di Rosa Serra


Poco tempo fa, in un reportage sulle violenze in Iran si è vista una anziana donna iraniana togliersi il velo e mostrare, come fosse una sua intimità, la sua testa bianca alla telecamera in segno di rifiuto di obbedienza a leggi maschili ingiuste e di adesione alla lotta e al sacrificio di donne, di uomini e bambini del suo paese.

È stato un gesto per lei enorme, che mi ha preso il cuore, come tutte le notizie che, terribili, ci giungono quotidianamente dall’Iran.

Questa donna il velo lo ha indossato per almeno 50 anni o forse più e forse, per sua scelta o abitudine, lo teneva anche ai tempi di Reza Pahlavi.

Può anche essere che fosse diventata la sua seconda pelle, che non le pesasse ormai più, come non pesava fino a non troppo tempo fa, l’immancabile fazzoletto a triangolo, sulla testa delle nostre donne più anziane, soprattutto nei piccoli paesi.

Come può un governo odiare così ferocemente il proprio popolo.

Come possono questi uomini odiare così le donne e pensarle solo funzionali esclusivamente ai propri bisogni sessuali, riproduttivi e facendolo in maniera così totalizzante e stupido da impedire loro perfino il canto in loro presenza.

Non è questa mia, una domanda, ma un grido doloroso e di rabbia.

Sono sempre più numerosi gli uomini che appoggiano la protesta nata dalle donne e ne stanno anche morendo.

Sicuramente ci sono in ballo altre rivendicazioni che hanno preso l’avvio da quella delle donne, ma il gesto di imitare, con le dita a forbici, il taglio dei capelli fatto dal calciatore della squadra di calcio iraniana in Quatar in un contesto internazionale, ha anch’esso la sua forza e richiesta di libertà. Ma è anche evidente che quel gesto sia stato attraversato dal desiderio e dalla forte azione che le donne iraniane (e non solo lì) stanno esprimendo con determinazione, ben consapevoli della forza brutale della repressione che continua ad abbattersi su di loro.


Ancora una volta, la vera libertà passa attraverso la libertà femminile.

DONNA VITA LIBERTÀ 

Rosa Serra è parte attiva dell’associazione La Merlettaia di Foggia


(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)

di Luisa Muraro


Lunedì sette maggio, verso le sette del pomeriggio, sono entrata in un bar e ho ascoltato, dalla televisione accesa, la notizia di una donna uccisa dal marito in seguito a un “banale litigio”, a Napoli. Un’altra, un’altra e un’altra ancora. Nel bar è corso un brusio. Da dove nasce l’odio maschile per le donne? Che cosa nasconde?

Si tratta di un odio abnorme, che tira fuori il suo muso di assassino quando, per una ragione qualsiasi, lei non sta più dentro il quadro in cui lui l’ha messa e pretende che rimanga: il quadro disegnato da un misto di oscure aspettative e di ovvie comodità.

In passato, le nostre madri e antenate hanno speso tesori di pazienza e d’intelligenza per corrispondere alle esigenze maschili senza diventare sceme o pazze. Non tutte ci sono riuscite.

Oggi molte, la grande maggioranza, non ci stanno più. Si sentono libere e intendono comportarsi di conseguenza. Risultato: un crescendo di violenza maschile.

Fulvia Bandoli dice la cosa giusta quando, nell’appello agli uomini del suo partito, mette sotto accusa il loro atteggiamento d’ignoranza e disattenzione verso la novità storica della libertà femminile. L’ostacolo maggiore in questo momento storico è, infatti, l’arretratezza mentale e morale di uomini che hanno usato la propria posizione privilegiata per non cambiare. Ne cito uno soltanto, il più illustre della vasta schiera: Dominique Strauss-Kahn. Che si è messo fuori gioco con i suoi stessi eccessi. I mediocri, invece, resistono incollati ai loro posti.

Quel maschio fragile che non accetta limiti s’intitola il contributo dello psicanalista Massimo Recalcati per fare luce sul tema. La psicanalisi comincia dunque a registrare che gli uomini arrivano impreparati all’appuntamento con la libertà femminile. Si tratta, suppongo, di un contributo iniziale. Per considerarlo un inizio promettente, e non la testimonianza d’obbligo in questo momento di mobilitazione anche maschile, mancano secondo me due spunti.

Primo, Recalcati non parla a partire da sé, uomo di sesso maschile. E tace ogni possibile legame tra la violenza sessista e la sessualità maschile con le sue ordinarie caratteristiche. I violenti vengono da lui compresi dentro un quadro patologico. Ma non è così. O così non risulta all’esperienza di donne che hanno conosciuto la violenza maschile. Ci sbagliamo noi o l’analista sta esorcizzando la sua propria violenza?

Secondo, Recalcati ignora l’incidenza della realtà storica. Parla, per esempio della “legge della parola” che unisce gli esseri umani, ma viene calpestata dai comportamenti violenti. Non so l’origine di questa formula “legge della parola”; se l’espressione ha un senso, non può non far pensare che le donne sono state escluse per legge dalla presa di parola in pubblico, dalla scrittura e dalla lettura, dal parlamento… Con innumerevoli conseguenze ancora vive e attuali nei rapporti fra i sessi. Contro cui, temo, l’ideale legge della parola enunciata da Recalcati non ha voce.

Ancor più pesa sullo stato dei rapporti fra i sessi il fatto che il cosiddetto contratto sociale, fatto per tutelare i cittadini dalle violenze dei prepotenti, non ha mai tutelato le donne dalla violenza privata maschile. Mai, in nessun paese del nostro civile Occidente.

Come si possa leggere insieme, ma senza fare confusione, la realtà storica e quella soggettiva, io non so, ma che si debba tentare, non ho dubbi, perché l’una e l’altra in me sono scritte insieme, sulla stessa pagina.


(www.libreriadelledonne.it, 9 maggio 2012)

di Paola Mammani e Tiziana Nasali


Lettere – non pubblicate – al Direttore de La Stampa: omicidi di donne, uomini che mancano all’appello e legge Merlin. (La redazione)


Milano, 22 novembre 2022


Gentile direttore,

alcune amiche hanno apprezzato lo spazio che La Stampa ha dato allo sconcerto suscitato in molte donne dall’articolo di P.B. “utilizzatore finale” delle prestazioni di una delle due povere donne cinesi prostituite e trucidate di recente a Roma. Ma mi chiedo: perché far intervenire due giornaliste a difesa della scelta del giornale? Buon per loro che ne sono soddisfatte, ma che cosa si dimostra? Che vi è un’opinione di donne contraria alle lettrici protestatarie? Certo, le donne non sono un gruppo di interesse omogeneo, sono libere, sempre di più, e hanno opinioni e giudizi differenti. Ma sono le indignate quelle che dovrebbero essere per lei interlocutrici degne di attenzione. Era troppo sperare che lei non contrapponesse alle lettrici delle giornaliste soddisfatte del suo operato? Si trattava di individuare come seri interlocutori delle indignate, uomini dotati di maggiore consapevolezza delle responsabilità del loro sesso, diversamente dallo scrittore cui lei ha aperto le pagine del suo giornale.


Paola Mammani (della rete per l’Inviolabilità del corpo femminile)


Milano, 24 novembre 2022


Gentile Direttore,

apprezziamo che lei abbia tenuto aperto l’importante dibattito sulla prostituzione. Vogliamo fare alcune brevi riflessioni. Non crediamo che il cosiddetto modello nordico, la criminalizzazione del cliente, proposto sul suo giornale dalla Senatrice Maiorino attraverso una modifica della legge Merlin, sia una buona soluzione. Riconosciamo invece alla legge Merlin una particolare forza, soprattutto simbolica, che è interpretazione profonda e umanamente lungimirante del fenomeno prostitutivo. Considera infatti reato solo lo sfruttamento della prostituzione e affida a tutti noi, forse più agli uomini che alle donne, il compito di estinguere le cause che ne originano e perpetuano l’orrore, prima fra tutte la richiesta di sesso a pagamento da parte degli uomini. È questa battaglia simbolica, di capovolgimento di significato, di cambiamento dell’immaginario e della narrazione della sessualità maschile, che va combattuta. Le buone leggi poi seguono, se servono.

Veniamo infine ad alcune considerazioni sulle prospettive.

L’attuale governo è ben lontano dalla possibilità di trovare una maggioranza a riguardo. Se ne riparlerà tra 5 anni o comunque dopo la caduta del governo Meloni, e solo in via ipotetica.

Infine, in un paese come l’Italia, in cui non risulta efficace nessuna forma di controllo, è quasi impossibile immaginare l’avvio di serie azioni sanzionatorie nei riguardi dei clienti della prostituzione.


Grazie per l’accoglienza,


Paola Mammani e Tiziana Nasali

della Libreria delle donne di Milano


(www.libreriadelledonne.it, 1° dicembre 2022)

di Annie Marino


Mentre i fatti si stanno ancora svolgendo e le procure sono impegnate a fare chiarezza, mi è capitato di riflettere sugli eventi che sono seguiti alla denuncia della ginnasta Nina Corradini.

