiarono tutte le dinamiche e le relazioni interne alla scuola.
Negli anni, in queste relazioni privilegiate si è formata una soggettività femminile libera e pensante, che ha prodotto libri, riviste, idee, in breve un punto di vista sulla scuola e sul mondo.
Nell’incontro con Guido Armellini la scintilla è stata la scoperta di avere idee molto vicine sulla valutazione scolastica, pur provenendo da percorsi decisamente differenti. Il primo passo è stato mettere in comune nel convegno “Chi valuta chi e perché” le reti di relazioni in cui eravamo: io quella delle femministe a scuola, riferite alla Pedagogia della differenza e alla rivista Via Dogana, e quella con una rete di maestre milanesi; lui quelle che ruotavano attorno alla rivista di Goffredo Fofi La terra vista dalla luna e una sua rete di amicizie che andavano da studiose come Marianella Sclavi a maestri eccellenti come Franco Lorenzoni e Bardo Seeber.
Insieme, in un tempo in cui a scuola si parlava solo di programmazione, di test, di obiettivi, di prestazioni, abbiamo riaffermato il piacere di insegnare, abbiamo capito come la qualità fosse nelle buone pratiche da sperimentare valorizzando l’imprevisto e rompendo lo schema autoritario della cattedra e del registro. Abbiamo puntato sull’autorità dell’insegnante e non sul suo potere istituzionale, abbiamo visto il comune bisogno di esistenza simbolica, di esserci nella lingua con una parola propria, e quindi la centralità della soggettività anche in chi avevamo davanti: erano studenti e studentesse con un volto e una storia.
Non è possibile in questo articolo parlare a fondo di tutte le pratiche scoperte in quegli anni così intensi, per questo rimando alla lettura dei due libri principali dell’autoriforma: Buone notizie dalla scuola (Pratiche,1998) e Lingua bene comune (Città Aperta, 2006).
L’autoriforma è una pratica politica che, pur rimanendo in contesto, lo oltrepassa inserendosi nel dibattito generale. È una rete di liberi rapporti tra singolarità e tra riviste che non diventa mai un’associazione o un gruppo formalizzato, ma rimane mobile seguendo il desiderio.
Il movimento di autoriforma gentile, ha avuto come caratteristica principale quella di essere un luogo di confronto e di scambio, momento di un ragionare comune che non ha per scopo l’elaborazione di piattaforme di obiettivi. Non c’è una maggioranza e una minoranza, non c’è chi vince e chi perde nella discussione, non si arriva a nessuna sintesi. Nell’idea di autoriforma si privilegia un pensare in presenza da cui ciascuna, ciascuno si potenzia tramite il pensiero dell’altro, dell’altra. Per quanto ne posso dire io con i miei ricordi personali, eravamo intensamente presenti nelle nostre realtà e nel rapporto con studenti e studentesse, e, a partire da ciò che già c’era e funzionava bene, portavamo avanti una “lotta linguistica” scrivendo su giornali e riviste. Contrastavamo in questo modo quelle “riforme”, come per esempio l’introduzione di una cultura aziendale e della meritocrazia, che alla scuola venivano imposte dall’esterno e dall’alto. Abbiamo scritto molto. Scrivere nell’autoriforma è stato un atto politico centrale perché solo facendo circolare le nuove esperienze in classe con le riflessioni che suscitavano, si potevano attivare processi trasformativi contagiosi. L’autoriforma non si presenta come un movimento sociale, è un movimento di soggettività, sarebbe meglio dire: soggettività in movimento.
Ho raccolto tutte le mie esperienze e riflessioni nel libro Scuola: sembra ieri è già domani (Moretti&Vitali 2016), e rimando a quel testo per un approfondimento. Sono convinta – e il titolo lo dice con chiarezza – che queste pratiche di soggettivazione, sperimentate a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, siano anticipatrici di ciò che occorre in questo nostro tempo. In questa mia idea sono confortata dalle analisi di Alain Touraine che da più di un decennio, nelle sue pubblicazioni, considera finita la politica novecentesca e la maniera tradizionale del sociale ad essa legata. Ne parla in modo precipuo in La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore 2008). Il sociologo sostiene che viene avanti un mondo fatto di soggettività, più centrato sulla costruzione di sé e della propria vita. Quanto questa analisi sia stata lucida è confermato dal susseguirsi di movimenti con caratteristiche nuove. Pensiamo per esempio a quanto ha potuto muovere nel mondo una poco più che bambina come Greta Thunberg.
L’ARTE DI DAR PAROLA ALL’ESPERIENZA
di Antonietta Lelario (Circolo culturale La merlettaia di Foggia)
Un docente universitario raccontava recentemente la distanza siderale che lo separa dalla politica dell’Università spesso legata a logiche di potere; eppure, farne parte gli consente di battersi dentro e fuori dall’università per ciò in cui crede. Come muoversi nella molla che lo stringe fra rifiuto e identificazione?
Io ho riconosciuto subito il suo conflitto. Quando sono entrata nella scuola come insegnante la critica al fatto che la scuola serviva alla perpetuazione dell’esistente e che l’ordine imperante fosse ingiusto e oppressivo era molto forte. La presa di distanza sembrava una possibile strada, soprattutto per una donna che quell’ordine non aveva affatto contribuito a costruire. La presa di distanza sembrava utile anche per entrare più in contatto con gli e le studenti: essere amica più che docente. Eppure, di fianco alla tentazione di estraneità si faceva strada un differente sentimento: scoprivo sempre più che quel lavoro era uno spazio di relazione e di contagio, era una possibilità di creazione di altro, e per farlo dovevo accettare di essere docente, assumermene fino in fondo l’autorità. La scuola tutta poteva avere un’altra funzione sociale e io potevo riconoscermi nella scuola a patto di darle il volto che desideravo! Potevo lasciarmi guidare dal potere di trasformazione che era nelle mie mani, come in quelle di tutti e tutte.
Che altro vogliono dire, se no, gli striscioni con l’impronta delle mani di cui si riempiono tante manifestazioni? Che cosa vuol dire quel grande bisogno di dire “Io ci sono” che attraversa il nostro tempo?
È il primo passo dello spazio politico, intendo la politica arendtiana. E anche la politica delle donne che, nei collettivi degli anni ’70, hanno messo al mondo il “Partire da sé”. Aver costruito, grazie alle forti relazioni che già esistevano fra donne, una rete con altri e altre docenti e aver trovato il nome di Autoriforma fu per me, fra la fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, un’uscita dalla contraddizione, un punto di equilibrio esistenziale per affrontare il secondo passo della politica: quale volto volevamo “insieme” dare alla scuola?
Non ho cominciato a caso questo testo con un breve racconto preso dall’esperienza. Questo è stata subito la nostra scelta. Non volevamo costruire un’altra teoria che si affiancasse o competesse con le tante che nascevano come funghi sulla base dell’ordine tradizionalmente dato: si parte dalla testa, si fanno quadrare astrattamente tutti i conti e poi si convince il corpo, in questo caso il corpo scolastico. Queste teorie nascevano naturalmente nell’università e da lì dovevano scendere agli altri livelli di scuola anche se tutti sanno che le più esperte di pedagogia sono alcune maestre di scuola materna. Ma a dare lezione non sono mai chiamate loro.
Questo modo di procedere non solo non ci convinceva, non solo era ciò che criticavamo di più, ma era ciò che non teneva più. Era una modalità che viene dall’antica separazione fra teoria e pratica, fra idee e materia, fra cultura e natura, pensate separatamente e, guarda caso, in modo gerarchico con le prime valutate come superiori rispetto alle seconde. Era e rimane una modalità autoritaria e oppressiva nella sostanza, anche quando parla di corpo, di piacere o di felicità. Soprattutto una modalità che non ascolta il reale che grida per essere letto diversamente (S. Weil). E il reale nella scuola gridava fortemente, noi che investivamo tanta passione e studio eravamo profondamente offesi dal continuo disprezzo di cui veniva circondata la scuola. In realtà quel disprezzo serviva a giustificare le riforme istituzionali che inserivano la scuola nel disegno neoliberale e liquidavano l’epoca delle sperimentazioni dal basso in cui si esprimeva il meglio della creatività di quegli anni; basterebbe guardare l’alto livello dell’editoria scolastica di allora per verificare quanto sto affermando. E la perniciosità di questa politica è diventato negli anni sempre più evidente man mano che la teorizzazione della scuola azienda si sovrapponevano ai bisogni profondi della scuola, creando una confusione sempre maggiore.
