di Luciana Piddiu
Per migliaia di anni le più antiche comunità umane hanno praticato il cannibalismo, o fatto ricorso a sacrifici umani a scopo rituale. Poi si sono stabiliti dei tabù e queste pratiche sono state messe al bando per sempre. Per questa ragione dobbiamo essere ottimisti sulla possibilità di riuscire a superare, nella faticosa strada del divenire umani, anche quella che Jean Daniel Rainhorn, professore dell’Università di Ginevra, chiama “economia cannibale”.
Rientrano in questa categoria le pratiche di economia globalizzata neo-liberale che hanno per oggetto di scambio singole parti del corpo umano o corpi nella loro interezza. Banche – non a caso si chiamano così – del seme e degli ovociti, uteri in affitto per la maternità surrogata, compravendita di gameti, di organi e di patrimonio genetico, traffico di esseri umani per la loro riduzione in schiavitù e/o prostituzione. È una nuova branca dell’economia che cannibalizza gli esseri viventi. Il corpo degli umani è considerato puro assemblaggio di organi e il vivente diventa una risorsa materiale. A chi può permettersi di acquistarlo è riconosciuto il “diritto” o la facoltà di farlo. Questa economia neo-liberale ha progressivamente ridotto gli esseri umani a “risorse biologiche” introducendo un processo di reificazione e riduzione a merce dei soggetti.
Il processo è cominciato negli anni ’80 del Novecento con la pratica della brevettabilità.
Sulla spinta di società di bio-ingegneria coadiuvate da genetisti di fama e da una certa lobby di medici sono stati depositati brevetti su organismi viventi, geneticamente modificati e non, e su intere sequenze genetiche, comprese quelle umane.
La filiera del mercato globale per la produzione di bambini come prodotti di qualità (quelli difettosi sono scartati e le madri surrogate in questo caso non vengono pagate) è – dopo la riduzione in schiavitù – la più grande violenza che si possa immaginare fatta a donne e bambini. Ma l’economia cannibale produce enormi profitti.
Un altro ramo fiorente di questa economia è quello legato ai percorsi di transizione da maschio a femmina e viceversa. Percorsi che richiedono un precoce bombardamento ormonale di bambine e bambini al fine di adeguare attraverso la chimica il corpo considerato “sbagliato” al senso di sé.
Alcune di queste pratiche sono intimamente legate al filone di pensiero conosciuto come transumanesimo. Se vogliamo sconfiggerle e metterle al bando per sempre è necessario fare un passo indietro e risalire alle riflessioni di alcune pensatrici che con le loro teorie hanno fortemente contribuito all’affermazione di questa deriva.
Donna Haraway col suo Manifesto cyborg (1985) e Judith Butler col suo Gender trouble (1990) hanno ingaggiato vere e proprie colluttazioni teoriche con la carne umana come ha acutamente osservato M. Terragni in un recente articolo.
Judith Butler ha sempre sostenuto che il sesso è costruito culturalmente proprio come il genere, frutto di un atto linguistico performativo. Anche il corpo è dunque una costruzione e non ha un significato prima di essere “marcato” dal punto di vista del genere. La realtà del corpo ha perso ogni consistenza fino a scomparire. E il primo corpo a dover scomparire è quello della donna. Ma il dato biologico cacciato dalla porta finisce col rientrare dalla finestra quando si teorizza la “vulnerabilità” dei corpi viventi (Bodies that matter). Essa non è una costruzione linguistica ma attiene strettamente alla fragilità e mortalità dell’essere umano.
Donna Haraway invece ha spinto fino in fondo le sue riflessioni sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani. Il cyborg, organismo cibernetico, ibrido tra macchina ed essere umano, permette di comprendere come la pretesa “naturalità” dell’uomo sia in realtà una costruzione culturale. Il corpo diventa territorio sperimentazione e di manipolazione. Il corpo smette dunque di essere inalterato e intoccabile: può essere trasformato e gestito a piacimento. Cade il mito che vede il corpo come sede di una naturalità opposta all’artificiosità e crolla di conseguenza il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione degli opposti. Il cyborg non è né macchina né uomo, né maschio né femmina. Cadono tutti i confini e tutti i dualismi. Uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente, umano /animale ecc. In questo percorso Donna Haraway è così approdata a quella che J.F. Braunstein definisce zoofilia cosmica.
Nel suo Manifesto delle specie compagne e nel successivo Quando le specie si incontrano esalta la relazione sessuale molto soddisfacente con la sua cagnetta Cayenne Pepper e i suoi baci profondi e umidi. Siamo quindi arrivati a una sorta di butlerismo reale egemonizzato dal mercato che ha saputo intercettare i desideri e le fantasie circolanti per farne prodotti liberamente acquistabili.
Il lavoro da fare per superare le risposte del mercato neoliberale capitalistico è quello di una battaglia culturale e politica profonda e senza compromessi. «Liberi di… liberi da…», lo slogan che faceva presagire una mitica età dell’oro in cui tutto sarebbe stato concesso (fors’anche l’immortalità) e non ci sarebbero stati vincoli di sorta al desiderio di onnipotenza, ha mostrato crepe insanabili.
Ci si può liberare dagli stereotipi e dalle costrizioni con un assiduo lavoro di introspezione, ma c’è una cosa da cui in nessun modo ci si può liberare: la condizione umana. Quella che Hannah Arendt ha messo al centro della sua riflessione in Vita Activa. «La condizione umana designa ciò che segna il nostro essere al mondo, quel che non dipende da noi, che ci è dato senza averlo scelto. Ciò da cui si parte. Essa condiziona qualsiasi posizione noi assumiamo nei suoi confronti, compresa quella della sua negazione. Detto in altri termini la sua caratteristica è l’irriducibilità, rappresenta di fatto il limite primo costitutivo da cui non si può prescindere in quanto oltrepassa il nostro controllo e la nostra presa» (D. Sartori).
Questo non impedisce beninteso la nostra libertà che si sperimenta come realtà concreta nello spazio pubblico, nell’agire politico con gli altri esseri umani dando inizio a qualcosa di inedito e di inatteso. È la natalità che designa questo aspetto della condizione umana in virtù della quale siamo capaci di introdurre qualcosa di nuovo.
Per tornare alla differenza sessuale da cui siamo partiti, essa non è riducibile al discorso e al linguaggio ma è un dato reale nell’accezione corrente del termine. Le teorie del gender si sono affermate e imposte sulla scia dei rivolgimenti seguiti all’onda lunga del ’68, al «vietato vietare», «l’immaginazione al potere»… come un vero e proprio imperialismo culturale. Esse hanno cancellato con un colpo di spugna il senso della differenza sessuale, che non attiene soltanto all’ordine simbolico, ma all’ordine di quei dati di fatto irriducibili che lo stesso ordine simbolico deve assumere muovendosi tra la condizione di necessità e quella di libertà. Il taglio della differenza sessuale operato dal femminismo ha rimesso in gioco la linea di demarcazione tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Non siamo liberi dalla condizione data ma liberi nell’attribuzione di senso di quella condizione. Dobbiamo tenere insieme i due poli, necessità/libertà, sapendo riconoscere quel che dipende da noi e quel che non dipende da noi.
La teoria gender ha finito per dimenticare il corpo, ma il corpo è il primo confine. E non bisogna dimenticare mai che non c’è simmetria tra i sessi. C’è solo un corpo che ha la capacità di generare, quello delle donne, e non sarà certo il linguaggio che invoca un presunto “diritto di procreare” a cambiare il dato puro e semplice.
Il pensiero queer, che prende le mosse da quello gender, punta all’indifferenza sessuale esaltando l’egualitarismo. In questo modo la differenza sessuale diventa una sorta di variabile corporea buona per tutti gli usi che se ne vogliano fare in continuità col sogno prometeico di liberarsi dal peso del corpo superando quella che Günther Anders chiamava la vergogna di non essersi fatti da sé.
Il pensiero della differenza ci ha reso libere dalla coercizione di ruoli imposti e accettati come destino naturale dovuto alla nostra differenza, ma ci ha anche liberato dalla ossessione emancipazionista che ci vuole uguali agli uomini in tutto e per tutto, neutre, rendendo insignificante la nostra differenza. Noi però non abbiamo mai dimenticato che la nostra libertà non è onnipotente, non è incondizionata ma è capace di riconoscere la condizione umana incarnata che può fondare un nuovo umanesimo a radice materna, dove la relazione madre/figli sia nuovamente centrale nel percorso del divenire umani.
(www.libreriadelledonne.it, 31 maggio 2023)
di Anna Di Salvo e Adriana Sbrogiò
Invito a convegno
Care amiche e cari amici,
con alcune e alcuni delle Città Vicine e dell’associazione Identità e Differenza di Spinea (VE), abbiamo pensato di chiedere alla Libreria delle donne di Milano di poterci incontrare in presenza nel Circolo della rosa per il Convegno annuale delle Città Vicine sabato 3 giugno 2023 pomeriggio (18-20) e domenica 4 giugno mattina (10-13), in via Pietro Calvi 29.
Desideriamo dare seguito e continuità alla pratica politica delle relazioni di differenza tra donne e uomini portata avanti da Identità e Differenza durante i numerosi incontri svoltisi ad Asolo (TV) e a Torreglia (PD). Il 3 e 4 giugno vorremmo approfondire tale pratica, mettendo al centro le questioni più pressanti del nostro presente: la pace, la guerra, la convivenza tra i sessi nelle città, la crisi ambientale, il conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto… con attenzione all’esperienza artistica che si esprime con sguardi al presente, alla natura, a nuovi spazi. Anche a partire da interventi, articoli e interviste pubblicate nel numero speciale della rivista “Autogestione e Politica prima” della MAG di Verona dedicato al convegno delle Città Vicine “Chi ha paura della libertà delle donne?” e nel numero doppio “Mi prenderò cura di te e di me”.
Testi di riferimento per questo convegno: la nuova edizione del libro di Lia Cigarini La politica del desiderio e altri scritti (Orthotes 2022); il libro di Teresa Lucente Il luogo accanto. Identità e Differenza, una storia di relazioni (Effigi 2020); i quaderni pubblicati nel corso degli anni da Identità e differenza che rendono conto del vivace confronto tra donne e uomini durante gli incontri di Asolo e di Torreglia. Tutti i libri, i quaderni e i numeri della rivista si trovano in Libreria delle donne.
Nei locali del Circolo della rosa verrà esposta la mostra mail-art Donna, vita, libertà a cura dell’associazione La Merlettaia di Foggia e delle Città Vicine, coordinata da Katia Ricci.
La sera del sabato 3 sarà possibile cenare insieme al Circolo: per favore prenotatevi una settimana prima a info@libreriadelledonne.it
Per altre informazioni rivolgetevi a Anna Di Salvo, tel. 333 2083308, email annadisalvo9@gmail.com
(www.libreriadelledonne.it, 11 maggio 2023)
di Isia Osuchowska
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(www.libreriadelledonne.it, 3 maggio 2023)
di Antonella Nappi
Nel sito della Libreria delle donne si trovano due articoli scritti da me e Cifoletti, Un’altra resistenza, e uno firmato da molte altre donne, Vogliamo votare contro la guerra, fatto questo su esempio di un altro articolo ancora che era nello stesso sito: Possiamo votare contro la guerra?
Era l’anno passato, mettevamo in evidenza la diversità delle donne dai guerrafondai che conducono guerre di confine e per il governo dei Paesi, quelle per cui uomini vogliono vincere su altri uomini, e alcune donne sembrano appoggiarli per abitudine solidale. La guerra civile tra ucraina e russofoni era arrivata a vedere l’invasione del paese da parte della Russia e chi si riconosceva nel governo di Zelensky rispondeva con le armi.
Noi scriventi ricordavamo come le donne siano state sempre oppresse da governi maschili, da leggi maschili, da principi maschili e ben poco difese. Come le donne abbiano sempre cercato una via di sopravvivenza e fuga dalla violenza per poter essere più libere. Non è dunque la difesa dei governi né quella dei confini, tantomeno il desiderio di vincere su altri con le armi, il loro impegno, bensì quello di difendere la possibilità di vivere per sé stesse e per gli altri. Nella esperienza e nelle azioni, le donne e molti uomini preferiscono operare per conservare la salute, la natura, le città e le ricchezze relazionali conquistate. Preferiscono conservare i beni e i corpi, conservare la responsabilità nell’affrontare i conflitti e ragionarli.
La popolazione italiana si ribellò spontaneamente alla richiesta di Zelensky di entrare in guerra contro la Russia, e così quella europea, ma i nostri governi, subalterni a quello americano, presero ad appoggiare il paese attaccato, senza mantenere neutralità. Non fecero opera di mediazione ma al contrario iniziarono a bombardarci di ideologia guerresca, di ideologia schierata al vincere un nemico e ho l’impressione che abbiano reso mute e impotenti le persone che vorrebbero poter ragionare. Credo siano in parte riusciti a adeguare la popolazione all’aspettativa di qualsiasi possibile disfatta dell’economia e del proprio equilibrio personale, all’evenienza di una catastrofe che dipende dal conflitto russo-ucraino condotto dall’America e dall’Europa per colpire i confini russi e l’oriente tutto. Le nostre alleanze economiche proprio con quegli Stati sono state distrutte, così le nostre sicurezze. Le basi militari americane in Italia e negli Stati che circondano la Russia ci mettono in serio pericolo.
L’iniziativa della Staffetta per la pace, che pacifisti e pacifiste hanno organizzato, e di cui il sito della libreria delle donne dà conto, è un’occasione di alzare lo sguardo e vedere che ci siamo, noi che non vogliamo inviare armi ai paesi in guerra. Dobbiamo risvegliare la speranza che la popolazione possa difendere la vita e la relazionalità pacifica, discutere e contenere i conflitti tra stati e popoli, e non scivolare in una guerra mondiale che colpisce, proprio in Italia, e già sta portandoci anche contro la Cina, per Taiwan (già in quei pressi si esercita la portaerei italiana Cavour).
Spero questa manifestazione riesca bene e spero il piccolo sforzo di iscriversi e raggiungere i sentieri che verranno indicati, dove camminare per un chilometro soltanto, sia alla nostra portata.