Tre circostanze, in particolare, hanno dato impulso a queste riflessioni. La prima riguarda la dimostrazione di solidarietà nei confronti di Nina Corradini da parte della compagna Anna Basta, che si è unita alla denuncia. Anna si è mossa con agilità e coraggio, anticipando, con un post Instagram molto efficace, l’innesco dei farraginosi processi della burocrazia e delle federazioni, per verificare e rendere quindi immediatamente credibile e autorevole l’informazione veicolata nella denuncia di Nina. Anna ha condotto in questo modo un’operazione saggia: per prima cosa, infatti, attraverso la verifica immediata dell’informazione, è stato possibile evitare che la denuncia semplicemente si disperdesse tra le decine di notizie “ad alta risonanza” a cui tutti siamo esposti in questi mesi incredibili – di guerra e crisi sociale, prima che energetica. Di più, è stato possibile scongiurare un’altra conseguenza, quella opposta e più disastrosa, che la denuncia degli abusi fosse gettata in pasto alle opinioni, generalizzata, trattata come una cosa neutra e, infine, forse, deformata o sgonfiata, passando per l’ennesimo scandalo sportivo o, più probabilmente, per un caso isolato.

In questo, ciò a cui finora abbiamo assistito ripropone – con sapienza, come ho già scritto sopra – certe modalità di linguaggio e azione analoghe a quelle che abbiamo visto in opera con il Me Too, fenomeno più volte rievocato nel corso delle ultime settimane (si veda, per esempio, qui). È questa la seconda circostanza che mi ha spinta nuovamente a riflettere – più propriamente, essa ha determinato l’esigenza di una puntualizzazione.

La denuncia degli abusi subiti da Nina Corradini e Anna Basta non mette direttamente in discussione il contratto sessuale, non è quello il punto, il campo visivo appare sgombro dalla presenza degli uomini1 – fatta salva qualche comparsata, come quella del presidente del CONI, Giovanni Malagò. Non vedere o non riconoscere questo, significa negare che ci sono delle nuove domande.

Qui abbiamo delle giovani donne che hanno denunciato abusi – umiliazioni e incuria, con conseguenze gravi, che avrebbero potuto essere più gravi – da parte delle loro allenatrici e insegnanti: con che sguardo alcune allenatrici e insegnanti hanno guardato queste giovani donne? Quale valore hanno dato ai loro corpi e come lo hanno misurato2?

Per ultimo, mi sono chiesta quali e di chi fossero i desideri di cui quei corpi sono, in qualche modo, diventati un mezzo. Potrebbero essere sfuggiti a me, nell’analisi della vicenda, un passaggio chiave o una parola rivelatrice, ma mi sembra che il cortocircuito sia proprio al principio, cioè nel fatto che il desiderio non sia stato espresso o compreso chiaramente – sia esso, supponiamo, un desiderio di «trarre godimento dalla ginnastica ritmica praticata ai massimi livelli» da parte delle giovani donne oppure «di vincere tutte le competizioni» da parte delle allenatrici. Insomma, è macroscopicamente fallita una relazione, quella insegnante-allieva, che ha come presupposto l’affidamento e, al di fuori di questo, difficilmente può essere.

Questo, appunto, riguarda il principio. Adesso, la vicenda si trova al punto in cui un desiderio è stato espresso: «Io e Nina vogliamo fare la differenza. […] Io e Nina vogliamo dire basta al dolore, al terrore. Io e Nina vogliamo alzare la testa anche per chi non ha più forza, perché noi eravamo nella stessa situazione di chi ora non riesce a muoversi. […]»3. Queste parole scritte insieme da due donne, con forza e libertà ritrovate nella loro relazione, hanno modificato radicalmente i fatti.   

1 Un caso di Me Too nel mondo dello sport è stato invece quello che ha coinvolto Larry Nassar, medico della nazionale USA di ginnastica (di cui si può leggere qui o qui).

2 Miriam Patrese, insegnante di ginnastica ritmica e atleta, che si è dichiarata contraria alle pratiche denunciate, come quella della “pesatura in pubblico”, in un’intervista a Repubblica ha fornito degli elementi di contesto che possono agevolare la riflessione. Riporto un estratto significativo: «Tutti sanno che i giudici tendono a premiare la magrezza. Se non sei filiforme e magrissima vieni frenata. Fai un esercizio da oro, ma arrivi quarta se non hai tutti i centimetri a posto, se non hai sembianze da bambina. Gli allenatori? Loro si chiedono se sia giusto investire su una ginnasta se sanno che in gara verrà penalizzata […]».


3 Si tratta di un estratto dal post Instagram di Anna Basta già richiamato sopra.


(www.libreriadelledonne.it, 27 novembre 2022)

di Umberto Varischio


Sabato scorso l’assemblea nazionale del PD ha deciso di permettere la candidatura al ruolo di segretaria/o anche a chi attualmente non è iscritta/o; questo atto potrà consentire a Elly Schlein di aggiungersi a Paola De Micheli, iscritta e già candidata.

Dopo una donna diventata effettivamente presidente del consiglio e «un uomo che può portare avanti politiche femministe» (Letta dixit), finalmente anche in quello che si (auto)considera il partito leader del progressismo italiano è almeno possibile che venga eletta una segretaria, la ex vicepresidente della regione Emilia-Romagna; senza dimenticare la recente elezione di Mara Carfagna a presidente di Azione.

Indipendentemente dal fatto che non sono d’accordo con le posizioni di Schlein su GPA e ddl Zan (e anche su altro), come non sono assolutamente d’accordo con le posizioni e i primi atti di governo dell’attuale presidente del consiglio, mi sembra che, almeno dal punto di vista simbolico, si stia creando una situazione che può ulteriormente cambiare l’orientamento negativo riguardo a donne ai posti di comando che sinora ha dominato nel nostro paese. E nel febbraio 2023, oltre a una presidente del consiglio di destra, ne potremo avere anche un’altra in pectore come leader di uno schieramento progressista.

Potrebbe essere un ulteriore passo avanti; e lo sarebbe se il vero problema non fosse quello indicato storicamente dal femminismo della differenza, cioè che l’obbiettivo non può essere quello di conquistare i vertici della politica maschile, ma di cambiarla alla radice; e della situazione attuale noi uomini portiamo pienamente la responsabilità.


(www.libreriadelledonne.it, 23 novembre 2022)

di redazione


Il 20 novembre 2022 è morta all’età di 93 anni Hebe Pastor de Bonafini, la storica presidente delle “Madres de Plaza de Mayo”, associazione di donne che con un fazzoletto bianco in testa camminano ogni giovedì dal 1977 davanti al palazzo del governo. Fra gli scomparsi, sequestrati e catturati dai militari del regime argentino (1976-1983), c’erano due suoi figli, Jorge Omar e Raúl Alfredo, e sua nuora, María Elena Bugnone.

Hebe è stata più volte in Italia, indimenticabile l’incontro con lei e Mercedes Meroño alla Libreria delle donne di Milano nel 2001, in cui ci ha raccontato la modificazione delle Madres da vittime delle circostanze a protagoniste degli eventi, grazie a invenzioni simboliche e pratiche politiche radicali. Ricordiamo anche la laurea honoris causa all’Università di Bologna il 17 ottobre 2007.

Dal discorso da lei pronunciato in Plaza de Mayo il 30 aprile 2012 in occasione del 35° anniversario dell’associazione: «Ci sono cose molto forti: il ferro, il bronzo, il marmo. Ma mi sembra che più forte del cuore delle Madres non ci sia niente […] Noi non abbiamo fondato niente. Noi Madres abbiamo creato e abbiamo partorito. Abbiamo creato questa forma di lotta e di scontro senza volerlo e senza saperlo […]. Sentiamo la necessità di mettere il nostro corpo e di mettere quanto di meglio abbiamo perché un giorno, quando si parlerà di noi, si dica che noi Madres abbiamo partorito in continuazione, non soltanto figli meravigliosi, abbiamo partorito felicità, giustizia, amore, comprensione, solidarietà».


Ricordiamo i libri:

– Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo, Bompiani 2005; presentato in Libreria delle donne il 22 novembre 2005, https://www.libreriadelledonne.it/report_incontri/le-pazze-di-daniela-padoan/ e recensito per DWF / Mostrare il cambiamento, 1° dicembre 2005 da Laura Colombo, https://www.libreriadelledonne.it/letture/le-pazze-di-d-padoan/

– Non un passo indietro! Storia delle Madres de Plaza de Mayo, Ediciones Asociación Madres de Plaza de Mayo

– Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti del laboratorio di scrittura delle Madres de Plaza de Mayo, Ediciones Asociación Madres de Plaza de Mayo (sempre disponibile alla Libreria delle donne)


(www.libreriadelledonne.it, 22 novembre 2022)

di Umberto Varischio


Abbiamo visto ciò che è accaduto sia prima che dopo il conferimento dell’incarico di formare il governo a una donna: una parata del peggiore paternalismo patriarcale con quasi tutti i commentatori che raccomandavano a Meloni di ascoltare i suggerimenti giudiziosi del Presidente del Consiglio uscente, che assumeva via via i panni del padre o dell’uomo responsabile che doveva guidare la giovane donna inesperta nei meandri della politica nazionale e internazionale.