Noi della rete “dell’autoriforma gentile” volevamo far parlare la nostra esperienza. Buone notizie dalla scuola (Pratiche Editrice, 1998, a cura di Antonietta Lelario, Vita Cosentino, Guido Armellini) è stato il primo libro collettaneo uscito da un nostro convegno nazionale per far vivere un’altra scena simbolica più aderente al reale. Nel libro, come nei nostri incontri, ci siamo sottratti/e al discorso a tutto tondo, abbiamo voluto mantenerci aderenti all’esperienza che ci parla per sprazzi, che colpisce la nostra attenzione perché in quel particolare, in quell’episodio, si rivela qualcosa di più, si fa strada quel senso delle cose di cui abbiamo fame. Una politica dello spiraglio che porta aria, luce, senza abbagliare, senza alcuna pretesa di illuminare tutto, in cui ognuno, ognuna ha continuamente bisogno degli altri per procedere. Lì, nel cammino comune, abbiamo cercato risposta alle contraddizioni, autorizzazione ed esempi sui modi in cui ciascuno/a di noi si rapportava ai saperi, nutrimento per la nostra creatività. In questo cammino si annidava anche un’altra scommessa che fra donne – eravamo la maggior parte e quasi tutte legate in qualche modo al femminismo – e uomini si potesse realizzare una relazione di scambio delle reciproche differenze, evitando tanto la guerra quanto l’antica cancellazione del femminile.
Questa politica riapriva la questione della lingua. Non a caso Lingua, Bene Comune (Città Aperta 2006, a cura di Vita Cosentino con Guido Armellini, Gian Piero Bernard, Paola Bono, Laura Fortini, Antonietta Lelario) è stata la nostra seconda pubblicazione. Anche le formule in cui sintetizzavamo approdi del pensiero, come “Il massimo di autorità col minimo di potere”, mantenevano la forza simbolica dei cartelli nelle manifestazioni, memento da praticare e da verificare; mai pura trasmissione di idee, architetture della ragione.
E non a caso voglio finire questo testo con un altro racconto. Durante il lockdown una insegnante di educazione motoria in un liceo scientifico della mia città, Foggia, non potendo esercitare online il suo insegnamento tradizionale ha cominciato con le sue classi un discorso sulla necessità per il corpo di una sana alimentazione. Da qui il discorso si è allargato a chi e come si produce il cibo che portiamo in tavola fino ai pericoli che oggi lo minacciano. Il lavoro è terminato facendoli incontrare con Libera. Quando io sento di queste esperienze penso che è lì che vive l’autoriforma.
Nell’esperienza di questa collega si condensa quel volto della scuola di cui parlavo, a cui contribuisce ogni insegnante che crede nel suo lavoro: il coinvolgimento non forzato degli e delle studenti, la loro attivazione in percorsi di ricerca, il riannodamento dei saperi con le esigenze del nostro tempo, il collegamento con chi opera sul territorio e diventa a sua volta fonte di conoscenze e, insieme, l’assunzione di autorità dell’insegnante, degli insegnanti che scelgono, selezionano il sapere, deviano dai programmi, li finalizzano in relazione a ciò che vogliono far rivivere in quell’insegnamento e tenendo presenti i bisogni della classe.
So per certo che oggi è aumentata la sofferenza di tanti docenti per un uso della tecnologia che taglia i tempi della relazione e per la proliferazione di atti burocratici in cui la scuola si trincera per essere inattaccabile o per ubbidire a norme esterne; penso per esempio al linguaggio predeterminato e obbligatorio dei progetti europei. Ma so anche che, in mille modi, nell’azione di tanti e tante insegnanti riappare il senso della scuola come comunità che sperimenta e sceglie le forme della convivenza, che mantiene il piacere di interrogarsi sui saperi, sulla loro origine e sulla loro necessaria rilettura: una comunità aperta in cui fra il dentro e il fuori dalla scuola c’è uno scambio libero. Quindi c’è ancora bisogno di “corpi intermedi” (S. Weil) in cui l’esperienza e l’antico desiderio di imparare e insegnare possano trovare spazi di riflessione e circolazione.
Infatti, il ripensamento sulla scuola può andare ulteriormente avanti se anche nelle associazioni che collaborano con lei, o in chiunque se ne occupi, la relazione non si trasforma in un semplice uso reciproco ma diventa occasione per rilanciare quel volto comunitario. Lo ha fatto recentemente Renzo Piano. Hanno detto: «Ecco la sua scuola del futuro: una scuola sostenibile, energeticamente efficiente e antisismica; ma soprattutto innovativa, perché sarà aperta anche la sera e nel week-end, per accogliere iniziative e corsi extra-scolastici rivolti non solo agli studenti ma all’intera comunità. Quello di Sora, in provincia di Frosinone, è un progetto che potrebbe inaugurare un nuovo modello di edifici scolastici innovativi». In realtà, Renzo Piano ha messo in architettura un bisogno che è nell’aria da tempo, immesso nel simbolico dall’esperienza scolastica più vitale. Lui ha avuto l’ardire – lo può fare, vista la sua grandezza e visibilità – di metterlo in pratica.
(www.libreriadelledonne.it, 16 giugno 2022)
di Tiziana Nasali
Ho letto con attenzione l’articolo di Federica D’Alessio Senza abolire la prostituzione non otterremo mai una vera uguaglianza di genere, pubblicato il 25 maggio 2022 su Gli Stati Generali (1). L’autrice esprime un giudizio positivo sul ddl presentato dalla senatrice Maiorino, finalizzato a colpire la domanda di prostituzione attraverso la graduale punizione dei clienti – sanzione amministrativa, ammonizione, e solo in ultima battuta, reclusione. La proposta Maiorino recepisce la risoluzione Honeyball del Parlamento europeo del 2014 che invita tutti gli Stati dell’Unione a «adottare il modello nordico che identifica nel cliente (uomo, nella stragrande maggioranza dei casi) l’ultimo anello di una catena di sopraffazione che inizia con i trafficanti di persone o con le condizioni di vulnerabilità economica, sociale o personale della persona prostituita, prosegue con i suoi sfruttatori e termina con l’acquirente delle prestazioni sessuali» (2). Accoglie anche le istanze di un crescente movimento abolizionista e femminista affermatosi negli ultimi decenni in Europa che considera la prostituzione e la sua legalizzazione, così come la sua passiva accettazione, come un sistema di dominio degli uomini sulle donne di stampo patriarcale. Secondo le sostenitrici e i sostenitori del neo-abolizionismo (3), quest’ultimo sarebbe l’unico modello che si pone l’obiettivo di una «alleanza tra uomini e donne che sanno di appartenere a un’umanità comune e dunque considerano l’esistenza del sistema prostitutivo disonorevole per entrambi» (4). Sembrerebbe quindi collocarsi sulla scia della legge Merlin con l’intenzione di migliorarla attraverso la non accettazione passiva della prostituzione.
Dal 1958, anno della sua entrata in vigore, la legge Merlin è stata più volte oggetto di attacchi e tentativi di modifica, tutti aventi in comune la mancata comprensione della ratio della legge stessa e la sua cattiva interpretazione. La legge Merlin, i cui principi sono stati ribaditi dalla sentenza della Corte costituzionale del 2019, abolisce la regolamentazione della prostituzione ma punisce il favoreggiamento, lo sfruttamento e la “tratta” introducendo così, in anticipo sui tempi, il principio che sulla sessualità e sui corpi delle donne non si legifera, un principio che sarà fatto proprio dal femminismo degli anni ’70 (che non a caso anche per l’aborto non chiedeva norme regolamentatrici, ma la semplice depenalizzazione del fatto).
La legge Merlin introduce nell’ordinamento giuridico un principio di diritto femminile, ponendo così le basi per la sessuazione del diritto stesso: non considera le donne e i loro interessi in rapporto agli uomini o complementari ad essi ma indipendenti, esistenti in sé. Riconoscendo la differenza sessuale come elemento fondante della nuova società da costruire, fa un’operazione simbolica necessaria per permettere il cambio di civiltà che lei, la senatrice Lina Merlin, come madre costituente, auspicava.
Della prostituzione vuole eliminare l’economia di sfruttamento che ruota attorno ad essa avendo in mente un’idea di mercato e di libertà più alta rispetto a quella che si è affermata in questi decenni: una libertà intesa non in senso utilitaristico perché non tutto può essere ridotto a merce – il corpo – e non tutti gli scambi possono e devono avere un movente economico, consapevole che «nel mercato della prostituzione chi vende e chi compra sono ingranaggi di un potentissimo mercato che profitta dei desideri, della credulità, dei vizi, delle inibizioni e dei sogni della gente comune» (5).