La Staffetta per la pace, qui l’appello, è stata promossa da Michele Santoro e il suo percorso è stato realizzato dall’Associazione Compagnia dei Cammini. L’iniziativa, che unisce su strade pedonali tutte le regioni d’Italia da nord a sud, si svolgerà domenica 7 maggio per lanciare un messaggio di pace e un segnale alla politica. Per aderire è necessario scrivere alla mail: staffetta.pace@gmail.com.
Maggiori dettagli al seguente link.
(www.libreriadelledonne.it, 4 maggio 2023)
Video pubblicato nelle stories Instagram di Elena Ceretti Stein
Venerdì 28 aprile, la giovane artista Elena Ceretti Stein è passata in Libreria e ha fatto alcune foto, creando una bella storia Instagram che restituisce il suo sguardo sulla Libreria delle donne. Ce l’ha gentilmente mandata e la condividiamo con grande piacere!
Seguitela su Instagram! @elena.cerettistein
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di Antonietta Lelario
Tutta la mia esperienza di insegnante è stata attraversata dal desiderio di dare corpo all’amore per la libertà.
La mia generazione la ereditava dagli anni ’70 del ’900 e molte di noi, donne, dal femminismo.
La scuola era il luogo ideale perché la libertà femminile è una pratica in cui ognuna scopre sé stessa nell’incontro, con i e le più giovani, con colleghi, colleghe e genitori.
La scuola era il luogo ideale perché esercitare la libertà femminile significava muoversi dagli schemi già stabiliti per reinterrogare tutto, compreso il senso del nostro lavoro. Grazie a un nuovo sguardo sui saperi, sulla loro origine sessuata e sulle differenti genealogie, maschile e femminile, si riaprivano le risposte possibili alle domande del presente, si allacciavano nessi nuovi fra la scuola e gli altri luoghi della città, scorreva energia e desiderio. Il conflitto simbolico con la logica aziendale, da una parte e con l’ossessione del controllo dall’altra, che le varie riforme ministeriali, con pochissime differenze fra l’uno e l’altro governo, imponevano alla scuola era nei fatti.
A quelle riforme, abbiamo risposto con uno scarto di lato, pensando che dovevamo prenderci il cambiamento nelle mani. Fu per questo che la bellissima proposta da parte di Luisa Muraro di lavorare ad una rete di autoriforma nell’Università prese piede nella scuola di ogni ordine e grado. Noi aggiungemmo “gentile” per sottolineare la distanza dal modello che avevamo ereditato, fondato sull’autoritarismo e l’in/differenza.
Abbiamo lasciato un sassolino, come spesso fanno le donne, per segnare un sentiero. Infatti, oggi forse più che mai, nella necessaria ricostruzione che segue le macerie prodotte dal patriarcato, il processo di insegnamento apprendimento ha bisogno di incontri, di tempi suoi, di sguardi, di attese, -Chiara Zamboni ha parlato a questo proposito di materialismo dell’anima.
Non gli sono utili né le logiche produttiviste, né le scorciatoie propagandistiche, né le pratiche lusinghiere e adulatorie alla Meloni.
Quello che io auspicherei però è che lo sdegno antifascista, anziché sul personaggio di turno, anziché segnale di buona coscienza diventasse critica attenta e puntuale verso queste logiche e queste pratiche perché è lì nelle logiche e nei meccanismi patriarcali che sono ancora fra i nostri piedi che va ripreso l’esercizio di libertà e creatività, perché è lì nelle pratiche che affiora la forma del mondo, in positivo quella che vogliamo e in negativo quella che ci ferisce. Da molto tempo mi tornano alla memoria i versi danteschi “Il modo ancor mi offende”. Oggi so che nel modo c’è la sostanza.
Antonietta Lelario fa parte del circolo La Merlettaia di Foggia.
(www.libreriadelledonne.it, 4 aprile 2023)
di Luisa Muraro
C’è una scrittrice francese che ha scritto un libro in cui parla della differenza sessuale, La différence des sexes, che è stata tradotta come se parlasse della differenza tra i sessi. Non va bene. La differenza sessuale non è tra i sessi, ma dei sessi. Vuol dire che per avere un uomo e una donna da confrontare, la differenza c’era già a farli differenti. La differenza sessuale era già al lavoro dal momento del loro concepimento. Bisogna avere chiaro questo fatto quando parliamo di uomini e donne. La differenza sessuale viene prima e si riproduce dando vita a lei o lui, facendoli differenti. Questa semplice verità di fatto caratterizza il femminismo della differenza. La differenza sessuale si riproduce anche nei nuovi nati, nel fatto cioè che sono sessuati, di un sesso o dell’altro, maschi o femmine. Nella lingua italiana e in altre lingue la cosa viene significata con l’uso del maschile e del femminile. Ma si creano dei problemi perché, primo, non abbiamo il genere neutro per cui tutte le cose sono sessuate, secondo, perché la sessuazione maschile/femminile si ripete al plurale senza poter combinare i due sessi nel plurale. A causa dei problemi linguistici, troppo spesso nelle discussioni sulla differenza sessuale non si fa attenzione al passaggio dal dato biologico al dato antropologico. Si fa confusione tra l’uno e l’altro aspetto, oppure si mantiene un solo aspetto e si tralascia l’altro, mentre sappiamo che l’essere umano comprende insieme la natura e la cultura passando e ripassando dall’uno all’altro. Nella famiglia questo è evidente per la compresenza di sessi e di età differenti. Il fatto che i genitori siano tradizionalmente un uomo e una donna sta a significare che, ad ogni passaggio procreativo, la differenza sessuale passa e ripassa dal due all’uno, dall’uno al due. Passa e ripassa dal biologico all’umano, dall’umano al biologico. È un ordine al quale siamo sottoposti e al quale è bene obbedire anche quando i genitori non sono entrambi biologici. Obbedire all’andirivieni tra natura e cultura, tra cultura e natura è il modo più diretto di vivere la complessità tipicamente umana. Siamo animali razionali, abbiamo un’anima e un corpo, proviamo istinti e sentimenti, parliamo, pensiamo, dormiamo…
(libreriadelledonne.it, 31 marzo 2023)
di Laura Colombo
I temi controversi che in questi giorni, a torto o a ragione, sono passati sotto l’etichetta “diritti dei bambini” hanno bisogno di pensiero e ho sentito l’esigenza di trovare un punto fermo per orientarmi. Attraverso la prospettiva della differenza sessuale, è possibile squadernare verità altrimenti mistificate. La prima e principale riguarda l’asimmetria tra donne e uomini in materia di riproduzione, essendo la capacità procreativa propria del corpo femminile, che porta avanti il processo di gestazione per trasmettere la vita. È vero che negli ultimi decenni la tecnologia ha reso possibile la procreazione con mezzi artificiali, scindendola dalla natura, ma è anche vero che la riproduzione artificiale rimanda sempre alla procreazione naturale: anche con le tecnologie riproduttive, l’embrione ha origine dall’incontro di due gameti di provenienza materna e paterna (omologa o eterologa che sia) e si sviluppa all’interno del corpo di una donna che lo dà alla luce. Questa asimmetria tra i sessi nella procreazione è, a mio parere, un preciso punto di ancoraggio per pensare la maternità da molti punti di vista, anche quello giuridico. Scrive Silvia Niccolai: “Nascere da un corpo di donna fa di un essere umano un certo qualcuno: il figlio di lei. Mater semper certa è un principio anti-volontarista che ferma la capacità di ogni dispositivo – di legge o di contratto – di manipolare l’identità e la storia di un essere umano facendone il ‘costrutto’ di quel dispositivo, ed è in questo senso un auto-limite che presidia un rapporto il meno possibile squilibrato tra ‘legge’ e ‘realtà’, al cospetto dell’angosciante consapevolezza di ciò che può implicare l’abuso della prima nei confronti della seconda”[1].
Posta questa asimmetria, è evidente la differenza che passa tra una famiglia composta da due donne e quella composta da due uomini: nel primo caso, la procreazione può comportare uno sdoppiamento di maternità (la madre gestazionale può dare alla luce una creatura che origina dal gamete femminile della compagna e da quello maschile necessariamente eterologo) ma chi nasce mantiene il legame materno ed eventualmente potrà risalire al padre biologico. Nel caso di una coppia di uomini, se viene negata la possibilità di adottare una creatura già nata, il fare famiglia passa necessariamente per la surrogazione di maternità, che avviene inevitabilmente in un contesto di mercato anche quando è di carattere gratuito (non solo per via del rimborso spese alla gestante, ma anche e soprattutto per le agenzie di intermediazione, gli avvocati e tutto l’apparato a pagamento che rende possibile la surrogazione).
Per i bambini e le bambine già venuti al mondo, è a mio parere fondamentale che l’istituto dell’adozione in casi particolari sia il più snello possibile, in modo da riconoscere, anche da un punto di vista giuridico, una famiglia che di fatto già esiste, preservando tuttavia l’interesse primario e fondamentale del minore alla conoscenza delle proprie origini. Questo perché noi siamo anche corpo, il nostro corpo ha una sua storia che fa tutt’uno con la storia della nostra umanità: la storia del corpo conta, la biologia conta insieme e mescolata a tutte le relazioni che hanno fatto di noi l’essere umano che siamo.
Detto questo, mi chiedo quali significati essenziali veicolava la manifestazione del 18 marzo. In primo luogo, mi pare evidente che si manifestasse il sacrosanto bisogno di rendere socialmente accettato il “fare famiglia” da parte di coppie omogenitoriali. I discorsi sui diritti dei bambini sono in realtà discorsi sulla necessità che siano riconosciute e accettate famiglie differenti da quella tradizionale. C’era anche un non detto, un sottaciuto discorso antidiscriminatorio che, ahimè, presuppone la parità tra uomini e donne e la loro equivalenza nella dimensione del fare: l’accudimento, l’educazione, il crescere i bambini lo fanno sia i padri che le madri, si pone quindi la genitorialità sul piano sociale espungendo il di più femminile della gestazione e del parto, che noi sappiamo non essere un mero fare ma esperienze di una qualità differente[2]. Più precisamente, il di più femminile viene collocato in una dimensione irrilevante e sorprende che siano anche le donne a fare questa mossa.
La matassa ingarbugliata dei discorsi che circolano intorno alla maternità surrogata diventa per me ancora più intricata quando penso alle coppie eterosessuali che vi ricorrono, perché in quel caso è in questione un desiderio femminile che resta enigmatico e inespresso. Cerco una leva nel femminismo per orientarmi e, come è in parte emerso nel numero di Via Dogana 3 dedicato alla maternità (ottobre 2022), a giocare un ruolo determinante sarebbe l’innegabile guadagno femminile della procreazione per libera scelta. Pensando allo stigma sociale che gravava sulle donne con figli al di fuori del matrimonio di pochi decenni fa, ci rendiamo conto di quanta strada abbia fatto la libertà femminile. Se si aggiungono i progressi fatti dalla scienza nel campo della riproduzione assistita, comprendiamo il senso dei discorsi che legano la maternità a una libera scelta femminile. Tuttavia, questo legame presenta lati oscuri e multiformi: non sempre scegliere di essere madre significa effettivamente poter diventare madre. Il silenzio femminile e femminista è proprio nel punto ostico della messa in parola di un desiderio ostinato, quando la possibilità di scelta si interrompe. Mi chiedo come rendere possibile un discorso. Forse attraverso la creazione di uno spazio politico perché lei possa trovare le parole, condivise, scambiate con altre, per venire a capo del suo desiderio non realizzabile in maniera sensata.
[1] https://iris.unica.it/retrieve/e2f56ed8-2f10-3eaf-e053-3a05fe0a5d97/silvia%20genius.pdf
[2] Stefania Tarantino ha saputo descriverlo con nitidezza e verità in un recente post facebook
(libreriadelledonne.it, 31 marzo 2023)
di Silvia Motta
So che desiderare un bambino e non poterlo avere può essere molto doloroso, soprattutto per una donna. Ugualmente io dico un NO DECISO alla GPA (gestazione per altri – utero in affitto). Rispetto all’evoluzione straordinaria che hanno avuto le tecnologie riproduttive, dico che non tutto quello che si può fare va fatto. E non tutto quello che si desidera è trasformabile in un diritto. Più precisamente: non si può fare mercato dei bambini e del corpo delle donne.
Non mi spaventa la ‘sintonia’ che queste affermazioni hanno con le politiche della destra e con quelle dell’area cattolica-conservatrice: io parto da considerazioni diverse.
Non mi interessa difendere la famiglia tradizionale, eterosessuale e immutabile, con il portato di pregiudizi e di omofobia che porta con sé. Io parto dalla differenza dei due sessi e dall’asimmetria che li caratterizza. Le donne possono partorire, gli uomini no. Le donne sanno sempre quando sono madri e chi sono i loro bambini. I maschi possono spargere in giro bambini senza neppure venirlo a sapere.
Ci vuole il seme di un uomo e l’ovulo di una donna per concepire una creatura. È nel ventre di una donna che l’ovulo fecondato può svilupparsi fino a diventare una creatura vivente. La gestazione per altri oscura e nega la madre biologica (detta anche genetica) che nella procreazione umana non fornisce solo l’ovulo ma ha anche l’apparato corporeo e psichico idoneo per trasformare l’ovulo fecondato in un un essere vivente e per relazionarsi con lui anche prima che veda la luce.
Tuttavia, se ci addentriamo nelle diverse modalità che possono assumere le relazioni sessuali tra donne e uomini, le questioni si complicano ed è necessario fare differenze e precisazioni, a seconda che la surrogazione sia richiesta da una coppia eterosessuale o da una coppia omosessuale maschile.
Le statistiche dicono che le coppie eterosessuali sono la maggioranza tra coloro che ricorrono all’utero in affitto, e fanno meno problema delle coppie omosessuali perché la funzione materna viene agevolmente assunta dalla compagna dell’uomo che ha fecondato l’ovulo.
Nel linguaggio comune, per le coppie omosessuali maschili si fa riferimento a bambini che hanno “due papà”. È il caso più inaccettabile da tutti i punti di vista. Due padri? Il fatto non sussiste. Uno dei due di sicuro non è il padre, ma, eventualmente un compagno del padre. Certamente il compagno del padre può svolgere una funzione educativa-affettiva ma dire che ci sono due papà è un falso.