Immaginiamo uno scenario parzialmente diverso per l’esito delle elezioni politiche del 25 settembre: che a vincerle sia stata sempre la destra, e in particolare FdI, ma che il leader sia, per esempio, Crosetto (o uno qualsiasi dei “fratelli”) e non Meloni. Se il leader di FdI fosse stato un uomo, si sarebbe solo preso atto delle decisioni assunte dal nuovo presidente del consiglio e lo si sarebbe criticato o lodato per le scelte fatte.

Sulla questione dei migranti, al di là dell’inumana e disastrosa gestione da parte del governo di questi ultimi giorni (che probabilmente sarebbe stata la stessa anche se ci fosse stato un “fratello” al comando), nessuno si sarebbe probabilmente permesso di chiedere a un presidente del consiglio (uomo) d’andare a prendere consigli o comandamenti dal lord protettore (come viene definito Draghi) e neppure di criticarlo per “aver dimenticato rapidamente i consigli dispensati” usando i toni del paternalismo patriarcale – come ha fatto, per esempio, Alessandro Barbera su “La Stampa” del 12 novembre. Ha proprio ragione Rebecca Solnit*. Meno male che ci siamo noi uomini che, a tutti i livelli e su tutte le questioni, spieghiamo alle donne qualsiasi cosa… Spesso mi vergogno d’essere uomo.


(*) R. Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose. Saggio sulla sopraffazione maschile, Ponte alle Grazie 2017


(www.libreriadelledonne.it, 16 novembre 2022)

di Umberto Varischio


I toni utilizzati e alcuni commenti – come, per esempio, quello di Radio Popolare di Milano in una corrispondenza serale da Roma sabato 23 ottobre – riguardanti l’elezione dei presidenti di Camera e Senato e l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri dato a Giorgia Meloni, mi fanno pensare che in sottofondo ci sia la convinzione che si stia affermando una nuova forma di fascismo che si servirebbe di sovranismo e patriarcato.

Sono interpretazioni che mi lasciano molto perplesso: in primo luogo per il riferimento a una tragica epoca storica, che a differenza del periodo che stiamo vivendo, non si sostanziava solo di forme sociali e culturali, ma di specifiche strutture istituzionali e repressive che per il momento non sono all’orizzonte. Il fascismo come fenomeno storico e come l’abbiamo conosciuto nel secolo trascorso non è alle porte, e soprattutto non lo è nelle stesse forme di allora, anche se non possiamo fare a meno di preoccuparci di derive autoritarie e di criminalizzazione del diverso.

Sono, al contrario, convinto come veniva affermato nel Sottosopra del 1996, che «la fine del patriarcato non è e non sarà [certamente] una cosa da ridere», e che questo possa comportare, come scriveva Ida Dominijanni, la possibilità che «insieme ad esso crollino le strutture della vita associata che ad esso sono storicamente connesse; […] e che la virilità possa reagire in modo violento alla perdita del controllo sul corpo femminile». Ma quelli che stiamo osservando non sono i segnali di un nuovo totalitarismo, ma colpi di coda di un patriarcato alla fine, che è semmai la causa dello stato cose presenti, non uno strumento per realizzarlo.

Un patriarcato al suo termine come sistema di dominio degli uomini basato sul consenso, o sul silenzio-assenso, delle donne, che cerca di rivitalizzarsi basandosi sul profondo delle nostre emozioni e sentimenti di uomini, sulle pulsioni che anch’io, nel mio intimo, riconosco: una struttura sociale e di potere che di fronte alla molteplicità creativa e vitale che la libertà femminile rappresenta, cerca disperatamente di ricreare un ordine di vecchio stampo. Che può utilizzare anche richiami a forme politiche ormai centenarie, ma si sostanzia di queste pulsioni e si esprime, per esempio, a livello più generale, in Russia con il mito dell’uomo solo al comando e con la retorica guerrafondaia, ma anche in Ucraina con i continui richiami militaristi e con le parole d’ordine di eroismo, in Iran con la violenta e omicida repressione che tenta di negare la libertà alle donne, ma anche in Italia con la miseranda campagna elettorale che prima ha messo fortemente in dubbio la novità rappresentata da una probabile affermazione di una donna. Ed è in questo quadro che recentemente un patriarca in decadenza e un altro più giovane, ma che del primo sembra una caricatura in minore (entrambi emblemi del crollo del sistema sociale che rappresentano) hanno tentato di opporsi strenuamente a questa donna. Una donna che, certo, si nutre di cultura regressiva e reazionaria, e che per questo non mi piace assolutamente, ma che con il suo ruolo potrebbe promuovere in futuro, anche contro i suoi stessi desideri, la normalità di una donna ai massimi livelli decisionali anche in questo paese, segnando così un’indubbia novità sul piano simbolico. Una novità che viene contrastata non solo da un simbolico di stampo maschilista che cerca di negarla, ma anche attraverso strategie di contenimento o di paternalismo spinto, oltre che dalla stessa donna che la incarna, quando si nega in quanto portatrice di una differenza sessuale.

Mi chiedo se, invece di concentrarsi sulla denuncia continua del nuovo fascismo con modi che spesso originano dalla stessa matrice maschilista, come nel caso dell’appellarsi a una “vigilanza antifascista”, non sia il caso per noi uomini di costruire una “coscienza antipatriarcale” oppure una “consapevolezza antipatriarcale” che, oltre a prestare attenzione a (e contrastare) sviluppi legislativi e normativi nefasti che già stanno arrivando con il nuovo governo, prenda coscienza dei motivi profondi dei nostri comportamenti maschili. Non certo solo per descriverli e riconoscerli, ma per cambiarli.


(www.libreriadelledonne.it, 3 novembre 2022)

Redazione


La neoministra della famiglia e natalità Eugenia Roccella è intervenuta più volte sul tema dell’aborto, dicendo che “non è un diritto” e ascrivendo l’origine dell’affermazione al femminismo della differenza.
Una parte del movimento delle donne, in primis le femministe della differenza, nel 1975 ha portato avanti una posizione radicale chiedendo l’abolizione del reato di aborto, cioè la sua depenalizzazione, non un intervento legislativo. Poi, negli anni successivi, molte sono scese in piazza per difendere la 194 e chiederne una migliore applicazione, continuando a promuovere momenti di discussione con un punto fermo: il sì della donna non si può saltare, una donna non può essere obbligata a diventare madre.
Questo pare che la ministra Roccella se lo dimentichi, o non lo sappia.


Pubblichiamo qui un intervento di Ida Dominijanni su Facebook e alcuni articoli che ci sembra importante rileggere. Per chi ha tempo, c’è un’intera sezione del sito, Noi e il nostro corpo, che riporta ampiamente documenti storici e articoli degli ultimi vent’anni.


22-10-2022: Pagina Facebook di Ida Dominijanni

4-2-2005: Sulla vita umana di Luisa Muraro

12-2-2005: Il ripensamento femminista di Luisa Muraro

10-5-2018: Luisa Muraro: l’aborto non è un diritto di Antonella Mariani


(libreriadelledonne.it, 31 ottobre 2022)

di Alessandra De Perini


Il saggio è pubblicato nella rivista della Comunità filosofica Diotima, Per amore del mondo N.18/2022 *


[…]


La verità delle donne, il loro sentire, la competenza simbolica femminile sul corpo sono assenti dalla storia e dalla filosofia che pur sono impegnate nella ricerca della verità.

La verità delle donne non è astratta, è incarnata, connessa con l’amore ed è appesa al filo d’oro che intreccia la genealogia femminile e materna.

La cultura greca ha sistematicamente ignorato la verità delle donne che si radica nella vita misteriosa e oscura delle viscere. Per secoli la verità delle donne ha continuato a essere trasmessa attraverso la lingua oracolare, la poesia, le visioni, i simboli dell’ordine simbolico della madre.

Nella storia d’Europa per produrre conoscenza è prevalsa con san Tommaso e la Scolastica la modalità del Logos, del pensiero astratto, della parola ragionata, del distacco dalla vita in nome dell’oggettività rispetto alla modalità della visione-rivelazione, della mistica, e dell’allegoria.

Con il trionfo della Scolastica, persa la battaglia per il simbolico, la verità delle donne, che è connessa con l’amore e con la vita dell’anima, dovette trovare altri rifugi, si è andata a nascondere in luoghi poco accessibili, nelle viscere.

La modernità ha negato il valore politico dell’esperienza e nei secoli XIX e XX ha ridotto la politica all’esercizio del potere.

Il femminismo ha riconosciuto la politicità del personale, il valore personale e politico dell’esperienza per conoscere la verità, cambiando così radicalmente il senso della politica e della veridicità storica.

La politica allora, non più confusa con il potere, si è spostata al suo posto originario: l’esperienza.

