di Silvia Baratella
Ieri, 8 maggio 2024, è morta a ottantasette anni Giovanna Marini. Compositrice, cantante, etnomusicologa e ricercatrice sul campo, autrice di ballate, ha “salvato” e fatto conoscere un enorme patrimonio di brani di musica di tradizione orale del nostro paese. Per me è stata importantissima. Dai dodici-tredici anni ho cominciato a conoscere le sue opere, presenti in casa nella collezione de “I dischi del sole” di mio padre. Era una delle poche donne in quell’ambito che non si limitasse a raccogliere e interpretare le canzoni popolari ma producesse anche testi, e dunque parola propria: le sue famose ballate. Ancora oggi in parte vedo la società statunitense con gli occhi del suo Vi parlo dell’America, un 33 giri di due facciate sul suo soggiorno a Boston nel 1965/66. Per me era importante dare credito a un pensiero e una voce di donna come la sua, anche se lei non sottolineava il suo sesso né si dichiarava femminista.
Non era femminista, ma ha tracciato un filo di genealogia femminile riconoscendo il suo debito con Giovanna Daffini, ex-mondina che le insegnò il modo di usare la voce nel canto tradizionale e le trasmise il suo patrimonio di canzoni.
Non era femminista, ma ha saputo affondare il suo sguardo lucido, intelligente e spietato nel groviglio complesso del materno e delle relazioni tra madre e figlia, e qui voglio ricordarla proprio con la sua opera La creatora (ovvero in nome della madre) del 1972. È una ballata che mette in scena una creazione traposta al femminile e gli effetti deleteri del rifiuto della figlia di riconoscere il debito con la madre, della sua incapacità di agire il conflitto, della sua sterile negazione. Da ragazzina l’avevo interpretato come un atto d’accusa alla tirannia delle madri, aiutata in questa lettura di comodo dal fatto che Giovanna Marini non faceva sconti a nessuna delle sue due protagoniste, finché non lessi un’intervista in cui lei stessa spiegava, spiazzandomi, di essere «ovviamente» dalla parte della madre… Chissà che la mia attuale idea di femminismo non la debba anche un po’ a questa sua lezione imprevista.
(http://puntodivista.libreriadelledonne.it, 9 maggio 2024)
di Francesca Traìna
Credo che oggi si debba andare oltre il pensiero schiacciato dalle ideologie e affrontare i problemi legati alla violenza dalla parte di chi la riceve, ma anche di chi la pratica. Questo significa calare il problema nel contesto socio-culturale costruito fin qui e nel vissuto psichico e intrapsichico dei soggetti agenti cercando collegamenti e connessioni tra ciò che la società rimanda come violento e ciò che ciascuno/a è rispetto al proprio agito di soggetto sessuato.
Avverto profondamente, soprattutto in questi ultimi tempi, la consapevolezza di un misfatto che si vorrebbe perpetrare: il tentativo di cancellazione del femminile in quanto non più corrispondente all’ordine patriarcale, il tentativo di limitare o condizionare la libertà femminile esercitando il controllo sul corpo e travalicando il principio della sua inviolabilità. Libertà che grazie al femminismo passa attraverso la possibilità di relazionarsi fra donne in modo diretto e non più secondo il modello riproduttivo che conduceva verso strade di omologazione legittimate dallo sguardo maschile e dalla sua intermediazione.
La relazione fra donne, non ritenuta politica, non è quasi mai stata trascritta nella storia, nel mito – e dunque nel simbolico – determinandone così la miseria, la declassificazione a “fatti di donne” o per dirla col nostro gergo siciliano, “cosi di fímmini”, fatti privati destituiti di valore politico.
E ancora oggi la realtà è soggetta a una invasione capillare e inesorabile di forme di violenza che ci colgono spesso impreparate/i, stupite/i e travolte/i da un senso di impotenza.
La proliferazione di atti violenti è stata così veloce da non darci il tempo di capirne e ricercarne le cause profonde condizionate/i come siamo ad analizzarne le conseguenze.
E siamo mancanti anche di un alfabeto per nominare e rendere riconoscibile la violenza, infinite essendo le sue espressioni.