E la madre dov’è? Chi è? Circolano molti racconti edificanti sul coinvolgimento della madre gestante nella famiglia gay, con soprannomi carini come mummy. Dice Valentina Pazé (docente di filosofia politica presso l’Università di Torino): “All’inizio ho pensato che questi racconti fossero poco credibili. Poi il mio giudizio è cambiato. Ho riflettuto su ciò che già osservava Alain Caillé: la grande capacità del capitalismo di mobilitare il “non utilitario”, come la dedizione, la generosità, e l’altruismo al servizio dell’utilitario. E, per altri versi, il bisogno da chi è coinvolto in simili transazioni di raccontare a sé e agli altri una verità diversa da quella dello scambio commerciale”[1].
Non c’è ovviamente surrogazione nella coppia formata da due donne. Volendo condividere la maternità esse possono fare lo sdoppiamento, una mette l’ovulo, l’altra la gestazione. Risalta in questo caso la superiorità femminile nella procreazione. La parità nel caso della procreazione non è valida, c’è un primato materno che nella nostra società viene comunemente ammesso.
Esprimere riprovazione e netto rifiuto verso la maternità surrogata per me non vuole dire legittimare comportamenti e parole criminalizzanti contro chi vi è ricorso. Non perché questa non sia un fatto di grande gravità, specie per noi donne che subiamo un’ulteriore cancellazione, ma perché è un fenomeno che esiste e non produce qualcosa di inerte, ma creature che devono poter vivere in un clima di accettazione e di non isolamento. Da questo punto di vista, la relazione che questi adulti hanno con i ‘loro’ bambini va riconosciuta esplicitamente e regolata legalmente per entrambi i soggetti della coppia. Nelle coppie omosessuali, la possibilità di adozione del figlio del partner potrebbe essere una buona soluzione[2]. L’applicazione a questi casi dell’adozione speciale, quella che la Cassazione indica per gli omogenitori, sembrerebbe già oggi una parziale risposta.
Per quanto riguarda i bambini nati con le tecniche della maternità surrogata, capita molto spesso che a una certa età vogliano sapere di più rispetto alla propria provenienza. A loro va riconosciuto il diritto di sapere la verità sulle proprie origini. Per questa ragione, alcuni paesi dove la maternità surrogata è permessa hanno introdotto la tracciabilità, cioè è vietato l’anonimato dei fornitori di gameti.
A chi voglio rivolgermi? In primis alle femministe, anche quelle della differenza, nel tentativo di portare un po’ di chiarezza perché la materia è complicata e molte si sentono confuse. E poi naturalmente a tutte e tutti coloro che vogliono confrontarsi davvero con questo argomento e non farne un’arma di propaganda politica.
Perché anche le femministe? Perché la denominazione femministe è una sorta di marchio ombrello sotto il quale trovano spazio diverse visioni. La mia visione va sotto il nome di ‘femminismo della differenza’ e in Italia è identificata spesso con la Libreria delle donne di Milano. Cosa in sé esatta ma riduttiva, perché il tema della differenza è riconosciuto da moltissime donne in tutta Italia e altrove.
[1] https://www.avvenire.it/vita/pagine/maternit-surrogata-ma-quale-libert?fbclid=IwAR2mlM4X1596q-c96_51NsbVOgPQmLoKQ7yGGxrcpOWPIPijxhzcQqvOV_k
[2] https://www.micromega.net/discriminazione-dei-figli-di-coppie-omosessuali-chiara-saraceno/
(libreriadelledonne.it, 30 marzo 2023)
di Umberto Varischio
Coloro che ritengono un pretesto (o una “fake news”) affrontare il problema della mancata trascrizione nell’anagrafe italiana di figli di coppie omosessuali a partire dalla pratica della “gestazioni per altri”, si dimenticano che la sentenza della Cassazione che ha innescato il caso riguardava proprio un caso di gpa.
La Corte, infatti, decidendo su questione relativa alla trascrivibilità dell’atto di nascita di un bambino nato in Canada con la gestazione per altri, pratica cui aveva fatto ricorso una coppia maschile di cittadini italiani uniti in matrimonio presso tale Stato estero, ha ritenuto che «la pratica della gestazione per altri […] offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane; ciò esclude la automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero».
La Corte, tenendo conto degli aspetti affettivi del legame che esiste tra il padre naturale del bambino e il partner dello stesso (nello stato straniero il coniuge), riconosce però che il bambino ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, «del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale, e che l’ineludibile esigenza di assicurargli i medesimi diritti degli altri bambini è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, che rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello “status” di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita».
Al di là di ragioni strettamente politiche che si sono innestate nel dibattito e nelle iniziative che hanno seguito la scelta di alcuni sindaci di interrompere, nel loro Comune, la pratica della trascrizione (ragioni a cui accenna Marina Terragni nel suo articolo uscito sul Foglio che è consultabile qui), mi sconcerta verificare che a quasi quindici giorni dall’evento pochissime siano state le riflessioni maschili sul nesso tra desiderio maschile e gestazione per altri.
Vi accenna, nell’ambito di un ragionamento generale sul desiderio di paternità, Sarantis Thanopulos su Il manifesto del 25 marzo, ritenendo che la «gestazione surrogata», escludendo valutazioni di tipo morale o politico e partendo solo dalla prassi, sia una pratica che «implica uno sfruttamento del corpo della donna».
Una pratica che, almeno per me, nella stragrande maggioranza dei casi si riduce a un “servizio” in cui viene richiesto a una donna di “produrre” una merce a pagamento che in questo caso è un essere umano. Una pratica, per restare nell’ambito del rapporto di produzione che qui viene adombrato, in cui la donna in questione perde qualsiasi diritto su colui che ha “prodotto”. La stessa situazione in cui si viene a trovare un’operaia salariata che produce un qualsiasi oggetto e che perde ogni diritto su di esso. Se non fosse che un bambino non è un oggetto.
Si argomenta che porre un limite a questo oggettivo sfruttamento significherebbe porre un ostacolo al desiderio di paternità del genitore (maschio) non naturale. Niente quindi mercificazione e patriarcato, niente alienazione e violenza iscritta nei rapporti di potere e produzione, ma un desiderio sostanzialmente solipsistico, che mette in mora la complessa relazionalità del desiderio di paternità come descritta da Thanopulos.
In quanto uomo mi viene da chiedermi: ma il desiderio di paternità può essere senza limiti e quindi anche prevedere di essere messo in atto attraverso un rapporto puramente mercantile come nella “maternità surrogata”? Non sembra a qualcuno che in questa illimitatezza del desiderio agisca una pratica fortemente patriarcale come quella del controllo della maternità? E poi, il desiderio di paternità, non negando gli aspetti affettivi del legame, per rendersi effettivo deve essere per forza confermato dal diritto attraverso il riconoscimento dell’essere “mio” del bambino? Lascio agli uomini che vivono questo desiderio (che non è il mio) la risposta; per me vale quanto affermato da Terragni: «maschi che vogliono i figli delle donne, niente di così diverso dalla prima pietra su cui si è edificato il patriarcato».
(www.libreriadelledonne.it, 30 marzo 2023)
di Clara Jourdan
Mi ha molto colpito la vasta adesione – più di cento tra partiti e associazioni – alla manifestazione di Milano del 18 marzo scorso a favore dei “diritti dei figli e figlie di coppie dello stesso sesso”. Una delle motivazioni più sentite è che non è giusto discriminare i genitori per l’orientamento sessuale. Verissimo! Quello che conta è l’amore. Ma all’origine della mobilitazione c’è la richiesta di registrazione in Italia dei bambini nati all’estero e lì registrati come figli di coppie di uomini. Allora il punto della questione non è l’orientamento sessuale, ma di chi sono figlie le creature di cui si vogliono tutelare i diritti. Per saperlo bisogna distinguere se le coppie dello stesso sesso sono di uomini o di donne, e in questo la differenza è abissale. Se si tratta di coppie di donne, le creature sono figli e figlie di una delle due donne, quella che ha dato loro vita e giustamente vuole che venga riconosciuto anche giuridicamente il legame che hanno con la sua compagna, mamma di fatto. Se invece si tratta di coppie di uomini, forse non tutti sanno che i loro bambini e bambine sono stati comperati, con un contratto di “utero in affitto” detto anche “gravidanza per altri” che in altri paesi è ammesso, perciò sarebbe aberrante considerarli figli loro: gli esseri umani non possono essere oggetto di scambio, da quando è stata abolita la schiavitù.
Queste creature sono state programmate per essere separate alla nascita dalla madre, perché venga loro tolto ciò che più desiderano e di cui hanno bisogno, come sa chi ha visto un neonato o una neonata: stare con la propria madre, colei con cui si sono formate e nel cui ventre hanno vissuto per nove mesi. Portarle via è un modo crudele per diventare genitori. Assurdo pensare di sistemarlo con i diritti. Come si può credere che il diritto ad avere due padri si possa basare sul privare un bambino o una bambina del suo primo diritto, il legame con la madre? Se si tratta di una privazione per necessità, per la morte o il rifiuto da parte della madre, ben venga l’amore di genitori sostituti. Altrimenti c’è una crudeltà che resta indelebile. Se gli acquirenti sono persone sensibili si porteranno per tutta la vita il senso di colpa per la crudeltà originaria che hanno fatto, e il senso di colpa, specie se di vera e grave colpa, è una mina vagante nelle relazioni. Se poi non sono persone sensibili, continueranno ad aggiungere altre crudeltà alla crudeltà originaria pur di godere al massimo del loro bene prezioso.
Purtroppo il commercio di bambini si sta estendendo, e riconoscere come genitori i committenti (uomini e donne) non farebbe che aumentare questa orribile pratica, come avviene con la prostituzione quando è legalizzata. Allora come proteggere le creature già comperate e portate in Italia? La cosa più giusta sarebbe sottrarle ai compratori, come si fa con i rapitori di bambini, che non vengono considerati accettabili come genitori, e riportarle alla madre, se possibile; se no, darle in adozione a singoli o coppie (di qualunque orientamento sessuale) che possano amarle più liberamente dato che non hanno causato la perdita del loro legame materno. D’altra parte però molti di questi bambini si sono affezionati ai compratori, li considerano genitori, come capita anche in caso di rapimenti, e causerebbe un ulteriore trauma separarli da loro. Bisogna pensare cosa sia meglio davvero per le creature, andrebbe valutato caso per caso, ma da chi? È un problema molto grande, non si può liquidarlo trasformando in diritto uno stato di fatto originato da una violenza.
Comunque una cosa è certa: l’utero in affitto non va introdotto nel nostro ordinamento, neanche con la scorciatoia dell’adozione strumentale, e va abolito in tutti i paesi, così come è stata abolita la schiavitù.
(www.libreriadelledonne.it, 21 marzo 2023)
di Beatrice Campodonico
Ricordiamo Antonietta Berretta, morta il 24 febbraio 2023, con le parole della musicista Beatrice Campodonico alla cerimonia funebre. Di Antonietta Berretta possiamo leggere sul nostro sito l’introduzione all’incontro dell’11 dicembre 2012 Desiderare la musica d’altre.Viaggio tra le compositrici. Alcuni suoi libri si trovano in Libreria delle donne.
Ho conosciuto Antonietta a un concerto dedicato alle compositrici e poi l’anno successivo nel dicembre 1999 siamo diventate colleghe presso il Conservatorio di Novara. Da quel momento è nata una grande amicizia e un lungo percorso artistico insieme in favore della musica delle donne. In uno dei nostri frequenti incontri e conversazioni, Antonietta mi confessò che con la ricerca a favore delle compositrici a cui si stava dedicando, aveva raggiunto uno dei suoi sogni più grandi ovvero coniugare l’impegno civile per la difesa dei diritti delle donne con la musica, altra sua grande passione. In questo modo ha armonizzato le sue più grandi vocazioni.
Antonietta ha dedicato gran parte della sua vita alla riscoperta ma anche scoperta delle compositrici; ha dato loro dignità e voce spendendosi con tutta se stessa organizzando concerti, mostre, incontri, seminari e tutto ciò fosse possibile fare per creare occasioni di ascolto e conoscenza dei loro repertori e della loro musica. Ma il traguardo più grande raggiunto – a mio parere – è l’essere riuscita con una rivoluzione culturale fatta di persuasione, pazienza, tenacia, costanza e ferma convinzione ad appassionare e coinvolgere tutta un’istituzione, il Conservatorio Cantelli di Novara, ovvero, studenti, docenti, personale Ata, la biblioteca. Tantissime sono le cose fatte, ne menzionerò solo alcune: innanzitutto In-audita musica, un progetto multidisciplinare ancora oggi esistente, in cui le musiche delle compositrici vengono incluse nei piani di studio, studiate ed eseguite in varie occasioni; una sezione della biblioteca del conservatorio di Novara (archivio In- audita musica) in cui sono presenti tantissime musiche di compositrici di ogni epoca (credo che sia il più grande e vario archivio di musiche di compositrici esistente in Italia). Ha pubblicato insieme ad altri colleghi, tra cui Pier Giuseppe Gilio e Patrizia Florio, due cataloghi collegati ad altrettante mostre di compositrici del ’600 e ’700. (*) Nel 2009 il progetto In-audita musica ha ricevuto l’importante riconoscimento di “Buona Pratica” dal MIUR.
In tutto questo rimane però singolare la grande umiltà e quasi ritrosia di Antonietta che vedeva nel suo operato una sorta di missione, anteponendo la ricerca a se stessa.
Ma a parte questi aspetti voglio sottolineare come per Antonietta l’aspetto umano anche in questa ricerca fosse alla base di tutto; ciò che ha sempre messo in evidenza è il vissuto di queste musiciste che la storia ha per lo più rinnegato o condannato all’oblio come è accaduto a molte artiste.
Mi sento molto privilegiata per aver incontrato e conosciuto Antonietta, mi ha dato molto e mi ha insegnato ad avere uno sguardo diverso; una ricchezza immensa che mi porterò sempre dentro e che cercherò di trasmettere a mia volta.
Grazie Antonietta !!!
* In-audita musica. Compositrici del ’600 in Europa (Edizioni Et, 2000), e In-audita musica. Compositrici del Settecento in Europa (Torino, Seb 27, 2004).
