Torna a Venezia l’appuntamento più atteso al mondo con la Contemporanea. “Viva Arte Viva” è la 57° edizione, curata da Christine Macel, con 120 artisti provenienti da 51 nazioni
di VALENTINA TOSONI
La lingua è la casa, il mondo, un’avventura e un enigma. Eppure perlopiù viviamo dimentichi nella lingua come fanno i pesci nell’acqua. Non ce ne diamo pena.
L’amore per la lingua è quando la sentiamo nel cuore e questo è già uno scarto, uno scatto in più rispetto al nuotare immemori. Il disagio per la lingua maltrattata ne viene di conseguenza.
La sofferenza per il brutto uso oggi della lingua è molto diffusa. È un dolore personale e politico perché dietro certa terminologia imposta c’è il tentativo di uniformare attraverso il linguaggio la vita collettiva. Prendiamo, ad esempio, i linguaggi burocratici, per i quali noi siamo un utente, un numero, una variabile di sistema. Nelle aziende pubbliche (ospedali, scuole, enti) i lavoratori non sono più nominati così, bensì risorse per la produzione, capitale umano. L’ufficio che se ne occupa si chiama non a caso “delle risorse umane”. Con questa terminologia viene suggerito che gli esseri umani sono solo cose a disposizione. I linguaggi tecnici (sempre in inglese) nascondono dietro sigle e acronimi incomprensibili la storia da cui provengono e le finalità che perseguono. Nelle vita pubblica le falsificazioni degli accadimenti sono tragiche, ridicole, pericolose.
La sofferenza che proviamo è condivisa. È un sentimento politico, perché segnala che è qualcosa che riguarda l’intera vita collettiva. È dunque come atto politico che proponiamo una rivolta linguistica, invitando a sottrarci all’indifferenza prodotta dall’assoggettamento. Affinché abbia efficacia occorre che le “cose”, le “risorse umane” tornino a parlare tra loro con questa intenzione. Non tanto per lamentarsi, quanto per legare quel che diciamo alle nostre esperienze di vita, di lavoro con le parole giuste. Non temiamo di entrare in conflitto con i linguaggi che ci allontanano dalla realtà vissuta e dalla possibilità di comunicarla. Dire pane al pane, si diceva un tempo. Ma si tratta anche di innovare e in caso di trasgredire, sapendo e dicendo il perché, come si fa nella vita pubblica.
In questo le donne hanno una loro specifica competenza e una storia. Dante l’ha riconosciuta, questa competenza, Margherita Porete l’ha praticata, la letteratura giapponese la illustra… Il femminismo stesso è nato grazie a una pratica di ricerca e invenzione del come dire le cose, e ha generato libertà.
Bibliografia:
Eva-Maria Thüne (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg&Sellier, 1998.
Luisa Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, ed. il manifesto, 2017.
Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani, 2001.
Federica Giardini, L’alleanza inquieta. Dimensioni politiche del linguaggio, Le Lettere, 2011.
Andrea Camilleri e Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Laterza, 2013.
Il seminario inizia il 6 ottobre (2017), che è un venerdì, alle 17,20 per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 10 novembre.
Venerdì 6 ottobre, ore 17,20 aula 2.3:
Wanda Tommasi – Parla come mangi
Venerdì 13 ottobre, ore 17,20 aula 2.3:
Elisabeth Jankowski – La nostra brutta bella lingua
Venerdì 20 ottobre, ore 17,20 aula 2.3:
Maria Livia Alga – Per la libera circolazione delle lingue
Venerdì 27 ottobre, ore 17,20 aula 2.3:
María José Gil Mendoza – La lingua che non scordo
Venerdì 3 novembre, ore 17,20 aula 2.3
María Milagros Rivera Garretas – Né inglese né spagnolo. Tradurre la poesia di Emily Dickinson
Venerdì 10 novembre, ore 17,20 aula 2.3:
Federica Giardini e Anna Simone – Ripensare il materialismo. Il linguaggio neoliberale tra misura e dismisura
Il seminario si tiene all’Università di Verona, Area Studi Umanistici, via San Francesco 22.
Vale come crediti F per le studentesse e gli studenti di Filosofia.
(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2017)
di Ginevra Bompiani
Nell’epoca che stiamo vivendo, l’esilio è diventato la condizione naturale di milioni di esseri umani. Le guerre, le occupazioni, le intolleranze, gli abusi, le violenze stanno rendendo la nostra terra inabitabile a intere popolazioni costrette alla fuga. Oggi la patria è dove trovi pace e rifugio, è quella che rende possibile una convivenza civile. La patria è dove ti puoi fermare.
È in questa luce che l’idea di cittadinanza cambia aspetto e dal diritto di sangue si apre al diritto del suolo, è così che un paese ritrova se stesso riconoscendosi nel suo prossimo. Siamo tutti figli della confusione fra patria e esilio.
È una nuova idea di cittadinanza, che corrisponde al nostro tempo e alla storia comune, un’idea che ha fatto l’America e sta facendo l’Europa.
Il nuovo principio dice che un bambino che nasce e cresce in Italia, che parla italiano e studia italiano, è italiano. È il vivere insieme e parlare una stessa lingua che ci rende ‘concittadini’.
Se manteniamo un atteggiamento di paura e rifiuto, ci aspetta un mondo di ‘campi’, ufficialmente provvisori, in realtà perpetui, chiusi da muri che dividono uomini e donne per sempre estranei, e i nostri paesi saranno abitati da sconosciuti senza diritti, mortificati e scontenti.
Ma se accettiamo di guardarli in faccia, vedremo persone che rimodellano con noi una vita comune.
Perché il mondo è cambiato – e anche noi abbiamo contribuito a cambiarlo – e non abbiamo altre opzioni che incontrarci o farci la guerra, affratellarci o terrorizzare ed essere terrorizzati.
Oggi si tratta di dare la cittadinanza a circa 800.000 bambini, per non ritrovarli ragazze e ragazzi senza alcun diritto.
E di imparare dai bambini a giocare e crescere insieme.
Per questo chiediamo agli Italiani di essere saggi, generosi e lungimiranti e di sostenere la legge che concede la cittadinanza per Ius soli, diritto del suolo.
Vi chiedo anche di farmi avere la vostra risposta (sì, lo firmo, no, non lo firmo) al più presto possibile, in modo che possiamo pubblicarlo a metà settembre.
Ogni giorno è prezioso.
Grazie, Ginevra Bompiani (bompiani@gmail.com)”
Firmato da:
Silvia Baratella, Laura Colombo, Gaia Del Negro, Renata Dionigi, Sara Gandini, Stefania Giannotti, Laura Giordano, Rosaria Guacci, Clara Jourdan, Massimo Lizzi, Silvia Motta, Luisa Muraro, Tahereh Toluian, Umberto Varischio
(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2017)
di Marina Terragni
Leggo con molto interesse il testo firmato “una singolarità maschile”.
Voglio replicare, e non solo perché vengo menzionata. Avrei desiderio di interloquire in ogni caso, la questione l’ho molto a cuore.
Intanto mi spiace per il “fastidio”: l’avevo messo in conto, ma non parlavo con l’intenzione di procurarlo. La cosa mi era indifferente. Parlavo, quando ho parlato, come se “lui” e altri uomini non ci fossero.
Ribadisco alcune cose già dette nel corso di quella discussione. Come tante sono stata vivamente interessata a un femminismo “con gli uomini”, diciamola così, o a una politica di differenza. Ho osservato con attenzione, ho anche partecipato a iniziative che assumevano la differenza sessuale maschile. Poi è capitato qualcosa.
Un percorso – quello di Maschile Plurale – messo brutalmente alla prova dai fatti, e da un fatto in particolare. Dall’altro lato, certi nuovi femminismi che subiscono una fortissima pressione maschile: gli uomini vogliono esserci, nelle manifestazioni, nelle riunioni, ai tavoli di lavoro, vogliono partecipare alla definizione di issues e agende politiche, fino alla – decisiva – scelta del lessico. Non a latere o in coda, ma al centro, nella più classica delle posture maschili.
Dove c’è un uomo in mezzo alle donne, l’impulso a “fare ordine” e ad ammaestrare, quando non a dominare, si mostra in tutta la sua irresistibilità (un tratto della differenza maschile).
Un femminismo per tutti, ma che non è il tutti di Carol Gilligan quando parla dell’«estendersi della causa del femminismo, dalla liberazione delle donne al rendere liberi tutti». Si tratta piuttosto di un tutti che impone la neutralizzazione e l’indifferenziazione sessuale.
In alcune realtà, negli Usa in particolare, rivendicare spazi riservati alle donne è diventato scorretto e discriminatorio: perfino i “Vagina Monologues” non possono essere più rappresentati. Ma se la differenza femminile non può (più) essere detta, cade ogni presupposto per provare a dire quella maschile. Si può dire solo il neutro (maschile). Cioè sono io a dovermi cancellare, una nuova figura fenomenologica per la solita vecchia storia di sempre.
Nel femminismo anglosassone, in particolare tra le cosiddette RadFem, è ripartita una vigorosa lotta neo-separatista. La si può leggere come un passo indietro, a mio parere si tratta di un passo necessario in attesa di tempi migliori. E i tempi migliori non sono certo questi in cui tutto, a cominciare dal mercato, spinge furiosamente in direzione del neutro o meglio, come lo chiamava un uomo – Ivan Illich – del neutrum oeconomicum.
L’alternativa al chiasso prodotto dalla differenza maschile che è il mondo così come lo conosciamo non può certo essere la grancassa del mercato neutralizzante: siamo abbastanza forti da sapergli resistere, dove ci mettiamo lì insieme nel femminismo, uomini e donne?
Io dico di no.
Poi lasciami dire, caro Maschile Singolare, la delusione di certe “introduzioni” maschili ai nostri incontri, e lasciami dire anche che se io, per mia natura, ho sufficiente baldanza da saper rischiare di infastidirti, altre invece questa baldanza non ce l’hanno, magari dicono una parola in meno o nessuna parola, o temono il giudizio, evitano di dispiacere, talora si spingono perfino a compiacere.
Ti ho risposto in poche righe: troppe per un testo online, poche per mettere a fuoco la questione della scomparsa del genere, che sempre l’uomo Illich definisce «un cambiamento della condizione umana che non ha precedenti».
Mi sento, di fronte a questa sfida, molto più vicina alle scelte politiche delle RadFem che a quelle di alcune amiche della Libreria.
Ma va bene, i conflitti sono vitali.
(Libreriadelledonne.it, 02/08/2017)
La Merlettaia
Gian Piero Bernard ci manda una raccolta di frasi che vengono dal lavoro di quest’anno alla Merlettaia di Foggia sul tema Concepire l’infinito e che hanno accompagnato la mostra di Mail Art sull’infinito.
…la vita quotidiana è un processo, nonostante la sua ripetitività, e proprio perciò non può essere limitata in qualcosa di tutto rappresentabile e determinato. Di finito (Chiara Zamboni).
…il movimento delle donne ha cercato la modificazione del proprio rapporto con il mondo, interrogando la vita nella sua quotidianità del giorno per giorno. Portandone a consapevolezza sentimenti, desideri, il lato inconscio. E scommettendo che nell’interrogazione dell’aspetto più quotidiano della vita ci fosse la potenzialità di una apertura di modificazione del reale soggettiva e impersonale assieme (Chiara Zamboni).