La violenza sul corpo delle donne, come quella sul corpo dei/delle bambini/e, è la più brutale, ma è opportuno che gli uomini si interroghino su questo e sull’istinto non controllato dal cervello che insieme alla cultura li conduce all’efferatezza. Non c’è giustificazione che le donne possano trovare per gli stupratori acquattati nel buio dei garage in attesa della “preda”, né per coloro che ammazzano le donne perché non ne possiedono il corpo, né per quanti ricattano e schiavizzano per costringere alla prostituzione.
C’è un campo illimitato di violenze psicologiche e fisiche che riducono all’obbedienza, alla sottomissione e che replicano metodi usati dai nazisti nei campi di concentramento per annullare la soggettività umana privandola di identità e dignità, fino alla sua regressione allo stato animale.
C’è poi la violenza del linguaggio, il turpiloquio, l’offesa, l’insulto, l’umiliazione, la paura.
E poi vi sono le tracce visive e sconvolgenti della natura violentata, le immagini sporche dei nuovi media, l’arroganza del mezzo audiovisivo, l’invasività di una tecnologia che vorrebbe ridefinire e manipolare la percezione; le mutazioni dei paesaggi urbani, degli spazi domestici, la difficoltà di capire il mondo.
È un confronto serrato tra il pensiero e l’immaginario dominante, tra la realtà e la sua rappresentazione. Ed è in questa realtà che le donne praticano una possibile resistenza intesa come tensione capace di emettere segnali nuovi verso l’urgenza di un’alternativa, una diversa organizzazione del reale e del simbolico, un cambiamento che partendo da sé cambi il mondo.
La costruzione di un ordine simbolico rispetto all’appiattimento e all’omologazione culturale, ai condizionamenti e all’etica, non solo cattolica, che impone la “famiglia” come unica possibile forma sociale, conferisce valore alla ricchezza potenziale della realtà per svilupparne una singolarità che si ponga in maniera dialettica con un diverso pubblico.
Non si tratta di un approccio meramente contestatario e rivoluzionario, ma sovversivo proprio per il suo essere propositivo che pone la strada di una forte trasformazione e di un nuovo posizionamento femminile fuori dal vittimismo.
(www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2024)
Quando le donne si sono impegnate nelle battaglie le vittorie sono state vittorie per tutta la società. La politica che vede le donne in prima linea è politica d’inclusione, di rispetto delle diversità, di pace. (Tina Anselmi)
Buona festa!
La redazione del sito
Da sinistra a destra:
– Ebe Bavestrelli, Antonietta Romano Bramo (Fiamma), Claudia Ruggerini (Marisa), Lia Bellora (soprabito bianco), Tina Anselmi (Gabriella)
– Maddalena Cerasuolo (Maria Esposito), Marisa Ombra (Lilia), Lia Galeotti Bianchi (Lia), Rina Ferrè, Gruppo donne
– Audrey Hepburn, Leda Antinori, Faccia della pace (Picasso), Carla Capponi (Elena), Enrichetta Alfieri
– Gina Borellini (Kira), Onorina Brambilla Pesce (Nori), Maria Antonietta Moro (Anna), Norma Pratelli Parenti, Irma Bandiera (Mimma), Gruppi di difesa della donna.
(www.libreriadelledonne.it, 24 aprile 2024)
di Umberto Varischio
Discutere del silenzio potrebbe rappresentare una contraddizione in termini, ma una contraddizione può produrre pensiero, parola e azione.
Di silenzio (ma non solo), si è discusso sabato 13 aprile 2024 alla Libreria delle donne di Milano durante la presentazione de Il silenzio del noi (Mimesis 2023, pp. 90), un volumetto di Niccolò Nisivoccia; l’autore, avvocato ma anche editorialista, scrittore e poeta, ha ragionato sulla scomparsa non tanto del silenzio, ma di un silenzio strettamente legato ad una dimensione collettiva del parlare e dell’agire.
Una dimensione che, secondo lui, ha iniziato a scomparire verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso quando è sparito anche il noi. Un noi che è svanito quando abbiamo smesso di confrontarci, di scontrarci, di dialogare, di assegnare alla parola un valore preminente, sostituendolo con un individualismo arrogante e assordante.
La discussione sul silenzio ha prodotto in me pensiero e ordine del pensiero (ma al momento volutamente non parola) per quella feconda contraddizione a cui accennavo sopra.