(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2023)
di Clara Jourdan
Introduzione all’incontro in Libreria delle donne, Milano 11 febbraio 2023: La guerra incombe più di ieri. Che cosa si può fare oggi? A quasi un anno dall’invasione dell’esercito russo in Ucraina continua ad aumentare il coinvolgimento armato di altri paesi tra cui l’Italia, nonostante sempre più donne e uomini stiano dicendo basta a questa e alle altre guerre che insanguinano il pianeta. Ci troviamo in una situazione molto difficile e pericolosa. Vogliamo parlarne a partire dalla consapevolezza che ogni guerra è scatenata da uomini e colpisce tutte e tutti, cioè che la guerra fa parte della questione maschile, dei gravi problemi causati alla convivenza civile dal sesso maschile come si esprime nella storia, e che ormai è necessario un cambiamento, prima che sia troppo tardi. Ne discutiamo con Marco Deriu, Alberto Leiss, Alfonso Navarra: uomini impegnati nella riflessione e nell’azione contro la guerra. Introduce Clara Jourdan.
La guerra iniziata con l’invasione dell’esercito russo in Ucraina il 24 febbraio 2022 ha riportato all’attenzione di tutte e tutti la realtà della guerra, sempre presente nel mondo ma che tendiamo a mettere da parte, per non esserne schiacciate. A quasi un anno di distanza dall’invasione, la guerra incombe più di ieri, e non sappiamo cosa possiamo fare. Qui vogliamo cercare di ragionare a partire da una considerazione che alcune donne fanno da tempo ma che non è presente nei discorsi pubblici: la guerra è una manifestazione della questione maschile,[1] cioè dell’insieme di problemi che il sesso maschile come si esprime storicamente causa alle donne, alle creature, alla natura, alla convivenza civile, agli uomini stessi. Dei femminicidi e le altre violenze contro le donne si parla ormai spesso. È necessario prendere coscienza che anche la guerra ne è una manifestazione, e terribile, per la devastazione che provoca in morti, vite sconvolte, città distrutte.
Prima di entrare nel merito della guerra come questione maschile, voglio precisare che non intendo escludere le donne dalle responsabilità nel far continuare le guerre, a volte prendendo le armi ma specialmente nutrendo, curando e sostenendo i combattenti e i loro ideali, come sappiamo dalla storia e come vediamo ancora. Eppure molte femministe pensavamo come Letizia Battaglia, la fotografa impegnata morta nel 2022, che nella sua autobiografia scriveva: «Sono sicura che le donne al governo non permetterebbero la guerra».[2] Invece la permettono. Anche per il poco che è in loro potere, come le leader di Finlandia e Svezia che di fronte all’aggressione russa all’Ucraina hanno chiesto l’ingresso dei loro paesi nella Nato, mentre forse potevano ribadirne la storica neutralità, ce lo saremmo aspettate da alcune dichiarazioni “femministe”. Kaja Kallas, presidente dell’Estonia dal gennaio 2021, in una intervista del 29 aprile 2022 si dice «convinta che se ci fosse stata una donna a capo del Cremlino, questa guerra non sarebbe mai scoppiata», perché «se hai dato vita a un essere umano, è così crudele ammazzare il figlio di un’altra donna»[3], ma lei sceglie di stare «dalla parte giusta della cortina di ferro, che è quella della Nato». Cioè al momento di rispondere alla guerra ha prevalso la logica delle alleanze militari. Laura Colombo commenta: «Se le donne arrivano al potere, devono radicarsi ancora più profondamente nella loro differenza per non perderla, e non perdere così la possibilità che davvero la guerra sia messa fuori dalla storia».[4] Purtroppo oggi che “le donne sono ovunque”[5] accade spesso che quando una donna si trova in un posto di potere tenda a stare «all’interno della logica dei rapporti di forza e di potere»[6]. Su questo abbiamo riflettuto in un incontro qui in Libreria il 12 giugno 2022.[7] Stasera chiedo di concentrarci, grazie alla presenza di uomini impegnati contro la guerra – Marco Deriu e Alberto Leiss ne hanno anche discusso recentemente in un incontro dell’associazione Maschile Plurale di cui fanno parte – sulla questione maschile che pone la guerra, prima che sia troppo tardi.[8]
A differenza dei millenni passati, oggi la guerra deve essere giustificata come difesa, difesa di territori, di popolazioni, di valori. Specialmente come resistenza. Questo è effetto della fine del patriarcato, nella cui civiltà era presente la guerra di conquista. Può essere considerato un passo avanti, un cambiamento culturale importante, così come l’aumento delle proteste popolari: quella mondiale del 15 febbraio 2003 non è riuscita a impedire l’attacco degli Usa all’Iraq ma ha mostrato inequivocabilmente che la guerra esterna non è più accettabile. Tuttavia ritenere che una guerra debba essere giusta fa sì che le guerre continuino, e vengano sostenute e alimentate da paesi “amici”.[9] Invece occorre sapere, dice il papa Francesco, che «la guerra non è mai giustificata».[10]
Come scrisse tanti anni fa Gertrude Stein (che guidava ambulanze in Francia nella prima guerra mondiale), «una guerra è sempre perduta, sempre perduta». Da allora la situazione è via via andata peggiorando, muore molto di più la popolazione che i combattenti, e a causa del progresso tecnologico e dell’economia capitalistica la pericolosità è aumentata enormemente. Nel 1945 l’atomica l’avevano solo gli Stati Uniti e l’hanno usata. Adesso che ce l’hanno tutti, come possiamo credere che un Putin o un altro uomo al comando sia più responsabile del presidente Truman che ha fatto sganciare la bomba su Hiroshima e dopo averne visto l’effetto un’altra su Nagasaki?
Una guerra è sempre perduta non solo per la morte e distruzione che ha provocato ma per le sue conseguenze nelle relazioni tra stati. Una cosa che eternizza la pericolosità delle guerre rilanciandole quando sono finite è la “voglia di stravincere”[11] dei vincitori. Tutti sanno che la seconda guerra mondiale è stata il seguito della prima, i cui vincitori con il Trattato di Versailles (1919) hanno voluto umiliare la Germania sconfitta. E non è forse la voglia di stravincere degli Stati Uniti e della Nato che ha portato alla guerra di oggi della Russia all’Ucraina? La fine della Guerra fredda in Europa, con lo scioglimento del Patto di Varsavia (1991) e quindi la vittoria degli Stati Uniti non ha portato, come sarebbe stato sensato volendo davvero la pace, allo scioglimento della alleanza militare Nato (istituita nel 1949), il cui allargamento alla Repubblica Federale Tedesca nel 1954 aveva spinto l’Unione Sovietica a fondare nel 1955 il Patto di Varsavia. Ma nel 1991 almeno c’è stato l’accordo di Bush con Gorbacev che la Nato non si sarebbe allargata verso est. Un impegno di pace a cui molti e molte hanno creduto perché alla base del diritto internazionale per evitare le guerre c’è il principio che i patti vanno rispettati (Pacta sunt servanda). Invece la voglia di stravincere ha dominato i decenni successivi: la Nato si è ampliata più volte dal 1999, l’ultima nel 2020; ben 14 paesi sono entrati, di cui 10 dell’ex Patto di Varsavia, e l’Ucraina è in trattativa. Seguendo Freud, Franco Fornari nel libro La psicoanalisi della guerra, pubblicato nel 1966 in piena guerra fredda e minaccia atomica, aveva definito la guerra come una “elaborazione paranoica del lutto”.[12] Bisognava dunque saperlo che si sarebbe arrivati al punto in cui ci troviamo.
I soggetti che gli psicanalisti avevano in mente erano gli uomini di sesso maschile, ovvio, ma non lo dissero, però oggi possiamo e dobbiamo dirlo. Tornando alla voglia di stravincere, esiste anche nei conflitti interpersonali, anche nelle donne, alla fine dei loro rapporti con uomini, come ha spiegato Lia Cigarini, ma è negli uomini di stato che impedisce la pace al termine delle guerre. C’è una differenza sessuale anche nella voglia di stravincere. La voglia maschile di stravincere credo si agganci a un elemento simbolico che è alla base del perpetuarsi della guerra, il valore virile del guerriero, il suo onore, e su questo potranno dire qualcosa di più preciso gli uomini qui presenti, in particolare Marco Deriu che ha analizzato la differenza sessuale nel suo fondamentale Dizionario critico delle nuove guerre.[13]
Comunque, il cambiamento che riscontriamo in alcuni (o molti?) uomini nelle relazioni con le donne sembra venir meno quando si tratta della guerra, che resta una attività onorevole per gli uomini. Dai “caduti per la patria” della prima guerra mondiale (in realtà milioni di giovani uomini massacrati per spostare i confini degli stati) a tutt’oggi, un secolo dopo, la fine del patriarcato non ha intaccato l’immaginario e il sentimento di reverenza e gratitudine per il soldato. Lo possiamo vedere chiaramente per esempio nelle serie televisive americane progressiste, il grande onore che viene tributato ai militari caduti all’estero non ha l’eguale per nessuna attività maschile. Io sono sempre colpita di fronte a queste espressioni, che sembrano autentiche, sentite, e mi viene in mente per contrasto l’indifferenza per i caduti sul lavoro, che pure sono morti per il “paese”.
Forse è questo il punto chiave della questione maschile riguardo alla guerra, che resta un’attività onorevole per gli uomini. Ottant’anni fa Virginia Woolf aveva capito che è su questo che bisogna agire, creare attività più onorevoli per gli uomini onesti.[14] Gran parte degli uomini in realtà non vuole la guerra, ci vanno solo se obbligati, ma sono ben pochi quelli che trasgrediscono disertando oppure opponendosi al patriottismo ancora dominante nella cultura. Poco prima della pandemia mi è capitato di assistere a un concerto di una banda di paese, nel mio paese di nascita: quando hanno suonato l’inno nazionale italiano e io non mi sono alzata in piedi, il mio vicino di sedia si è indignato e con grande agitazione mi ha chiesto da dove diavolo venivo.
Guerra e patria sono strettamente legati, negli uomini, lo spiega bene Marco Deriu nella voce “Differenza sessuale” del libro citato, un libro che «nasce da una precisa consapevolezza: la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell’immaginario. Si afferma, in primo luogo, come una possibilità che si installa nel nostro orizzonte di pensiero, nella nostra visione delle cose». Fino a rendere la guerra un «fatto sociale totale» nella normalità delle nostre vite, a cominciare dal linguaggio.[15] Da qui comprendo come mai il “diritto alla resistenza” sia sempre invocato e indiscusso. Un diritto che in realtà suona come un obbligo, se pensiamo all’Ucraina che appena invasa avrebbe potuto arrendersi ma il suo governo ha deciso di resistere. Milioni di profughi, centinaia di migliaia di morti, città completamente distrutte… un’enorme catastrofe di cui non si scorge la fine. Non si poteva cercare di evitarla valutando con buon senso cosa fosse opportuno fare? invece di ubbidire all’ineluttabilità di un diritto maschile, e all’orgoglio degli uomini al comando. Tante donne, come me, pensano che dovremmo arrenderci se la nostra città, Milano, venisse assediata, piuttosto che morire o dover scappare in massa e lasciarla distruggere. Non siamo più ai tempi delle guerre di indipendenza (guerre ricordate dalla toponomastica in questa zona di Milano: l’insurrezione del 1848 in piazza Cinque Giornate, corso XXII Marzo …). Oggi occorre prendere atto che il principio ottocentesco dell’autodeterminazione dei popoli – “popoli” al plurale, cioè distinti su base etnica, linguistica, storica, religiosa… – è diventato pericolosissimo, quanto sedimentato nel nostro immaginario; nel Novecento abbiamo assistito alla distruzione della convivenza di intere popolazioni (penso alla ex Iugoslavia) per creare nuovi stati per ciascun “popolo”, e sarà sempre peggio dato che con la globalizzazione i cosiddetti popoli si mescolano ovunque.
(www.libreriadelledonne.it, 15 febbraio 2023)
[1] Laura Colombo ha dedicato alla questione maschile la sua lezione all’ultimo Grande seminario di Diotima, in dialogo con Marco Deriu (Verona, 21 ottobre 2022): https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-questione-maschile-3/
[2] Letizia Battaglia e Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia, Feltrinelli 2020, p. 115.
[3] Intervista di The Times UK, https://www.thetimes.co.uk/article/if-a-woman-was-running-russia-thered-be-no-war-in-ukraine-h9w99b087
[4] Commento di Laura Colombo all’intervista a Kaja Kallas, Se le donne arrivano al potere, 29 aprile 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/se-le-donne-arrivano-al-potere/
[5] Le donne sono ovunque è il titolo di “Via Dogana” 111/2014, l’ultimo numero cartaceo della rivista di pratica politica della Libreria delle donne di Milano.
[6] La forza delle donne. Introduzione di Laura Colombo all’incontro del 12 giugno 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-forza-delle-donne-introduzione/
[7] Vedi Lia Cigarini, Le contraddizioni spingono avanti il pensiero, #VD3, 19 luglio 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/le-contraddizioni-spingono-avanti-il-pensiero/
[8] «Oggi assistiamo a una terza guerra mondiale a pezzi, – ha scritto il papa Francesco – che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale» (Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza, Piemme 2022, p. 60; gran parte del capitolo “In nome di Dio chiedo che si arresti la follia della guerra”: https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/papa-francesco-in-nome-di-dio-fermate-la-guerra/. Sulla disumanizzazione di questa guerra vedi Domenico Quirico su La Stampa, 4 Febbraio 2023.
[9] «Mi piace la strada su cui ci troviamo: con armi e denaro dall’America, l’Ucraina combatterà la Russia fino all’ultimo uomo». A parlare è stato il senatore repubblicano Usa Linsdey Graham, il quale ha poi ha precisato che la vittoria ucraina sulla Russia è «un reset dell’ordine mondiale che va nel senso giusto» (Francesco Strazzari, Il commento della settimana, il manifesto, Lunedì rosso del 9 gennaio 2023).
[10] Vi chiedo in nome di Dio, cit., p. 60.