Oggi, è in atto nella storiografia, nella filosofia, nella scienza e nella politica una “rivoluzione metafisica”, la rivoluzione della verità delle donne e della vita dell’anima. Si tratta di una rivoluzione di “posizionamento” della filosofia e della scrittura della storia, che si lascia alle spalle la verità “concordata”, la pretesa dell’oggettività, il paradigma del “sociale” e salva la vita delle viscere, dove si radica il senso libero e inesauribile dell’essere donna, proponendo un’altra relazione con la verità, quella del sentire, per cui “pensare è decifrare ciò che si sente” e cercare la verità significa innanzitutto desiderarla, immaginarla, mettersi in ascolto delle ragioni dell’amore.

Il saggio di Maria-Milagros Garretas Rivera è come un prisma dal disegno complesso, un viaggio dell’anima corporea attraverso il tempo e le diverse epoche della storia per aprirsi alla visione della verità femminile che in questo tempo post patriarcale sta parlando. Una verità femminile ascoltata e messa in parole da quelle donne, amanti della storia – io mi sento tra queste – che, invece di integrarsi nella storia che già esiste, riconoscono la verità dell’esperienza femminile, radicata nelle viscere, fatta di relazioni, desideri, modi di sentire, progetti, paure, limiti, ambizioni, nodi interiori, e assumono il proprio essere donne come significante inesauribile della scrittura della storia.

(*) Si tratta della traduzione italiana, realizzata da Luciana Tavernini, di “La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente”, saggio pubblicato in Magda Lasheras y Teresa Oñate (a cura di), Filosofía de la historia y feminismos, Dykinson, Madrid 2020, pp.111-138, a seguito della conferenza La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente, tenuta dall’autrice il 12 dicembre 2018 all’Università Nazionale Autonoma (UNAM) di Messico, organizzata da Instituto de Investigaciones sobre la Universidad y la Educación (IISUE), attraverso il Seminario Escritos de Mujeres e la Facultad de Filosofía y Letras della UNAM, la cui videoregistrazione si trova al link


http://www.mariamilagrosrivera.com/video/la-verdad-ausente-de-la-filosofia-la-historia-viviente/


(www.libreriadelledonne.it, 23 ottobre 2022)

di Silvia Baratella


Monique Serf, ebrea francese, era bambina durante l’occupazione tedesca e dovette crescere nascosta con la sua famiglia per sfuggire ai rastrellamenti nazisti.

In seguito divenne cantante e assunse il nome d’arte di Barbara, ispirato a Varvara Brodsky, una sua antenata da parte di madre: una scelta di genealogia femminile. Tra le grandi voci femminili della canzone francese della seconda metà del ’900 che conosco, Barbara è stata l’unica a cantare su testi (e musiche) propri, quasi tutti legati alle sue esperienze personali.

Nel 1964 fu scritturata dal direttore di un teatro tedesco per una tournée a Gottinga. Non ci andò volentieri: i ricordi di guerra le rendevano sgraditi la Germania e i tedeschi.

Tuttavia fu accolta così affettuosamente dagli organizzatori e fu così apprezzata dal pubblico che cambiò completamente stato d’animo e prolungò la sua esibizione di una settimana. In un parco di Gottinga buttò giù la prima bozza di una canzone dedicata a quella città, che recitò nella sua serata di commiato, più che cantarla, perché non aveva ancora finito di musicarla.

In seguito, la completò e divenne uno dei suoi pezzi più famosi, che cantò anche in lingua tedesca. Göttingen oggi è nei programmi scolastici francesi e ha svolto un ruolo ufficiale nel riavvicinamento post-bellico tra Francia e Germania.

È una parola di donna contro la guerra che affonda le sue radici nelle relazioni e non nelle ideologie o in principi astratti, e mi sembra utile farla circolare in questi tempi bui, in cui c’è bisogno di opporre le nostre ragioni alla propaganda bellica.

Propongo qui il link a un video, insieme al testo francese e a una traduzione, approssimativa, fatta da me.


Göttingen

Bien sûr, ce n’est pas la Seine,

ce n’est pas le bois de Vincennes,

mais c’est bien joli tout-de-même

à Göttingen, à Göttingen.

Pas de quais et pas de rengaines

qui se lamentent et qui se traînent,

mais l’amour y fleurit quand-même

à Göttingen, à Göttingen.

Ils savent mieux que nous, je pense,

l’histoire de nos rois de France

Hermann, Peter, Helga et Hans

à Göttingen.

Et que personne ne s’offense,

mais les contes de notre enfance,

« il était une fois » commence

à Göttingen.

Bien-sûr nous, nous avons la Seine

et puis notre bois de Vincennes,

mais Dieu que les roses sont belles

à Göttingen, à Göttingen.

Nous, nous avons nos matins blêmes

et l’âme grise de Verlaine,

eux c’est la mélancolie même

à Göttingen, à Göttingen.

Quand ils ne savent rien nous dire

ils restent là à nous sourire,

mais nous les comprenons quand-même

les enfants blonds de Göttingen.

Et tant pis pour ceux qui s’étonnent

et que les autres me pardonnent,

mais les enfants ce sont les mêmes

à Paris ou à Göttingen.

Ô faites que jamais ne revienne

le temps du sang et de la haine

car il y a des gens que j’aime

à Göttingen, à Göttingen.

Et lorsque sonnerait l’alarme,

s’il fallait reprendre les armes,

mon cœur verserait une larme

pour Göttingen, pour Göttingen.


Traduzione

Certo, non c’è la Senna,

non c’è neanche il Bois de Vincennes,

ma è così carina lo stesso

Gottinga, Gottinga.

Non ci sono lungofiumi, né canzonette

romantiche e lamentose,

ma l’amore fiorisce lo stesso

a Gottinga, a Gottinga.

Conoscono meglio di noi, penso,

la storia dei nostri re di Francia

Hermann, Peter, Helga e Hans

a Gottinga.

E che nessuno si offenda,

ma le favole della nostra infanzia,

«C’era una volta…», cominciano

a Gottinga.

Certo, noi abbiamo la Senna

e poi il nostro Bois de Vincennes,

ma dio, come sono belle le rose

a Gottinga, a Gottinga.

Noi abbiamo le nostre mattine livide

e l’anima bigia di Verlaine,

loro sono la malinconia in persona,

a Gottinga, a Gottinga.

Quando non sanno dirci niente

restano lì a sorriderci,

ma noi li capiamo lo stesso

i bambini biondi di Gottinga.

E tanto peggio per chi stupisce,

e agli altri chiedo scusa,

ma i bambini sono gli stessi

a Parigi o a Gottinga.

Oh, fate che non ritornino più

i tempi del sangue e dell’odio,

perché ci sono persone che amo

a Gottinga, a Gottinga.

E quando dovesse suonare l’allarme,

se si dovessero riprendere le armi,

il mio cuore piangerebbe

per Gottinga, per Gottinga.


(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2022)

di Umberto Varischio


Nel suo intervento La questione maschile, pubblicato sul sito della Libreria delle donne di Milano, Laura Colombo pone alcune domande che riguardano noi uomini. In previsione della discussione che si terrà durante un appuntamento del “Grande seminario” annuale di Diotima, cercherò qui di riassumerle e tenterò di dare a qualcuna una risposta. Colombo si chiede e ci chiede: se una parte degli uomini è cambiata, da cosa possiamo vedere il loro cambiamento? E se una parte degli uomini sono cambiati, lo sono anche nel profondo? E ancora: come è possibile spostare gli uomini dalla loro posizione egocentrica, quella che chiede disperatamente conferme femminili fino alle molestie e alla morte? È necessario pensare a qualcosa come degli “stati generali della maschilità”? Nelle risposte che riuscirò a dare partirò da me, dalla mia esperienza e dalla mia parzialità, di uomo e di individuo.

Dico subito che non vedo la risposta in eventi come quelli definiti “stati generali della maschilità”. Dichiarazioni maschili contro la violenza, per il riconoscimento della libertà e dell’autorità femminile e per una nuova civiltà delle relazioni tra uomini e donne, solo assolutamente necessarie, ma non possono essere fatte, oltre che praticate quotidianamente, solo in riunioni o discussioni, ma debbono avere anche una visibilità pubblica, per il loro rilievo politico e simbolico. I miei dubbi su iniziative del genere mi sollecitano a porre alcune domande: quanti altri uomini potrebbero sentirsi messi in discussione o si sentirebbero di mettersi in discussione solo per aver sentito parlare di questi argomenti? Quanti uomini si possono raggiungere e coinvolgere con iniziative di questo genere? L’esperienza di questi ultimi vent’anni, anche se hanno visto nascere diverse importanti proposte, alcune locali e una nazionale (MaschilePlurale), mi hanno insegnato che queste prese di posizione pubbliche e collettive non bastano. Bisogna farle, ma non sono un dispositivo che genera di per sé consapevolezza.