Alla metà degli anni ’70 ero un giovane uomo, di famiglia operaia immigrata dal Friuli, avevo studiato in un istituto tecnico come perito elettronico e le parole che ascoltavo e leggevo mi hanno permesso (come a molte altre e altri nella mia stessa condizione sociologica ed esistenziale) di parlare in pubblico, intervenire durante le assemblee del mio luogo di lavoro (allora una grande multinazionale informatica statunitense), discutere all’interno della rappresentanza sindacale interna, parlare nelle riunioni di gruppo politico e via via nel tempo fare anche seguire un corso di studi universitari umanistici.
Parole pronunciate e lette che mi hanno permesso di considerarmi come appartenente a un noi molto ampio.
Questa situazione non è durata a lungo, il parlare si è ritirato nelle stanze e nei luoghi deputati e sono state delegate a chi tali strumenti li aveva e li sapeva usare; piano piano le/i parlanti si sono via via azzittiti e hanno lasciato agli “esperti” (intellettuali, politici di professione e così via) la preminenza della parola. E, con la lenta scomparsa della parola libera e diffusa, è scomparso anche il noi.
Nell’incontro di sabato si è discusso meno di come uscire da questa afonia del noi; su questo sento mancarmi le parole e preferisco ritirarmi in un silenzio che ascolta e mi sento solo di dire, al momento, con le parole di un filosofo, che su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
(www.libreriadelledonne.it, 18 aprile 2024)
a cura di Laura Minguzzi
Ė accaduto non per caso. Un invito di Silvia Aonzo a partecipare a un Convegno, una tre giorni (8-9-10 dic.) nella scuola parentale di ispirazione montessoriana che lei sostiene, creata da Barbara Cerutti con altre mamme solo tre anni fa, dove entrambe insegnano come volontarie a un piccolo gruppo di bambini e bambine della Primaria. Titolo dell’incontro Archeosaperi femminili. Luogo dell’incontro, le sale di via San Dalmazio 24, del quartiere Lavagnola. Un progetto educativo CreAttiva in collaborazione con Comunità femminile di Cura ed Eredibibliotecadonne.
Venerdì pomeriggio, primo giorno dell’incontro è stato proiettato il film documentario Segni fuori dal tempo, sull’archeologa e linguista lituana, naturalizzata americana, Marija Gimbutas, che avvalendosi dell’innovativo metodo multidisciplinare ha ridisegnato il volto delle antiche civiltà matriarcali dell’antica Europa, poi invase tra il terzo e il quarto millennio a.C. dagli Indoeuropei. E fu l’inizio del patriarcato.
Io mi sono sentita profondamente in stretto legame con questa linea di ricerca fondata sull’origine della nostra storia, su una storia che fa leva e pone a suo fondamento l’orizzonte simbolico della madre. La storia è tempo e la memoria è madre della storia. È con l’invenzione linguistica e simbolica della pratica della storia vivente che noi della Comunità di storia vivente di Milano, con Marirì Martinengo, sua ideatrice (La voce del silenzio. Storia di Maria Massone, donna sottratta, 2005), abbiamo posto le basi di un nuovo inizio della narrazione storiografica. Un percorso di risignificazione o destoricizzazione, come si usa dire oggi, avvenuto rielaborando i nostri nodi irrisolti: le ferite reali o simboliche, che la storia patriarcale ci ha inferto per migliaia di anni. Fare di noi stesse documento storico è stata l’idea rivoluzionaria che ha permesso la svolta. Lo scavo in profondità dove il presente e il passato arcaico si collegano a partire da sé, dalla nostra esperienza svelata, nel contemporaneo, nel nostro tempo. Spezzando il tempo lineare incentrato sul maschile come valore dominante abbiamo posto al centro le nostre ferite obliate, rimosse, il rimosso della storia, nel mio caso, la tragedia della morte di mia madre quando avevo vent’anni. La mia orfanità è diventata nella Comunità di storia vivente da evento personale a evento storico universale, riletto in chiave politica tramite l’autocoscienza, come segno di una profonda