La proposta Maiorino, rispetto ad altre, ha sicuramente due pregi: contrasta l’idea che la prostituzione sarebbe un mestiere come un altro e si pone l’obiettivo condivisibile dell’abolizione della prostituzione. Ma la sua debolezza risiede negli strumenti che sceglie e nel linguaggio che usa: mettere al centro il prostitutore e il suo desiderio da reprimere con la legge significa riproporre ancora la rappresentazione della donna come soggetto debole da tutelare.
Certamente vogliamo mettere fine alla violenza maschile contro le donne ma porre la questione in termini di “uguaglianza di genere”, come si dice ripetutamente anche nell’articolo di D’Alessio e nella Risoluzione Honeyball, è fuorviante: va combattuta l’idea che gli uomini pensino alle donne come corpi a disposizione del loro piacere (e questo non solo nei rapporti di prostituzione) perché vogliamo che nell’ordinamento giuridico venga iscritto il principio della libertà e dell’inviolabilità del corpo femminile. Nel corpo sociale la libertà femminile esiste e sarebbe buona cosa iscriverla anche nell’ordinamento giuridico: per questa ragione l’uguaglianza va ricondotta al suo ambito naturale, quello della pari dignità sancito dalla Costituzione, altrimenti si rischia simbolicamente una parificazione delle donne agli uomini e nella società, così come nella legislazione, già si vedono i guasti e la confusione generata da tale impostazione. Quindi, più che una legge repressiva, serve modificare il rapporto uomo-donna attraverso una pratica che vada nella direzione del riconoscimento dell’autonomia simbolica che già le donne esprimono e nella presa di coscienza da parte degli uomini che le donne non solo non sono a loro disposizione ma nemmeno ambiscono ad essere come loro.
Infine, non si legifera sui corpi delle donne perché, come sostiene la costituzionalista Silvia Niccolai, «L’esperienza storica mostra che quando si afferma che l’intimità del corpo può essere regolamentata decadono, ai danni di chiunque, tutte le garanzie di uno Stato di diritto, imperniate su una linea distintiva fra ciò che è privato e ciò che è pubblico» (6). La finezza della legge Merlin sta nel fare vuoto: prevedendo tutti gli strumenti per eliminare lo sfruttamento della prostituzione apre, alle donne e agli uomini, entrambi considerati soggetti alla pari nella loro differenza, la possibilità di riempire quel vuoto con pratiche relazionali nuove.
(2) Risoluzione del Parlamento europeo del 26 febbraio 2014, promossa dalla eurodeputata laburista Mary Honeyball, Pse. (Risoluzione europea su sfruttamento sessuale e prostituzione e il suo impatto sull’uguaglianza di genere)
(3) Mentre il modello abolizionista punisce le attività di contorno alla prostituzione, quello neo-abolizionista o modello nordico, introdotto per la prima volta in Svezia nel 1999, si basa sul perseguimento, oltre che di tutte le condotte parallele, anche della domanda di sesso a pagamento, identificata come vero fattore trainante della tratta e dell’entrata in prostituzione di soggetti a vario titolo più fragili.
(4) Dalla relazione introduttiva alla proposta di legge Maiorino Modifiche alla legge 20 febbraio 1958, n. 75, e altre disposizioni in materia di abolizione della prostituzione.
(5) Silvia Niccolai, La legge Merlin e i suoi interpreti, in Né sesso né lavoro, VandA e-Publishing, pag. 105
(6) Silvia Niccolai, ibidem, pag.72
LETTURE CONSIGLIATE:
Lia Cigarini, Sulla prostituzione apriamo il confronto, Via Dogana n. 109/2014
Manuela Ulivi, La prostituzione e i prostitutori, Via Dogana n. 111/2014
(www.libreriadelledonne.it, 8 giugno 2022)
di Laura Colombo
Nel sito del progetto giornalistico Gli stati generali è stato pubblicato un articolo sulla prostituzione a firma di Federica D’Alessio, che rende conto del recente disegno di legge presentato dalla senatrice Maiorino del Movimento 5 Stelle.
Ciò che della legge Merlin continua a essere rilevante anche oggi, è il fatto che lascia al di fuori della legge quello che passa tra il cliente e la donna. Come sappiamo, ha abolito le case chiuse, cioè ha soppresso la regolamentazione statale e ha introdotto i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione. Quello che la legge lascia fuori è il rapporto tra la donna e l’uomo, che è il luogo della relazione dove si gioca tutta la questione e in cui la legge non si intromette. La legge mira, in altri termini, all’abolizione della prostituzione senza proibirla, intervenendo solo nelle circostanze che favoriscono la prostituzione. Oggi questa è la tendenza prevalente nella legislazione europea.
La posizione che chiamiamo abolizionista sottintende un cambiamento simbolico nel rapporto tra i sessi, non riconoscendo più e non regolando più a livello della legge uno dei patti taciti su cui si è retto il mondo, ovvero la libera disponibilità del corpo femminile per gli uomini, il diritto implicito di avere a disposizione il corpo delle donne.
Proprio in questo punto si innesta il recente disegno di legge della Maiorino, che pretende di andare più in là della legge Merlin nel colpire questo sottinteso della prostituzione e lo fa rompendo il silenzio sul non detto, ovvero sulla taciuta disponibilità del corpo femminile per un maschio pagante. Togliere il silenzio scatena violente reazioni da parte di alcuni, come si legge nell’articolo di Federica D’Alessio.
Impossibile non pensare alle riflessioni di Carole Pateman sul patto sessuale, che riconduce le radici del potere nel “privato” della relazione tra una donna e un uomo, detenendo l’uomo il diritto di proprietà della persona, avendo nelle sue mani il diritto di comando: “Le donne sono l’oggetto del contratto. Il contrato (sessuale) è il mezzo attraverso il quale gli uomini trasformano il proprio diritto naturale sulle donne nella sicurezza del diritto civile patriarcale” (Carole Pateman, Il contratto sessuale, 1997 Editori Riuniti, pag. 10).
Sono proprio le reazioni maschili riportate nell’articolo di Federica D’Alessio a segnalare che il silenzio di donne e uomini sulla scontata disponibilità del corpo femminile si trova alla base dei discorsi sulla prostituzione. Nell’articolo un uomo, attivista della pagina contro il sistema prostituente Sex Industry is violence, pronuncia parole forti: «In questi anni ho capito che noi uomini siamo il cuore del sistema prostituente, è il potere che abbiamo nei confronti delle donne che ci stuzzica a esercitare il dominio e a praticare l’umiliazione. È giusto che la legge sottragga agli uomini questo potere». Il disegno di legge della Maiorino prevede un percorso graduale di ammonimenti, integra i CAM (Centri di ascolto per uomini maltrattanti) e contempla anche la sanzione penale, che scatta se c’è una recidiva nell’arco di ben cinque anni.
Allora la domanda è: in questo modo, con questo tipo di legge, si può ottenere un efficace spostamento? E come? Io ne dubito, io cioè dubito che il percorso tracciato da questo nuovo disegno di legge possa sostituire la presa di coscienza maschile.
Quello che in definitiva chiede l’attivista di Sex Industry is violence è un intervento proibizionista: “È giusto che la legge sottragga agli uomini questo potere”. In questo caso risulta evidente che il potere della proibizione sostituisce la presa di coscienza maschile.
Mi chiedo ancora: forse può farlo l’opera di rieducazione dei CAM? Questi percorsi sono prescritti da un’Istituzione e, nella mente maschile, tendono a ridursi a una scorciatoia strumentale per non mettersi davvero in discussione. Senza mettere in conto la concorrenza che i CAM fanno alle realtà in favore delle donne maltrattate.
Nel fatto della prostituzione credo che il punto nodale sia la lotta allo sfruttamento e alla tratta e per questo, più che una nuova legge, serve volontà politica e azioni adeguatamente finanziate. Torniamo così alla legge Merlin, al fatto che la partita più grande si gioca nel rapporto tra donna e uomo ed è lì che c’è il grande inciampo. Nell’articolo di Federica D’Alessio viene nominato come un inciampo all’uguaglianza e invece si tratta di un inciampo alla libertà e per questo tipo di inciampo non si può pensare che ci sia una soluzione per via di legge. La soluzione verrà, se verrà, quando gli uomini avranno il coraggio e la forza di incrinare il loro presunto diritto di comprare il corpo di una donna, mettendo invece al mondo una libertà più grande e creando una civiltà dove nessuno compra nessuno.