[11] Prendo questa espressione dal titolo di un articolo di Lia Cigarini, che anni fa scriveva: «quando come avvocata mi trovo a difendere le donne nelle cause di separazione, le vedo agire un forte senso di rivincita nei confronti dell’uomo con cui hanno vissuto» (Voglia di stravincere, Via Dogana n. 68, 2004). Sia chiaro che la voglia di stravincere femminile può essere un problema, ma certo non ha a che vedere con le guerre tra stati.
[12] S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, 1915; Franco Fornari, La psicoanalisi della guerra, 1966 (ultima ed. 2023). Citati da Massimo Recalcati nell’articolo L’allucinazione della guerra, Doppiozero, 4 aprile 2022.
[13] Editrice Missionaria Italiana, 2005, pp. 136-144.
[14] Thoughts on Peace in an Air Raid, 1940; trad. it. Pensieri di pace durante un’incursione aerea, in Per le strade di Londra, Il Saggiatore, 1963.
[15] Dizionario critico, cit., Introduzione, p. 11 ss.
di Paola Mammani
Vi sono state sfide difficili da affrontare negli ultimi anni. Avvenimenti dirompenti sui quali, come c’era da aspettarsi, ci siamo divise, ma alcune sono state prese alla sprovvista e io tra loro. Da sempre diciamo che le donne non sono un gruppo sociale omogeneo e per questo hanno saperi, desideri e visioni della vita differenti, perciò la sfida è stata ed è: se, con chi e come metterci in relazione su temi quali l’epidemia di Covid, la guerra in Ucraina o il dilagare dell’ideologia del gender. Da parte mia potrei aggiungere il tema della prostituzione ma ciascuna avrà i suoi punti dolenti, quelli più difficili da affrontare con le altre, quando sa che incontrerà dissenso.
In una rete di donne che si tenevano in contatto con mail durante il lockdown, una che si era dichiarata contro le vaccinazioni, le proibizioni del governo etc., ha citato Shoshana Zuboff e Il capitalismo della sorveglianza per dire che a suo parere l’autrice già prefigurava una posizione di rifiuto e critica ad interventi simili. Proprio in quei giorni Zuboff dichiarava di essere a favore dell’obbligo di vaccinazione a difesa della salute di tutti, e io in quella rete l’ho scritto. Una donna ben più competente e saggia di me in fatto di politica, mi ha chiesto: era necessario che tu intervenissi?
Questo aneddoto per dire che dobbiamo cercare la via, non facile, per confrontarci sui temi che questi tempi ci impongono, mantenendo vive le relazioni, per quanto possa essere stato doloroso o addirittura stupefacente non sentirsi comprese o appoggiate da quelle che credevamo di avere al nostro fianco in questi frangenti.
In concreto, se una ha ritenuto che il meglio per sé fosse non vaccinarsi e che la politica dei governi sul Covid sia stata una gigantesca operazione autoritaria e un grandissimo affare a spese di tutta l’umanità, può provare a parlare alle proprie simili più efficacemente di quanto non le sia riuscito nel passato. Deve tenere conto però che, nella stragrande maggioranza, noi donne abbiamo deciso di vaccinarci, anche quelle cui nessuno avrebbe sospeso salario o stipendio in assenza di green pass. E che non possiamo per questo essere ritenute delle imbelli spaventate, in balia di uno stato autoritario.
Insomma, quali strumenti abbiamo per parlarci, se non lo facciamo ognuna a partire da sé? Ritorno sull’aneddoto: perché svilivo pubblicamente un’altra donna? Se volevo dire che non ero d’accordo con la sua scelta, non si trattava di darle un’informazione esatta, ma dovevo offrirle il mio punto di vista soggettivamente vero. Commette il mio stesso errore, credo, quella che mi dice che sono stata passivamente acquiescente alla violenza delle vaccinazioni, che non mi sono ribellata quanto avrei dovuto e che di questo si stupisce. Il fatto c’è, ho accettato di vaccinarmi, ma la sua verità soggettiva dov’è? Della sua soggettiva difficoltà non ha nulla da dirmi?
A torto o a ragione, io ero tra quelle che sin dai primi giorni del febbraio 2020, ritenevano che l’OMS ritardasse colpevolmente la dichiarazione dello stato di pandemia. Mi ha preso un vero scoramento quando donne importanti per me hanno dato per buone le parole del sindaco Sala – Milano non si ferma – o hanno tardato a adottare le misure di prevenzione prescritte. Per questo sono grata a quelle amiche che hanno voluto raccontarmi le ragioni del loro disagio di fronte agli obblighi imposti durante la pandemia, primo fra tutti quello vaccinale.
Negli ultimi tempi ho visto altre mosse, nel dibattito politico tra donne, che giudico sbagliate. Le annoto, sperando così di evitarle io stessa. Per esempio, in una discussione che ogni tanto ricorre, quella di adottare il cosiddetto modello nordico, perseguendo penalmente i clienti delle donne prostituite, una che ha argomentato contro la proposta è stata invitata a lasciar parlare quelle che hanno competenza a farlo, e questa pretesa contraddice un’altra pratica posta a garanzia di relazioni proficue, e cioè che tutte sono abilitate ad esprimere un giudizio, purché consapevoli della propria parzialità, anche di sapere e competenza.
Ho trovato forse maggiore consapevolezza della difficoltà del momento, su una mailing list in cui si discuteva dell’invasione dell’Ucraina. Ho argomentato come ho potuto la mia posizione di critica netta al modo in cui tutto l’Occidente ha trattato e continua a trattare il conflitto, ma quando mi sono accorta che le mie parole non risultavano convincenti, ho deciso di tacere e lo stesso hanno fatto le mie interlocutrici favorevoli alla politica del nostro paese e dell’Europa. Loro conoscono di certo le critiche mosse ai governi europei e alla NATO, mi sono detta, ma se sono convinte che l’invio di armi all’Ucraina sia un’inevitabile necessità, allora sono io che devo pensare di più e di meglio, che devo trovare parole nuove se voglio riaprire efficacemente il confronto. E anche loro, confido, si sono date lo stesso compito.
(www.libreriadelledonne.it, 8 febbraio 2023)
di Antonella Nappi
La prima ministra neozelandese Jacinda Ardern non sente più l’energia sufficiente per fare il mestiere che ha condotto benissimo fino ad ora e vuole avere il tempo di essere presente alla figlia che inizia la scuola. Si è ritirata dal ruolo e in questo modo mette in evidenza un fatto che riguarda tutte le donne e tutti gli uomini, tutti i governi, tutta la società.
Le donne non accettano, generalmente, di rinunciare alle responsabilità affettive e di investimento nelle cure relazionali, nella manutenzione dei corpi e delle cose, conducendo così una vita molto dispendiosa in energie per gestire assieme il lavoro remunerato – che hanno a più riprese nella storia riconquistato – e tutte le altre attività indispensabili all’esistenza. Gli uomini invece, generalmente, hanno concentrato la loro attenzione sul lavoro retribuito e sui legami tra loro. Questa coesione tra maschi per mantenere il primato economico e non compromettersi affettivamente con le donne è documentata da Marzio Barbagli in Sotto lo stesso tetto (Il Mulino, 1984, riedito nel 2013): è una abitudine storica lo strappare gli uomini dalle case la sera, perché dopo il lavoro conducano lo svago tra loro, senza familiarizzare con donne e bambini.
Anche gli uomini si esauriscono se invece di demandare ad altri una parte delle loro responsabilità, in particolare proprio quelle che li legano al corpo e al mondo degli affetti e delle cure relazionali, finiscono con il perdere del tutto questi legami e questi piaceri emotivi.
L’esercizio di affacciarsi al mondo del lavoro e della competizione, alle relazioni pubbliche e assieme alle attività di cura verso cose e persone gestendone l’intimità, i possibili dissidi, attenuando le pretese – anche quelle personali – restituisce una formazione mentale ricca di saperi su sé stesse e gli altri, sulla disgiunzione che c’è tra vita pubblica e privata e sulla somiglianza invece delle competenze relazionali necessarie nei due ambiti. Questa doppia presenza permetterebbe anche agli uomini di desiderare una armonizzazione dei tempi e darebbe loro l’acquisizione di maggiori competenze.
È il piacere sensoriale e sentimentale a dare valore a quello che di già si ha: la salute del corpo e dell’ambiente, la ricchezza sociale che si è costruita nel tempo nel contesto in cui viviamo. Sono cose queste che contano nella capacità di pensare le scelte sociali. Anche in assenza di lavoro extra-domestico queste qualità le “casalinghe” le conoscono e sono essenziali nella capacità di pensare le scelte sociali.
È indispensabile per la società permettere alle donne di non ritirarsi dal confronto politico con gli uomini sul lavoro e in ogni istituzione, dimensionando i tempi del lavoro e della politica per tutti, così da permettere a ciascuno una esistenza piena e indipendente, un impegno pubblico che non disprezza le necessità personali. Sollecitare gli uomini, esplicitamente, a prendere a modello le donne nel lavoro e nel pensiero, educandoli a partecipare a tutti i lavori indispensabili all’esistenza li indurrebbe a collaborare di più anche tra loro, invece di competere. È un esercizio indispensabile per concepire un’organizzazione sociale collaborativa.
L’attenzione alla vita affettiva forma a conoscere anche il valore della pace, che conserva le ricchezze sociali e crea un equilibrio possibile tra le cause di conflitti. L’esercizio relazionale quotidiano del contenere i dissidi e le pretese, l’indifferenza alle ingiustizie, serve a creare dirigenti politici che sappiano evitare l’esplodere delle violenze e delle distruzioni. Le energie spese dalle donne perché la società resti umanamente fondata e solidale devono trovare reciprocità negli uomini in modo che il relazionarsi agli altri e a sé stessi con intimità, diventi una capacità diffusa.
L’esperienza delle molte responsabilità quotidiane che ci permettono di realizzare la società nel suo complesso renderebbe gli uomini meno alieni agli equilibri ambientali, alle ricchezze offerte dalla natura, a quelle che nei secoli sono state create con il lavoro. Non troverebbero ragione la distruzione dei corpi, della natura e delle fabbriche, delle città, come avviene con la disputa armata, in nome di interessi che possono essere messi in parola e trovare ascolto, e su cui si possono cercare accordi che tengano in considerazione i comuni valori.
La violenza che ci viene richiesta per vincere, vincere in tutto e per tutto sui nemici, è frutto di una pratica basata su una logica astratta dalla materialità dell’esistenza. La competenza complessiva è nella popolazione e in particolare nelle donne, al contrario siamo costretti e costrette a lasciare tutto in mano a chi ragiona soltanto sulla base di competizione e di forza economica e militare. Il valore delle scelte va cercato nella valorizzazione dell’egoismo di ogni soggetto, che ragionato e condiviso trova una misura nella comune consapevolezza; è il sale della terra, così lo si è spesso chiamato.
Non avremmo desiderio di distruggere tutto quanto già esiste per affermare un principio di potenza su altri popoli, una volontà di giustizia astratta, come quella che si richiama ai principi, ai confini legali, ai poteri giuridici, cose private della considerazione del piacere di vivere. Il piacere di conservare la salute, di apprezzare la compagnia degli altri intimamente in tutte le relazioni, deve avere la precedenza.
Ci vuole una società organizzata da uomini e donne perché entrambi acquisiscano la capacità di unire i sentimenti alla ragione.
(www.libreriadelledonne.it, 7 febbraio 2023)
di Maria Castiglioni
Il libro di Silvia Di Francia, “La medicina delle differenze”, Neos edizioni 2020, è un testo molto ricco e articolato, organizzato in diverse sezioni tematiche:
* La sezione storica (a cura di Cinzia Ballesio)
* La medicina di genere, le sue declinazioni nella farmacologia e nelle diverse patologie (S.de Francia)e la sua applicazione nel servizio pubblico (Sergio Foà).
* Di grande interesse gli atti del Workshop internazionale di Medicina di Genere tenutosi a Ferrara il 6/7 dicembre 2019, così come la rassegna, a cura dell’autrice e di Cinzia Ballesio, delle donne protagoniste della storia della medicina, della sua applicazione e dei diritti ad essa connessi.
* Il testo si chiude con una bella e significativa galleria di immagini dal mito alla storia, dalla maga Circe e da Trotula a Tina Anselmi, Barbara McClintock, Rita Levi Montalcini, fino alle premio Nobel e a tutte le altre donne che, superando stereotipi, condizionamenti e ostacoli di ogni genere hanno dimostrato, contrariamente a quanto si è sempre pensato e affermato, che la medicina è anche “cosa da donne e per le donne”.
Mi soffermerò in particolare su due di queste sezioni: quella storica e quella della Medicina di genere, che dà il titolo al testo.
Il testo si apre con una utilissima introduzione di Cinzia Ballesio (anche curatrice del testo) che compie un excursus storico, dalle civiltà preromane fino ai nostri giorni, per illustrare il ruolo della donna nel campo della cura e della salute con tutti i relativi pregiudizi, esclusioni, persecuzioni. Per darvi solo un’idea di questa esclusione della donna dal mondo medico basti pensare che il termine latino medicus aveva la declinazione femminile, medica, termine che ancor oggi si fa fatica a pronunciare (forse più ancora di ministra o sindaca). La trattazione parte da una considerazione tanto elementare quanto rimossa dalla nostra cultura patriarcale: la prima creatrice/curatrice è la Terra/Natura, rappresentata da Gea, la dea madre nell’area mediterranea, simbolo del ciclo eterno morte/rinascita. Vengono ricordate (e non possiamo qui citarle tutte- si trovano nella sezione Protagoniste) le donne che sono state appunto protagoniste della storia della medicina e i cui apporti sono stati per lo più censurati e misconosciuti. Le nobili romane Fabiola e Metrodora, la prima fondatrice del primo ospedale (nosocomio), la seconda autrice del primo trattato sulla salute e la cosmesi delle donne, la scuola di Salerno, del IX sec. con la famosa Trotula de Ruggiero, autrice dell’opera Sulle malattie delle donne, Dorotea Bocchi, la prima docente di Medicina all’Università di Bologna, Costanza Calenda, la prima dottora in Medicina nel 1422. Questi primi successi delle donne, come sappiamo, vengono stroncati dalla caccia alle streghe (fine 1400 con il Malleus Maleficarum, il martello delle malefiche dei domenicani Sprenger e Kramer– sotto il papato di Innocenzo VIII), identificate soprattutto nelle levatrici e guaritrici (spesso donne singole, vedove o prostitute).