trasformazione della storia italiana. La modernità violenta che negli anni sessanta ha trasformato l’economia italiana. Intendo la mutazione da paese agricolo a paese altamente industrializzato. Una società violentata. Questa risignificazione antropologica immessa nella narrazione storiografica è stata possibile grazie all’agire di un’autorità femminile che ha prodotto una modificazione dello sguardo interiore e un punto di vista differente. Dal 2006 al 2018, per tutti questi anni, ci siamo riunite in Libreria o a casa di qualcuna e insieme a partire dal racconto orale di ciascuna abbiamo portato alla luce il nodo irrisolto annidato nelle “viscere”, come scrive Marίa Zambrano, e con la pratica dell’autocoscienza, cui siamo debitrici, abbiamo rielaborato la nostra esperienza e abbiamo scritto e pubblicato i nostri racconti di Storia. Un debito di riconoscenza alle invenzioni del femminismo delle origini (alla pratica dell’autocoscienza, alla disparità, all’affidamento) e all’autorità di Marirì, che abbiamo riconosciuto perché ci ha permesso di crescere soggettivamente ed essere presenti nella vita pubblica. Figura di madre simbolica che ci ha portato a riscattare la madre reale. Per me la voce del silenzio è stata quella di Eva, mia madre. Abbiamo posto fine alla scissione cultura/natura, uno dei pilastri del patriarcato. Questi racconti di verità soggettiva, storie che fanno la Storia, testimoniano la fine del patriarcato nelle nostre menti. Esprimono la forza della parola, veritiera, indipendente perché fedele alla propria origine insieme alla gioia e al piacere della riappropriazione della propria storia, non in contrapposizione con l’altro, nel mio caso con mio fratello, negazionista climatico e anche incapace di fare i conti con la memoria. Anche lui è stato danneggiato dall’inconsapevolezza del ruolo che il patriarcato gli ha imposto e dalla legge patriarcale dell’oblio. Sono riuscita a fargli comprendere il valore della memoria e del pensare veramente a partire da sé. Anche nel piccolo gruppo esperienziale della domenica mattina ho sentito che veniva compresa dalle donne presenti la modalità innovativa della storia vivente e ognuna delle partecipanti ha individuato e raccontato un nodo della propria storia. Noi della Comunità di Milano dopo tredici anni di lavoro sulle parole, con le parole, in stretta relazione di fiducia, abbiamo pubblicato La Spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (2019). Nel titolo, suggerito da Marirì stessa, è sottesa la nostra pratica rivoluzionaria. La forma della spirale indica un percorso aperto, non dicotomico che, pur andando in profondità, essendo bidirezionale vola in alto e tocca la trascendenza e l’universale. Rappresenta la fine della storia sacrificale come scrive María Zambrano in Persona e democrazia. Fine della storia sacrificale, non è la fine della storia come predetto negli anni ottanta da alcuni storici e filosofi ma la fine della storia fatta e scritta da uomini, dal “cosiddetto” popolo eletto che fa la guerra per diffondere “la democrazia”, quella di impronta ateniese, che non prevede la libertà femminile. Libertà per le donne è libertà per tutti.
(puntodivista.libreriadelledonne.it, 9 aprile 2024)
di Clelia Mori
Al netto della millenaria mitologica voglia maschile di non dipendere dalle donne per nascere, ancora oggi ben rappresentata dalla tecnologia riproduttiva che cancella la relazione tra chi sta diventando madre e chi sta diventando bambino/a e il loro futuro, quanto conta per gli uomini non poter partorire, non avere questo sapere corporeo quando decidono di fare la guerra? Cosa è per gli uomini la vita e la morte, e quanto spazio ha nel loro vivere la nascita e la morte? Me lo sto chiedendo da un po’ e so che non c’è una risposta perché questa relazione è un tabù, per le donne che spaventate dal patriarcato non sanno valorizzare il loro potere e per gli uomini che non vogliono interrogarsi e preferiscono inventare.