Per fare un esempio, la dichiarazione che la libertà femminile è un guadagno anche per noi uomini è sembrata un’affermazione chiave che poteva spingere gli uomini fare passi avanti sul piano della messa in discussione del potere patriarcale, e verso una prospettiva che avrebbe potuto dare maggiore libertà anche a noi. Anche qui, intendiamoci, ho provato nella mia esperienza di vita che è effettivamente così, ma questa consapevolezza non è stata l’inizio di un cammino, ma sua la tappa finale. Il prodotto di tutta una serie di conflitti (anche interiori), di gioie e dolori, di rabbia e felicità che il confronto con donne, a livello personale e pubblico, hanno comportato per me. Un passaggio essenziale per raggiungere questa consapevolezza sono state le esperienze di autocoscienza maschile, che ho cercato e trovato in momenti della mia vita in cui ogni progresso mi sembrava inibito. Mi sono servite, per esempio, ad affrontare il mio rapporto con la sessualità e la mia pulsione ad andare “oltre il limite” come ho raccontato in un contributo pubblicato sul sito della Libreria.

Un’altra questione posta da Laura Colombo riguarda come muovere gli uomini «dalla loro posizione egocentrica, quella che chiede disperatamente conferme femminili», posizione che può portare all’estremo a molestie, violenze e al femminicidio. Un comportamento su cui mi sono interrogato a lungo da quando l’ho riconosciuto sia nella mia vita relazionale sia nel confronto con donne del femminismo in generale e in particolare con quello della differenza. Confronto che mi ha visto, in alcune occasioni, pormi in una posizione di rabbia e di frustrazione quando mi sembrava di vivere una situazione di mancanza di conferme. Per un certo periodo ho cercato di negare la mia dipendenza da queste conferme, adducendo con me stesso spiegazioni autobiografiche che però sono una scorciatoia o peggio una rimozione e non possono spiegare le mie reazioni. Sono riuscito a superare queste reazioni grazie al confronto continuo con queste donne e alla mia scelta di accettare la mia dipendenza e di non rimanere a macerarmi nella autocommiserazione, ma cercando di rilanciare la relazione politica.

Queste precedenti esperienze mi hanno messo a confronto con la domanda di quanto io sia cambiato nel profondo e se questo cambiamento non sia solo qualcosa di esteriore. Questo è un aspetto difficile da affrontare, almeno per me; nelle situazioni che ho prima descritto sono consapevole di non avere superato le pulsioni e le reazioni di cui parlavo, e non so fino a che punto possa, più che voglia, superarle. Io, come altri, sono nato e cresciuto in una società profondamente patriarcale che non solo mi ha condizionato psicologicamente, ma è entrata in me profondamente, potrei dire “nelle viscere” e non penso, onestamente, di essere in grado di andare oltre questo condizionamento. I giovani uomini che stanno crescendo o che nasceranno in futuro forse potranno sfuggire a questo tipo di condizionamento profondo e riusciranno a superare anche nel profondo queste pulsioni. Io mi pongo come mio obiettivo realistico e concreto quello di controllarle, essendo cosciente che in alcune occasioni potrei perdere questo controllo, come in passato mi è capitato, anche se da tempo non mi succede più. Sono convinto che metterle sotto controllo, il che non vuol dire assolutamente reprimerle, restando consapevole della loro esistenza, sia per me e alla mia età, un obiettivo. Forse questa non è una risposta completamente soddisfacente, ma preferisco essere cosciente dei miei limiti piuttosto che cercare di superarli in modo velleitario una volta per tutte. Preferisco avere la coscienza anche di questo “limite” per meglio trovare una mia strada particolare e parziale verso la conoscenza di me e la consapevolezza.

Quindi, a partire dal mio vissuto, penso che il cambiamento sostanziale più che da occasioni pubbliche possa venire dai momenti di autocoscienza maschile che mi sembra siano diventando più diffusi, almeno a livello giovanile. Solo questi potranno portare, attraverso percorsi che ogni uomo dovrà scegliere, se non a una soluzione della “questione maschile”, almeno a renderla meno distruttiva. Una pratica accompagnata da una continua ricerca di consapevolezza e da una costante attenzione alla relazione politica con donne, singole e non.


(www.libreriadelledonne.it, 14 ottobre 2022)

Introduzione di Laura Minguzzi della Comunità di storia vivente di Milano


Controra di Katia Ricci è una storia senza aggettivi. La storia è tempo, narrazione del tempo e voglio attirare l’attenzione sul titolo per me molto significativo perché ci dà il là, il punto di vista soggettivo: Controra è il tempo proprio della madre di Katia, quello che lei, Anna, si prende tutto per sé nel paese di Rignano, dove è andata a vivere. Un tempo che tutti sapevano di dovere rispettare. Un intero capitolo porta questo titolo. La storia della madre è già stata scritta da Katia in un libro collettaneo, La Spirale del tempoStoria vivente dentro di noi. Moretti&Vitali,2018, nel racconto Per amore della vita.

In Controra il focus si sposta sul padre, sulla sua “metamorfosi”. Le immagini della copertina rimandano a un dettaglio di un luogo domestico, uno spazio/tempo del secolo scorso. Come prima impressione, un tempo/spazio patriarcale. Il focolare acceso, in primo piano una damigiana per conservare il vino eccetera. Ma non lasciamoci ingannare. Subito come reazione immediata, io ho pensato alla mia infanzia in una casa di contadini, piccoli proprietari, dove c’era il medesimo focolare, il camino dove mia madre cucinava.

La mia relazione con Katia è di lunga data e confesso che la prima volta che l’ho incontrata, mi ha colpito la malinconia del suo sguardo, i suoi occhi verdi e misteriosi. Un enigma che ho sempre desiderato indagare. In questo libro continua l’opera di svelamento. Leggendo il capitolo Il rumore del grano ho rivissuto sentimenti comuni, legati agli eventi della campagna (la trebbiatura nell’aia per esempio) e ai tempi stagionali dell’agricoltura con le incertezze, i timori per il raccolto, le ansie, le sofferenze, a volte le tragedie in un’epoca di mutazioni per la storia italiana, nel dopoguerra.

Voltando pagina e procedendo nella lettura scopriamo che l’autrice ha messo in atto uno dei presupposti teorici della pratica della storia vivente, cioè rompere il silenzio, non è più da parte ma si fa parte, svelando le origini di una relazione tormentata col padre Pasqualino, e l’io narrante si apre a un altro sguardo. È un passo in più. Il libro ci fa fare esperienza del tempo, un’esperienza materiale. La porosità dei differenti linguaggi agiti, immagini incluse, di cui ci parlerà l’artista e amica Donatella Franchi (il libro è corredato da alcune sue immagini), comunicano in modo non nettamente separato i diversi piani del racconto.

Il racconto di una trasformazione interiore

Ne risulta nell’insieme una grande libertà nel narrare una trasformazione dell’autrice rispetto allo scontro col padre, muro contro muro anche su complesse questioni politiche ed economiche che attraversavano l’Italia in quel periodo. Lei, femminista e comunista, vista dal padre come nemica.  Solo dopo avere affrontato le asperità e le contraddizioni nel ripercorrere ed elaborare la relazione con la madre, le è stato possibile andare al nodo col padre: con lo sguardo amorevole della madre, conquistato, adottato, cambiato. Infatti a monte di Controra sta un addestramento, un esercizio per decifrare il sentire proprio con le amiche della Comunità di storia vivente di Foggia.

Senza questo processo di presa di parola e ascolto intimo, questo libro non sarebbe stato scritto, non avrebbe preso forma. Una storia che attraversa luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, rivista, ripercorsa attraverso ricordi scambiati, relazioni con zie, e zii, lettere, fotografie, poesie, in cui l’autrice ci porge tutti gli elementi per approfondire e comprendere le origini del conflitto in un piccolo paese della Puglia, Rignano, dove la madre Anna va a vivere col “principe azzurro”. Un amore reciproco ma contrastato dalla famiglia. Mi ha colpito la lettura delle pagine in cui Katia descrive la felicità del padre, giovane ufficiale a Potenza, quando viene accolto nel cerchio amoroso della famiglia di Anna, la giovane maestra dagli occhi verde smeraldo che portano luce nella sua vita arida di sentimenti, quasi un grembo materno. Trovò nell’amore di Anna, il calore e l’allegria che nella casa paterna non esisteva.