L’impreparazione di chi ama fa nella siepe il buco da cui passa l’infinito, come una volpe (Luisa Muraro)
Parlo di qualcosa che riguarda anche altre, parlo di uno sguardo che oltrepassa le mete e le misure sociali per sporgersi oltre, e far avvenire qualcosa, farla ad-venire qui. Parlo di un desiderare altro senza farne l’oggetto di un’appropriazione ma, al contrario, lasciandosi toccare da esso e arrendendosi così alla soggezione della soggettività. Parlo di una non autosufficienza incolmabile, di un non bastarsi originario e del prezzo che le donne hanno pagato per averlo scelto … (Luisa Muraro).
Esistono pensatori che sono come Sherazade: sono voci che tengono sveglio il mondo, che lo tengono aperto rispetto alle immense domande che lo attraversano in ogni tempo. Ci sono pensatori la cui voce è una colonna del tempo. È già essa una forma di giustizia. Di resistenza contro quella che – parlando di Hieronymus Bosch, Marcos e della Guerra Fredda – Berger chiamava la grande disfatta del mondo. Sono rari e tanto più preziosi, questi pensatori. Ancora di più in un momento in cui è la vita stessa a sembrare così invivibile ed è facile perdere di vista le cose essenziali. Il loro canto è coraggioso senza arroganza. Si leva in alto perché sa stare vicino alle cose in basso. E per questo è la memoria del mondo. È un canto della perdita, perché solo lì può sorgere qualcosa di nuovo. È una canzone che porta nel riso il suo seme. È una mescolanza di durezza e tenerezza, le cui modulazioni ci sono entrambe così essenziali, come l’aria o la luce. È una benedizione.
John Berger appartiene indubbiamente a questa compagnia. Lo dobbiamo anche al suo canto se, malgrado tutto, riusciamo ancora a immaginare di stare in contatto con una realtà che o ci travolge o ci sfugge. È questo pensatore dell’infinito, di un infinito laico, umile, dimesso, ma non senza un suo singolarissimo coraggio, che oggi salutiamo e ringraziamo. Della sua capacità sorprendente di farci vedere come quest’infinito non è altrove, ma qui e ora (Gianluca Solla).
In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo (Franz Kafka).
…tutto il mondo era per Kafka «una falsa credenza» – e di questo si parlava nei suoi scritti: degli enormi, inesauribili, tortuosi sviluppi di quella falsa credenza. Originata da che cosa? Da un fatale equivoco intorno ai due alberi che crescono al centro del paradiso. Gli uomini sono convinti di essere stati cacciati da quel luogo perché hanno mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza del bene e del male. Ma questa è un’illusione. Non era quella la loro colpa. La loro colpa sta nel non aver ancora mangiato dall’Albero della Vita. La cacciata dal paradiso era un pretesto per impedirlo. Noi siamo nel peccato non perché siamo stati cacciati dal paradiso, ma perché quell’espulsione ci ha resi incapaci di compiere un gesto: mangiare dall’Albero della Vita (Roberto Calasso).
Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza: oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza.
Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigione invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio (Rosa Luxemburg).
«Ci sono sconnessioni tra vita interna ed esterna e questo richiede una serie di piccole, grandi invenzioni per trovare ponti tra queste due sponde» (Chiara Zamboni). Così tra l’esperienza e l’infinito che lì traluce. La lingua con la sua capacità di narrazione e di traduzione dall’uno all’altra è uno di questi ponti (Antonietta Lelario).
Concepire l’infinito?
inconcepibile il finito (Donata Glori).
Questa composizione e ricomposizione continua dell’unità corpo-mente-sentimenti-pensiero, questo sincretismo continuo e dal risultato sempre diverso, in sostanza questa tensione a cercare chi si è, in un certo luogo e in un certo tempo, questa tensione a relazionarsi con sé … sarà qui l’infinito?? Non lo so. Forse, ma se proprio vogliamo cercarlo consiglierei di non andare troppo lontano! (Rosaria Campanella)
Mentre l’Infinito era lì a disagio con se stesso, il Puntino cominciò la sua vita autonoma; prima si scrollò di dosso un po’ di Infinito, poi incuriosito si guardò intorno. Dov’era capitato si domandò, che ci faceva lì? La stessa domanda gliela fece l’Infinito. Il Puntino, con grande disappunto dell’Infinito, non sapeva proprio cosa rispondergli, ma sapere di essere stato chiamato Luce gli diede un’idea improvvisa che si affrettò ad esporre ad un Infinito sempre più insofferente.
“Caro Infinito”, cominciò, “ma non sei tu quello che si arrovella perché non ha nessuno con cui confrontarsi? Dai, soffermati un attimo. Ah già un attimo non significa nulla per te! Insomma, pensaci un po’ e rifletti sul fatto che forse sei stato proprio tu a crearmi. Questo continuo rimuginare, queste tue implosioni hanno prodotto una crepa nel tuo infinito ed ora eccomi qui. Che cosa farò mi domandi? Ancora non lo so, ma sento di essere molto importante per te. Tu mi hai chiamato Luce, il che non mi dispiace perché potrò illuminare il mio stesso cammino, ma per andare dove? Quello che serve a me, ma soprattutto a te, perché tu capisca la tua stessa portata è definire il Quando e il Dove, due cose di cui sei infinitamente carente. Non dispiacerti, quindi, ma io preferisco chiamarmi l’Oggi (Rosa Serra).
Era una cosa – solenne – mi dissi –
Essere – una donna – vestita di bianco –
E indossare – se Dio lo consentiva –
Un irreprensibile mistero –
Una cosa consacrata – deporre una vita
Nel pozzo di porpora –
Senza scandaglio – senza ritorno –
Fino – all’eternità –
Meditai su cosa fosse la beatitudine –
E se l’avrei sentita così vasta –
Se l’avessi raccolta nella mano –
Come nel suo librarsi – visto – tra la nebbia –
E poi – le dimensioni di questa “piccola” vita –
I Sapienti – la chiamano piccola –
Si allargarono – come Orizzonti – nella mia veste –
E risi – piano – “piccola”!
Emily Dickinson n. 271 (scelta da Adele Longo)
C’è una solitudine di spazio,
una solitudine di mare,
una di morte, ma
faranno lega tutte quante
a paragone con quell’eterno punto,
quella polare ritrosia
di un’anima ammessa a se medesima.
Finita infinità.
Emily Dickinson n. 1695 (scelta da Anna Potito)
(www. libreriadelledonne.it, 31 luglio 2017)
di Flavia Matitti
Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi. Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione. Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale. L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà. La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati. Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944). Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale. Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney. La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile. Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra – “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) – un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann – si legge nella motivazione – ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia. Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8). In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Eccola Maria Lai. Eccola assurta al cielo della Biennale di Venezia, che, nella moltitudine delle biennali d’arte nel mondo, rimane la Biennale di Venezia. Perché quella città non presta la sua scenografia all’arte: quella città è l’Arte.
Dopo i Giardini coi padiglioni delle nazioni, l’Arsenale, industria navale veneziana dal XII secolo, è il mondo in una «stanza che non ha più pareti», ma che è un continuum di visioni, intervallate da colonne di mattoni corrosi, intonaci delabré e odori che arrivano dal medioevo.
Arriva da Cardedu, invece, il viatico per chi varca l’ingresso dell’Arsenale. Quattro grandi teli bianchi pendono dall’alto, ingrandimenti di pagine di quaderni delle elementari con scritte le cose che scriveva, tesseva e diceva Maria, in quell’unica e univoca voce che è stata la sua arte. Parole come “mondo”, “isola”, “infinito”, “immenso”, “ago”, frasi in lingua dell’Ogliastra.
Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
Lettera di Sara Gandini
care e cari di Salecina,
nella lettera che mi scrivete ponete un problema importante. Voi scrivete che avete deciso di “utilizzare il più possibile nella scrittura dei documenti un linguaggio inclusivo che, oltre alla forma maschile e femminile, comprenda altre possibili identità di genere. La stellina * nella scrittura, con i suoi raggi, mette in evidenza l’esistenza di più forme di genere e può così rendere giustizia alla realtà”.
Questo uso dell’asterisco (la stellina), che risponde al desiderio di essere inclusivi e politicamente corretti, rinuncia a rappresentare la realtà attraverso la lingua, a pensare un modo di indicare la differenza sessuale e le identità di genere, quasi fossero un fatto da nascondere, irrilevante, o meglio, problematico, e questo è un passo indietro.
Un passo indietro perché il patriarcato era impostato sull’idea che esistesse un solo punto di vista, un solo modo di fare politica, di lavorare, di amare… quello degli uomini, che includeva anche quello delle donne. Una sorta di “neutro universale“: si parla al maschile per significare sia uomini che donne. Tuttora il maschile, usato come se fosse un neutro, indica spesso la posizione di valore nella società e viene usato per le professioni più qualificate: mettere al femminile notaia, medica, architetta a molte/i non piace. Mentre il femminile di segretaria, infermiera, cameriera non crea problemi.
Il rischio, con l’asterisco, è di ritornare a un neutro che evita il conflitto con una impostazione misogina. Si sorvola, con un trucco, su un aspetto importante della realtà. Dover pensare a come rappresentare nel linguaggio la differenza sessuale obbliga a riflettere su cosa la differenza sessuale fa capitare nel mondo e a fare delle invenzioni, alimentando creatività linguistica.
Molte donne usano il femminile con orgoglio perché desiderano che la libertà e l’autorità femminile possano emergere ed essere rappresentate, e pensano che questo porti ad un cambiamento di civiltà. Il femminile permette di raccontare pratiche politiche nate nel femminismo che sottostanno a un simbolico differente da quello patriarcale. Una scelta linguistica che vuole far emergere la ricchezza del sapere delle donne, per mostrare un altro modo di governare.
Ovviamente nascere di sesso femminile in sé non garantisce nulla, tuttavia, come raccontavamo io e Laura Colombo durante il “Seminario delle donne, queer e femminista” di Salecina di quest’anno, forse dovremmo ascoltare maggiormente le bambine e i bambini. Per loro non ha nessuna importanza se gli amici di gioco sono di colore, indiani o musulmani, ma ha molta importanza il sesso: il modo di giocare, di litigare, di rapportarsi, tra di loro o con le maestre, è differente tra maschi e femmine. Infatti il fatto di essere dello stesso sesso della madre, o meno, conta: lei è il primo oggetto d’amore per tutti, ma la relazione con lei cambia se siamo maschi o femmine, e la relazione con lei influenzerà gli altri incontri importanti della nostra vita. Il vissuto e l’immaginario che si crea sul corpo della madre in qualche modo entreranno nella relazione con le maestre da bambini, nella sessualità da adulti, nella scelta di fare figli o meno…
Lesbiche, gay, trans, etero, tutti nasciamo da una donna e tutti in qualche modo riflettiamo, fin da bambini, su che donne e uomini desideriamo essere, partendo dalla nostra origine, dal nostro primo oggetto d’amore: la madre.
L’asterisco cancella tutto questo, e molto altro.
(www.libreriadelledonne.it, 23/7/2017)
Scusate l’orrendo neologismo ma sono un’a-facebookiano. Il mio utente Twitter è al servizio di un progetto sindacale collettivo e uso WhatsApp con cautela e cercando di non esagerare: non sono quindi un amante dei social network.
Frequento però con curiosità, pur se saltuariamente, il gruppo pubblico di discussione della Libreria delle donne di Milano; qui negli ultimi tempi mi sono imbattuto in una discussione sull’opportunità di una presenza maschile nei vari luoghi, virtuali e reali, della Libreria stessa e in generale del femminismo.
Una delle partecipanti alla discussione, Marina Terragni, negava con ardore la necessità di tale presenza. Prima mia reazione: fastidio. Ma oltre il fastidio cosa c’è? Leggo e rileggo i post di Terragni e la discussione che si sviluppa. Non per intervenire: proprio per le ragioni da lei esposte, non mi spetta, non sono autorizzato a entrare in una discussione che vuole essere solo tra donne.