Ho appena letto l’interessante libro di Rosella Prezzo Trame di nascita sull’importanza della nascita, i suoi miti maschili, la morte, gli uomini e le donne e dal 2015 lavoro come artista sulla sapienza del far nascere del corpo femminile, la sua preziosità. Da tempo, penso che la nascita e la morte siano viste, sentite, valutate in modo differente tra uomini e donne. Lo stesso vivere e sentire la vita, persino l’amare credo siano diversi tra maschi e femmine e penso che questa differenza incida nello stare e nel fare mondo anche nei confronti della guerra. I femminicidi sono un macabro esempio dell’invenzione maschile del far morire con qualsiasi arma, anche davanti ai propri figli/e. È la forza fisica a far muovere le armi, e le armi unite alla forza “virile” sono all’origine della guerra. Non si può dire non mi riguarda, io non la faccio la guerra. Chi non la fa si chiede meno di quello che potrebbe e forse dovrebbe. C’è un velato e inconscio sentire maschile non detto: come se la guerra cadesse dall’alto e fosse un atroce invisibile volere divino, e questo non detto accomuna i sessi nell’esercizio del potere e nel desiderio di allontanare da sé qualsiasi responsabilità, convincendo chi vota che lo fanno per la democrazia o per il potere da restaurare nel paese. Non vogliono colpe nelle mortali tragedie che creano, incapaci della relazione con l’altro e della necessità della mediazione costante nell’orizzonte prezioso del limite. Quando aspetti che i nove mesi della gravidanza si concludano con la nascita sai che quello è il limite per far nascere la vita, e vuoi dare la vita, allora medi su tutto fino a immobilizzarti se serve. Io l’ho fatto e non sarò stata l’unica. È un lavoro di tessitura continuo sul limite, quotidiano, ora per ora, di cura e attenzione che gli uomini non sembrano portati a fare; non ne hanno bisogno, non fanno nascere. E lì nella tessitura tra un corpo che cresce e l’altro che lo fa crescere dentro di sé, nasce la relazione con l’altro o l’altra uguale a te. Non è così per gli uomini.
Gli uomini della guerra e gli altri che non si interrogano sembrano non sapere cosa sia la relazione tra umani e umane, addirittura anche tra loro stessi, all’interno del loro stesso sesso visto che usano ancora la guerra per risolvere le insidie che si coltivano l’un l’altro. Avendo rinnegato fin dai miti il nascere da donna, non sono in grado di capire fino in fondo come ci si relaziona con l’altro e l’altra, anche se nati da donna e sembra proprio non vogliano riconoscere questa nascita per allontanare una verità disturbante sul potere reale. Non hanno mai fatto spazio a un altro/a nel loro corpo, non l’hanno mai sentito/a crescere nel grembo, non hanno mai respirato anche per lui o lei, non gli hanno mai parlato senza parole perché non servivano dentro di te, e non l’hanno mai partorito/a. Non hanno mai costruito il tempo dell’umanità col loro corpo mettendo al mondo, o saputo cosa voglia dire far nascere aspettando il tempo che serve, finché un altro/a possa, dentro di te, essere in grado di venire alla luce e poi metterlo/a nel mondo e farlo diventare negli anni una persona adulta. Non un soldato, non un uomo armato. Non gli viene in mente alle future madri.
Queste relazioni particolari non fanno parte del bagaglio di vita maschile, a qualsiasi ideologia si rivolgano, e la guerra lo rende perfettamente visibile. Il corpo maschile non aiuta gli uomini a capire la vita, non può, non è fatto per far nascere ma solo per contribuire al concepimento insieme alla donna, come invece fa il corpo delle donne che nelle sue trasformazioni le aiuta a capire come far vivere, a come privilegiare la vita sulla morte. Una vita che va vissuta tutta intera prima di morire, che accadrà quando sarà ora per il tempo che si è avuto in dote. Senza che qualcuno armato o dietro una scrivania o davanti a un microfono si senta in diritto di dare o far dare in anticipo la morte: per prepotenza, aggressività, onnipotenza, senso di proprietà, arretratezza emotiva. Primitività?
Comunque gli uomini del potere rilanciano sempre, come con le palline da tennis, su tutto, in un atto di “virilità” costante anche se ci sono le armi nucleari. Tutto gli perde di senso quando si attaccano alle ideologie e la vita degli altri non conta più. Conta solo la tua, vissuta da arcaico patriarca aspettando da millenni la morte come non ci fosse mai stata una nascita da vivere prima di morire.