Per amore di lei

Emerge un padre che si ribella per amore di lei alle regole dei matrimoni combinati, un costume diffuso all’epoca fra i proprietari di latifondi nel mondo agropastorale, per accumulare e non disperdere i patrimoni. In famiglia nascono ostilità e contrasti per la disubbidienza di Pasqualino alle regole patriarcali. Una sofferenza causata dalla sua non accettazione del ruolo impostogli dal padre, in quanto unico figlio maschio dopo la morte del fratello maggiore, a cui toccava il compito di portare avanti e incrementare il patrimonio. Scrive Katia: «Mio padre in quella circostanza si rivelò forte e coraggioso. Il soggiorno a Milano gli aveva aperto nuovi orizzonti. Ho sempre apprezzato questo gesto di mio padre, una scelta esistenziale che aveva rotto con l’antica consuetudine. Anche nonna Lucietta aveva fatto lo stesso, un matrimonio di interesse così come la zia, la sorella del padre, causando altre sofferenze e ingiustizie per via della dote. In una lettera Pasqualino scrive dell’ingiustizia subita e accusa il padre, don Pietro, donnaiolo e ignavo, contrario ad ogni iniziativa del figlio, un vero padre/padrone, di averlo trattato come un servo della gleba, per averlo costretto a restare nel latifondo legato a lui da un rapporto di schiavitù […]» 

Un gesto di autonomia, così Katia è in grado di leggere oggi la scelta del padre, intraprendendo con libertà e coraggio la scrittura di Controra. È la verità delle donne. Può farlo, penso io, perché si sente inserita in un orizzonte più grande; in un percorso in cui sono impegnate altre comunità di storia vivente e non solo, una pratica che sfida con qualsiasi strumento, linguistico, fotografico o altro, la storia oggettiva e si assume la scommessa di narrare la storia a partire da sé, dalla esperienza femminile dando voce alla storia annidata in ciascuna/o di noi. Un evento memorabile da collocare nell’orizzonte simbolico della madre.

Katia Ricci, da sempre femminista, ha insegnato a lungo Storia dell’Arte, è cofondatrice dell’Associazione culturale La Merlettaia di Foggia e della Comunità di storia vivente. Ha curato mostre e cataloghi di artisti contemporanei. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La lezione delle tessitrici del Bauhaus, in “Lingua bene comune”, a cura di Vita Cosentino (Città Aperta Edizione, 2006); Charlotte Salomon, i colori della vita (Palomar, 2006); Séraphine de Senlis. Artista senza rivali (Luciana Tufani, 2015); Per amore della vita in “La Spirale del tempo” a cura della Comunità di storia vivente di Milano, (Moretti e Vitali, 2018); Lupini violetti dietro il filo spinato. Artiste e poete a Ravensbrück (Luciana Tufani, 2020)

Donatella Franchi dagli anni ’80 crea libri d’artista e installazioni che ha esposto in Italia e all’estero (Istituto Italiano di Cultura di Washington 2001, Università di Barcellona 2004). Alcuni suoi libri d’artista sono presenti in collezioni come il National Museum of Women in the Arts di Washington, e alla Rhode Island School of Design (Providence, USA). Parallelamente al lavoro visivo svolge un’attività di ricerca e insegnamento sul cambiamento che il femminismo ha portato nel mondo dell’arte contemporanea e nel pensiero sull’arte. Ha pubblicato nei Quaderni della Libreria delle donne Matrice, sull’arte relazionale. È docente al Master di politica delle donne all’Università di Barcellona al centro di ricerca delle donne Duoda. Il suo corso di ricerca attuale si intitola La novità fertile. Esperienza femminile e pratiche artistiche.


(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2022)

di Tiziana Nasali


È stato proposto alla redazione del sito della Libreria un articolo scritto da Maria Dell’Anno in ricordo di Giulia Galiotto, uccisa nel 2009 dal marito e pubblicato su Noi Donne. La discussione che ne è nata è stata illuminante per le argomentazioni che alcune hanno portato a sostegno della sua pubblicazione. Provo a darne conto.

Scrive Maria Dell’Anno «…il mio cervello ha davvero difficoltà a concepire questi due dati di fatto: tu non esisti più e il tuo assassino è libero».

Questo è il fatto, lei è morta e lui è vivo e libero. Questa contraddizione non ha soluzione perché l’omicidio, come una serie di altri reati, non può essere riparato attraverso il ripristino della situazione precedente. Lo Stato può soltanto, attraverso la pena, attribuire disvalore alle azioni umane e stabilire l’entità della pena, dando così una misura al disvalore.

Maria si chiede quanto disvalore lo Stato attribuisca alla vita di una donna uccisa dall’uomo che le è più vicino. Scrive: «13 anni. Dovevano essere 19. Una sentenza dello Stato italiano lo aveva condannato a 19 anni di carcere. 19 anni per averti tolto la vita». E più avanti: «Non che l’ergastolo riporti la persona uccisa in vita, però, non so, psicologicamente pensare che il tuo assassino non fosse più libero di vivere la sua vita mi dava una qualche forma di rassicurazione sull’equilibrio della bilancia della giustizia».

Capisco bene l’indignazione di Maria e dei famigliari della vittima: spesso di fronte a quei reati che colpiscono le donne, come molestie, stupri e ovviamente femminicidi, ho pensato che le pene comminate fossero troppo lievi e ho provato un senso di ribellione di fronte alle liberazioni anticipate. Pur riconoscendo la validità del principio sancito dalla nostra Costituzione che la finalità della pena debba essere la rieducazione e il reinserimento sociale di chi commette reati, la liberazione anticipata fa saltare la misura che Maria – e molte/i –  si era data interiormente per trovare l’equilibrio nella bilancia della giustizia. Sono consapevole che l’equilibrio è sempre difficile e precario quando si tratta di omicidi ma proprio perché nessuna pena riporta in vita la persona uccisa, è importante tenere viva la contraddizione. Tuttavia, quando si tratta di reati commessi da uomini contro le donne non è solo sul piano della legge che bisogna cercare giustizia. Forse non lo è in nessun caso, tanto che si diffonde sempre più la pratica della giustizia riparativa*, ma sicuramente non lo è nel caso dei reati contro le donne.

Scrive ancora Maria: «Lo Stato che ha condannato tuo marito a 19 anni per punire la tua morte e che poi l’ha liberato dopo 13 non ha detto nulla ai tuoi genitori. Non li ha informati che l’assassino della loro figlia ha pagato il suo debito con la giustizia, che è libero di tornare a casa […] lo Stato non si è curato di loro. Ha semplicemente chiuso un fascicolo di carta che portava il nome di tuo marito: liberato e affidato ai servizi sociali».

Non voglio discutere l’entità della pena: possiamo pensare che 19 anni siano tanti oppure pochi… a me personalmente 19 anni per un femminicidio sembrano pochi, ma non è questo il punto e mi pare che neanche per Maria sia questo.  Servono parole che aiutino tutte/i noi a elaborare l’irreparabile e a ritrovare una nuova misura quando la precedente salta. È il piano della giustizia, che nel caso dei reati contro le donne dovrebbe anche riuscire a rimediare allo squilibrio simbolico ancora presente nel rapporto fra i sessi e affermare nell’ordinamento giuridico il principio della inviolabilità dei corpi femminili.


(*) La giustizia riparativa ha come obiettivo quello di prestare più attenzione ai bisogni delle vittime nel processo penale attraverso il loro coinvolgimento attivo, quello dell’autore del reato e quello della comunità civile.


(www.libreriadelledonne.it, 21 settembre 2022)

di Umberto Varischio


Su La Stampa del 17 settembre Luigi Manconi, in un commento intitolato “La democrazia dei sensi di colpa”, si occupa dell’entrata in vigore del decreto del governo ungherese che impone alla donna che voglia accedere all’interruzione di gravidanza, l’obbligo di ascoltare il battito cardiaco del feto; instaurando così «una democrazia dei sensi di colpa».

Quest’ultimo sarebbe un «sistema dove tutte le conquiste non solo richiedono fatica – come è normale che sia – ma vengono fatte pagare a caro prezzo e sono da espiare; e dove ogni diritto è sempre precario e revocabile». Manconi mette giustamente in evidenza che la norma rappresenta il tentativo di fare subire alla donna l’espiazione per una colpa che la stessa avrebbe commesso ricorrendo all’interruzione di gravidanza. Per riprendere le parole di Laura Conti in un breve saggio del 1981 intitolato “Il tormento e lo scudo”, si vorrebbe «colpevolizzare la donna due volte: la prima perché abortisce» e quindi uccide un essere umano, la seconda perché lo farebbe senza o con poco dolore.

Con l’ascolto del battito cardiaco, in caso di aborto si vorrebbe provocare o ampliare il sentimento di colpa e i connessi ansia e rimorso; ma in questo caso il sentimento sopravviene per una colpa che la donna stessa non ha commesso.

Un senso di colpa dovrebbe, secondo me, essere invece provato da qualcun altro che un errore o una mancanza invece l’ha effettivamente commessa: quella di deresponsabilizzarsi per tutto quello che riguarda gli aspetti maschili della contraccezione. Molti uomini non sentono questo senso di colpa e rifuggono la responsabilità della gestione di una gravidanza non voluta (spesso anche di quella voluta). Non so quali siano in generale i meccanismi psicologici ed emozionali che sono causa di questa deresponsabilizzazione; in quanto uomo, e interrogandomi su come affronto la mia sessualità, penso che questa mancanza sia dovuta al non avere il “senso del limite”, di qualcosa che non debbo travalicare. Non di rado nel rapporto sessuale, nelle fantasie e nel concreto, vorrei (anche se poi nella realtà non lo faccio, per scelta consapevole generata dal confronto avuto con le donne) “andare oltre” nell’atto, un comportamento che si dice, in modo ridicolo e caricaturale, sia nella “natura” dell’uomo stesso: il  non resistere a un desiderio sessuale, un reagire con violenza a un sesso negato, un non accettare nel rapporto sessuale una “negoziazione” (esplicita o implicita) tra atti che si possono fare e quelli che la mia partner non gradisce; quella stessa “natura” che ci porterebbe a commettere stupri e femminicidi. In questo senso del limite penso ci sia anche il mettere in conto che un rapporto sessuale potrebbe implicare anche il concepimento e quindi la scelta di fermarsi, di non andare oltre (in questo caso di non agire il rapporto sessuale completo oppure di proteggersi).