La classe medica che si costituisce, dopo il Concilio di Trento (1545-1546), escluderà le donne e gli ebrei: la parola “medico” venne sempre più declinata al maschile e come “modello anatomico” si afferma il corpo maschile. Andrea Vesalio, celebre anatomista, nel 1543 pubblica De humanis corporis fabrica (come è fatto il corpo umano) fortemente innovativo, per un lato, ma altrettanto esemplificativo della mentalità dell’epoca: «È sufficiente studiare, a eccezion fatta per l’apparato riproduttivo, il corpo maschile, forma neutra universale, per capire anche il corpo femminile».
Dopo un paio di secoli, pur espropriate dell’arte medica, le donne vengono riammesse ad occuparsi di medicina, ma solo di madre e neonato (ostetricia, pediatria, puericultura), e qui svolgeranno un importantissimo ruolo di mediazione tra il popolo e l’istituzione (io sono nata in casa grazie alla sciura Carolina della Ripa Ticinese).
È del 1757 la fondazione a Bologna della prima Scuola di Ostetricia italiana e del 1804 quella per levatrici. Ma di diventare medici non se ne parla proprio: emblematico e paradossale il caso del dr. James, medico militare britannico, in realtà una donna, costretta al camuffamento, la cui identità fu scoperta solo da morta, ricomponendone il corpo per le esequie (solo la tenacia di una storica portò alla luce la sua vera storia solo negli anni ’50!).
Negli USA la situazione fu un po’ più favorevole alle donne: già nel 1847 vi è la prima donna laureata in Medicina, Elisabeth Blackwell.
E come dimenticare la mitica Florence Nightingale, la fondatrice dell’infermieristica moderna a metà Ottocento?
Ma neppure gli avanzamenti culturali più arditi (pensiamo al clima dell’avanguardia culturale dei primi del ’900) riescono a spostare la mentalità corrente circa la supposta inadeguatezza femminile a ricoprire certe professioni. Cesare Lombroso, medico esponente di spicco del positivismo scientifico, alla fine dell’800, dichiarava che la donna era «meno coraggiosa e meno vigorosa dell’uomo, sia a livello fisico che di intelligenza». Peccato che pochi anni dopo, nel 1913, Maria Montessori, laureata in Medicina e Pedagogia, viene presentata dal New York Tribune come la donna più interessante d’Europa!
E dobbiamo a Margaret Sander, infermiera americana, la divulgazione di pratiche contraccettive, per cui fu più volte arrestata e condannata.
Nel 1947 abbiamo il primo Nobel per la Medicina assegnato ad una donna, Gerty Theresa Radnitz Cori a cui seguiranno altre undici, tra cui Rita Levi Montalcini.
E una per tutte quelle scienziate oscurate dagli uomini, che delle loro scoperte si sono appropriati, menzioniamo Rosalind Franklin, la prima a fotografare ai raggi X la struttura del DNA, scoperta scippatale da Watson, Crick e Wilkins che ottennero nel 1962 il premio Nobel per la Medicina, me che mai la nominarono.
Nei decenni successivi il Movimento femminista porta alla ribalta i temi della salute, del controllo delle nascite, della sessualità, insieme a quelli della disparità, delle diseguaglianze, delle discriminazioni culturali.
È del 1970 il testo rivoluzionario Noi e il nostro corpo del Boston Women’s Health Book Collective e da lì è un susseguirsi di testi scritti da donne per le donne e un generale svilupparsi della sensibilità su questi temi.
Nel 1985 il NIH (National Institutes of Health) statunitense rende pubblico il primo rapporto sulla salute delle donne: ci si accorge che fino a quel momento la medicina aveva fatto riferimento a un soggetto giovane, adulto, maschio, bianco (Vesalio ancora vivo dopo oltre quattro secoli!) che condizionava non solo la cura e la diagnosi delle patologie, ma anche la sperimentazione di nuovi farmaci. Va anche citato il forte condizionamento, specie in Italia, esercitato dalla cultura cattolica in materia di sessualità, contraccezione ed aborto.
Perfino nella legge 40/2004 che regolamenta le tecniche di procreazione medica assistita (di cui si occupa Tullia Penna nel suo articolo) ha agito questa cultura. Nella sua formulazione originale, infatti, prevaleva l’interesse dell’embrione rispetto a quello della donna, con conseguenti parti plurigemellari (legge fortunatamente modificata grazie al prevalere del concetto di “tutela della salute della donna”, che ha superato l’obbligo dell’impianto di tutti gli embrioni fecondati a favore del congelamento degli embrioni “in eccesso”).
Nel 1991, grazie anche a questa nuova sensibilità, Bernadine P. Healy, primaria dell’unità coronarica dell’Ospedale John Hopkins di Baltimora, pubblica un articolo che riporta le sue puntuali osservazioni circa le differenze di trattamento e di cura tra pazienti uomini e pazienti donne.
Gli anni Novanta registrano il sorpasso, in Italia, delle iscrizioni femminili rispetto a quelle maschili, nelle facoltà di Medicina.
Nel 1997 la UE pubblica Lo stato di salute delle donne e nel 1998 l’OMS inserisce la medicina di genere nel suo Equity Act. Le iniziative in questo ambito si moltiplicano ed in Italia con la legge del 2019 viene istituito il “Piano per la diffusione della Medicina di genere sul territorio nazionale” (art. di Sergio Foà).
Nel corso dei secoli la storia della medicina ha quindi visto la presenza femminile passare dalla sua iniziale centralità, nelle società matriarcali del Mediterraneo, alla sua progressiva emarginazione, anche con la terrificante caccia alle streghe (50.000 morte/i in tre secoli, circa 170 femminicidi all’anno in Europa 1421, 4 al giorno) e fino alla sua riammissione in ambito clinico, sia come presenza che come questione teorica che interroga il carattere androcentrico della scienza medica.
Ed è proprio da questa constatazione, la medicina a misura d’uomo (letteralmente!), che si sviluppa la parte centrale del testo dedicata alla Medicina di genere, che dà conto sia della cornice normativa attuale, sia degli approfondimenti fin qui avvenuti a livello di patologie e di farmacoterapia.
E qui mi piace ricordare un’affermazione di Ipazia, il collettivo femminista che si occupò a lungo di scienza negli anni ’80-’90, secondo cui una medicina modulata sul corpo di metà dell’umanità presenta quantomeno un “difetto di scientificità”, soprattutto dal momento che il suo oggetto d’indagine è proprio lo studio dei corpi in carne e ossa. Il che dà conto dei livelli di estraneità/astrazione dai corpi sessuati raggiunti dalla cultura patriarcale, che considera l’uomo il soggetto unico, e come tale neutro e universale, misura di tutti i fenomeni fisici, nonché possessore del logos, vale a dire del linguaggio e dei grandi sistemi di interpretazione della realtà. Sul concetto di “neutralità scientifica” e i suoi risvolti, soprattutto rispetto alla pandemia, si soffermerà l’intervento di Sara Gandini.
Il testo chiarisce lo svilupparsi storico del termine (e della specialità) “Medicina di genere” che, storicamente, è nata sulla considerazione del sesso femminile, mentre la medicina sessuospecifica o medicina delle differenze o generespecifica si riferisce ad ambedue i sessi, ed è conseguenza della presa d’atto, anche in medicina, che ci sono due sessi (sembra paradossale!).
Giustamente il testo si sofferma ad esplicitare la differenza tra sesso e genere (pag. 29). Infatti attorno a questa terminologia sussiste una grossa questione di carattere culturale, scientifico, politico (come ha dimostrato l’acceso dibattito sul ddl Zan, approvato alla Camera e poi arenatosi al Senato). Il genere non è un modo meno “diretto”, più elegante di evocare il sesso.
Sesso indica la condizione biologica dell’uomo e della donna, genere indica invece la percezione interiore della propria identità, ossia come ci si sente in rapporto al sesso di nascita e ai condizionamenti culturali legati ai ruoli sessuali. Non è da confondere con l’orientamento sessuale, vale a dire con l’oggetto del proprio desiderio sessuale: si può desiderare una persona del proprio sesso pur continuando a sentirsi del sesso originario. Il sesso indica come siamo, il cosiddetto genotipo, il genere ciò che diventiamo, il cosiddetto fenotipo (dal gr. phainein, apparire e typos, impronta, cioè l’insieme delle caratteristiche manifestate da un essere vivente: morfologia, sviluppo, proprietà biochimiche e fisiologiche, comportamento).
Come è facilmente intuibile, risulta impossibile separare, nell’essere umano, il sesso dal genere, la biologia dalla cultura: si tratta della stessa coperta. E come tutte le coperte c’è chi la tira da una parte e chi dall’altra. C’è chi sta dalla parte della natura e afferma la prevalenza del sesso sul genere (determinismo biologico), chi dalla parte della cultura e ribadisce quella del genere sul sesso (costruzionismo sociale).
E qui faccio un primo appunto: se questo è il significato che viene attribuito ai termini genere e sesso ho rilevato nel testo un sovrautilizzo, quasi inflazionistico, del termine genere, anche laddove il discorso è prettamente fisiologico. Ad es.(pag.59) «Il farmaco Zolpidem è ora in commercio con una dose massima consigliata per genere: 1,75 mg per la donna, 3,5 mg per l’uomo», oppure «È del 1993 il documento della FDA che indica di reclutare entrambi i generi nelle fasi di sviluppo dei farmaci» (pag. 61). E ancora si afferma: «La conoscenza delle influenze correlate al sesso e al genere consente di confezionare su misura le terapie per ciascun paziente» (pag. 59). E qui oltre al sovrautilizzo c’è anche l’intercambiabilità dei due termini, o la loro sommatoria… E tornando alla medicina di genere, qual è il suo scopo?
Dal Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di genere (2019) si evince che: «il suo obiettivo è comprendere i meccanismi attraverso i quali le differenze legate al genere agiscono sullo stato di salute e sull’insorgenza e il decorso di molte malattie» (p. 26 ).
Infatti, come viene ampiamente evidenziato in più punti del testo, le donne e gli uomini differiscono per peso, percentuale di tessuto adiposo, enzimi epatici, ormoni sessuali. Le donne hanno polmoni più piccoli, minore velocità di filtrazione a livello renale, tossicità, maggiore esposizione alle malattie autoimmuni, maggiore risposta immunitaria ai vaccini. Quindi le dosi dovrebbero essere modulate secondo tutti questi fattori che differenziano un corpo femminile da uno maschile.
Il discorso è dunque prettamente fisiologico: la variabile in campo è quella legata al sesso (maschi, femmine).
E qui faccio un secondo appunto, a partire da una considerazione generale. Abbiamo visto che negli ultimi anni si sta dando sempre più importanza a questa variabile, che però non è l’unica che influenza malattie e processi di cura. Ad esempio vi sono quelle culturali, quelle legate all’età, al contesto, all’ambiente, alla condizione economica, alle ragioni del mercato (anche il DSM 5, Manuale diagnostico delle malattie mentali – 2013 – ne tiene ampiamente in conto, salvo quelle del mercato…).
Capisco che questo non era il focus del libro, ma neppure vi ho ritrovato un accenno, specie al mercato dei farmaci, che sappiamo quanto condizioni le linee guida terapeutiche e conseguentemente anche i trattamenti, vale a dire i protocolli proposti.
Il vaccino anticovid ne è stato l’esempio più eclatante: abbiamo constatato che, con la motivazione dell’urgenza, sono entrati in commercio farmaci senza una adeguata sperimentazione, alcuni dei quali prontamente ritirati dopo qualche mese per via dei pesanti effetti collaterali (Astra Zeneca, Johnson and Johnson ad es.). Valga per tutti il discorso della giovane eurodeputata Manon Aubry, pronunciato nel febbraio 2021 a proposito della totale mancanza di chiarezza dei contratti stipulati dalla UE con le case farmaceutiche (riportato in Il dio vaccino di Tiziana Alterio, 2021), per non parlare della totale mancanza di vigilanza dell’AIFA sugli effetti avversi dei vaccini)…
Qui faccio un terzo appunto che nei testi di Metis, il gruppo di lavoro di donne sui temi della salute di cui faccio parte, viene ampiamente dibattuta.
Sappiamo tutti che i cosiddetti protocolli esistono per cautelarci dalla sperimentazione e garantirci un’adeguata sicurezza nell’uso del farmaco e della metodica terapeutica. Ma sappiamo anche che un eventuale scostamento soggettivo dai protocolli produce nei curanti, fortunatamente non sempre, ma molto spesso, una reazione che va dall’incredulità, al fastidio, all’intolleranza, addirittura censura e riprovazione, con effetti di emarginazione verso il/la paziente. Il risultato è che questo/a paziente, uscendo dai protocolli, non porterà nuove conoscenze che nascono dalla sua esperienza personale (più o meno fortunata, in ogni caso, originale) e alla scienza medica verrà a mancare questo contributo “eterodosso”, ma pur sempre fondamentale per una scienza che si vuole aperta, empirica e libera da pregiudizi. A questo proposito Ipazia sottolineava che la medicina «ha la possibilità di essere veramente una scienza perché entrano in campo due competenze, quella di chi cura e quella di chi chiede di essere curato» (Due per sapere, due per guarire, Quaderni di via Dogana, 1997)
Mi chiedo quindi se la medicina di genere, coi suoi nuovi approcci declinati su uomini e donne, non corra il rischio di essere tradotta in un nuovo “protocollo”, certamente preciso e puntuale, ma sempre all’interno di una concezione della medicina e della clinica che non tiene conto dell’esperienza e dei vissuti del/la paziente, con tutte le altre variabili che ho prima citato.
Il dimezzare le dosi di un farmaco significa considerare la soggettività del paziente? Se vengono dosati meglio farmaci chemioterapici e vaccini sono certamente più contenta, ma se io non volessi fare né chemioterapici né vaccini? In che considerazione viene presa questa mia posizione soggettiva? Va allora portata al centro, prosegue il testo di Ipazia, «la relazione terapeutica, che è il momento e il luogo in cui avviene la mediazione tra le conoscenze disciplinari, basate sui grandi numeri (anche legati al sesso) e la persona particolare, con il suo corpo e la sua storia, unica e irripetibile, tenendo sempre presente che questa mediazione non avviene in un rapporto asettico tra teoria e pratica, ma in un rapporto diretto e dispari tra persone» .