Agli uomini, sul nascere, è richiesto un lavoro intellettuale raffinato dal loro corpo che non li aiuta a sentire il farsi della vita, come fa modificandosi quello delle donne, per provare a capire che vuol dire, visto l’esiguo rapporto fisico che intrattengono con la nascita. Una raffinatezza cerebrale che però non fanno o fanno male o superficialmente; preferiscono dare per scontate troppe cose della vita e non le sanno e non vogliono saperle. Le femministe e anche alcuni uomini più illuminati dicono per invidia del potere sulla vita delle donne. Io non lo so di preciso, ma spero intensamente che non sia una questione biologica e sia davvero solo invidia perché forse così rimane aperta una possibilità di incontro che ci possa salvare dall’uomo armato (e dalle forze armate). Solo un uomo, un capo religioso importante e particolare, differente dagli altri uomini: Papa Francesco, ha ragionato sul nascere da donna il primo gennaio 2020 nella sua omelia Nato da donna dove finalmente cita l’importanza del grembo delle donne, mai vista, tranne in Piero della Francesca, nella rappresentazione artistica ufficiale della Natività, salvando, mettendo in luce il grembo di tutte noi insieme a quello di Maria. Ma gli uomini della guerra non lo ascoltano, men che meno quando implora la pace per vivere. Sapranno gli uomini guardarsi dentro diversamente da come lo fanno oggi, sapranno salvare le loro e le nostre vite mettendosi all’ascolto di chi sa far nascere per imparare il valore del vivere? Cominciamo a dirglielo. Per iniziare a mettere fine alle guerre imparando ad ascoltare e a guardare, ma non il loro ombelico.
(www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2024)
di Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi
A Valentina Berardinone piaceva l’azzurro. Lo stendeva sulle tele; lo acchiappava incorniciandolo. D’altronde è il mare della Costiera, visto dalla sua casa di Massa, che precipita verso Nerano.
Per arrivare da lei, bisognava parcheggiare in alto: a dominare pretenziosamente la collina, si intravedeva la villa che era stata dei Lauro.
Poi giù, una discesa di gradini sgarrupati e Valentina che saliva dalla cucina trascinandoci sul terrazzo che guarda Capri.
Aveva sempre avuto una predilezione Valentina per le dimore scomode. Anche a Milano. Attraverso le stanze si arrivava comunque allo studio luminoso, zeppo di album di disegni, “prove d’artista”, tele ammonticchiate oppure attaccate alle pareti.
Disseminati nel disordine, sul tavolo, quei piccoli “oggetti”, creati sembrava a dispetto, con la colata d’inchiostro che invece di espandersi scendeva a cascata su uno zoccolo di legno.
È vero, lo scrive Renata Sarfati, Valentina era spiritosa. E intelligente. Osservava le cose, ne ribaltava il senso. Amava la conversazione, le osservazioni taglienti, le battute colte. Le piacevano le donne capaci di ridere con lei, che assaporassero la sua lingua, civettuolamente altalenante tra le tonalità napoletane.
Aveva un piccolo gozzo. Il marito, Luciano, stava seduto al timone. Davano appuntamento per mare, davanti a Recommone oppure a Ieranto.
Una volta a noi due, Franca e Letizia, si era incagliata l’ancora – una grossa pietra scomoda a lanciarsi, infernale a tirarla su – trattenuta dalle rocce. Arrivarono a “liberarci”. Ma la pietra venne recuperata. Lasciarla lì sarebbe stato uno smacco troppo umiliante.
Valentina rideva. E scuoteva la testa, le braccia, le mani, per sottolineare la differenza tra veri e finti marinai con quel suo modo tutto particolare di unire generosità e allegria. Dipendeva dall’origine napoletana questa unione oppure dal mare azzurro che era riuscita a adagiare nei quadri?
(www.libreriadelledonne.it, 17 marzo 2024)
di Luciana Tavernini
Ho conosciuto Rosella Cardano nel gennaio del 1990 nel gruppo Dalla relazione madre-figlia alla relazione tra donne che coordinavo all’Associazione Melusine. Nel gruppo ascoltava molto e parlava poco, mentre nella relazione con me, che si è protratta per diversi anni, si apriva. Leggeva molto, soprattutto libri di donne, partecipava agli incontri aperti alla Libreria delle donne e qualche sera si fermava a dormire da me. Cercava, come dice Luisa Muraro, di dare giorno per giorno un senso libero al suo essere donna e per farlo esplorava relazioni femminili. Per lei avevo scritto questa poesia:
– Rosa, Rosina, Rosella –
saltelli
su una corda tesa
impavida
contro il cielo vuoto,
canticchi
– sembra senza darci peso –
un mandala sottile
di parole
un labirinto azzurro
in filigrana
di cui cerchi la chiave.