(libreriadelledonne.it, 5/6/2022)
di Antonella Nappi e Giovanna Cifoletti
Noi che ragioniamo di femminismo e di salute nell’associazione Difendiamo la salute, abbiamo pensato dal primo giorno della guerra in Ucraina che quel governo dovesse arrendersi a un cessate il fuoco con l’invasore russo. Ciò si imponeva data la disparità delle forze, le sofferenze e i lutti, e la certezza da parte nostra di non volere partecipare a una guerra per nessuna ragione.
Siamo convinte che le ragioni di chi confligge possono essere comprese da chi non è accecato dall’odio, né dalla necessità di combattere per mettere in salvo il suo corpo. La popolazione che fugge dalla guerra è la stessa che vuole si trovi un accordo; deve essere aiutata a farlo: perché le guerre servono i ricchi e distruggono la possibilità di vivere dei poveri. Ci vogliono mediatori che non introducano altri interessi ma soltanto quelli di salvare le vite, gli affetti, i beni già posseduti: le case, le città; e quella di non aggravare con le armi le condizioni ambientali.
Chi aggredisce deve essere ascoltato, indotto a parlare; si può trovare un compromesso tra i governi in lotta, se sospinti dai popoli e da governi che volessero essere davvero neutrali, questo perché i ragionamenti sulle necessità economiche e politiche hanno riferimenti compatibili per tutto il mondo. Sono i dirigenti generalmente a privilegiare il loro proprio pensiero, le relazioni tra loro, i principi astratti o le strategie guerresche, quando possono agire senza essere controllati dai loro popoli.
Forse perché i governi sono sempre stati maschili e siamo abituate a sopportare mille oppressioni per sopravvivere, ma anche a cercare di migliorare la nostra posizione con i mezzi che individuiamo personalmente, generalmente noi donne davanti alle armi pensiamo si debba salvare la vita. La politica delle donne inoltre ha insegnato a disertare quella maschile per creare tra noi pratiche nuove e consapevolezze che anche gli uomini possono esercitare. La resistenza che conosciamo è quella di trovare la nostra voce e farla sentire: dal gruppo degli amici alla famiglia, dai luoghi del lavoro alle istituzioni, al governo; la strada percorribile è per noi la nostra sussistenza e poi quella delle progressive libertà in relazioni civili.
La guerra civile tra antirussi e filorussi martoriava da anni i corpi degli ucraini, molte ucraine ce lo hanno testimoniato. Difficile vivere a fianco di due influenze opposte provenendo da quella russa e contemporaneamente ubriacati, come gli occidentali, dall’immagine del consumo, dalle immagini di libertà di parola e di associazione e d’impresa; senza sapere però, come in Italia sappiamo, che non contano niente in termini di potere e che quest’ultima crea anche enormi difficoltà e fallimenti.
Così anche le elezioni: senza informazione colta e veritiera, senza partecipazione politica totalmente aperta all’eleggibilità, senza controllo popolare sull’organizzazione al voto, esse sono oggi una delega al potere assoluto. La democrazia occidentale serve i ricchi, è un paravento dietro al quale tutto è indirizzato alla creazione di grossi capitali. E la guerra non fa che aumentare tale mancanza di democrazia.
In ogni governo si nasconde una dittatura possibile, il furto dei beni pubblici e le tangenti che affliggono ogni popolo vanno combattuti con armi civili all’interno del proprio paese, è questa la resistenza pacifica, la conflittualità da ragionare e controllare che ciascuno offre alla pace di tutti i popoli. La propaganda occidentale al consumo, irresponsabile degli inquinanti che produce, è un inganno che va mostrato.
Anche per l’Europa e non solo per la Russia, una zona indipendente da entrambe le influenze sarebbe utile: governi indipendenti lungo i confini della Russia andrebbero preservati e sostenuti congiuntamente da queste. Includere in Europa o nella Nato quegli Stati che lo hanno chiesto, come è successo, solleva oggi molti commenti negativi se non viene concordato proprio con la Russia.
La guerra è stata preparata con consapevolezza da anni, da più soggetti politici, nell’evidenza che le pressioni sulla Russia erano per questa difficili da sopportare: era presente una guerra fredda tra più stati di cui nessuno ha voluto tenere conto e ora che i fatti sono divenuti espliciti e gravissimi bisogna creare un’ampia ragionevole contrattazione tenendo conto anche del pensiero politico creato dalle donne: questo privilegia, data la loro esperienza, le possibilità di sopravvivere rispetto ai principi.
La popolazione europea che ha goduto la pace per settantacinque anni non sopporta neppure l’idea della guerra. Questa guerra del resto non è legittimata rispetto alle leggi e ai trattati esistenti. I giovani di Fridays for future chiedevano pace in piazza il 26 marzo e concordavano con il nostro cartello che diceva: «Arrendetevi, solo diplomazia». È l’unica soluzione per non morire in Ucraina e per non rischiare una guerra mondiale. Anche le manifestazioni del 25 aprile in Italia l’hanno preteso. I governanti invece, specie quelli italiani, sono molto combattivi per una virilità retoricamente intesa; ricordano con affetto le contrapposizioni politiche del passato invece di partecipare alla resistenza nell’oggi: quella che domanda di affrontare le problematiche ambientali e quelle sociali che sono le stesse per tutto il mondo. Vivono nella logica del servilismo atlantico e valorizzano le relazioni di potere.
Il governo italiano ha compreso di recente, solo tramite i sondaggi, che la maggioranza degli italiani non vuole più inviare armi e vuole ritirare ogni sanzione perché le considera guerra alla Russia, all’Europa e al mondo intero. Di conseguenza ha deciso che gli italiani devono cambiare opinione: ha diffuso direttive di censura ai media e chiesto interventi conseguenti a chi più è in vista. Fin da marzo il governo si era fatto delegare, da un parlamento unanime, le direttive sugli invii di armi e la scelta riguardo le sanzioni fino al 31 dicembre. Questa è la nostra inesistente democrazia: non vuole sfigurare nelle relazioni internazionali, non vuole mostrare alcun amore per il proprio paese; questo è il rigore maschilista che ha sempre delegato alle femmine la cura dei corpi e della vita, sbeffeggiandole politicamente. Vuole anche nascondere quanti sbagli ha fatto nel disinteressarsi delle tensioni e mire degli Stati con cui si allinea. Le basi militari che permettiamo agli americani, inutili per noi e dannose perché ci hanno coinvolto in molte guerre di aggressione, divengono per il governo un vanto quando l’alleato le mette in funzione.
Vorremmo impedire che il pianeta subisca nuovi inquinamenti con l’attività militare e vengano affamati moltissimi popoli: quelli già martoriati da altre guerre. Impedire il ritrattare delle scelte già prese in favore dell’ambiente e della salute dei cittadini: come riarmarsi e riutilizzare il carbone; sconvolgere gli approvvigionamenti già decisi, già pagati dal lavoro umano e dai territori. Vorremmo impedire soprattutto l’arretramento democratico della prassi politica in atto nel nostro paese, in Europa e nel mondo.
Dovrebbero invece tutti gli Stati, come scrivono i Disarmisti esigenti in partenariato con la WILPF (Women’s International League for Peace and Freedom), occuparsi di quella guerra mossa dal pianeta contro di noi: abbiamo disturbato i suoi equilibri ambientali e dobbiamo ripristinarli. I pacifisti italiani che a Comiso hanno lottato contro le basi militari americane e poi sono diventati maggioranza lottando contro il nucleare, indicano la nuova resistenza: è restare responsabili di sé e delle esigenze degli altri, di quelle della natura soprattutto che è l’autorità che a buon diritto ci comanda.
La storia delle donne ha dimostrato che esse hanno subito tutti i tipi di governo a partire da quello famigliare, sono state tolleranti rispetto alle molte diverse oppressioni per cercare però la sopravvivenza: dove e come la vedevano, e molte di loro se lo dicevano con chiarezza. Scappavano: in compagnia soltanto di se stesse, quando potevano farlo; si avventuravano in nuove relazioni e nuovi contesti ovunque vedessero un poco di libertà e una migliore indipendenza. In Italia le contadine del nord sono andate in Francia a lavorare in fabbrica a tredici anni, la notte studiavano la lingua. L’andare in città a prestare servizio l’hanno fatto generazioni di bambine e ragazze e donne che lasciavano ad altre i figli. Le prime a emigrare in Italia dai paesi più poveri dagli anni ’60 sono state donne, solo recentemente assistiamo al giungere degli uomini. Un governo vale l’altro si arriva a pensare, dal momento che ci si deve sempre attivare per allargare le libertà di pensiero, di lavoro, di salute a livello personale e collettivo, e ciò è possibile in pace.