E se Terragni avesse ragione? Se fosse vero, come lei sostiene, che: “Siamo sommerse dal fragore violento di quella differenza [maschile], da sempre”? Che cosa potrei fare io per diminuire il fracasso che generiamo?
Non posso d’altronde mettere in secondo piano il desiderio che esprimono alcune donne della Libreria, cui riconosco autorità femminile e con cui sono in relazione da anni, di un confronto in presenza, negli stessi luoghi del femminismo e in particolare in Libreria. Se queste donne valutassero un domani un venir meno a questo loro desiderio di relazione in questi luoghi, proprio per l’autorità che a loro riconosco, non avrei remore a farmi da parte.
Dilemma insolubile: come esserci senza esserci o almeno con meno “fragore”?
Per provare a darmi una risposta e per tentare di compiere e proporre un piccolo spostamento simbolico prendendo spunto da un pensatore francese: Maurice Blanchot.
Una parte non marginale della riflessione del filosofo francese s’inscrive in quel filone di pensiero novecentesco, inaugurato da S. Weil, della critica del concetto di persona fino arrivare, nell’elaborazione della pensatrice francese e in altre successive, a quello d’impersonale. Vorrei qui soffermarmi sull’esito politico che è stato dato a questa riflessione.
Blanchot cercò di individuare un linguaggio pubblico assonante e conseguente a una filosofia dell’impersonale; la conseguenza pratica (e programmatica) più evidente fu la cancellazione del proprio nome a favore di un’attività politica anonima e impersonale che, con assonanze weiliane, “parli a favore di chi non può parlare”.
Una proposta che mi sento di declinare e reinterpretare non nel senso di un anonimato quanto nella direzione di una diminuzione dell’io (anche questo tema weiliano), dell’individualità e della soggettività in direzione di una singolarità, che di contro alla neutralità e all’universalità del pensiero patriarcale, sia sessuata.
In questo risiede la mia proposta: il firmare questo intervento in modo impersonale ma connotato dalla differenza sessuale, da una differenza sessuale maschile.
Una singolarità maschile
(www.libreriadelledonne.it, 22/7/2017)
di Laura Minguzzi
«Dichiarazioni d’amore. Pratica della Storia vivente. Una occasione da cogliere: l’invenzione della vecchiaia. Differenza sessuale e genere tra biologia e libertà femminile. La via per dire no». Questi i laboratori-gruppi di lavoro al Seminario di Salecina cui ho partecipato dal 22 al 24 giugno 2017. Un ricovero per pastori del XVII secolo nelle Alpi Svizzere, trasformato e ristrutturato con arte dal gruppo fondatore, utilizzando materiali di pregio all’inizio del XX secolo. Oggi, e da quarant’anni, centro di vacanze e formazione politica aperta a tutte le diversità, autogestito dalle partecipanti. La comunicazione e lo scambio sono stati possibili grazie al lavoro delle traduttrici del collettivo di Lipsia InterpRISE e soprattutto di alcune giovani berlinesi di origine italiana. La lingua prevalente dello scambio è stata il tedesco in alcuni colloqui l’inglese. Ma rispetto allo scorso anno le numerose presenze di italiane e di studentesse tedesche che studiano la lingua italiana ed erano desiderose di parlare e fare conversazione hanno contribuito ad approfondire la conoscenza e a sciogliere dubbi o chiarire questioni per cui le possibilità di scambio proficuo si sono decisamente accresciute e ampliate. Con soddisfazione reciproca. Nell’insieme ho percepito una richiesta di capire la pratica. Per esempio nella discussione dopo il racconto della pratica della storia vivente, Bettina, interessata alla storia, voleva capire meglio come procediamo nel gruppo per arrivare alla scrittura, la metodologia passo passo. Nel gruppo «L’Invenzione della vecchiaia» Marirì ha voluto intenzionalmente porre l’accento, oltre che sulla novità dell’idea, sul metodo scelto, cioè anteporre la pratica collettiva di tre anni di incontri di parola al passaggio alla scrittura optando per la scrittura di dialoghi. Ha aggiunto che però non poteva leggerli, non essendo ancora pubblicati e appunto in quanto opera collettiva. Ho potuto notare durante il corso dei lavori che da più parti si cercavano connessioni di temi, di parole, di pratiche fra i gruppi che più hanno animato le giornate del seminario. Sarà forse stata l’eccezionale presenza di italiane di Milano e di tedesche di origine italiana a facilitare lo scambio nei colloqui, anche perché ci si ritrovava a seguire gli stessi, spinte dai medesimi interessi o in qualità di partecipanti o come proponenti un tema di discussione. Per esempio Eva, conduttrice del gruppo intitolato «Dichiarazioni d’amore», cui erano state raccontate la relazione e la discussione avvenute nel gruppo sulla Pratica della Storia vivente, mi ha chiesto un breve scritto per il notiziario sul Seminario perché ha sentito una risonanza con la sua pratica nel nostro modo di reinterpretare la storia a partire dal sentire, dai moti del cuore… per una storia che tiene in conto l’amore, e non si contrappone, non compete, non usa metafore di guerra, di conquista, fa parlare l’inconscio, l’immaginazione come chiavi interpretative. I fatti a volte divergono dalla verità. Così come Sara e Laura nella loro relazione sul corpo nella scienza hanno fatto parlare un corpo pieno di storia, incrocio di genealogie, di inconscio, di immaginazione, dove tutto si tiene, un “corpo pieno di mente” secondo una partecipante antropologa. Dicono Sara e Laura: «Nascere da una donna per una donna è differente che per un uomo. Il corpo a corpo con la madre comporta posizioni e problematiche differenti. I bambini e le bambine giocano spontaneamente separati senza fare nessun caso al colore della pelle. Il sesso viene prima, è quello che conta per giocare insieme». Ascoltare le viscere, il moto dell’anima, fa la differenza. Così nella scienza, dice Sara, seguendo una genealogia femminile e nuovi studi e ricerche dagli esiti ancora imprevedibili, quando si mettono insieme i dati biologici con i dati storico-culturali, i sentimenti, le passioni e la soggettività di chi conduce la ricerca scientifica e di chi è oggetto di studio in una relazione dinamica il quadro concettuale, il sistema dei riferimenti universali si trasforma e ancora non se ne conoscono i contorni precisi. I confini troppo rigidi sono un limite, una barriera che impedisce lo scambio. Nel gruppo sul tema proposto da Johanna, «La via per dire no», discutiamo sulle forme di potere nelle relazioni private e pubbliche e sulla necessità di spazi di negoziazione e di contrattazione in cui sia rispettata la volontà delle donne. Lei ci parla del capitolo di cui è autrice inserito in un libro collettaneo che nasce dopo la riforma in Germania del diritto penale sessuale del 2016. Come procedere. Occorre precisione nell’esplicitazione dei bisogni e dei desideri. Non pensare di sapere tutto dell’altro, come di sé stessi/e. È necessario distinguere fra aspettative e desideri. Le aspettative è giusto averle ma non confonderle con i desideri. Concordiamo sulla difficoltà di pronunciare dei “no” nelle relazioni duali e nelle relazioni pubbliche. Un “no” che non sia contrapposizione o rifiuto dell’altro ma che sposti su un altro piano la relazione, che sia apertura alla differenza. Per questo è importante la precisione nella contrattazione con l’altro/a e fra sé e sé. Spesso un no è più impegnativo di un sì perché richiede un percorso interiore di recupero della relazione, un cammino dopo avere detto un no, altrimenti c’è la fine della relazione. La precisione apre a qualcosa di nuovo, di imprevisto. Nel dibattito Johanna cita un esempio personale. In una relazione con un uomo lui ha rifiutato di accettare un suo invito a un evento pubblico sbottando che per lui sarebbe stato troppo! La mancata specificazione del motivo preciso del sottrarsi, del tipo: preferisco stare a casa a guardare un programma in tv che mi interessa, contiene un messaggio implicito: e anche tu faresti meglio a stare a casa, anche per te è troppo! Questo nell’ambito di una relazione duale. Un modo per colpevolizzarti e togliere spazio alla tua libertà.
(www.libreriadelledonne.it, 20/7/2017)
La curatrice della Biennale, la francese Christine Macel, ha scelto questa quinta e queste parole, ad apertura del Padiglione dello Spazio Comune, «che riunisce artisti le cui opere si interrogano sul concetto del collettivo, sul modo di costruire una collettività che va oltre all’individualismo e gli interessi specifici». Girato l’angolo a sinistra, c’è la documentazione dell’intervento “Legarsi alla montagna”, quell’opera di arte pubblica e ambientale che nel settembre del 1981 ha visto un paese intero, Ulassai, attraversato da un nastro celeste di tessuto di 27 chilometri a legare simbolicamente abitanti, case, vie al Monte Gedili. C’era, a filmare questa avventura dello sguardo collettivo e femminile di Maria, il video artista Tonino Casula, il cui film, adesso, informa il consesso dell’arte mondiale sui fatti del 1981 a Ulassai, assieme alle belle foto in bianco e nero di Piero Berengo Gardin (fratello di Gianni), ritoccate da Maria col celeste sul nastro, in un gesto che ne fa opere, anch’esse custodite dall’operoso Archivio Maria Lai, supportato da Magazzino Italian Art di New York.
Un visitatore giapponese segue le peripezie di questo nastro celeste che corre per un paesino che non è semplice individuare sul mappamondo. Poi si volta e rimane immobile dinnanzi alla distesa di libri cuciti, dentro una lunga teca, come si fosse trovato di fronte alle tavole della legge di Mosé (in realtà qualcosa c’è, in comune). Poi osserva le “Geografie”, il “Lenzuolo” di pagine scritte con la macchina da cucire e il filo nero, la tovaglia per altare, realizzata da Maria quando si è sposata una pronipote, una forma che ricorda la croce, con pagine di velluto rosso cardinale che ricordano non i cardinali ma la passione, in tutta l’estensione del suo vasto significato.
Eccola Maria Lai. Ecco la passione e i significati, tutti, del suo passaggio, leggero e incisivo, alato e scavato, libero e freneticamente cucito a macchina, scritto e ribadito. Ecco il suo «passare leggero su questa terra». La gente gira attorno alle sue opere, l’Arsenale è immenso, contiene mondi immensi, c’è anche una casa di legno della Georgia in cui piove dentro, c’è una vasta porzione di soffitto che si riflette in un lago d’acqua sospeso su un intrico di tubi Innocenti, che ricordano le nostre città ancora transennate (è questa, del veneziano Giorgio Andreotta Calò, una delle opere più magiche de “Il mondo magico”, titolo del padiglione Italia – siamo sempre dentro all’Arsenale – curato da Cecilia Alemani, che comprende anche Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey).
L’Arsenale è immenso, contiene mondi, ma in apertura ti trovi Maria e quel visitatore giapponese si blocca davanti alle sue visionarie “Geografie”, fotografa i libri cuciti, che sono poesia, sontuosità, mistero, codici miniati, libri d’ore, che vengono dal nuragico o dal Monte Sinai, o dal Monte Gedili; fotografa, prende un taccuino, si siede spalle a una colonna e si mette a scrivere. Cosa scriva è un mistero, che attraversa quei caratteri, rimbalza nelle righe cucite di Maria e nell’acqua cheta di Calò, alla fine dell’Arsenale. Difficili da spiegare, i mondi magici toccano e poi però non scompaiono. Restano dentro. «Nell’arte si comincia a capire proprio quando non si capisce», ha scritto Maria.