Nel gruppo di Metis abbiamo definito questa pratica di mediazione “protocollo sensibile”, in quanto tiene conto della soggettività di entrambi – curante e paziente – e prevede una contrattazione ragionata (Metis: Corpi sensibili nelle relazioni di cura, 2019).
Sensibilizzare i protocolli è importante affinché, come afferma Gemma Martino, la medicina diventi “relativa e relazionale” e fuoriesca dalle dimensione di “universalità e neutralità” che presenta un grosso difetto di scientificità nell’orientarsi sempre di più al tecnicismo, alla standardizzazione, omogeneizzazione e ripetibilità. L’unica vera misura scientifica, ricordava il gruppo di Ipazia, altro non può essere che “la misura del vivente”.
(www.libreriadelledonne.it, 4 febbraio 2023)
di firmatarie
Per un otto marzo memorabile facciamo parlare la lingua-ragione, la lingua madre, fonte della vita, contro le non-ragioni di tutte le guerre. Da anni scriviamo e ripetiamo che gli uomini “non sanno confliggere e fanno la guerra”. Assistiamo in Ucraina a una guerra sanguinosa e temeraria. A farla non è più il patriarcato come l’hanno conosciuto le nostre madri e le nostre nonne. Il mondo è cambiato, grazie alle donne, ma non abbastanza: oggi il patriarcato non c’è più, ma gli è subentrata la fratria, fatta di confraternite maschili che possono includere anche sorelle. La fratria fa la guerra e non ascolta la lingua-ragione, e popoli che parlano la stessa lingua si scannano col contributo delle armi di tutti i governi aderenti alla Nato. Diciamo basta all’invio di armi di qualsiasi tipo. Basta alla guerra per procura. Basta alla devastazione dell’Ucraina. Basta col nichilismo distruttivo che prende a bersaglio i corpi delle donne e dei loro figli in tutto il mondo. Basta coi vecchi potenti che mandano al macello giovani vite, in nome dell’identità, della “democrazia” e della sicurezza dei confini.
Noi non staremo nel coro degli uomini incolti e delle donne che li seguono e li imitano. È tempo di dire addio alle armi, a tutte le armi e a tutte le guerre. In tempo di autentica pace si confligge con le armi della parola e l’intelligenza d’amore. È tempo di gridare il nostro desiderio di vita e libertà.
Libertà dalla guerra, sì, ma non solo: anche in luoghi apparentemente in pace, la fratria nella sua ricerca di nuovi orizzonti di profitto e nel suo disprezzo per la fonte della vita vuole cancellare tutte le differenze e rendere il mondo un deserto asessuato di surrogati e robot che sostituiscano la ricchezza delle relazioni di corpi sessuati. Noi che amiamo la vita diciamo no alla mercificazione dei corpi con le più sofisticate tecnologie. Poniamo fine alla pulsione mortifera dell’ultraliberismo.
Ci piace ricordare le parole che Rosa Luxemburg scrisse in una lettera dal carcere nel 1918:
C’è ancora molto da vivere e tanto di grande da affrontare. Stiamo assistendo all’affondare del vecchio mondo, ogni giorno ne scompare un pezzo. È un crollo gigantesco, e molti non se ne accorgono, pensano di essere ancora sulla terraferma.
Facciamo in modo che dal crollo del vecchio mondo, retto dai paradigmi della forza, del dominio, della violenza, nasca una nuova convivenza che abbia a fondamento l’attenzione, la cura, l’amore del vivente.
Diamo vita in questo 8 marzo 2023 a iniziative che vadano in questa direzione.
A Milano ne discutiamo sabato 11 marzo alle 11,00 in un’assemblea pubblica di donne alla Casa Rossa, v. Monte Lungo 2 (MM1 Turro)
Per contatti: addioallearmi2023@gmail.com
Laura Minguzzi, Silvia Baratella, Cristina Gramolini, Stella Zaltieri Pirola, Lucia Giansiracusa, Daniela Dioguardi, Roberta Trucco, Daniela Danna, Paola Mammani, Flavia Franceschini, Marilena Zirotti, Danila Giardina, Rosi Castellese, Mariella Pasinati, Anna La Mattina, Agata Schiera, Fausta Ferruzza, Virginia Dessy, Daniela Musumeci, Anna De Filippi, Stefania Macaluso, Mimma Glorioso, Eliana Romano, Bice Grillo, Ida La Porta, Francesca Traina, Anna Marrone, Mimma Grillo, Luciana Tavernini, Pina Mandolfo, Nunziatina Spatafora, Maria Castiglioni, Giovanna Minardi, Rita Calabrese, Concetta Pizzurro, Giovanna Camertoni, Roberta Vannucci, Adele Longo, Katia Ricci, Anna Potito, Rosy Daniello, Isa Solimando, Franca Fortunato, Nadia Schavecher
(www.libreriadelledonne.it, 2 febbraio 2023)
di Laura Colombo
Lezione tenuta al Grande seminario di Diotima “Corpi esposti”, in dialogo con Marco Deriu, Verona 21 ottobre 2022
Quello che stiamo mettendo in discussione non sono semplici connessioni teoriche, ma certi modi di vivere e relazionarci come uomini. Sono la nostra esperienza e le nostre relazioni, come uomini, a dover essere cambiate. È importante comprendere come, al livello dell’esperienza personale e dell’impegno nelle relazioni, l’invisibilità degli uomini a se stessi, risultante dal potere che detengono e dalla propensione a spersonalizzare e a universalizzare la propria esperienza, li porti costantemente alla tentazione di parlare per gli altri, presentandosi nel contempo come la voce neutrale della ragione
Inizio questa mia relazione citando le parole di Victor J. Seidler che, in un saggio uscito in Italia nel 1992 dal titolo Riscoprire la mascolinità[1], con incredibile precisione e lucidità evidenzia il cuore della cosiddetta “questione maschile”. Secondo Seidler, la cultura occidentale ha creato le condizioni di oppressione del genere femminile e contemporaneamente l’invisibilità a se stesso di quello maschile. Le radici sono da ricercare nel primato dato al pensiero a partire da Cartesio, ovvero nella riduzione dell’essere umano al solo pensiero che espunge i sensi, i sentimenti, le emozioni, gli istinti, in altri termini il corpo. Le creature più prossime alla natura sono inferiori perché non raggiungono la piena potenza della ragione. Le donne, legate alla maternità, sono inferiori e seconde per destino al maschile, d’altra parte la donna deriva da una costola di Adamo. Il punto sottolineato da Seidler nel suo libro è che il soggetto è solo maschile. Per spezzare la monolitica unità del soggetto bisognerà attendere il pensiero di Luce Irigaray.
Tuttavia, Seidler, partendo da sé, sottolinea il peso che la cultura basata sull’universalità dell’uno pone in capo agli uomini: “La nostra vita diventa una serie di decisioni e di progetti distinti. In questo modo ci sentiamo a posto con noi stessi, incapaci di dare significato e importanza ai nostri rapporti, alle emozioni e ai desideri. Ci abituiamo a tal punto a non dare credito ai nostri sentimenti, ai desideri per fare la cosa «giusta», che siamo a malapena consci di quanto tutto ciò ci estranei da noi stessi”. È la performance che conta: la conquista di donne, potere, soldi, la capacità di risolvere problemi e di raggiungere obiettivi. Con un salto di vent’anni, questa consapevolezza si è allargata e ne possiamo leggere anche su riviste e quotidiani. Per esempio, Manolo Farci, commentando il fatto di cronaca dei fratelli Bianchi, scrive su Doppiozero che la mascolinità è vista “come un progetto virile ed eroico di affermazione nello spazio pubblico. Non importa che questo spazio pubblico sia il territorio del proprio quartiere, il consiglio di amministrazione di una multinazionale, lo scranno della politica, o una cattedra universitaria: quello che è comune è che l’arena pubblica è il posto che i maschi devono colonizzare, occupare, conquistare e controllare. È il luogo dove gli uomini arrivano a essere uomini”[2].
Via Dogana è la rivista della Libreria delle donne di Milano che dal 1991 al 2014 è stata pubblicata in cartaceo e ora è solo online, ospitata sul sito della Libreria delle donne. È un laboratorio di pensiero politico delle donne, promuove un lavoro relazionale e collettivo di ricerca per captare i cambiamenti della realtà e trovare le parole per raccontarli, per non far cadere nell’oblio quello che capita di significativo e ancora non ha parole o è interpretato malamente. Ho in mente una cosa che mi è capitata recentemente. Ero alla presentazione di un libro appena uscito, Ho scritto questo libro invece di divorziare, e l’autrice interpretava la presa di coscienza dei limiti della sua emancipazione come conquista della parità, invece che come una ricerca e una pratica della possibilità di un’esistenza libera, cosa che di fatto è il suo percorso raccontato nel libro. Il femminismo stesso, che ha rivoluzionato il rapporto tra i sessi, è spesso interpretato nel senso di una raggiunta parità delle donne con gli uomini, rendendo questa mediazione, la parità, a facile portata di tutte e tutti. Cito Via Dogana perché il numero 21/22 del settembre 1995 si intitolava proprio “La questione maschile” e preparando questo incontro mi sono stupita di quanto fossero lungimiranti e in anticipo sui tempi le autrici del numero: come si nomina la realtà è essenziale, ne va del senso del nostro stare al mondo, per questo le parole sono importanti. In quegli anni uscì anche un numero intitolato “La fine del patriarcato”, era il numero successivo alla questione maschile, sono temi che ora vediamo legati, ma allora solo la fine del patriarcato venne molto discussa, mentre la questione maschile è rimasta in sospeso, non è stata assunta veramente dagli uomini, quindi rimane in qualche modo una sorta di novità ogni volta che viene nominata. Una decina di anni dopo i tempi erano più maturi, il numero 79 di Via Dogana, intitolato “Parla con lui” (dicembre 2006), è interamente dedicato alla parola di uomini che riflettono a partire dalla loro parzialità e dalle loro relazioni con le donne. Un altro numero di Via Dogana del 2006 dal titolo “Appuntamenti” (n. 78, settembre 2006) ospita un articolo di Marco Deriu che scriveva, a commento di un ennesimo efferato omicidio: “Si potrebbe dire che molti uomini preferiscono cancellare l’alterità piuttosto che riconoscere e accettare così la propria parzialità” e continua “Non si tratta di prendere le distanze da una violenza che sta fuori di noi […], ma di fare i conti con una possibilità che è iscritta nella cultura comune”. È stato un anno in cui, possiamo dire, c’è stato un passaggio simbolico importante, legato alla presa di posizione pubblica di qualche migliaio di uomini, a partire dall’appello del gruppo Maschile Plurale “La violenza contro le donne ci riguarda”, una risposta maschile pubblica, con una risonanza a livello nazionale sulla stampa e altri mass media, che apriva a una relazione politica differente tra uomini e donne. C’è stato un fiorire di iniziative politiche legate a questo accadimento, con gruppi in tutta Italia che facevano ricerca, cui anche io e Marco Deriu abbiamo attivamente partecipato.
In questi gruppi c’era in gioco il desiderio di confronto e scambio, e la voglia di creare uno spazio praticabile per la relazione e il conflitto: niente a che vedere con la pretesa che gli uomini si assumessero colpe o chiedessero perdono “in quanto uomini”, ma con la precisa richiesta da parte delle donne che gli uomini facessero una mossa a partire da una presa di coscienza della propria parzialità, dalla prospettiva di una soggettività maschile che ha preso atto che c’è una sessualità, un simbolico, un modo di relazionarsi, un modo di lavorare, un modo di pensare differente. Per parte nostra, “in quanto donne”, la sfida era di assumerci la relazione politica di differenza con gli uomini, lasciando da parte la tentazione di posizionarci come le discriminate (e quindi abbandonando qualsiasi residuo di vittimismo) o di stare nel separatismo, nel tra donne, in una società parallela dove c’è possibilità di vivere con agio.
Essere qui oggi, seduta a fianco di Marco Deriu, parlando della cosiddetta “questione maschile”, significa mettere in scena precisamente questo spazio simbolico/relazionale.
Qualche mese fa è stato riedito il libro di Lia Cigarini La politica del desiderio, ampliato da un’intervista fatta da Riccardo Fanciullacci a Cigarini. Ci aiuta a capire di cosa stiamo parlando quando nominiamo la questione maschile: “c’è una resistenza speciale degli uomini a interrogare la loro differenza, ad accettare la loro parzialità. È la questione maschile che converrebbe a loro, ma non solo a loro, mettere all’ordine del giorno”. Si tratta dell’identificazione di sé con un punto di vista universale, che comprende in sé tutto e tutti, e rende ciechi e sordi verso la donna che è lì accanto, la compagna di vita, di scuola, di lavoro, di riunione politica. Lia Cigarini ha nominato la questione maschile proprio come mera questione, non perché non sappia o non veda o non conosca uomini che agiscono in modo differente, ma perché non c’è una presa di coscienza degli uomini “in quanto uomini” in rapporto alle donne, nella società non è senso comune che ci sia una presa di coscienza degli uomini, della loro parzialità.
Oggi possiamo aggiungere altri elementi, dettati da una realtà che negli ultimi due anni ci ha messo alla prova, perché ha svelato in modo chiaro dinamiche che prima erano rese opache dall’accelerazione della curva emancipatoria femminile. Nei primi giorni duri del lockdown del 2020 Hellen Lewis, giornalista di The Atlantic, scrive: “Uno degli effetti più sorprendenti del coronavirus sarà quello di rimandare molte coppie negli anni Cinquanta. In tutto il mondo, l’indipendenza delle donne sarà la vittima silenziosa della pandemia” (l’articolo si intitola significativamente “The Coronavirus Is a Disaster for Feminism”). È incredibile come il cinema capti e interpreti i segnali che arrivano dalla realtà e ce li restituisca potenti attraverso le immagini. È il caso di un recente film, Don’t warry darling della regista Olivia Wilde, che propone la storia patinata e surreale di una giovane coppia nell’America degli anni Cinquanta, per raccontare in realtà l’incapacità, da parte di un uomo, di cogliere e accettare la libertà femminile (un nome questo che sta per tante cose: l’indipendenza, la scelta, il desiderio, i talenti coltivati, le passioni da seguire…) e la violenza che lui usa per rinchiudere la donna (e se stesso) in uno stereotipo ormai consunto. Questo film è lo specchio di una maschilità deteriorata, unita all’incapacità dell’uomo di assumere questa crisi, per rifugiarsi in un altrove mortifero. È la rappresentazione su grande schermo della questione maschile.