Un senso di colpa in questo caso sarebbe bene che noi maschi lo avessimo e cercassimo di renderci consapevoli di aver commesso un errore e di avere, per questo, fatto del male a qualcuno. Un senso di colpa, o meglio una consapevolezza, non sarebbe qui un sistema di prevaricazione come quello attuato dallo Stato ungherese, ma di civiltà.


(www.libreriadelledonne.it, 20 settembre 2022)

di Umberto Varischio


«Il tema di fondo è quello di una donna premier che porta avanti politiche maschiliste. Giorgia Meloni e il suo partito hanno portato sempre avanti politiche maschiliste. Allora è molto meglio un uomo premier che porta avanti politiche femministe».

Da diversi anni le campagne elettorali ci hanno abituato a dichiarazioni di ogni genere, non escluse quelle maschili di stampo sessista, ma questa non si era ancora sentita!

Una dichiarazione – da parte del segretario del partito principale dello schieramento che si definisce progressista e rivolta alla presidente del probabile maggior partito della destra, possibile candidata al ruolo di presidente del consiglio – che per ora non ha suscitato molta attenzione e, salvo che dalla destra stessa, quasi nessuna reazione. Mi sembra, da uomo, che qualche considerazione andrebbe fatta per non derubricarla a una sciocchezza di poco conto.

Come uomo che da almeno quarantacinque anni si confronta con i femminismi, e in particolare con quello della differenza, un confronto scelto, ma che è stato fonte di momenti alterni di gioia e sofferenza, felicità e rabbia, senso di liberazione e fatica, consapevolezza e confusione, ritengo che tale affermazione racconti molto della situazione in cui si trova oggi, se non nella società almeno in ambito politico, il rapporto uomo-donna nel nostro paese.

Se almeno una cosa mi ha insegnato il rapporto – certo conflittuale, ma fondamentale per la mia vita di ieri e di oggi – con il femminismo e con alcune donne che ne fanno parte, è che un uomo non può essere femminista. E non può portare avanti “politiche femministe” a meno che non abbia forti relazioni politiche con donne di questo vasto e complesso mondo, relazioni che comprendano un riconoscimento dell’autorità e della libertà femminile. Nel vuoto evidente di relazioni di questo tipo in cui si muove l’uomo in questione, proporsi come possibile premier (maschio) che può affrontare i problemi, vuol dire reiterare il pensiero neppure tanto sotterraneo che per certi ruoli decisionali sono meglio gli uomini. Questa sì è una posizione “maschilista”: è una negazione, oltre che di tante parole che vorrebbero dire il contrario, di una pratica attiva di accettazione della differenza femminile. È una conferma che «il problema, per il femminismo radicale, non è mai stato e non può essere quello di espugnare o di spartire i vertici della politica maschile, ma di cambiarla» (I. Dominijanni).


(www.libreriadelledonne.it, 14 settembre 2022)

di Umberto Varischio


È ancora estate, di giorno fa caldo, ma nella notte, con le finestre non completamente chiuse, si sentono i primi segnali dell’arrivo dell’autunno.

Mi sveglio, mi alzo e comincio a sentire che il mio corpo mi avverte che le temperature stanno, seppur lievemente, cambiando: un brivido, poi un altro, poi tutto si normalizza e come ogni mattina vorrei iniziare le mie quotidiane attività del dopo-sonno, ma sono “inverso”. Sono vissuto in una struttura sociale in cui il maschio ben difficilmente sente freddo e lo ammette, ma non è una buona giornata e quindi, invece di seppellire queste sensazioni nel profondo e stendere su di loro il velo della quotidianità, mi fermo a riflettere. C’è una punta di paura nel mio stomaco, mi sento fragile, vulnerabile, con l’età che giorno dopo giorno procede e mi avvicina alla vecchiaia. Sino a qualche anno fa la reazione sarebbe stata di fastidio: «Insomma, mi coprirò maggiormente, che cosa sarà mai!». Ma il “mal-essere” non mi lascia e la paura si lega al pensiero delle restrizioni per questa guerra non dichiarata in cui siamo immersi, che nel prossimo inverno porteranno a una diminuzione del riscaldamento e da subito a un aumento spropositato delle bollette e in generale del costo della vita. Sento un aumento di battito cardiaco e di temperatura delle mani, è l’inizio di un attacco di collera verso chi ha deciso che per vincere la loro guerra, io – poco, dato che, almeno per ora, ho sia le risorse economiche che abitative per farvi fronte – ma soprattutto alcuni milioni di uomini e di donne dovranno soffrire, ammalarsi e magari anche morire: sì, morire perché ogni anno migliaia di persone muoiono sia di troppo caldo che di troppo freddo, perché non si possono permettere, a differenza di qualche arrogante banchiere, un condizionatore o qualche dispositivo per scaldarsi. Ma provare ira, e ammettere di provarla, non basta: bisogna renderla parola e azione relazionale e collettiva, razionalizzare almeno in parte, pur senza escludere le mie emozioni, i miei sentimenti e le mie esperienze. Contrastare un uso del potere sociale e politico che, attraverso una serie di pratiche esplicite e implicite, è solo volto a esercitare il controllo sulla vita e sulla morte delle persone. E che può portare sino a legittimare, come in questo caso, l’esposizione alla morte di particolari gruppi umani e individui da parte di chi lo esercita e che dovrebbe, invece, impegnarsi a non perpetuare la guerra, ma almeno a tentare di fermarla. E non, ipocritamente, far passare le misure prese come un contributo alla “transizione ecologica”.


(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2022)


di Antonella Nappi


Perché fare le battaglie di retroguardia come “studiare” la Meloni che è già stata capita benissimo? Chi la vota è d’accordo con quello che dice, o neppure vota proprio lei. Le donne inoltre se di destra non le smuovi dal considerare la donna di destra.

Vorrei che donne riflessive, come noi potremmo essere, spingessero una politica di avanguardia.

Questa è: come fare la pace tra conflitti di ogni tipo, perché di questo da sempre continua ad avere bisogno il mondo. È questo impegno che va assolutamente privilegiato!

Contro le armi, le distruzioni e contro l’aggravarsi del clima vanno spinti i rappresentanti politici e il voto. Sappiamo della distanza esistente tra rappresentanti politici e popolazione, proprio in Italia in questi mesi su queste questioni.

Mi abbatte pensare che donne colte si preoccupino di aiutare maschi privi di consapevolezza a vincere le elezioni, senza agire uno stimolo nei loro confronti.

Vorrei premere per ottenere una scelta di pace perché sono orripilata dallo sconvolgimento mondiale della sussistenza originato dal conflitto russo-ucraino. Io lo intendo come conflitto contro la pace e coesistenza e per la guerra come vincitrice mortale del patriarcato. Molti altri scrivono: conflitto tra America e Russia su territorio ucraino.

In tempo di elezioni il mio desiderio di fare qualche cosa per la pace è interrogare chi si propone come rappresentante del mio futuro sulla risoluzione pacifica del conflitto. Sulla comprensione delle ragioni che creano conflitto e sulla capacità di privilegiare la soluzione pacifica delle intenzioni dei contendenti invece di voler vincere rispetto a questioni di principio.

Riconosco le motivazioni dell’invasione russa e quelle di legittimità che vengono sostenute dall’Ucraina, queste vanno composte, non sono ragioni per fare morti e distruzioni e per sconvolgere il mondo intero.

Non riconosco affatto l’esigenza di spingere a un conflitto occidentale contro altri Stati e privilegio il contenimento delle pretese in favore di un equilibrio che risparmi vite, beni, relazioni internazionali. Sono contraria al privilegiare il diritto a costo delle vite. E di quante nel mondo! E siamo in tante e tanti a pensarla così.

Oggi siamo più colti rispetto alla considerazione di quanto si soffrono le guerre che alcuni maschi fanno e di quanto le femmine privilegino nei fatti della loro esperienza quotidiana attività di osservazione dei bisogni vitali e di quelli relazionali. Questa capacità più sviluppata dalle donne ha trovato condivisione anche tra molti maschi perché la divisione ideologica dei ruoli lascia ormai libertà personale all’affermazione dei propri desideri. Delegare ai maschi compiti che per noi stesse rifiutiamo è un atteggiamento molto discutibile.

Sviluppare la contrattazione dei desideri, nelle questioni comuni, invece di imporre la vittoria assoluta dei propri, è ciò che la pratica politica espressa dalle esperienze femminili pretende dai maschi. Così come imparare a pretendere un confronto con loro, invece di tacere, lo impariamo oggi tra donne.