La capacità di sostenersi delle donne è divenuta sempre più capacità di dirsi in politica e di dirsi differenti da quanto il potere pretende da loro. Anche gli uomini cominciano a dirsi differenti tra loro; molti sanno ormai che la forza è quella di resistere ai propri impulsi aggressivi, ai condizionamenti che non condividono, quella di argomentare i propri sentimenti e desideri.
(www.libreriadelledonne.it, 19 maggio 2022)
di Tiziana Nasali
Una decina di ragazzine, fra i quattordici e i quindici anni, mesi fa ha costituito una banda con lo scopo di aggredire verbalmente e fisicamente coetanee più deboli (body shaming, insulti razzisti, schiaffi, pugni…). Le aggressioni venivano regolarmente riprese con i cellulari e poi divulgate in rete per acquisire rispetto, approvazione, notorietà e annientare la reputazione delle vittime.
Le ragazze della “Baby gang”, nome da loro scelto per la chat di WhatsApp, sono chiamate dalla stampa “mini bulle” e, a quanto si legge, non sembrano avere particolari situazioni di disagio alle spalle; il modus operandi emerso dalle indagini è lo stesso di tante altre bande di giovani adolescenti maschi.
Il fenomeno di ragazze protagoniste di atti di bullismo e cyberbullismo, ormai da qualche anno è in aumento o perlomeno così sembra dalla risonanza sui media. È vero che donne violente o sadiche ci sono sempre state – probabilmente ci saranno sempre e questo non inficia certo la libertà femminile – ma la violenza e il sadismo in passato potevano essere reazione allo stato di servitù in cui erano tenute. Oggi, invece, in un mondo in cui le donne sono ovunque, hanno la possibilità di realizzare i loro desideri e nascere donna è “un’indicibile fortuna”(1), ci si può legittimamente aspettare che le ragazze trovino “attività più onorevoli”(2) dell’essere bulle e dell’imitare i maschi.
Mi colpisce quindi che molte giovani siano ancora catturate dall’imitazione di modelli maschili, e penso che una delle ragioni per cui questo avviene, stia nella narrazione che la politica e i media, con poche lodevoli eccezioni(3), fanno della libertà femminile, continuando petulantemente a interpretarla solo come aspirazione alla parità, come se comportarsi come gli uomini fosse la cosa più desiderabile per una donna. Ma la cultura della parità, se non resta confinata al suo proprio ambito, quale può essere, ad esempio, la parità dello stipendio per lo stesso lavoro, rivela la sua miseria e riduce alla misura maschile ciò che non può esservi ridotto, le donne. E così facendo, perpetua stereotipi che inducono nelle ragazze odio nei confronti di sé stesse e delle altre e generale disvalore per il femminile.
È la differenza sessuale il punto da cui giornalisti/e ed educatori/trici devono partire per impostare una lettura più sensata dei fatti. Non serve apostrofare le ragazzine come bulle, talvolta con malcelato compiacimento, quasi a voler sancire che non ci sono differenze fra maschi e femmine. Occorrono giornalisti/e che vadano a fare indagini serie per capire che cosa porta giovani donne a scimmiottare i peggiori comportamenti maschili (tra l’altro ci sono voluti decenni per ottenere che il femminile venisse usato per ministra, avvocata, e un attimo per passare da bullo a bulla). Che cosa inquieta dunque queste ragazze? Emma Ciciulla del collettivo femminista Le Compromesse, scrive su VD3 del 16 marzo 2022 che a quattordici anni si sentiva esposta a due input particolarmente pervasivi, i media misogini classici, come la televisione italiana, e ancora di più un certo femminismo che aveva avvicinato su Facebook e su Instagram. Un femminismo mainstream che sostiene che la libertà sia libertà di sedurre e che, da almeno una decina di anni, ha come target le giovanissime che vengono incoraggiate ad aderire senza esitazione a quegli standard di femminilità che il patriarcato pretende di imporre. Emma si riferisce in particolare a post di pagine femministe che “spingono le donne a indossare capi sessualizzanti e a esplorare quella sessualità pornificata tanto cara agli uomini”(4).
Le ragazze della Baby gang non aderiscono a uno standard di femminilità patriarcale ma assumere comportamenti di virilità, deviante o meno, a me pare sia l’altra faccia della stessa medaglia: è questa la pressione che le giovani sentono e in cui si dibattono. Ed è questa la pressione che la stampa e la politica dovrebbero indagare: le ragazzine “bulle”, violente soprattutto con le loro simili e prodotto anche di questa cultura della parità, ci dice tutta l’urgenza di cambiare linguaggio e narrazione per capire il presente. Occorre la consapevolezza che solo con una lettura significativa si può smettere di alimentare una cultura sessista, dannosa per gli stessi uomini, tanto che anche alcuni di loro iniziano a criticarla e parlano esplicitamente di mascolinità tossica. Si smetta quindi di ignorare colpevolmente il pensiero femminista, anzi si inizi a studiarlo. Soprattutto per chi opera nel settore dell’informazione, dell’educazione e della politica, non è più cosa rimandabile.
Note:
1. Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, 2011.
2. Espressione mutuata dal titolo dell’articolo di Clara Jourdan, Creare attività più onorevoli della guerra, sul sito della Libreria delle donne in Contributi, 9 marzo 2022 (https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/creare-attivita-piu-onorevoli-della-guerra/).
3. Una di queste lodevoli eccezioni è costituita da Giulia Giornaliste, associazione di professioniste che si pone l’obiettivo di trattare temi che riguardano le donne con un linguaggio privo di stereotipi: https://giulia.globalist.it
4. Emma Ciciulla, Quando il “femminismo” ti vuole donna-oggetto, VD3, 16 marzo 2022, (https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/quando-il-femminismo-ti-vuole-donna-oggetto/).
(www.libreriadelledonne.it, 11 maggio 2022)
di Francesca Traìna
Ogni domenica mattina, noi dell’Udi di Palermo teniamo un presidio presso la statua della Libertà contro la guerra, con i nostri cartelli dove abbiamo scritto: FUORI LA GUERRA DALLA STORIA, NÉ FRONTIERE NÉ GUERRA SULLA NOSTRA TERRA e altro. Lo faremo fino a quando non verranno deposte le armi. Studenti di scuole, da noi contattate, eseguono piccoli concerti, canti, e noi stesse leggiamo o organizziamo brevi performance sul tema. Io ho scritto qualcosa, compresa la poesia che ho pensato di inviarvi, letta al presidio. Credo fortemente in questi messaggi simbolici che partono da noi donne che siamo storicamente fuori dalla guerra, atrocità di matrice patriarcale.
Questi giorni caduti sulla terra
come stelle battenti
partiture di fuoco,
straziate su croci di ferro,
queste notti crollate sui ponti
come lune venute dal rombo
di un nuovo big bang,
hanno acceso piccoli lumi
nei rifugi dove dorme la rosa
accanto a fagotti bambini
stretti da braccia materne.
C’è chi canta, chi appena respira,
chi emette lamenti e prega
mentre un violino suona
un motivetto allegro.
Strappate l’inverno dal cielo di Kiev,
lasciateci andare.
L’alba ci aspetta nei campi,
dobbiamo spalare la neve
per una semina nuova.
Strappate l’inverno dal cielo di Kiev,
e tu bambina senza nome
canta ancora let it go,
let it go…
(www.libreriadelledonne.it, 30 aprile 2022)
di Stefano Sarfati Nahmad
Nella sentenza della Corte costituzionale che stabilisce che è illegittimo dare automaticamente il cognome del padre ai figli, non ci vedo tanto un passo avanti nella lotta al patriarcato (forse che Luisa Muraro o Carla Lonzi sarebbero state donne più libere o migliori femministe col cognome materno?) e nemmeno mi appassiona il fatto che i genitori possano dare un cognome o l’altro. Quello che mi farebbe piacere, vedremo poi le leggi attuative, è che un figlio o una figlia a un certo punto possano scegliere di adottare un cognome o l’altro o entrambi (certo non più di due!) come a risignificare la propria presenza nel mondo. È questa la mia esperienza quando, dopo un lunghissimo iter conclusosi addirittura con un decreto del ministero di Grazia e Giustizia pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ho ottenuto la possibilità di aggiungere, anteponendolo, il cognome materno, era la fine degli anni Novanta. Figlio di genitori separati, sono stato cresciuto soprattutto da mia madre con un non piccolo aiuto di sua madre, mentre mio padre era diventato più un parente, uno zio, per la pochissima rilevanza che aveva per me, anzi spesso metteva addirittura degli ostacoli alla mia esistenza. Quando ho preso coscienza di questa cosa mi è venuto spontaneo di voler significare la riconoscenza per il ramo materno e nonostante fosse allora così difficile sono andato fino in fondo e posso dire che per me questa cosa ha fatto ordine simbolico.