Torna a Venezia l’appuntamento più atteso al mondo con la Contemporanea. “Viva Arte Viva” è la 57° edizione, curata da Christine Macel, con 120 artisti provenienti da 51 nazioni
di VALENTINA TOSONI
di Flavia Matitti
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi. Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione. Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale. L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà. La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati. Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944). Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale. Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney. La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile. Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra – “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) – un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann – si legge nella motivazione – ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia. Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8). In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Eccola Maria Lai. Eccola assurta al cielo della Biennale di Venezia, che, nella moltitudine delle biennali d’arte nel mondo, rimane la Biennale di Venezia. Perché quella città non presta la sua scenografia all’arte: quella città è l’Arte.
Dopo i Giardini coi padiglioni delle nazioni, l’Arsenale, industria navale veneziana dal XII secolo, è il mondo in una «stanza che non ha più pareti», ma che è un continuum di visioni, intervallate da colonne di mattoni corrosi, intonaci delabré e odori che arrivano dal medioevo.
Arriva da Cardedu, invece, il viatico per chi varca l’ingresso dell’Arsenale. Quattro grandi teli bianchi pendono dall’alto, ingrandimenti di pagine di quaderni delle elementari con scritte le cose che scriveva, tesseva e diceva Maria, in quell’unica e univoca voce che è stata la sua arte. Parole come “mondo”, “isola”, “infinito”, “immenso”, “ago”, frasi in lingua dell’Ogliastra.
Marzia Migliora protagonista della mostra più sussurrata e forte a Venezia. Dove si prende in esame la storia e il destino della città lagunare, scavando a fil d’acqua | ||||
Quella di Marzia Migliora, più che una mostra, è un’intrusione in casa d’altri. La si sente aggirarsi con calma, curiosità, determinazione. Ca’ Rezzonico è ricca, piena di quadri, di mobili, di luci, alle quali si aggiunge quella che, attraverso lo specchio del canale, si riflette in facciata. Seguire il profilo dei canali, in modo che gli edifici siano ortogonali all’acqua, è l’invenzione dell’urbanistica veneziana. E Migliora mette una pagina argentata tra la copertina e l’inizio del catalogo (hopefulmonster editore, a cura di Beatrice Merz), mentre il doppio ingresso dal canale e dalla terraferma caratterizza il prestigio dell’architettura.
Ca’ Rezzonico è stata completata nel Settecento e in quello stesso secolo Canaletto “anticipa” la funzione della luce nel definire l’inquadratura. Ci vorrà circa un secolo perché la fotografia trasferisca nell’obiettivo questo elemento.
Marzia Migliora analizza il corredo di presenze sociali e artistiche che fanno parte del Museo del Settecento Veneziano.
Il titolo è Velme e già qui s’intuisce che non è tutto oro quel che luccica. “Velma” è, infatti, lo strato fangoso che emerge dal fondo della laguna, quando c’è bassa marea. Marzia ha cercato tra i pavimenti, le stanze, i quadri, i lampadari, la velma che si deposita sotto le maschere del potere, delle invenzioni, degli affetti, delle subalternità.
Lo stemma di famiglia segna l’ingresso da terra: come d’abitudine, anche i Rezzonico usano il motto del potere Si Deus Pro Nobis, ma a questa frase manca un pezzo non da poco. Nella Lettera ai Romani, San Paolo diceva: Si deus pro nobis, quis contra nos? Espungerla significava nascondere la domanda cruciale su chi la pensa diversamente. E sappiamo quanto queste parole dimezzate di Dio abbiano pesato. Migliora “scrive” su due specchi del palazzo Quis contra nos. Non c’è punto di domanda, ma la constatazione che chi è contro si riflette su chi guarda.
Allude al passato? No. È la velma limacciosa di chi in ogni epoca impugna solo la prima parte della sentenza di San Paolo: dall’Isis alla volontà di potenza individuale. Succede anche a Ca’ Rezzonico
Marzia ci avverte appena si entra. Mette faccia al muro, alla distanza di un’asta metrica angolare di un metro, le meravigliose statue dei guerrieri etiopi del Brustolon che adornano il salone d’ingresso al primo piano. La funzione di porta vasi (sostituiti dall’artista con un blocco di salgemma), la posa atletica, le catene, sono il prototipo della giustificazione della superiorità razziale.
Il Settecento a Venezia significa Goldoni e la sua ironia che spesso migra nei proverbi. Perché el can, el vilan, el gentilomo venesian no sera mai la porta? El can perché nol ga le man, el vilan perché el xe vilan, el gentilomo venesian perché ga el moreto. (Perché il cane, il villano, il gentiluomo veneziano non chiude mai la porta? Il cane perché non ha le mani, il villano perché è villano, il gentiluomo veneziano perché ha il moretto). Una battuta che non riduce la durezza del comando sulla servitù.
La luce dell’ironia, dell’intelligenza, della pittura, porta con sé l’ombra della fine. Venezia non è più la padrona del mare, con un ultimo slancio di grandeur trasferisce nella terra ferma la grana formale del potere, nascono ville grandiose come quella Pisani di Stra che aveva per modello Versailles e tante altre. La festa continua, ma qualcosa si è rotto.
Il suo “mondo nuovo” è quello del lavoro. Colloca nel Portego (la sala che collega la porta d’acqua a quella di terra) La fabbrica illuminata: una fila di banchetti da orafo, con una lampada incorporata, sormontati da un blocco di salgemma. L’oro bianco che ha fatto nascere Venezia. Durante le invasioni del IX secolo, solo gli estrattori del sale sapevano orizzontarsi nell’intrico di barene, canali, maree; erano gli ultimi “cives” della Decima Regio, la miniera dell’oro bianco dell’Impero Romano. Le luci dei banchetti interferiscono con il simbolo della preziosità. La storia è intricata e la velma ogni tanto affiora. Con agilità Marzia sceglie di abbinare l’oro bianco al lavoro salariato e proietta il riflesso della sua attuale precarietà (i banchetti da orafo provengono da un’industria andata in fallimento) e della velma che soffoca l’ambiente.
Il passato del Settecento e quello del Novecento non sono accostati con un criterio evoluzionistico, ma sul principio di contraddizione tra cambiamento e disparità. Ce lo ricordano ancora Tiepolo, i Mori del Brustolon, Pietro Longhi, Francesco Guardi.
Nelle scene di Carnevale, che questi ultimi dipingono, compare una ragazza con una maschera nera che evidenzia il suo perfetto ovale. Non ha l’usuale cordicella di sostegno, ma una mordacchia nascosta, da stringere tra i denti per far aderire al viso la maschera. Si chiama morèta. Ritorna il gioco di parole sul colore della pelle, e non è un caso, visto che la libertà delle fanciulle mascherate aveva come controcanto la sentenza goldoniana: che la tasa, che la piasa, che la staga in casa (che taccia, che piaccia, che stia a casa). Marzia ne fa una sul calco del suo volto, la chiude in una scatola trasparente e la sospende in un boudoir di Ca’ Rezzonico, in modo che sia visibile fronte/retro, compresa la mordacchia. La maschera dell’esclusione delle donne abita anche tra il Secolo dei Lumi e le glorie di Venezia: negli occhi di Migliora diventa un’immagine di ribellione e di libertà e, con buona pace di Goldoni, la intitola: Taci anzi parla in onore a Carla Lonzi.
Francesca Pasini
di Stefania Tarantino
Intervento di Stefania Tarantino, invitata dalla Città Felice di Catania, all’incontro L’Altro vertice in opposizione al G7 di Taormina, tenutosi al cinema King di Catania il 27 maggio 2017.
Vengo da Napoli, la città che, come immagino sappiate, è stata recentemente sotto i riflettori mediatici per la contestazione al comizio di Matteo Salvini. Una contestazione portata avanti non solo dai centri sociali e dalla sinistra più radicale, ma anche dai tanti movimenti, dalle tante associazioni e dalla gente comune antifascista e antirazzista della città e dal sindaco in persona che ha cercato di dislocare altrove il comizio del leader leghista. Quando tutto sembrava risolversi nel verso giusto, il Ministro Minniti ha invece riassegnato la sede originaria appellandosi alla libertà di espressione sancita dall’articolo 21 della Costituzione. Di tutta risposta è stata organizzata una manifestazione terminata, come da copione, in guerriglia urbana, con scontri, feriti e qualche arresto. Ecco, se sono partita da Napoli e da ciò che è successo è perché è questo “copione” che dobbiamo sforzarci di modificare. La pratica politica del femminismo e il pensiero delle filosofe che studio mi hanno insegnato che, per dare vita ad una politica che sia veramente altra rispetto a quella vigente, è necessario rompere questo copione che vede schieramenti contrapposti in una dinamica che è essenzialmente tutta interna a una politica solo maschile. In quel momento sarebbe stato sicuramente più spiazzante, ancor di più se indetta direttamente dalla voce del sindaco, invitare la cittadinanza tutta a riunirsi per una grandissima festa della città, colorata, multietnica e interculturale, per ribadire le ragioni di una contestazione legittima. Contraria alle parole e agli slogan di un esponente politico che nulla ha a che fare con il sud. In più, la festa sarebbe stata l’occasione per far esibire dal vivo alcuni musicisti napoletani (Terroni uniti) che avevano scritto un brano ad hoc “Gente do sud”, che narra della capacità di accoglienza e di solidarietà che hanno le donne e gli uomini del sud.
Sono partita da questo fatto che è successo a Napoli perché oggi c’è una necessità, un’urgenza, di dare vita a lotte politiche che siano capaci di spostare, di dislocare diversamente la rabbia, il proprio sentimento di giustizia e di verità e di non ridurlo a parole e azioni “contro”. Questa politica “altra” che agiamo nella nostra vita quotidiana è ciò che va sostenuto e moltiplicato nelle nostre relazioni politiche e non. È vero che è difficile scalzare quel potere mostruoso e punitivo che si muove e che agisce come un carro armato, che spiana ciò che faticosamente giorno dopo giorno tutte e tutti noi cerchiamo di seminare, eppure, non è mettendosi su un piano meramente contrappositivo che le cose cambiano. In questo, il Novecento è stato un banco di prova importante che ci dice molto.