Ho fino ad ora dipinto una situazione che, devo confessarlo, mi fa provare rabbia e frustrazione, anche per il mondo che stiamo consegnando alle ragazze che crescono oggi. È come se vivessi un’intima contraddizione: so, a partire dalla mia esperienza e quella delle donne che mi sono vicine, che il rapporto tra i sessi è profondamente cambiato, so che molti uomini abbracciano un modo di stare al mondo lontano dal patriarcato, e contemporaneamente vedo nella società un maschile ancorato a una posizione egocentrica, quella che, per esempio, chiede disperatamente conferme femminili fino alle molestie e alla morte. La reazione a questa contraddizione è la pretesa che vi sia una presa di coscienza maschile iscritta nel sociale, non solo un gesto individuale o una mossa che resti confinata in piccoli gruppi. Pretesa che può suscitare reazioni anche molto feroci o, al contrario, un’interlocuzione dialogante, come il recente intervento sul sito della Libreria delle donne di Umberto Varischio[3], che da un lato sottolinea come le prese di posizione pubbliche e collettive maschili non bastano, non sono un dispositivo che genera di per sé consapevolezza, dall’altro opera una distinzione anagrafica: gli uomini nati e cresciuti nel patriarcato possono consapevolmente riconoscere i condizionamenti e cercare di controllarli, i giovani uomini ne sono già affrancati, così il lavoro sulla maschilità e sul rapporto con le donne può partire da altri presupposti.
Ecco che allora scelgo di volgere lo sguardo verso quei cambiamenti resi possibili dal crollo del sistema simbolico patriarcale, e vedo nella paternità il cambiamento più radicale e duraturo. Nel già citato numero di Via Dogana “Parla con lui”, nell’articolo-intervista di una donna al suo compagno lui afferma: “al di fuori dell’ambito sessuale, è proprio la paternità l’unica autentica espressione di virilità dopo la fine del patriarcato”. Lo posso vedere nei gesti di cura di mio fratello verso il figlio nato da poco e verso la madre della creatura. Lui è poco più che trentenne, ed è molto impegnato nell’accudimento, lo desidera ed è felice di farlo, prende il tempo che serve anche dal lavoro (aiutato in questo da una politica aziendale che mette in primo piano le cosiddette diversity e favorisce il congedo parentale paterno – la differenza maschile è riconosciuta nella paternità). Sono cose che nostro padre fatica a comprendere, afferma che è “troppo”, un’eccedenza per lui, che si sarebbe vergognato a spingere una carrozzina, gesto che minava la sua virilità agli occhi della comunità dei maschi. Se parto dalla mia esperienza, posso dire che dare spazio al padre di mia figlia è stata una conquista di libertà per entrambi perché lui, forte della fiducia che gli davo, ha compreso che era in grado di compiere i gesti di cura che desiderava e di cui era terrorizzato.
La paternità, quindi, è uno spazio relazionale privilegiato, in cui accade un doppio movimento: la donna, che è madre, riconoscendo il padre lascia spazio a lui nel rapporto con la creatura, e lui, come dice Luisa Muraro, riconosce l’autorità femminile e sente che “la differenza femminile lo aiuta a ritrovarsi, a essere se stesso”[4]. Far sì che la differenza femminile diventi una mediazione necessaria per una maschilità diversa mi sembra moneta corrente nella genitorialità. Che possa diventare realtà anche al di là dell’ambito familiare, amoroso, amicale, questa mi pare la sfida del nostro tempo.
(www.libreriadelledonne.it, 1 febbraio 2023)
[1] Victor J. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992
[2] https://www.doppiozero.com/i-maschi-di-colleferro-e-noi
[3] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/la-questione-maschile-vista-da-un-uomo/
[4] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/il-rapporto-con-la-madre-gli-uomini-la-guerra-lautorita-femminile/
L’Associazione 99% ha lanciato una petizione indirizzata alla Presidente del Consiglio, al Ministro degli Affari Esteri, al presidente della Commissione di vigilanza RAI, al Presidente della RAI, per manifestare l’inopportunità di ospitare il presidente Zelens’kyj al festival di Sanremo. Nel testo si esprime pieno appoggio al popolo ucraino, vittima di invasione, ma si sottolinea che l’appoggio a Volodimir Zelens’kij farebbe perdere credibilità all’Italia come interlocutrice di un percorso di pace che comporta necessariamente la disponibilità ad ascoltare tutte le parti in conflitto, a cominciare dalle popolazioni delle regioni contese. Nel testo della petizione si sostiene dunque che ospitare il presidente Zelens’kyj a Sanremo, equivarrebbe “…a consentirgli un comizio senza alcun filtro di fronte a tutti gli italiani. Far parlare all’interno del programma più seguito della televisione italiana il capo di uno Stato straniero in guerra, equivarrebbe a sposarne completamente tutte le politiche; a diventare alleati senza alcun distinguo della propaganda di guerra espressa dall’Ucraina. E la propaganda di guerra non è mai descrizione obiettiva dei fatti”.
Condividiamo lo spirito e i contenuti della petizione e auspichiamo un serio e tempestivo ripensamento da parte dei vertici della Rai e dei massimi responsabili del mondo politico italiano.
La redazione del sito
(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)
di Antonella Nappi
L’articolo Cambiare le adozioni per tutelare gli orfani di femminicidio (Gianluca Di Feo, La Repubblica 13 gennaio 2023), così chiaro nella dichiarazione dei giudici – “Le criticità principali di zio e prozio,” a cui sono stati affidati i bambini piccoli che hanno perso i genitori perché il padre ha ucciso la madre, “consistono nella incapacità di accogliere gli aspetti depressivi dei bambini e di riferirli al trauma, cercando di porre fine in fretta ai momenti di crisi riportando ad altro le cause” –mi ha spalancata una questione personale.
La rimozione del dramma non avrebbe permesso ai bambini di affrontarlo e superarlo negli anni, è stata la questione principale della mia esistenza; ho rivisitato biograficamente il tema dell’articolo e ho compreso mia madre, me e mio padre nel nostro pervicace silenzio tutta la vita. Il silenzio di chi non può elaborare i traumi, né aiutare altri a farlo. La donna del mare di Ibsen racconta di questo silenzio tra lui, la nuova moglie e le figlie. E alfine riescono a rompere l’isolamento tra loro.
Nonostante i molti anni di analisi e la soluzione di molti problemi non avevo compreso il complessivo contesto nel quale ero vissuta non solo da bambina ma tutta la vita. Una cosa veniva superata e un’altra, ma il cammino continuava a essere nelle tenebre anche dopo le terapie, non avevo mai focalizzato il perché di tante sofferenze anche dopo le prime, e le successive, il continuare a muovermi in un mare tempestoso, la grande difficoltà di individuarmi.
E qualcuna teorizza che dall’io ci si debba allontanare! Sì, se l’hai ben saldo. L’impossibilità di elaborare i traumi, proviene da chi ti sta vicino se te lo impedisce in mille modi perché egli stesso è incosciente di che cosa lo frena e lo manipola, di che cosa lo obbliga a manipolare gli altri. In pratica a fuggire dal mettersi in discussione.
Per l’infanzia e anche per la politica è un fatto centrale aprirsi al dolore, mettersi in discussione, dipende da questa paura.
Sappiamo quanto è vero e quanto ne abbiamo parlato, anche a sproposito: perché il fastidio verso chi si lamenta, un po’ teorizzato tra alcune femministe (in Libreria), ha tutte le giustificazioni di chi non può essere terapeuta con quella o l’altra a ogni riunione ma sfugge una problematica centrale della politica. Le persone possono imparare da te tanto, ma se non sono loro stesse a maturare una questione, saranno sempre poco capaci di difendere le tue stesse posizioni. Devono creare le loro posizioni. Se come molte persone hanno subito traumi devono parlarne.
Ho vissuto il conflitto dei miei genitori non potendo fare da intermediaria perché è iniziato prima che io nascessi. Lei lo sposò per uscire di casa, aveva diciotto anni. Lui la mise a fare i conti della spesa con grande pignoleria, indi a correggere le bozze che scriveva per il suo libro. Ma soprattutto, anche durante il giorno, voleva approfittare dell’avere una moglie e per pochi minuti ripeteva i rapporti sessuali che continuarono durante tutta la gravidanza. Era scritto in un pezzetto della biografia che mia madre strappò prima di morire e ne lessi postuma quel che rimase. Alla Liberazione, io avevo appena compiuto due anni, mia madre se ne andò di casa assieme a me.
Mia madre non raccontava. Non voleva farmi i suoi racconti di odio per mio padre. Ma l’odio e la disperazione per tutto quanto successe dopo quella fuga, straboccavano incontenibili dai suoi pianti; negli anni successivi bastava un piccolo accenno alla sua storia. Così non ho saputo mai nulla che potesse essere discusso e ragionato. Ho saputo tutto come uno stato incombente e terrorizzante, una aspettativa di morte celata dalla presenza di una parete di nebbia impenetrabile. In quella parete era nascosto il mio mondo. Sognai da adulta una bambina truce, assassina o assassinata che mi fece molta paura. Questo muro lo vedevo bene nella mia vita con mia madre, era in casa ma bisognava far finta di niente. Non domandare, non parlare, sbottava a piangere e la colpa era mia, non dovevo tormentarla, mi diceva.
Da mio padre il muro era esterno alla casa. Fuori non sapevo che cosa ci fosse, se mia madre esistesse, se avesse fame, che noi mangiavamo tanto. Se soffrisse. No, che soffrisse lo sapevo, forse perché avevo sofferto io nell’essere stata rapita a lei poco dopo il nostro allontanamento dalla casa di mio padre. Lo sapevo anche perché l’avevo vista piangere e scappare quando eravamo nello studio del nonno, quando c’era il giudice amico di lui, quando mi fecero entrare nella stanza come fossi io a rompere la norma – prima dei sei anni i bambini non possono essere ascoltati dal giudice – come fossi capitata dentro spinta dalla voglia di dire che volevo stare con mio padre. Mi avevano tirata fuori a forza da sotto il letto della nonna che viveva a fianco dello studio, mi avevano ripetuto che dovevo farlo anche se non volevo, altrimenti sarei stata mandata in collegio, in un posto dove non avrei più potuto vivere con papà. Neppure la mamma avrei visto, che già non vedevo da diverso tempo.
La vidi quell’attimo che mi buttarono dentro, la vidi che era il mio sogno, la femmina a cui mi sarei abbarbicata. Finalmente la vedevo: una mamma nella bellezza dei suoi ventitré anni, con il viso rapito e felice nell’individuarmi. L’attimo me lo avevano preavvertito e proibito. Non dovevo guardare a sinistra ma guardare a destra e da quella parte correre. Dovevo andare da mio padre, seduto vicino al giudice e dire quello che dovevo dire.
La mia vita continuò solitaria accompagnata dall’attesa. Fuori non c’era la mamma in nessun luogo. Non all’asilo dove mi rifiutai di stare dopo un’ora passata contro il muro, in un angolo del gabinetto. Non alla scuola elementare dove a volte mi addormentavo cullata dalla voce della maestra. Altre volte vedevo le torture inflitte a quella bambina che aveva rubato, o l’interrogatorio all’altra piena di lividi per farle confessare chi l’avesse picchiata – era stato il padre portinaio. La lezione di canto è un ricordo quasi bello; la fatica di partecipare e di essere a scuola mi aveva portato un regalo: brava, sei intonata!
Fuori della scuola il papà con la macchina guidava svelto, il braccio teso a tenermi perché abbiamo sbattuto contro il tram, un grande spavento. Ma soprattutto il papà a casa che torna dall’ufficio, un quarto d’ora assieme, lui mangia sul carrello a fronte del mio letto. Io sempre malata, a volte finta malata, io a casa perché insonne, vomito appena alzata e riesco a non uscire. Fuori c’è solo pericolo, solitudine e le sgridate, i due con due segni di meno dei compiti.
La seconda volta che faccio la quinta elementare sono in un’altra scuola, anche la mamma qualche volta è venuta a prendermi. In ritardo perché molto indaffarata. Non ci vado molto a scuola e l’anno successivo vado alle medie dalle suore, vicino alla casa di mio padre. Ci vado di più, faccio anche la capoclasse a volte se la maestra deve assentarsi. I libriccini d’avorio con i disegni a cornice della messa sono una gioia, si gioca anche a palla e si fa il quadro svedese. Purtroppo vado ancora troppo poco e la maestra di economia domestica non accetta la mia dichiarazione che il cappellino del bambolotto, a maglia, sia fatto da me, è fatto a macchina e io mi oppongo, non ammetto la bugia e così il rapporto si rompe. Ma da lei ho imparato molto, a togliere le macchie di inchiostro, a mettere la mano davanti alla bocca se starnutisci, ho visto i filmati del fascismo – verranno usati per molti anni dopo la caduta – sono bellissimi e chiari, insegnano l’igiene in casa e fuori. Con il raffreddore non si abbracciano gli altri; non si mettono le mani in bocca mai, lavarle è importante e quando si è malati si rimane in casa, non possono entrare in camera i bambini e a volte con la bocca e naso coperti ti possono fare un salutino dalla porta.
Le malattie furono tante e la solitudine tanta. Lo sconforto che mi aggrediva per qualsiasi rimprovero, per ogni non approvazione dalle bambine del palazzo o dagli adulti, mi facevano rinunciare agli incontri, anche al gioco. Stavo sul letto al buio, piangevo infinitamente, invocando la mamma tra me e me. Non potevo che invocarla piano perché non c’era e neppure chiamarla al telefono: eppure c’era già il duplex. Era lei a chiamare qualche volta, non c’era da aspettare una telefonata. La mamma non c’era e il papà rincasava alle otto meno un quarto che io spesso mi ero addormentata per passare le ultime ore del pomeriggio. (Continunerà…)
(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)