Poi ho cambiato casa e ci siamo perse di vista. Lei continuava a seguire, attraverso la rivista Via Dogana e i libri che via via venivano pubblicati, le riflessioni sul presente che le donne della Libreria di Milano mettevano in circolo. Se ne nutriva e ha voluto dimostrare la sua riconoscenza lasciando la sua eredità i suoi “amatissimi libri” e la sua casa proprio alla Libreria, perché questo luogo di incontro aperto, di invenzione di pratiche di libertà femminile, di pensiero in presenza sul mondo possa, anche col suo aiuto, continuare a esistere. Lo ha fatto con l’aiuto di un’altra donna, la sua amica Anna Denes, da lei conosciuta fin dalla fine degli anni Settanta mentre preparava la tesi. Un modo generoso, come quello della scrittrice Bibi Tomasi, che con la sua eredità ha permesso la ristrutturazione della Libreria e al cui tavolo di lavoro parlano con noi le ospiti invitate negli incontri pubblici, non solo a partire dai libri che hanno scritto.
Rosella viveva a Galliate, vicino a Novara, dove era nata il 20 febbraio 1956, scriveva poesie che l’aiutavano a fermare il suo sentire e a rafforzare ciò che l’aiutava a vivere. Infatti scriveva: «Mi sento come Ipazia fatta a pezzi ho l’arma della poesia e della parola femminile». Negli ultimi anni ne aveva inviate alcune alla pagina facebook La biblioteca femminista, ora intitolata a Donatella Massara, una delle fondatrici che ci ha lasciate lo scorso settembre. Donatella, qualche mese dopo la morte di Rosella avvenuta il 22 agosto del 2021, le aveva pubblicate nel sito da lei curato Donne e conoscenza storica perché non si perdessero.
Tra queste il delicato Autoritratto in cui Rosella apre la descrizione di sé così: «Sensibile come rugiada su una foglia/ appena curva, me ne sto su un ramo/ di albicocco con sana ignoranza/ sudicio trastullo». Lei, che aveva studiato filosofia all’Università statale di Milano e aveva provato su di sé quello che nel libro Il piacere femminile è clitorideo la storica María-Milagros Rivera Garretas nomina come «violenza ermeneutica dell’Accademia», segnala come il restare presso di sé sia giudicato un «sudicio trastullo» e come le sia necessaria trovare «una lingua/ saliva d’amore più verbale» che riscatti l’infanzia e i suoi dolori. Da qui, nelle altre liriche si delinea un percorso in cui troviamo momenti di solitudine come in Crudele cecità dei parchi, di valorizzazione di sé come in Ali carnee infantili in cui si afferma «io, abbecedario gioioso del mio mondo/ amato» o di rapporto quasi mistico con la natura come in Quiete d’anima in cui il giallo di un campo di grano è «l’abbraccio solare/ che mi accarezza gli occhi/ nella penombra/che si chiama vita».
Sono otto poesie da leggere al link http://www.donneconoscenzastorica.it/2022/01/27/testi-politica-delle-donne-autoritratto-poesia-di-rosella-cardano/
Qui invece ne propongo alcune da lei copiate a macchina e su cui ritornava spesso correggendo.
Ci parlano di genealogia femminile, di piacere clitorideo, dell’amore che non nasconde l’orrore ma non ce ne rende succubi, della pace che si costruisce col lavoro sul simbolico.
A MIA NONNA
Eri la magnolia piena di sole,
golosa, bevevi la luce e l’ombra degli anni;
negli angoli bui di ancestrali cortili ti ubriacavi
di nenie profumate;
a chi passava accanto porgevi petali e colori che avevi dipinto
quando il cielo era più limpido e ancora non avevi
quel viso di bimba affamato di vita,
tra la pelle del viso caduta,
per la stanchezza di un dio persecutore in ombra straziata,
nel corpo a riccio, la tua ultima ribellione alla morte…
Eri la magnolia aperta alla risata, ora ti sento afferrare da
un lontanissimo sonno, gravidanza di un sogno mortale.
Al mistero io guardo e, ancora ti vedo in un angolo di vita
chiedere l’amore di figlia in figlia…
ANTILOGICA: LIBERTÀ VAGINALI
Tra le mie gambe
nonché nel mio umido pensiero sei perla
non ha sussiego, né urla da ossessa, sei…
Domandi timida, inquieta, forse smarrita, perché? Come?