Oggi siamo qui per ragionare insieme sul mondo che vorremmo e sulle priorità che investono il senso stesso delle nostre vite. Non siamo “grandi”, non siamo “potenti”, non siamo i leader-padroni della terra, ma siamo reali, siamo coloro che portano sulle loro spalle la durezza ma anche tutta la bellezza del reale. Questa è una forza preziosa e irrinunciabile. Attraverso la filosofia e la politica, nei miei lavori di ricerca mi sono molto soffermata sul pensiero di alcune filosofe deI secolo scorso. Ho imparato molto in un senso vitale e creativo. Ecco perché sono qui oggi a parlarvi di Simone Weil. Non per farvi una lezioncina su una filosofa lontana nel tempo, ma per condividere sue intuizioni che sono necessarie a delineare un percorso comune. Come molti di voi sapranno, Simone Weil è stata una donna geniale che ha avuto una vita lampo. Nei suoi 34 anni di vita ha cercato, con una coerenza e con un amore per la verità senza pari, di cogliere quei meccanismi che spingono l’essere umano verso gli istinti più bassi e egoistici. Ha cercato di avere una visione precisa di ciò che opprime le anime e i corpi, che ha cancellato storie, altre civiltà, che ha annientato altri esseri umani, che ha saccheggiato e portato a esaurimento le risorse della terra. Ha intuito il punto di non ritorno che oggi è sotto gli occhi di tutti e ha scritto fiumi di parole per capire quali strategie, quali punti di rottura dobbiamo innescare per cambiare direzione. Lei stessa non contenta di un’analisi a distanza è andata nei luoghi dello sradicamento per capire sulla propria pelle ciò che stava accadendo. Oggi lo sradicamento che viviamo è sicuramente diverso da quello da lei vissuto, ha cambiato aspetto, ma non sostanza. Ecco perché quello che ci ha consegnato deve essere messo in pratica adesso perché non c’è davvero più tempo. Il sistema neoliberale in cui ci troviamo a vivere fa sì che le vite costino e così vengono messe al mercato. La soggettività così tanto desiderata nella sua piena libertà e “fioritura” è diventata ancora di più un privilegio per pochi e per poche. E, da che mondo è mondo, i privilegi non sono per tutti, così come la ricchezza è per qualcuno a scapito di molti, troppi. Il femminismo, che ha una storia di ingiustizia alle spalle lunga millenni, un’ingiustizia che ancora si propaga incidendo in forme diverse dappertutto nel mondo, ha mostrato la radice malata di un sistema che ha bisogno nella sua intima ragion d’essere di escludere buona parte dell’umanità dalla vita. C’è molto da eccepire su questo perché, come è stato messo in luce negli interventi che mi hanno preceduta, sfruttamento di un territorio e di forza lavoro non significa ricchezza per le popolazioni locali ma sempre una moltiplicazione a dismisura della povertà. Le ricchezze sono portate altrove, quasi sempre nei paesi dei “grandi” esponenti delle “democrazie” occidentali. Non c’è alcuna equità, ma una logica di rapina. Come da più parti è stato fatto notare, le logiche delle multinazionali funzionano come le modalità della camorra e della mafia. È il sistema di funzionamento mentale per cui ciò che vale per me non vale per te. Nonostante questo sono moltissime oggi le soggettività in campo che, a partire dai loro territori e attraverso azioni efficaci, cercano di smantellare questo sistema e cercano faticosamente di ricomporre i pezzi disarticolati che lascia alle sue spalle sotto forma di resti, rifiuti, scarti.
Simone Weil è così presente oggi in questa mia riflessione perché ha pensato a partire da questi scarti (umani e non) e ha costretto la filosofia a cambiare di segno, a scendere dalla torre d’avorio per assumere una dimensione politica e vitale inedita. Simone Weil ha puntato verso una diminuzione massima dell’ingiustizia attraverso la consapevolezza che il pensiero raziocinante dell’Occidente non ci mette al riparo da nulla, al contrario. In questo suo andare alla radice dei meccanismi politici e psichici comprese che è da una idea di gestione “proprietaria” che ci dobbiamo separare. Viene a noi una impostazione che concepisce le cose del mondo gerarchicamente (della terra, delle risorse, degli altri esseri umani).
La sua analisi lucida fu portata avanti con molta intelligenza. L’intelligenza che intende ciò che tiene insieme mente e cuore e non una razionalità astratta e senza presa su ciò che è e accade. Simone Weil ha cercato di afferrare cosa veramente sostiene il mondo e ha trovato il bandolo della matassa. Più volte ci ricorda che la verità non è qualcosa a cui si arriva previo ragionamento, ma è ciò che letteralmente ci si “pianta” nell’anima. La verità, come il senso di giustizia, non è un processo intellettuale, ma è qualcosa che sentiamo e basta. La forza del suo pensiero si nutre di questo “sentire”.
La politica deve essere critica e creativa come lo è stata lei. Provocare dei punti di arresto in quegli ingranaggi che continuano a falsificare la realtà, come le copertine patinate di quei resort in luoghi paradisiaci che però fuori dai cancelli presentano tutt’altro aspetto. L’ingranaggio si rompe con la propria generosità e con la propria creatività, nei casi più fortunati con la propria genialità, così come è successo, ad esempio, con quel ragazzo, Boyan Slat, che ha ideato un sistema per ripulire gli oceani dalla plastica. Ecco, l’auspicio, è lavorare insieme criticamente e creativamente. È necessario liberarsi da tutti i “legami slegati” che non portano a nulla (come quelli che stanno rappresentando a Taormina?) e creare legami vitali che abbiano a cuore questa realtà così minacciata. Per farlo dobbiamo aprire spazi mentali nuovi che siano radicati nel tempo, un tempo fatto di presente, di memoria e di futuro. Un’altra filosofa a me cara, Maria Zambrano, diceva che, guardando alla storia, si vede bene l’accanimento con cui si è proceduto a distruggere il meglio dell’umano e di ciò che ci circonda. Questo “meglio” non può forse più tornare nella sua condizione originaria ma, anche se sepolto, distrutto, può essere l’orizzonte su cui è possibile ricostruire un nuovo modo di stare a questo mondo. Ciò non sarà possibile se prima non ci liberiamo dalle false promesse e dai falsi accordi perché l’apertura di spazi mentali significa la decolonizzazione delle nostre rappresentazioni e dei nostri privilegi.
Il mondo dei “grandi”, infatti, non è l’unico possibile e noi siamo qui a riflettere insieme proprio per ricordaglielo e rappresentarlo. Non viviamo soltanto una crisi, ma un pericolo che ci fa apparire davanti agli occhi la morte dentro una guerra assurda per noi, ma non per chi l’attraversa nei luoghi dove armi, gas, “effetti collaterali”, nutrono una realtà disperante. L’umanità che varca deserti e mari nella speranza, nell’illusione che la realtà occidentale ha trasmesso loro, è un implacabile nuova guerra mondiale di cui prendere coscienza. Creare una rete per tenere insieme le maglie di vite diverse e comunque umiliate e offese da questa realtà. Non è cosa da poco, certo, ma mi sembra il solo orizzonte di pensiero e di vita, di azione politica che possiamo nominare.
Grazie per la vostra attenzione.
(www.libreriadelledonne.it, 30 giugno 2017)
Hanno fondato Roma, secondo l’antica leggenda, Romolo e Remo (o Remolo, nella versione berlusconiana).
Per quanto riguarda la Libreria delle donne di Milano, secondo il Corriere della sera, le fondatrici sarebbero Adriana Cavarero e Luisa Muraro (vedi p. 17 del Corriere di lunedì 19 giugno 2017). Questa non è una leggenda, questa è una notizia fasulla tipica del regime della post-verità. Non a caso: la troviamo nel profilo biografico di Adriana Cavarero che, su quella stessa pagina, mostra di sapere in che cosa consista il regime della post-verità, in teoria come in pratica.
Nel tradizionale regime della verità storica, che per molti e molte vale ancora, la Libreria si è aperta nel 1975 ed è stata fondata da un gruppo di femministe riunite nella cooperativa Sibilla Aleramo, fra le quali spicca il nome di Lia Cigarini, avvocata milanese che si ispirò all’esempio della Librairie des femmes della Rue des Saints-Pères a Parigi. Accanto al suo, ricordiamo i nomi di Elena Medi e Giordana Masotto. Vi compare anche quello di Luisa Muraro, una fra le altre.
Questo sia detto per più motivi. Primo, che da un giornale come il Corriere, che a Milano è nato e si pubblica, ci aspettiamo una migliore conoscenza della Libreria delle donne di Milano. Secondo, per segnalare che la Rete è una fonte sovrabbondante di notizie, ma non una fonte attendibile. Infine, per combattere la tendenza a sommare tutto intorno a pochi nomi, sempre gli stessi. Questa tendenza, cui corrisponde la pigrizia dell’informazione, calpesta una preziosa e potente caratteristica del movimento delle donne, che è la sua capacità di valorizzare le donne, tutte e ciascuna nella propria singolarità, indipendentemente dai criteri della scena illuminata. Senza lo strappo storico della rivolta delle donne e senza il pensiero femminile che si è sprigionato con la rivolta, non ci sarebbero un’adriana cavarero o una luisa muraro.
(www.libreriadelledonne.it, 23 giugno 2017)
di Mira e Luisa
In occasione della visita del papa a Barbiana, è apparsa una breve biografia, scritta da Alessio Niccolai, di una donna che, assieme a sua madre, ha vissuto accanto a don Milani quasi tutta la sua vita. Il testo è scritto da un uomo di buona volontà che non sa o non vuole interrogarsi a fondo sul destino obbligato dell’altro sesso.
Sì, perché a Barbiana (FI) le donne c’erano. Ci sono state fin dal primo giorno in cui don Milani fu mandato dal vescovo di Firenze in quel borgo sperduto fra i monti per punizione. Quelle donne erano Giulia e Eda, madre e figlia. Io, Mira, le ho conosciute, senza averle frequentate. Giulia e Eda, prima di finire a Barbiana, sono state per sette anni a servizio in una parrocchia dell’hinterland fiorentino dove don Milani, fresco di seminario, arrivò in qualità di cappellano e subito si distinse per la sua pastorale innovativa. Quando fu mandato a Barbiana, Giulia e Eda, che a lui si erano affezionate, l’hanno seguito. Ci chiediamo: morto il vecchio parroco, mandato a Barbiana il giovane cappellano, è forse stata data loro un’altra possibilità per campare? Se non andavano a Barbiana con don Milani, che ormai conoscevano bene, che altro potevano fare per vivere? Andare a servizio dove e da chi? Il testo di Alessio Niccolai dice che loro hanno seguito don Milani per affetto e che poi sono diventate “la colonna femminile dell’esperienza di Barbiana”. Belle parole di un risarcimento tardivo, è l’ovvio commento, al quale un altro può aggiungersi: meglio tardi che mai. Oppure un altro ancora: va bene, che bello, ma a che prezzo?
Il vero problema non è questo. All’Isolotto, dopo che è apparso il libro di Mira Furlani, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, una critica risalta tra le altre, che il pensiero della differenza sessuale cui l’autrice fa riferimento, non c’entra nulla con la storia dell’Isolotto e la figura del suo leader. Vi spieghiamo invece perché e come c’entra.
Le due donne che hanno seguito don Milani e hanno dedicato la loro vita alla comunità di Barbiana spendendosi nei modi che avevano a disposizione, hanno seguito un modello di femminilità imposto e senza alternative, o lo hanno fatto liberamente? Ci sono imprese che non hanno prezzo, ci sono esseri umani la cui generosità trascende il codice dei diritti e dei doveri, e questo è magnifico, aiuta l’umanità a migliorarsi. Ma a una condizione: che le persone protagoniste lo facciano liberamente, cioè che il loro comportamento sia consapevole e accettato; meglio se hanno delle alternative, ma a volte non ci sono, la condizione però resta e dice: che ci sia l’accettazione consentita internamente. E di più: dice che questo, in quanto è veramente spesa di sé liberamente consentita, faccia luce, sia riconoscibile, sia visibile alle persone, così da essere un esempio. Prima o poi.
Ecco la questione: per l’umanità femminile nella cultura patriarcale, com’è ancora quella della Chiesa cattolica, il modello di autorealizzazione femminile, giusto o sbagliato che sia, condivisibile oppure no, consentito o avversato da lei, in ogni caso è sostenuto da uomini e manca la condizione simbolica che abbiamo detto. Per cui non si sa se le parole di Niccolai siano furba retorica maschile o verità storica di cui un uomo sincero rende testimonianza. Manca, detto in poche parole, che lei possa dire Dio a partire da sé, consapevolmente e apertamente.
Ai suoi tempi don Milani non ha potuto incontrare il pensiero della differenza sessuale e non ha potuto capire quanto la Chiesa, per uscire dagli stereotipi culturali patriarcali, avesse bisogno della libertà femminile. A Barbiana il papa ha detto che “don Milani è figlio della Chiesa”. Che cosa ha voluto dire con queste parole se non dare nuovo senso e lustro a un sacerdozio in declino? Ora il pericolo è quello che anche di don Milani si faccia “un bel santino”, com’è stato scritto nella cronaca fiorentina del quotidiano La Repubblica. Proprio quello che don Milani, come anche don Enzo Mazzi, non avrebbero voluto diventare e avevano due volte ragione, perché di santini nella chiesa maschile, gerarchica e patriarcale ce ne sono fin troppi, ma di preti veri e donne amanti del Vangelo, consapevoli di sé, ce ne saranno sempre meno. Caro papa Francesco, pensaci!