Ecco, se fossi il legislatore, oltre a dare la possibilità a quei rompini dei genitori di scegliere il cognome che vogliono, renderei soprattutto disponibile ai maggiorenni la possibilità di scegliere liberamente tra i cognomi dei genitori.
(www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2022)
È interessante la narrazione dal punto di vista del giovane figlio maschio che lotta perché venga affermata la sua riconoscenza per la madre e il ramo materno della sua famiglia. Tuttavia, ci pare che Stefano Sarfati dimentichi un fatto essenziale: il diritto fa parte dell’ordine simbolico ed è importante che la rivoluzione simbolica delle donne vi trovi un’iscrizione. L’automatismo del cognome paterno è un’altra colonna del patriarcato già in macerie che è crollata.
(La redazione del sito della Libreria delle donne)
di Laura Colombo
Sappiamo bene che in tempo di guerra le notizie sono attraversate da menzogne, omissioni, propaganda e, se pensiamo alle piattaforme social, anche da svariate idiozie. Tuttavia, sono in cerca di un’informazione che mi avvicini alla comprensione dei folli avvenimenti di questi ultimi mesi, ed è così che ho trovato un articolo di The Times UK che a prima vista sembrava far sperare: “Se le donne avessero potere, ci sarebbe meno violenza” (https://www.thetimes.co.uk/article/if-a-woman-was-running-russia-thered-be-no-war-in-ukraine-h9w99b087). Il titolo riprende le parole di Kaja Kallas, presidente dell’Estonia dal gennaio 2021, convinta che se ci fosse stata una donna a capo del Cremlino, questa guerra non sarebbe mai scoppiata. Condivido la sua argomentazione perché prende forza dalla sua esperienza e tocca il sentire comune di donne e uomini: “Probabilmente è molto sessista, ma lo voglio dire lo stesso: se hai dato vita a un essere umano, è così crudele ammazzare il figlio di un’altra donna” (“Maybe it’s very sexist, but I’m still going to say it: if you have given birth to human life, taking away the life of another mother’s child is just so cruel”). Simone Weil, in un saggio del volume La scienza e noi, parlando della costrizione del tempo tende il filo del ragionamento sul potere e sulla forza utilizzando esempi magistrali che risuonano in quanto detto da Kaja Kallas: “… è necessario un anno di fatica e di cure per far spuntare un’altra messe nel campo; non si resuscita un uomo morto e per far sorgere nel mondo un uomo nuovo ci vogliono venti anni. Questa necessità, che ci incatena strettamente, si riflette nella costrizione sociale mediante il potere che essa procura a coloro che sanno bruciare i campi e uccidere gli uomini, cose rapide, nei confronti di coloro che sanno far maturare il grano ed allevare i bambini, cose lente”.
Sanno resistere alla prova del presente queste parole di verità? Hanno la forza di esprimere qualcosa di nuovo, che scompagini la logica della forza e del potere, mettendo fine alla violenza cieca e insensata della guerra? Apparentemente no, perché nello stesso articolo la narrazione prosegue con un salto del pensiero nella prospettiva della contrapposizione amico-nemico, ricordando l’adesione dell’Estonia alla Nato dopo la caduta dell’Unione Sovietica, invocando ancora più soldati Nato, già presenti in forza in Estonia, nelle vicinanze del confine con la Russia, menzionando gli aiuti militari all’Ucraina pari a un terzo del budget dedicato alla difesa. E Kaja Kallas conclude dicendo che si trova dalla parte giusta della cortina di ferro, che è quella della Nato (“For us, we are now on the right side of the Iron Curtain, which is the Nato side”). La logica degli schieramenti porta a considerare tutto il male nella parte avversa e spinge a obliterare la vita degli altri, a dimenticarne il valore trasformando gli esseri umani in pedine sacrificabili sullo scacchiere di guerra.
Mi sembra incredibile che possano coesistere due posizioni così antitetiche, espresse in modo lampante nella manciata di righe di un articolo. Tendo a interpretarlo in senso differente a quanto vuole suggerire il titolo dell’articolo: se le donne arrivano al potere, devono radicarsi ancora più profondamente nella loro differenza per non perderla, e non perdere così la possibilità che davvero la guerra sia messa fuori dalla storia. Certo, gli uomini dovrebbero saper vedere questa radice, abbandonando narcisismo ed esercizio della forza per un vero cambio di civiltà. Ma qui si apre un altro capitolo.
(www.libreriadelledonne.it, 29/04/2022)
a cura di Laura Minguzzi
Pubblichiamo l’introduzione all’incontro del 26 marzo 2022 tenutosi presso la Libreria delle donne per la presentazione del libro di Vittoria Longoni Madre Natura. La Dea, i conflitti e le epidemie nel mondo greco (2021) edito da Enciclopediadelledonne.it
L’autrice, grecista e femminista, esplora nei testi classici antichi le tracce di una diversa concezione della divinità cosmica e di un orizzonte di valori alternativo al dominio patriarcale. La sua è una voce che come recita il titolo di questo incontro rappresenta una forza che si oppone alle guerre. Ci lega una relazione più che decennale, nata nella scuola, eravamo e siamo insegnanti, basata sull’amore per le lingue antiche e moderne. Quando ho proposto il suo libro non mi/ci aspettava/mo certo di trovarmi/ci in questa situazione di doppia emergenza, la pandemia e la guerra in Ucraina e in questo pericoloso tornante epocale, causato dalla pulsione, soprattutto maschile, a fare schieramenti armati. Noto nell’arena pubblica una profonda difficoltà a fare ricorso al discernimento, qualità umana che fa leva sul primun vivere di radice femminile e materna. Sento una grande responsabilità per il momento storico che stiamo vivendo. La scrittura di Vittoria è ispirata dalla fiducia nella relazione, nella parola e nella mantica.
L’anno scorso alla fine di novembre ho visto uno spettacolo multimediale Resurrexit Cassandra, un monologo di Sonia Bergamasco. Stavamo riprendendo a respirare pur con la mascherina e mi sentivo molto speranzosa. Cassandra risorge e parla: richiamata dalle tenebre, dal buio cui la sua giusta e veritiera profezia l’aveva condannata. È un buon segno mi sono detta: la profezia come provocazione al cambiamento. Costretta oggi a resuscitare per portare un messaggio, pronunciare un ulteriore avvertimento: quello della scomparsa della vita sul pianeta se non ci sarà un autentico e radicale cambio di civiltà. Come recita il titolo di questo incontro La forza che si oppone alle guerre, abbiamo visto una giovane donna di origine russo/ucraina, Marina Ovsyànnikova, giornalista del primo canale della TV di Stato russa che come Antigone, contro il re Creonte, si è esposta con un cartello e una frase che non era uno slogan, ma un grido di denuncia, contro la guerra fratricida in corso e le menzogne di Stato. Ha rotto il silenzio sulla narrazione bugiarda del potere e con la sua forza soggettiva, singolare, ha deciso di risvegliare dal sonno della ragione il popolo russo ed è immediatamente suonato il gong in tutto il pianeta. Il suo gesto di rottura ha fatto il giro del mondo. Una forza simbolica, un altro genere di forza. Non poteva più tacere, ha gridato la verità con grave rischio della vita per sé e per i figli, oltre al licenziamento immediato.
Vittoria Longoni dà alla sapienza femminile dei miti ancestrali una seconda chance. Se sapremo ascoltare e approfittarne. La sapienza arcaica e la manifestazione della libertà femminile possono congiungere ciò che i muri separano, ristabilire l’ascolto dal dentro al fuori. È un’altra forma di forza che si oppone alla Legge brutale dei rapporti di forza, quella distruttiva delle guerre fratricide. La nostra generazione che ha messo al mondo la libertà femminile, fa parlare l’esperienza soggettiva del rapporto con la natura vivente che rifugge da un principio universale astratto ed essenzialista. In quanto pensiero dell’esperienza ci differenzia da, esprime differenza sessuata, non nascondendo la propria origine. Parliamo di un sentire proprio che si annida in ciascuna/o di noi che produce parole sapienti e veritiere, una postura interiore da decifrare e comunicare collettivamente per scrivere un’altra storia. Ciò che scrive Vittoria è sia nuovo che antichissimo.