Ci si insegna a considerare le ragioni dell’altro e dell’altra e le proprie, riequilibrando gli spostamenti più su un lato o più sull’altro di uomini e donne ed anche tra donne.

Vediamo di condizionare il voto, per quello che possiamo, sulla capacità di impiegarsi per la pace tra contendenti alle elezioni.

Distogliamo la classe dirigente italiana dall’attuale volontà di acuire la guerra e di farla sopportare alla popolazione italiana che ha sempre affermato la non disponibilità a sostenere la guerra, ed oggi in particolare. Queste elezioni devono segnare la non volontà di partecipazione degli italiani ad una guerra, e per di più contro la Russia, paese con cui non abbiamo avuto ostilità.

Mi sembra un buon modo di intervenire chiedere ai candidati come intendono comporre il conflitto tra Russia e Occidente (condotto dall’America a detta di molti). È questo un termometro per misurare tra i candidati l’aggressività e al contrario la ragionevolezza che oggi deve sostituire l’autoritarismo dei guerrafondai del passato. I vecchi termini del processo aggressivo e autoritario del fascismo devono lasciare il posto alla capacità di un processo ragionevole in tutte le questioni, a partire proprio dalla più grave: dalla guerra che attenta alla vita delle popolazioni più povere di tutto il mondo. La popolazione deve avere più voce di quanta non riuscisse ad averne in passato. Fascismo e antifascismo non hanno significato se non nella contrapposizione di processi culturali e politici che oggi dobbiamo saper leggere nella loro presenza in pratiche e contesti diversi.

Vorrei potessimo dare più chiarezza allo scontro in atto e soprattutto mostrare la distanza tra potere e popolazione, tra amanti dello scontro e della vittoria e amanti dei limiti che la sopravvivenza impone anche a se stessi.


(www.libreriadelledonne.it, 5 settembre 2022)


di Chiara Calori


Giurista costituzionalista, prima donna ad accedere alla cattedra di diritto costituzionale, Lorenza Carlassare, da poco venuta a mancare, ha insegnato in diverse università – mai qui a Milano purtroppo – prima di tornare alla sua Padova, lei che era padovana di nascita e formazione. Fu allieva di Vezio Crisafulli e fondatrice della Scuola di Cultura Costituzionale dell’Università di Padova.

Non era una femminista militante, nonostante avesse vissuto sulla propria pelle il peso delle discriminazioni: accede alla cattedra di diritto costituzionale, sì, ma appena si sposa la perde perché la commissione che gliel’ha concessa sostiene che «una donna sposata non può avere interessi scientifici». Solo in seguito, per la precoce vedovanza, riguadagna l’accesso all’insegnamento (anche se le seconde nozze per un momento mettono nuovamente in discussione la cosa. Prevarrà il buon senso, è il suo commento pacato1).

La sua lente sul mondo è il costituzionalismo, il mondo è politico e giuridico, ed è l’attuazione o la mancata implementazione delle garanzie costituzionali. Tutte, anche e soprattutto quelle dei diritti sociali, che permettono di contrastare miseria e ignoranza, i veri ostacoli alla dignità e alla piena realizzazione delle potenzialità di ogni persona, nonché della possibilità di essere cittadina/o attiva/o e consapevole.

Nel suo lavoro però ha sempre presente l’opera delle costituenti, le loro battaglie per l’articolo 3 della Costituzione, così come quelle di altre donne venute dopo di loro che abbatterono ostacoli a tale uguaglianza, come Rosanna Oliva che promosse il giudizio di legittimità costituzionale della norma che escludeva le donne dall’accesso alla magistratura. Ma è soprattutto all’inciso del secondo comma dell’articolo 3, quel “di fatto” voluto da Teresa Mattei e altre riferito all’uguaglianza, che tiene Carlassare: è proprio questo, nel suo pensiero, a sorreggere l’intero impianto solidaristico della Carta, il suo ‘cuore’, e a permettere a questa di andare oltre l’uguaglianza.

Guarda e ammira queste donne, ma lei vive bene nel mondo di maschi che è il mondo accademico, si rende conto – e con rammarico – che ciò la allontana dalla familiarità con le sue simili, ma prosegue sul suo percorso: «Sono stata la prima donna [docente di diritto costituzionale] e, per un decennio, anche la sola. Così ho vissuto in un ambiente completamente maschile e ho perso la dimestichezza con le donne. Di questo un po’ mi dispiace, anche se ho, egualmente, delle carissime amiche».

Forse è proprio questo rammarico che, negli ultimi anni, le fa riscoprire la forza della frequentazione e della relazione tra donne, sottoscrive con loro appelli (come quello relativo al dramma umanitario dei migranti2) e ragiona con loro di uguaglianza giuridica (cura la prefazione del volume del 2016 Percorsi di eguaglianza, G. Giappichelli Editore,  a cura di Francesca Rescigno con contributi di Francesca Rescigno, Marilisa D’Amico, Carla Faralli, Orsetta Giolo, Maria Giulia Bernardini e altre).

Lorenza Carlassare si colloca nel mondo come costituzionalista, il compito che si dà è divulgare la cultura costituzionale – le era molto caro il progetto di Scuola di Cultura Costituzionale avviato a Padova – che interpreta nella sua più vera e più profonda istanza. Una lettura che – e questa è una buona notizia – la rende vicina e privilegiata osservatrice anche delle battaglie delle donne.


(www.libreriadelledonne.it, 26 agosto 2022)


1 Intervista a Lorenza Carlassare del 24 novembre 2017, a cura di Silvia Truzzi: http://www.libertaegiustizia.it/2017/11/24/lorenza-carlassare-una-donna-sposata-non-poteva-avere-interessi-scientifici/

2 “Sappiamo e non vogliamo tacere”. Lettera aperta di un gruppo di giuriste, Huffington Post, 4 luglio 2019.


di Umberto Varischio


Negli ultimi giorni, i mezzi di informazione e i social sono invasi di comunicati, prese di posizione, commenti che condannano la diffusione, da parte di una donna, di un video in cui un’altra donna viene stuprata. Sono interventi di uomini e donne che condannano, con toni diversi, la donna che ha diffuso il filmato, ma che poco o nulla hanno da dire sul fatto rappresentato; si condanna, giustamente, la violenza (ma quasi come un atto dovuto) e si passa, in modo molto più esteso, a condannare, anche qui giustamente, chi lo ha diffuso. Quindi, a fronte di un atto di violenza sessuale di un uomo contro una donna… condannano soprattutto l’altra donna!

Anche in questo caso siamo messi a confronto con comportamenti, che come nel caso della messa in discussione della possibilità di aborto negli Stati Uniti, rimuove la responsabilità maschile nel concepimento per condannare, in quell’occasione, la decisione; un altro esempio del dito che indica la luna e dello stolto che guarda il dito. Se si è uomini una condanna, oltretutto frettolosa (per poi passare ad altro), non basta.

Sì, perché anche in questa occasione sarebbe stato il caso che noi uomini ci fossimo in gran numero ed estesamente interrogati sull’atto che l’uomo ha commesso, su quello che vuole dire per me, noi, cosa significa questo atto di estrema violenza per la mia, nostra sessualità, sul rapporto tra noi e le donne: le estranee, ma anche quelle che ci vivono accanto e quelle che ci sono amiche o conoscenti. Della violenza che spesso fa capolino nei miei, nostri comportamenti, atti, parole, espressioni nei loro confronti, del nostro rapporto con la pornografia… e molto altro ancora. Insomma, su un patriarcato che è una struttura di potere che non è apparsa improvvisamente in tutte le società umane, ma che è stata prodotta e strutturata da milioni di azioni e comportamenti di noi uomini; e che, con i nostri comportamenti, anche oggi cerchiamo disperatamente di perpetuare.

Questo discorso, lo so già, potrebbe essere etichettato come una presa di posizione che fiancheggia quello della destra politica e sociale che in questi giorni si difende e attacca al grido di: stuprano una donna e loro se la prendono con un’altra! No, quello che qui io sostengo non è solo l’accusa contro quel singolo uomo; il problema per me non sono solo i singoli uomini che commettono questi atti, ma le migliaia (o milioni) di uomini, bianchi, gialli o neri, ricchi o poveri, istruiti o ignoranti, di destra o di sinistra che agiscono violenze di diverso grado, anche sessuali, sulle donne, spesso quelle con cui condividono la vita.

Ah, scusate, che sbadato; mi sono dimenticato che siamo in campagna elettorale e quindi non solo quasi tutto è lecito, ma anche che distinguo e problemi come quelli che pongo possono tranquillamente passare in secondo, se non in terzo, quarto piano! Non possiamo perderci in sottigliezze: la questione fondamentale è difendere “l’amica” e “l’alleata” o attaccare “la nemica”. È una guerra, bello mio! Ora andiamo a vincere le elezioni; del rimosso maschile ce ne occuperemo, forse, la prossima volta.


(www.libreriadelledonne.it, 26 agosto 2022)