(www.libreriadelledonne.it, 23 giugno 2017)
Eda Pelagatti: breve biografia di una donna che sapeva voler bene
di Alessio Niccolai
Eda Pelagatti è stata la colonna femminile dell’esperienza di Barbiana, la parrocchia di montagna dove Don Lorenzo Milani ha condotto la sua celebre scuola.
Nata il 20 aprile 1912 in una famiglia operaia di Calenzano, nei pressi di Firenze, in tenera età rimane, figlia unica, orfana di padre; cresciuta, contribuisce al mantenimento suo e della mamma Giulia, facendo qualche ora presso la parrocchia di San Donato a Calenzano retta da Don Daniele Pugi; nel 1947 arriva in parrocchia Don Lorenzo Milani in qualità di cappellano e Eda ha modo di ammirare l’abnegazione e il rigore di questo giovane prete che si spende per l’elevazione culturale e sociale dei contadini e degli operai del circondario.
Nel 1954 il vecchio parroco muore e contrariamente alle consuetudini Don Lorenzo non viene promosso parroco di San Donato, ma mandato a Barbiana. La decisione venne vissuta con grande sofferenza da parte di tutto il popolo, ma in particolare da Eda e sua mamma Giulia che in quei sette anni avevano avuto modo di prendersi cura di lui; ora erano di fronte alla drammatica scelta se lasciarlo andare da solo in un luogo sperduto della Toscana o seguirlo per rendergli la vita meno difficile; fecero prevalere l’affetto e raccolte le poche masserizie di casa, il 7 dicembre 1954 si trasferirono a Barbiana con lui. Durante il trasloco, nel freddo e sotto una violenta pioggia che aveva bagnato tutto, Eda era un’anima in pena che ripeteva a Don Lorenzo: «ma ha visto dove ci hanno buttato?!?». Solo lei e sua mamma sanno quanto hanno sofferto, ma l’attaccamento a Don Lorenzo le ha sempre sostenute e rese capaci di adattarsi alla nuova vita di montagna. Racconta Eda: «Io e lui eravamo come fratello e sorella senza interessi né di soldi, né di altro. Quando fu mandato a Barbiana, mandò in macchina me e la mamma quassù perché decidessimo liberamente se volevamo seguirlo oppure no. Io ho vissuto con lui in famiglia, non al suo servizio. Quando arrivò a Barbiana, don Lorenzo non pianse, o almeno io non l’ho visto piangere, poi non so se quando salì in camera sua pianse. Cominciò con la scuola il giorno dopo e i suoi ragazzi oggi sanno fare ogni cosa. Non voleva che i ragazzi stessero in ozio: “il tempo è prezioso”, diceva il priore. Lui non perdeva mai tempo e la sua vita era un insegnamento continuo. Era un vero cristiano. Ricordo che un giorno trattò male una persona e io, che amavo il quieto vivere, gli dissi: “Ma Priore, ora non tornerà più”. E lui: “Ha paura che non ci porti più la roba, Eda? Ma se non ce la porta lui, ce la porterà qualcun altro”. Perché a lui interessavano le anime e non le cose».
Nelle lettere alla mamma, don Lorenzo ha sempre messo in risalto il ruolo di quest’infaticabile donna, che senza mai fare un giorno di riposo o di vacanza, era madre di tutti i ragazzi che frequentavano la scuola e, in particolare, di Michele e Francuccio Gesualdi, i due fratelli orfani accolti in casa nel 1956. Precisa Eda: «Io ho vissuto con don Lorenzo in famiglia, non al suo servizio». Sempre attenta a ciò che succedeva, era sempre profondamente coinvolta in tutte le vicende della scuola, nei rapporti con le famiglie di Barbiana, nei contrasti che don Lorenzo aveva con la borghesia fiorentina e con la Curia. Da persona mite e più propensa a infliggere una sofferenza a stessa che agli altri, soffriva molto quando si apriva un nuovo fronte di scontro per don Lorenzo. Ogni volta cercava di convincerlo a smussare le posizioni, ma in cuor suo sapeva che don Lorenzo aveva ragione e verso l’esterno lo difendeva a spada tratta.
Nel 1961 Eda perde la mamma, ma il periodo più duro fu quello dal 1963 al 1967 quando il tumore che affliggeva don Lorenzo si conclamò in tutta la sua gravità. Don Lorenzo, sempre più debole e afflitto dai dolori, passava gran parte del suo tempo fra letto e poltrona pur continuando a fare scuola e a portare avanti i suoi insegnamenti di vita. È del 1965 la sua Lettera ai cappellani militari e del 1966 la sua Lettera ai giudici, per giungere alla Lettera a una professoressa scritta con i suoi allievi e pubblicata nel 1967 un mese prima della sua morte. Eda gli è stato sempre accanto per assisterlo e cercare di risparmiargli fatiche.
Eda muore a Firenze il 18 maggio 2002 all’età di 90 anni. È sepolta nel cimitero di Barbiana dove riposa accanto alla mamma Giulia e a don Lorenzo.
(http://blog.francescogesualdi.eu/miscellanea/item/45-eda-pelegatti, 16 aprile 2017)
di Umberto Varischio
La recente campagna elettorale per le amministrative non ha certo acceso passioni durevoli; nel giro di pochi giorni i risultati sono stati digeriti e accantonati, almeno sino ai ballottaggi.
La notizia che più mi ha rattristato è stata la non conferma di Giusy Nicolini come sindaca di Lampedusa e Linosa. Il panorama politico italiano vede penalizzata una delle figure che più si era mossa, non solo con dichiarazioni ma con pratiche politiche e amministrative, per l’accoglienza.
Ma se si vanno a leggere i risultati elettorali, un dato balza all’occhio: la sconfitta non è dovuta a una sostanziale perdita di consenso. Anzi, vista anche la diminuzione del 2,7% dell’affluenza, il giudizio positivo nei suoi confronti è rimasto sostanzialmente invariato (955 voti presi contro i 1005 del 2012). La causa sembra essere la redistribuzione degli altri voti che l’hanno condannata alla terza posizione nello scrutinio.
Non sono in grado d’individuare una ragione preminente per questa sconfitta: Nicolini la imputa a problemi interni al suo partito. Leggendo i numeri dell’elezione è molto probabile che abbia ragione. Lei si è ben guardata dal polemizzare e si e’ ritirata accettando la sconfitta immeritata.
Non voglio però perdere la speranza che le molte donne e uomini di Lampedusa, che le hanno confermato la fiducia e condividono le sue idee, la accompagnino verso una responsabilità nazionale in cui siano riconosciute e messe a frutto le sue innegabili competenze e capacità.
(www.libreriadelledonne.it, 15 giugno 2017)
di Luisa Muraro
Sono d’accordo con il messaggio Ai Pride firmato da Francesca Izzo, Aurelio Mancuso e altre/i, tranne che in un punto, dove si dice: “non è stato finora possibile un reale dibattito culturale”. Secondo me, il dibattito sulla procreazione umana è in corso ed è reale, possiamo migliorarlo, certamente, così come intende fare il messaggio stesso, al quale, ripeto, io aderisco.
Nel dibattito che è in corso, il gesto di Cristina Gramolini dell’ArciLesbica, che ha rifiutato la sua adesione al Roma Pride ha un suo preciso valore. La sua è una presa di posizione dotata di autorità. Quando si parla di maternità, c’entra il corpo femminile e la parola delle donne ha una precedenza che gli uomini non possono non riconoscere.
I gay, che sono gli inventori del Pride, hanno lottato e ancora lottano per essere visibili, rispettati e non discriminati. A questo scopo, che trovo sacrosanto, hanno reclamato dei diritti. Il diritto di sposarsi tra uomini sarebbe indispensabile allo scopo? Ho dei dubbi, mi pare una forzatura controproducente. Ma che cosa dire sulla pretesa che hanno queste coppie di diventare feconde usando tecniche mediche che avevano altri scopi, e corpi femminili più o meno consenzienti? Questo non è un diritto. Qui siamo in presenza di una volontà maschile che minaccia diritti di donne e bambini. Questa volontà mi pare una versione postmoderna di quella volontà maschile che ha ispirato tante teorie sbagliate e tante leggi ingiuste.
La pratica di ingaggiare un corpo di donna per surrogare la gestazione, è stata criticata da uomini e donne, fra le donne anche e soprattutto da femministe, fra le femministe anche da lesbiche. Una parte del movimento gay, favorevole invece a questa possibilità e abituato ad essere sostenuto dalle femministe, specialmente se lesbiche, non l’ha presa bene. E ci attacca (tra chi si oppone a quella pratica ci sono anch’io). Alcuni sono arrivati a inserire il loro risentimento nei manifesti per la festa che riunisce le minoranze sessuali, il Pride, mescolando le giuste ragioni di questa festa con l’insofferenza per le critiche fatte da donne partecipi delle loro lotte, come Cristina Gramolini. Il messaggio Ai Pride ci invita a evitare la propaganda e a promuovere un vero confronto. Bene. Io aggiungo l’invito a familiarizzarci con l’idea dell’autorità femminile. Per cominciare.
Chi sono io per giudicare i gay? Sono una donna e come tale appartengo all’umanità chiamata a mettere al mondo donne e uomini, gay e papi compresi.
(www.libreriadelledonne.it, 9 giugno 2017)
Cristina Gramolini sulla decisione di Arci Lesbica di non partecipare al Pride
Alla richiesta di adesione ricevuta dal Roma Pride pubblichiamo la nostra risposta
Buongiorno,
il vostro documento parla di “una indegna alleanza tra le forze reazionarie e alcuni esponenti del mondo politico-culturale che rivendicano per sé anni di impegno sul fronte dell’emancipazione delle donne. È quanto accaduto, in particolare, con le polemiche riguardanti la gestazione per altri, alimentate da persone che se in passato hanno combattuto in difesa della libertà di autodeterminazione delle donne, al contrario oggi pretendono di limitarla, finendo con il tendere pericolosamente la mano a quello stesso patriarcato per anni avversato”.
Indegna e’ l’indifferenza per la messa al lavoro del corpo riproduttivo femminile su scala globale e neocoloniale, la celebrazione della nascita su commissione, il silenzio sulla lesbofobia che dilaga se una lesbica si esprime in contrasto con le aspettative della comunita’. Lesbofobia non sono solo le botte date a una lesbica perché ha una compagna, lesbofobia e’ anche il disprezzo e la degradazione riservatele come risposta alla sua indisponibilita’.
A nome di ArciLesbica Zami Milano non aderisco al Roma Pride e auspico una riflessione sulla deformazione neoliberale e cioe’ mercantile dell’idea di liberta’, se non si vuole che il movimento lgbt diventi pienamente organico al modello di societa’ sessista e classista in cui viviamo.