Nel capitolo La Legge brutale dei rapporti di forza, Vittoria Longoni scrive che non a caso i due termini greci loimòs e limòs (peste e carestia) sono riportati da Erodoto nelle sue Storie a proposito di Creta, quasi come sinonimi. “Poiché i Cretesi avevano partecipato alla guerra di Troia accanto a Menelao, al loro ritorno per punizione divina, furono colpiti da carestia e da un’epidemia. Nel mondo greco anche le epidemie e la peste sono attribuite alla ubris e all’arroganza degli uomini che ricorrono alle guerre per risolvere i conflitti e imporre le leggi e il potere a discapito della Madre Natura o della Dea Madre”1 (pag.169).
A proposito di Diotima, i discorsi della “straniera di Mantinea”, nel Simposio, scrive Vittoria, sono un amalgama complesso e lei prova a tradurre dall’originale alcuni passi che trova vicini alla sua sensibilità e consiglia di non interpretarli secondo le teorie platoniche, accostandosi alle espressioni ricorrenti “sia secondo il corpo che secondo l’anima”, in modo che i due ambiti siano connessi e non separati né considerati l’uno superiore all’altro. “L’Amore è un grande demone, daimon in greco, qualcosa di intermedio tra divino e mortale. La sua funzione è di essere messaggero e interprete tra persone umane e divinità. Dato che l’amore è questo, desiderio e tensione […] La sua attività consiste in un partorire nella bellezza, sia secondo il corpo sia secondo l’anima. Tutti gli esseri umani concepiscono, sia nel corpo sia nell’anima. L’amore non è amore del bello, come credi tu. È desiderio di generare e partorire nel bello…”.2
Il ragionamento platonico procede poi per successive astrazioni sempre più lontane dai corpi sessuati. Si propone il raggiungimento di un “termine ultimo” e a questo punto, scrive Vittoria Longoni, non si parla più di Amore come dàimon, come ricerca, che non consente mai del tutto il possesso del bene. Nel suo libro Vittoria Longoni scrive che l’oracolo di Delfi in origine era la sede di una divinità femminile. Lo stesso afferma la storica medievale Maria Milagros Rivera-Garretas in La verità assente della filosofia: la storia vivente3, “…Il tempio greco più celebrato per la conoscenza maschile (il “Conosci te stesso” ndr), quello di Apollo a Delfi, fu un tempio violentemente usurpato, nel secolo VIII a.C. dal patriarcato, alla Grande Dea della Terra, la dea preclassica di Delfi…Era fin dal Neolitico un importantissimo luogo di culto della Dea Madre e di oracolo delle pitonesse, indovine e sibille, dalle cui viscere sgorgavano le risposte profetiche……”
A proposito della profezia nel mondo greco, a Femonoe, prima profetessa di Apollo, inventrice dell’esametro, viene attribuita l’invenzione del motto delfico “conosci te stesso”: possiamo quindi supporre un’origine femminile e oracolare anche per la filosofia. Troviamo un testo di Femonoe nel Libro dei sogni di Artemidoro che la descrive intenta a discutere questioni filosofiche. Femonoe si dedicò anche a studi sugli uccelli e all’interpretazione del loro volo, citata da Plinio ne La Storia naturale. Nell’epica e nel teatro antico ha grande rilievo la figura di Cassandra, la figlia di Priamo, desiderata da Apollo, che non volle ricambiare l’amore del dio: ne ricevette il dono della profezia ma anche la sciagura di non essere creduta.
In sintesi, con le parole di Virginia Woolf accenno al motivo per cui ho ripreso lo studio della lingua greca, ho seguito i corsi di Vittoria per dodici anni e ho potuto leggere i testi in originale: il desiderio della lingua madre, della verità piena corporea, profumata della lingua materna…
Dal Lettore Comune di Virginia Woolf, un breve saggio dal titolo “Sul fatto di non sapere il greco” Virginia analizza i personaggi di alcune tragedie per esempio il mito di Elettra di Sofocle e il loro linguaggio. Frasi laconiche, semplici esclamazioni di gioia, di disperazione, di odio e le paragona per esempio a Jane Austen che con una frase sostiene tutto il romanzo in Emma: “Io ballerò con lui”.
Si chiede Virginia non sarà forse che leggiamo nei greci ciò che essi non si sognavano mai di scrivere? Non è che scopriamo nella poesia greca non proprio quello che c’è ma quello che ci manca? Dietro ogni riga a volte ci sembra ammassata l’intera Grecia? Una terra non ancora depredata, un mare non ancora inquinato… Ogni parola è rinforzata da un rigore che sembra traboccare dall’ulivo, dal tempio, dai corpi. La causa di questo splendore è la lingua… perciò è inutile leggere il greco tradotto… Ci mancano i suoni, gli accenti, il ritmo della lingua madre… Con il rumore del mare nell’orecchio (nell’Odissea) attorniati dai vigneti, dai prati, dai ruscelli avvertono meglio di noi la presenza di un fato implacabile e proprio ai greci noi ci rivolgiamo quando siamo saturi di imprecisione e di confusione, saturi di cristianesimo e delle consolazioni, saturi della nostra epoca…
(www.libreriadelledonne.it, 26 marzo 2022)
di Paola Mammani
La maggioranza dei politici, dei giornalisti e di tutti quelli impegnati a fare opinione pubblica, continua e intensifica i toni cupi e violenti della polemica contro quanti si sforzano di capire che cosa si sarebbe potuto fare per evitare l’orribile aggressione di Putin all’Ucraina e che cosa sarebbe possibile fare per trovare una soluzione al conflitto. E inoltre, se si sarebbe dovuto evitare l’invio di armi all’Ucraina, per non dire del repentino progetto di riarmo dell’Europa. Comincio a pensare che l’obiettivo di tanto accanimento, sempre unito a gran sfoggio di erudizione, sia la gente comune, la maggioranza, milioni di donne e uomini pochissimo convinti della giustezza di quanto sta avvenendo. È il loro giudizio che deve essere screditato come quello di opinionisti della domenica, strateghi da bar e via insultando. Sono da intimidire, dovrebbero sentirsi inadeguati, inesperti, mai abbastanza informati. Serve questo svilimento e disprezzo di tipo culturale, pseudo-intellettuale, per invalidare il sentire profondo di una popolazione mediamente acculturata e infelicemente consapevole di avere pochi strumenti per incidere sulla dura realtà di questo momento. Chi può e vuole aiutare le vittime dell’aggressione sa come farlo e sa a chi rivolgersi. Ma quel 78% di intervistati dall’Ipsos* che «[…] ritiene che dovremmo evitare a ogni costo l’entrata in guerra dell’Italia […]» è sul piano della politica che sente di riuscire a contare poco o nulla. Ancora l’Ipsos: «[…] intervenire indirettamente a fianco dell’Ucraina inviando armi sarebbe, per il 35% degli italiani, rispettoso dell’articolo 11 della Costituzione Italiana, invece, per il 36% non lo sarebbe. In questo caso, il 29% degli intervistati non si esprime». Sospetto che politici, giornalisti, esperti vari sappiano bene che cosa pensa il 29% che non si esprime.
Siamo milioni, intenti a pensare più o meno alla stessa cosa, a come uscire dall’angolo di questa brutta storia. Prima o poi potrebbe arrivare l’idea giusta e per questo hanno lanciato una preventiva campagna d’attacco. Loro, i politici, gli esperti, lo sanno che mai come ora ci sono apparsi inadeguati e perfino incolti. Chi mai vorrebbe un primo ministro che parla della pace come di un’illusione e che invita i politici a tirar dritto su opinioni, pareri, posizioni assunte in un passato anche recente, nei riguardi di Putin e della Russia? Come se tale discussione pubblica fosse un inutile attardarsi invece che un’occasione politica per elaborare analisi e proposte.
Loro lo sanno che potremmo sul serio cominciare a dirgli che stanno decidendo di cose per cui non hanno alcun mandato. Potremmo sul serio dichiarargli la guerra e cominciare a porle noi le condizioni per rimanere nell’Unione europea e nella Nato, con buona pace di Draghi e di Letta.
Qualche esempio: non si entra nell’Unione europea se si pratica la Gpa, come in Ucraina, o con una Costituzione che permette di inquadrare in un esercito regolare una formazione nazista come il battaglione Azov. Oppure: esce immediatamente dall’Unione europea chi tratta l’aborto come fa la Polonia ed esce dalla Nato chi attua legislazioni simili, come molti stati degli USA. E potrei continuare, potremmo e potremo! Se assumeremo il senso della vita della maggior parte delle donne come metro per decidere delle cose che contano. È a donne riunite che Papa Francesco ha espresso il suo giudizio inappellabile sul riarmo: la pazzia!