Cristina Gramolini
Presidente ArciLesbica Milano
30 maggio 2017
di Milena Garavaglia
La Germania è antesignana nel progettare coabitazioni in Cohousing che soddisfano i bisogni abitativi delle differenti fasce di popolazione. Gli insediamenti in Cohousing oltre ad avere prezzi contenuti e destinati a cittadini con reddito medio, prevedono che i residenti (cohousers) partecipino attivamente nella progettazione e nella scelta del proprio vicinato. Le abitazioni private, che rimangono un inviolabile spazio di privacy sono completate da aree comuni che incoraggiano l’interazione sociale e abbracciano più destinatari: anziani, coppie, giovani, singles, famiglie monoparentali a cui è data particolare attenzione a madri sole con figli. Al Forum tedesco per le abitazioni comunitarie – Forum Gemeinschaftliches Wohnen e.V. Bundesvereinigung (http://www.fgw-ev.de) concorrono innumerevoli proposte abitative e per le donne vi è un macro progetto che offre case accoglienti e la possibilità di coltivare buoni rapporti tra vicini. All’interno di questo progetto vi è un secondo disegno abitativo più specifico nel dare un significato profondo alla vita condivisa. Nel sottoprogetto, oltre alla solidarietà verso il prossimo, predomina l’interesse per la stabilità personale, la libera volontà e soprattutto il desiderio di comunità su scelta elettiva declinato nella quotidianità dal fervore spirituale. Dal movimento femminista in poi, molte donne trovano interessante l’idea delle abitazioni comunitarie;1 il loro principio base è sostenere che “Una donna può cercare altre donne con ideologie affini”. Negli ultimi decenni donne più attente alle loro esigenze, quali l’indipendenza, la libertà, hanno avviato ricerche storiche sulle beghine medioevali percorrendo le tracce rimaste nei centri urbani o analizzando i manoscritti pervenuti sino a noi. La scoperta di un tesoro nascosto che esiste, agli inizi della civiltà europea, costituito da secoli di ricerca mistica e da una serie di splendidi testi,2 testimonia verso la fine del secolo XII la presenza di numerose donne dedite alla ricerca di Dio senza essere religiose in senso stretto, che aderivano alla vita comunitaria e lavorativa a stretto contatto con la società. Nel Brabante erano chiamate Beghine, in Lombardia Umiliate e nel resto dell’Italia Bizzocche. Gli studi recenti documentano maestria di queste donne anche nell’organizzazione degli interventi sociosanitari, nelle attività produttive, in alcune iconografie artistiche e testimonianze in architettura, oggi riconosciuti patrimonio dell’umanità, ad esempio: il beghinaggio di Bruges.
Il movimento beghinale è laico, è ricco di varie storie di vita e offre alle donne uno statuto di autonomia.3 Ogni beghina deve avere una propria abitazione ed essere in grado di mantenersi economicamente. Non era assente in loro la critica, che muovevano alle istituzioni religiose e ai loro rappresentanti. Le beghine si sentivano forti della loro integrità di vita, della loro preparazione culturale e della loro pratica mistica. Questa particolarità, la diversità dei modi di vita e del pensiero femminile, creava sospetto e inquietudine sia nella società civile sia in quella religiosa. Per questi motivi saranno guardate e additate come eretiche.
C’è una storiografia che ha cancellato e impedito la possibilità di narrare un sapere e un fare tipicamente femminile, ma la ricomposizione genealogica sta riportando alla luce l’originalità della vita beghinale, in cui le donne tedesche hanno potuto rispecchiarsi e adattarla all’oggi per rispondere a necessità di aiuto, sostegno e esigenze di alloggi. Ciò ha stimolato sperimentazioni di nuove coabitazioni al femminile con la denominazione Beginenhof-beghinaggio.
Nella regione nord ovest della Germania, la Bassa Renania, ho potuto visitare la zona, con un gruppo di ventitre donne tedesche, di cui tre italiane, alla ricerca dei resti dei beghinaggi medioevali e la conoscenza di quelli moderni. Le abitanti dei beghinaggi di Bochum, Colonia e Bocholt ci hanno accolte e guidate per la loro comunità e descritto come si gestiscono nello stare insieme. La vita delle beghine moderne avviene come per qualsiasi altra donna che ambisce alla propria
indipendenza e autonomia. La loro spiritualità è vissuta attraverso la “mistica del mondo”1 nel rispetto delle religioni, nella responsabilità verso il creato e chi ne fa parte. Ogni beghina moderna deve assolvere a due doveri relazionali, fondamenta nella pratica spirituale. Il primo valore è rivolto alle compagne della comunità beghinale e il secondo è collante nelle interrelazioni con la società civile. Per l’impegno tra le pari, le beghine vogliono sviluppare la cultura femminista, sperimentarla e diffonderla. Concretamente, applicano la relazione della “Pratica dell’Affidamento”2 tra donne. L’Affidamento è una pratica a livello simbolico sociale esercitata all’interno di una relazione di reciproca fiducia fra due donne adulte. Riferendosi una all’altra, ognuna di loro conferisce all’altra l’autorità di poter spaziare nelle sue particolari sfere di pratica politica, riconoscendole i suoi desideri, le sue competenze e le sue differenze. Questa pratica di riconoscimento implica un impegno di una verso l’altra3. Invece, il senso civico è inteso nelle azioni a favore della collettività, nella relazione d’aiuto al prossimo e la partecipazione a progetti sociali. L’intento è essere presenti “come forza riparatrice”4 al Welfare e credere che “fare del bene fa bene”5.
Sta accadendo che siano le beghine stesse a decidere, di comune accordo, quale orientamento spirituale intraprendere, e il culto professato è molto variegato e non manca l’apertura a pratiche spirituali e introspettive giunte dall’oriente rivolte al corpo e alla mente.
Un beghinaggio prima di tutto e soprattutto è uno spazio vitale e protettivo per donne. Gli uomini sono sinceramente i benvenuti. Non possono però stipulare alcun contratto di affitto o acquisto nel beghinaggio. In Germania nel 1985 è fondato il neomovimento delle beghine tedesche, attualmente i beghinaggi moderni ospitano circa 500 donne, oltre ai bambini che vivono con loro. Le più grandi città tedesche possiedono un beghinaggio e in alcuni casi, è l’Ente regionale che finanzia la pianificazione dei progetti.
(Tratto dall’ebook Cohousing al femminile. Abitare nei beghinaggi moderni, di Milena Garavaglia, maggio 2017)
1 A cura di Marina Santini, Luciana Tavernini, Mia Madre femminista, Edizioni Il Poligrafo, 2015.
2 Luisa Muraro, Le amiche di Dio. Margherita e le altre, Orthotes Editrice, Napoli 2001, p. 103.
3 Silvana Panciera, Alla scoperta del movimento beghinale, Ischia – Rete delle donne CELI, 25-27 ottobre 2013, p. 1.
4 “Cosa è una Beghina” da Arbeitspapier: “Was ist eine Begine?” Materiale distribuito da Brita Lieb durante il Pellegrinaggio Beginenreise 2014.
5 Il termine “Pratica di Affidamento” è esercitato e teorizzato dal gruppo della Libreria delle Donne di Milano negli anni ottanta. Libreria delle Donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Ed. Rosenberg & Sellier TO, 1987. In Germania la parola “Affidamento” non è stata tradotta in tedesco, ma utilizzata regolarmente nella lingua italiana.
6 Alex Martinis Roe, Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Una storia dal Circolo della Rosa. Racconto illustrato di una Pratica di Affidamento, Libreria delle Donne – Circolo della Rosa Milano, Supplemento al n. 111/2014 di Via Dogana, trimestrale, p. 5.
7 Case per Beghine, Beghinaggi. p.2 (Beginenhauser, Beginenhöfe, Zeichen der Zeit 2013, Was unterscheidet ein Beginenhof von einem generationsubergeifenden Wohnprojeckt? Brita Lieb).
(www.libreriadelledonne.it, 7 giugno 2017)
Un abbandono in tenera età, il primo incontro con il celebre padre nell’adolescenza, romanzo familiare che narra il disagio esistenziale di una figlia naturale. Non potremmo pensare che Giancarla Dapporto scrive per svelare un segreto e per dare statuto alla verità? A partire dal libro Massimo Carlo ed io. Metamorfosi affettive (Araba Fenice 2016) Laura Lepetit e Antonella Nappi ne parlano con l’autrice.
Presentazione di Antonella Nappi
È un romanzo appassionante quello di Giancarla, ci mostra fatti e contesti, lascia a noi immaginare i sentimenti e le riflessioni dei personaggi. Nel sottotitolo, Metamorfosi affettive, suggerisce le difficoltà della sua crescita, ma non ce le dice e questo raccontare per immagini è molto coinvolgente.
Attraverso momenti della sua biografia infantile e giovanile, di quella della madre e del padre ci porta nell’Italia della guerra e del dopoguerra, così differenti dall’oggi, e nel fascino del ricordo e della scoperta delle nostre madri, per noi anziane, e della nostra infanzia.
Gli incontri in libreria stimolano a leggere bei libri e sollevano un confronto e una discussione, il mio apporto è ricordare il contesto di quegli anni e un percorso che le femministe dovettero fare e che è necessario continuare.
Le donne nate prima della guerra e subito dopo, pur nelle grandi diversità, sono state oppresse o addirittura trasfigurate da un abisso di denigrazione che anche noi anziane ci stiamo dimenticando. Solo gli uomini avevano valore, la donna a loro doveva rendersi utile e bisognava farlo per avere un marito senza il quale non si era socialmente riconosciute.
Non sembra credibile, oggi, provare l’adesione al proprio misconoscimento che io e le mie amiche provavamo. Qualcuna dice di non aver subito svalorizzazioni nel suo contesto familiare ma io ricordo che tutte le donne che frequentavo da bambina e da adolescente erano convinte di essere di molto inferiori agli uomini, quello era allora il senso della diversità dagli uomini, e chi voleva valorizzarsi li doveva imitare (di qui la pretesa d’essere pari).
Anche da femminista, negli anni ’70 e ’80, pur sentendo la forza che mi veniva dal movimento sentivo anche la debolezza delle donne, la mia forza e la mia debolezza assieme, e mi sentivo molto sola nel mondo degli uomini.
Ho imparato con il primo femminismo a credere in quello che io vedevo e pensavo, a sapere che vedevo di più di quello che vedevano gli uomini nei molti ambiti in cui mi applicavo con loro; mi sono sentita più giusta di loro in molti pensieri contesti culturali e sociali. Lavorando all’università, ad esempio, la critica che veniva dall’esperienza delle donne e dal movimento femminista la valutai importantissima e rivoluzionaria, la applicai, ma in realtà mi sentivo ancora sola.
Non avrei mai immaginato, fino ad anni recenti, che tutte le donne valessero più degli uomini, solo con il tempo è diventato ai miei occhi del tutto vero.
Ora tutte le donne sanno che i loro pensieri sono diversi da quelli degli uomini e cominciano ad esprimerli, tutte iniziano a chiedersi se non sia il caso di dare proprio a questi il valore e la prevalenza che possono avere nella vita pubblica e rigettare quelli ereditati dalle esperienze dei soli maschi.
Oggi risulta meno credibile anche per noi il passato che abbiamo dovuto rigettare e rivoltare, io allora non avrei mai immaginato che le donne fossero capaci e appassionate ad ogni lavoro, anch’io le credevo capaci di fare solo le madri e pensavo che la maternità impedisse ogni altro interesse, il contrario di ciò che mi hanno mostrato: la potenza femminile di avere cura di se e degli altri è la stessa che ci porta ad osservare e agire in ogni campo.
Un altro aspetto del passato era il timore che mi infondeva un rapporto con gli uomini che non fosse ossequioso, pensavo fosse impossibile per loro non essere messi su un piedestallo. Avevo paura di scatenare la loro violenza se mi fossi messa alla pari, il separatismo mi permetteva di sfidarli tenendomi in una posizione protetta.
Invece, la più recente scoperta è che anche loro ce la possono fare, alcuni o molti sanno accettare di mettere in discussione la loro supremazia o addirittura questa li spaventa e se ne sottraggono.
Ora c’è da togliere il piedistallo aprioristico che mettiamo sotto la cultura pubblica maschile e sotto le attività che gli uomini compiono in ogni campo, non più soltanto riguardo al rapporto uomo/donna, ma proprio rispetto al procedere nella vita politica ed economica, questa è una sfida attualissima: ambiente, scienza, economia sono un’altra cosa se le donne estendono la loro ottica e la loro azione.
Ma ancora, l’incontro tra i due padri di Giancarla, quando lei è piccola, mostra qualche cosa di quella che è stata l’esperienza affettiva degli uomini e il loro simile senso di responsabilità verso le donne. L’investimento prioritario nel lavoro artistico allontana il padre dalla figlia, ma lui paga la sofferenza di perderla per molti anni, quando il marito della donna che lui non ha sposato lo pretende; questi, avendo scelto di averle vicine, vuole essere marito e padre senza interferenze. Invece la madre di Giancarla e lei stessa recuperano anni dopo l’interesse che il padre naturale può dar loro, sia come rapporto, sia come consapevolezza del rapporto che c’è stato. Tutti mostrano dunque quanto il riconoscimento delle esperienze affettive sia necessario alla propria realizzazione: siamo figlie e figli dei nostri genitori, la relazione tra loro che ci fa nascere e le loro aspettative nei nostri confronti, quelle tra di loro fanno parte della procreazione, contano per tutti e di più per i figli, ci pesano addosso tutta la vita e fanno grossa parte delle nostre forze e debolezze. La genitorialità è fatto profondo: sentimenti, carnalità, comunicazioni interpersonali, differenze di personalità, sono sembrate per decenni discorsi futili di donne, anche oggi sembrano preoccupazioni minori ma sappiamo che sono scienza umana, possiamo privilegiarla rispetto a quella tecnica.
Invece le scienze umane continuano ad essere meno importanti di quelle tecniche e l’adeguamento delle donne alla società maschile è continuamente in atto proprio attraverso le prassi che la tecnica ci fa condurre, per ogni umanizzazione che conquistiamo c’è in agguato una deresponsabilizzazione, una spersonalizzazione.
Oggi è più difficile che in passato scorgere i conflitti perché il contesto in cui si cresce è più simile, i consumi avvicinano le persone e sembrano risolverle.
Le nonne e madri di chi è più giovane, noi, si sono formate in un mondo più ricco di natura, questa si contrapponeva ad ambienti urbani caratterizzati a loro volta da differenti storie sociali; la relazione tra soggetti umani differenti erano intense e le opportunità di iniziativa personale maggiori; ora l’esperienza demandata alla tecnica sembra soddisfare impoverendo le capacità di autonomia e la critica, a mio avviso; adegua ad un mondo più maschile che femminile. È dunque importante la volontà di studiare, capire, leggere le critiche al potere ancora, per scoprire e scegliere di nuovo quello che davvero ci sta a cuore.
(www.libreriadelledonne.it, 6 giugno 2017)
di Marirì Martinengo
Care amiche,
vorrei che sul sito apparisse un ricordo di Shara Ponti – mia amica da lunga data e molto vicina alla politica della differenza – morta una decina di giorni fa.
Negli anni settanta Shara ha fatto parte del gruppo di autocoscienza che si riuniva prima al Club Turati e poi negli anni successivi nelle case private; negli anni ottanta aveva partecipato alle discussioni preparatorie del Catalogo giallo, Le madri di tutte noi, con la ricerca, condotta insieme a Mariolina De Angelis e a me, sulle sorelle Brontë, studio sofferto e durato a lungo tanto che, per celia, eravamo state soprannominate “le sorelle Brontë”; negli anni novanta aveva fatto parte del gruppo insegnanti denominato Magistra, impegnato nel progetto sulla pedagogia della differenza; era presente in alcuni incontri di fine settimana a Monforte d’Alba; appena pensionata, aveva chiesto di fare dei turni di vendita in Libreria, richiesta non accolta, perché al momento non ce ne era bisogno; poiché conosceva bene l’inglese era stata coinvolta nella preparazione dell’incontro in Libreria con la regista Alex Martinis Roe, nel 2015; non mancava le discussioni politiche della Libreria.
(www.libreriadelledonne.it, 2 giugno 2017)
Un intervento per l’incontro di Torreglia 2017
di Umberto Varischio
Nel “laboratorio politico” rappresentato dall’annuale incontro di Torreglia anche quest’anno, come in tutte le scorse edizioni, la politica è al primo posto. Si tratta di una scelta, meditata da chi l’incontro organizza o collabora a organizzarlo, che è strettamente legata alle loro pratiche e alle loro riflessioni.
Parlando di politica mi è venuto il desiderio di riprendere alcuni testi del passato, più o meno recente. In particolare mi riferisco a quello presentato, purtroppo per procura, a un seminario di Diotima del 2006: si tratta di Impersonale della politica di Angela Putino.
Come già avvertiva S. Weil, quando si parla d’impersonale non ci si riferisce a un essere disincarnato. L’impersonale può essere rappresentato da “lui”, da un “egli”, da quell’uomo (o donna) specifico, che ha quel viso, quella testa, quel corpo e non certo da un “noi” che, al pari dell’”io”, va rifiutato. Nelle parole di Weil: “Chi è penetrato nell’ambito dell’impersonale vi trova una responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro non già la persona, bensì ogni fragile possibilità nell’impersonale che la persona ricopre”.
Weil non concepisce l’impersonale come un’anti-persona e inoltre compie una rotazione di punto di partenza della politica: da un riferimento ai diritti della persona a quello di giustizia e di obblighi nei confronti di tutti gli esseri umani.
Anche in questo caso non ci si riferisce alla giustizia con la G maiuscola, quella che troneggia nei tribunali e nelle istituzioni come dea bendata che non guarda in faccia a nessuno e bilancia i meriti e i torti, ma di quella molto più umana che permette ad Antigone di ribellarsi a dettami della legge della città e permettere la sepoltura di suo fratello; anche se si tratta di un nemico della città stessa.
Qui si scompagina una logica guerresca che stabilisce lo schierarsi su due fronti contrapposti: come nella guerra di Troia (altro luogo frequentato sia da Weil sia da Putino) in cui chi non è amico è per forza nemico. Tertium non datur.
E invece non c’è solo o qui o lì senz’altra soluzione: si tratta di comprendere come si muove Pentesilea nel dramma di Kleist, dove Putino individua una scommessa, uno spazio per la differenza, che è presto soffocata dall’autore, forse spaventato dal seguire un percorso diverso che trasforma “una strada insolita in una macchina suicida e dilaniante”.
“Pentesilea, forse.” (è sempre Putino che s’interroga) regina delle Amazzoni, che scompagina le fila dei Troiani ma anche degli Achei, non accetta e ribalta le scelte precostituite, i procedimenti calcolati, le dicotomie. Una scommessa soffocata, ma che per chi l’ascolta ha un ritmo “che sovrasta qualsiasi epilogo e non credo che vi possa essere una lettrice che non provi un fremito gioioso al primo veloce comparire di una Pentesilea che aggira le postazioni degli eserciti schierati”.
Lei, Pentesilea, è la regina di una razza di donne guerriere ma senza Stato.
Le Amazzoni per Putino, inscindibilmente donne e guerriere, mostrano in questo il loro provenire da altrove, da un luogo al di fuori degli Stati e della logica di guerra tra Stati: sono al di fuori dello schema che, come i pezzi su una scacchiera, le assegna già un ruolo, una regola di movimento e un valore, un’identità sessuale ben definita: “Pentesilea usa altra misura”.
Prima suggestione e domanda per me come uomo: se dovessi seguire Pentesilea, come potrebbe fare Achille che l’ama, non metterei in discussione il mondo simbolico che la vuole da una parte, opposta ad Achille (che comunque si schiera da un’altra)? Ricostruirei una polarità (o di qui o di là) che è quello che Pentesilea e le Amazzoni (e Putino con loro) non vogliono.
Putino gira anche intorno al concetto giustizia, lo manipola come argilla a e lo ritrasforma, senza fargli perdere la sua materialità, la sua fonte d’origine: parla di una legge non scritta che scaturisce dalla politica.
E racconta, spiazzando i miei schemi mentali, di un modo di azione che rimanda a un passato che parla di combattimento e di guerre, ma non di eserciti rigidamente organizzati: come le Amazzoni, un esercito senza Stato. Parla di un essere militante e femminista che rimanda all’evento iniziale di questa politica, all’impersonale.
Una politica che genera un’idea di giustizia che fa scaturire la libertà femminile, un evento e un accadere in cui si riconosce chiaramente una giustizia limpida e chiara: “che ogni donna pensa, è capace di pensiero”. E quello che pensa una donna, il pensiero, non è interesse di parte bensì un pensiero per tutti.
Qui non siamo, infatti, nell’ambito delle cose personali, nel dominio dei diritti che presto scadono in una rivendicazione di privilegi. Se non è politica per i diritti e a partire dai diritti che cosa mai potrà essere? Weil a questi interrogativi una risposta la fornisce; ma è una risposta che non posso riportare direttamente su di me. È troppo dipendente da un trascendente che non mi risponde, troppo dipendente da un dualismo tra bene e necessità che richiederebbe una ricerca religiosa che non è parte della mia singolarità.
Forse bisognerebbe continuare a scavare nella sostituzione che lei compie dei diritti con gli obblighi per scoprire se ci potrà essere una strada alternativa che, invece che dal trascendente, parta dall’immanente, dal qui e dall’ora.
L’indicazione finale di Putino è un rimandare alla ricerca teorica, un lascito che per quelle che lei aveva scelto come interlocutrici o che vengono dopo di lei è sicuramente entusiasmante e intrigante: ma per me, che un teorico non sono e che sono un uomo? Certo lei mi lascia un’altra indicazione: “Le teorie hanno sempre a che fare con i modi stessi con cui scegliamo di vivere e con le soluzioni che mettiamo alla prova, e non restano perciò nel parlamentarismo delle opinioni”.
Due indicazioni ne posso comunque trarre, anche se forse non sono risposte agli interrogativi che le amiche e gli amici riuniti quest’anno a Torreglia hanno posto e pongono: ripartire dalla mia singolarità incarnata e sessuata, ripartire dalla “condizione necessaria” che mi fa essere uomo e non mi permette di sostenere di non esserlo verso “una libertà che è assunzione di questa necessita”. E l’esplorare, a partire dal mio sesso, l’azione impersonale, un’azione (che prevede anche una restrizione del mio io ma non della mia singolarità) che consente un rinnovamento, che mi permette di stare dalla parte della vita senza essere fuori di essa; che è come la freccia scoccata da un arco senza che l’arciere vi applichi la sua volontà.
Testi utilizzati:
S. WEIL, La persona e il sacro, Milano, Adelphi, 2012.
A. PUTINO, Donna guerriera, in DWF, Roma, n.7, 1988 pp. 9-14.
A. PUTINO, L. MANGIACAPRE, Androgina/Amazzone, in “Manifesta. Il diverso della scrittura”, Napoli, Le Tre ghinee – Nemesiache n.1, 1988, pp. 1-3.
A. PUTINO, La funzione guerriera nella sua originaria forma femminile, in AA.VV. Filosofia Donne Filosofe – Atti del Convegno internazionale di Lecce 27-30 aprile 1992, Lecce, Edizioni Milella, 1994, pp. 181-190.
C. CAPOBIANCO, Intervista a A. Putino, in Interpreti e protagoniste del movimento femminista napoletano 1970-1990, Napoli, Le Tre ghinee – Nemesiache, 1994.pp. 113-126.
A. PUTINO, L’impersonale nella politica, in Esercizi di composizione per Angela Putino. Filosofia, differenza sessuale e politica a cura di, a cura di S. TARANTINO e G. BORRELLO, Napoli, Liguori, 2010, pp. 108-111.
(www.libreriadelledonne.it, 01 giugno 2017)