Penso che la metafora della guerra sia linguisticamente efficace per dar conto della volontà che si apra un conflitto politico duraturo e irreversibile, come mi auguro avvenga.
(www.libreriadelledonne.it, 26 marzo 2022)
di Laura Minguzzi
La guerra non ha un volto di donna è il titolo di un libro di Svetlana Aleskievič scritto nel 1985 ma da poco tradotto e letto in Italia. Non è un caso, era uscito prima della caduta del muro, durante la guerra fredda. Dopo ci fu la perestrojka, l’entusiasmo di una fine della storia, storia intesa come una serie di guerre e paci, quasi assimilabile a un avvicendarsi naturale di stagioni e la fiducia che la formula di M. Gorbačëv di un’Europa Casa Comune potesse realizzarsi senza ostacoli. Un’aspirazione che risale all’800, quando la cultura russa occidentalista guardava a ovest combattendo la Russia zarista. Anche oggi vediamo un movimento di protesta che spera in un cambiamento senza spargimento di sangue. Dal 24 febbraio è in atto una guerra fratricida. Finito il patriarcato, grazie al discernimento indipendente guadagnato da mezzo secolo di movimento delle donne, vediamo fronteggiarsi la mascolinità armata, il disincarnato potere delle armi. I corpi in lotta che ricordo io sono quelli delle Femen, un movimento di giovani donne ucraine che con arditi e creativi flashmob nelle piazze del proprio paese, in Francia, in Russia, in Polonia ecc. hanno disturbato e ostacolato il trionfalismo della cricca del partito di Putin, in patria e in occidente. Quello stesso occidente che oggi scopre di avere condiviso senza troppi scrupoli con “l’Impero del male” affari e ideologie misogine. I corpi delle Pussy Riot che dieci anni fa furono condannate a due anni di Colonia Penale nella prigione di Perm in Siberia e che vanno oggi in Piazza Pushkin o al Maneggio come allora (ed è notizia recente, Marija Alëchina è stata arrestata) per denunciare l’alleanza di Putin con la Chiesa ortodossa, col patriarca Kirill, che giustifica la guerra – i due poteri uniti contro la libertà femminile e la libertà di pensiero per restaurare un fantascientifico potere imperiale. Non a caso Putin ha intavolato una tragicomica conferenza stampa per l’otto marzo circondandosi di donne di potere che lo sostengono. A lui piacciono le donne che lo confermano nella sua virilità armata. Come Valentina Ivanovna Matvienko, che al Consiglio di Stato, ha approvato la cosiddetta “Operazione speciale” e che irride pubblicamente le minuscole preoccupazioni quotidiane e alle sofferenze delle donne ucraine e russe, della gente comune a fronte e in nome della difesa dei confini e della potenza della patria. Non vede le tragiche condizioni dei milioni di donne e civili che fuggono dall’Ucraina (che pure è il suo paese di origine) e nemmeno le sofferenze del proprio popolo.
Ogni giorno in alcune grandi città russe manifestano giovani e non solo, che riescono a comunicare su siti liberi (Telegram, Medusa, Youtube ecc…) non ancora bloccati dalla censura di Stato. Si danno appuntamento online in alcune piazze a ore stabilite, rischiano arresti, licenziamenti e molti anni di prigione e ci informano sulla situazione reale al di là della propaganda menzognera. Sappiamo che il movimento delle madri russe fa sentire la sua voce di verità come fu durante la guerra in Cecenia e in Afganistan. I soldati russi morti sono più di 5000 nei primi giorni di guerra come si denuncia sul canale youtube di Aleksej Naval’nyj. Purtroppo anche in Ucraina vediamo agire la propaganda di Stato a colpi di immagini seduttive. Su Facebook sono postate già dal 2014 foto di giovani donne, molto truccate e sorridenti che in tuta mimetica abbracciano fucili e inneggiano al presidente, eletto a eroe della patria. Una sorta di simmetrico incitamento/esaltazione maschile del sacrificio di sé, che fa leva sulla bellezza dei corpi femminili e ne fa un uso strumentale. Le foto sono quelle di giovani, morte in campo di battaglia, durante gli otto anni della guerra di cosiddetto basso profilo ai confini orientali del paese, mostrate come modelli da seguire. Per fortuna nonostante ci siano molte giovani donne arruolate nell’esercito nazionale ucraino, non parlano oggi a favore della guerra e le molte ucraine presenti in Italia, che hanno manifestato nelle nostre piazze per la pace, raccontano dei loro sforzi per convincere figli, mariti, parenti, fidanzati a fuggire e ricongiungersi con loro nelle nostre città.
(www.libreriadelledonne.it, 10 marzo 2022)
di Clara Jourdan
Mentre assisto mia madre anziana, sopra la casa passano aerei F-35 nei voli di prova da e per il vicino aeroporto militare di C. Ci siamo abituate, come nel secolo scorso con gli ancor più rumorosi F-104. Poi arrivano le notizie dall’Ucraina, morti e profughi e distruzione di città. Terribile. Che cosa possiamo fare? Mia madre prega, io cerco di capire cosa stia succedendo. La guerra si sta estendendo: il nostro parlamento ha deciso di far partecipare l’Italia inviando armi al paese attaccato. Buona intenzione ma decisione sbagliata, aumenta il pericolo di una nuova guerra mondiale che potrebbe essere l’ultima dell’umanità. Nel 1945 la bomba atomica l’avevano solo gli Stati Uniti e l’hanno usata. Adesso ce l’hanno tutti: come possiamo credere che tutti e ciascuno dei governanti di oggi siano migliori? Che un Putin sia più responsabile di Truman che ha fatto sganciare l’atomica su Hiroshima e dopo averne visto l’effetto un’altra su Nagasaki?
Ricordiamo tutti la gioia generale alla caduta del muro di Berlino nell’89 e il senso di sollievo per quel che ne è seguito, la fine della Guerra fredda in Europa. Se era troppo sperare che lo scioglimento del Patto di Varsavia (1991) portasse anche allo scioglimento della Nato, almeno c’era l’accordo di Bush con Gorbačëv che la Nato non si sarebbe allargata verso est. Un impegno di pacificazione. Pacta sunt servanda, i patti vanno rispettati, il principio alla base del diritto internazionale per evitare le guerre tra stati ci rassicurava. E invece la Nato si è ampliata a est, più volte dal 1999, l’ultima nel 2020, ben 14 paesi sono entrati e non ci abbiamo badato. Nemmeno quando l’invito della Nato è stato rivolto anche all’Ucraina. Parlo per me ma non ricordo proteste, e non sono certo l’unica a essere stata distratta, perché anche oggi che ne vediamo le tragiche conseguenze sono ben pochi i commentatori – Barbara Spinelli, Luciana Castellina, Ida Dominijanni… – che ci ricordano questi fatti storici fondamentali, ignorati da quasi tutti i giornalisti e «i politici nostrani, sgomenti, accorati, come se non avessero nessuna parte nella vicenda», sottolinea Paola Mammani su questo sito. Si tende sempre a pensare ai nostri governanti “democratici” come a persone responsabili, i guerrafondai sono sempre gli altri. Eppure dovremmo ormai saperlo che la fabbricazione di armi sempre più progredite e le alleanze militari non servono ad altro che a fomentare guerre, come dimostra lo stato di guerra perenne che cova e si riaccende qua e là per il pianeta. Solo la cecità indotta delle tradizioni culturali patriarcal-patriottiche o dal desiderio maschile di potere impedisce di rendercene conto e agire di conseguenza, «creare attività più onorevoli» per gli uomini, come scriveva Virginia Woolf nel 1940 (Pensieri di pace durante un’incursione aerea).
In questa tragedia c’è una cosa che mi colpisce in positivo: l’accoglienza europea ai tantissimi profughi dall’Ucraina, che sono soprattutto donne con i loro figli. Io temevo che avremmo fatto come con i profughi dalle altre guerre di questo secolo, respingerli. E invece le stiamo accogliendo a braccia aperte. Non credo sia solo perché sono popolazioni vicine, come si dice e probabilmente è vero. Io voglio sperare che sia in atto un cambiamento, dopo la delusione per l’occasione mancata della pandemia in cui è stato permesso alle imprese farmaceutiche di impedire ai paesi poveri la libera fabbricazione dei vaccini. Se usciremo da questa guerra forse riconosceremo come fratelli e sorelle anche chi scappa dalle guerre dell’Africa, dell’Asia, dell’America. Perché abbiamo sperimentato che ormai il mondo è uno e siamo tutti e tutte coinvolte.
(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2022)