Nel corallino mondo sei perla, spasimo di luce, scintilla istintuale…
Tra le mie gambe sussurri “ancora voglio vivere”
spensierata, paga di sole.
Dimenticare vuoi chi dall’intelletto e dalle sue alte sfere fa abuso
di infimo potere…
SPIRITUALITÀ
C’era un’ombra ad Auschwitz…
ma io sarò stella, cometa, futuro…
e sempre amore, amore, amore
in primavere, ancora.
PACE
A Luisa e alla cara Bibi Tomasi
Non più violenza,
la culla della poeta è allegria e mestizia,
così soave una forsizia
dice sì alla vita tra inverno e primavera.
Non più violenza,
ma penna per gli intrigati giorni
descrivere accennando,
così è la vita frastuono e silenzio, è alba è sera,
tempesta, arcobaleno, primavera…
Non più violenza,
ma miti le parole
giuochi, incanti e fole…
Ricordo ero un animale
barrivo col mio naso…
vezzosa mi inchinavo, in stelle birichine,
la culla della poeta è allegria e mestizia…
Ricordo è una vita, vita è ricordare…
(www.libreriadelledonne.it, 14 marzo 2024)
di Paola Mammani
Francesca Izzo, nel suo articolo intitolato La libertà di scelta non equivale a diritto, apparso sull’Huffington Post del 5 marzo scorso, ha trascritto con precisione la formula con la quale la Francia ha voluto inscrivere in Costituzione il fatto dell’aborto. «La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza». Nota Izzo che non si tratta di diritto all’aborto, che avrebbe comportato la sostanziale cancellazione del ruolo della donna nella scelta della procreazione. Per un’analisi chiara e convincente delle conseguenze negative che una logica dei diritti avrebbe significato, rimando al suo articolo pubblicato anche su questo sito.
L’autrice apprezza che il testo parli di “libertà” e di “condizioni in cui si esercita tale libertà”. Penso, tuttavia, che non vi sia da compiacersi per la formula utilizzata dal dettato costituzionale francese. È evidente che il vero soggetto, e non solo grammaticale, di quella formulazione è “la legge” che così, con forza costituzionale, si attribuisce il potere di legiferare sulle condizioni che garantiscono a una donna la libertà di interrompere una gravidanza. Un curioso bisticcio quello di una “libertà garantita” a condizioni determinate dalla legge.
In Italia, senza l’intralcio costituzionale, basterebbe l’abrogazione della l. 194/78 per realizzare ciò che una parte delle donne aveva già chiesto durante il dibattito che ne precedette l’approvazione, e cioè che si dovesse semplicemente depenalizzare l’aborto che era un reato, lasciando alla donna, alle sue relazioni, affettive, amicali, di fiducia con operatrici ed operatori sanitari, la ricerca delle “condizioni” a cui tale procedura medica si sarebbe potuta dare. Sarebbe così sparito del tutto dall’ordinamento giuridico il tema dell’aborto che deve essere una decisione di ciascuna singola donna, affiancata da chi le è più vicino.
(www.libreriadelledonne.it, 14 marzo 2024)
(1)
di Tiziana Nasali
Le parole pronunciate da Papa Francesco al Convegno internazionale “Uomo-donna immagine di Dio” (2) mi hanno fatto immediatamente pensare alla bella immagine con cui Giordana Masotto conclude il suo articolo sul libro di Libera Mazzoleni, Brothels, che racconta l’orrore dei bordelli e che l’autrice dedica «alle donne ferite e uccise dalla violenza del patriarcato e a tutte le donne che rifiutano lo status di vittima».
Scrive Masotto: «Ho guardato le immagini di Libera Mazzoleni e ho immaginato che quegli uomini banalmente malvagi si riscuotessero e vedessero tutto quello che avevano fatto. E quelle donne silenziose dietro le sbarre e le finestre potessero uscire con i loro corpi e i loro desideri. E quegli uomini e quelle donne finalmente si vedessero, si incontrassero e – incontrandosi davvero – potessero vivere». (3)
Il Papa, dopo aver messo in guardia dall’ideologia del gender che definisce il pericolo più brutto, dice che cancellarela differenza è cancellare l’umanità e che uomo e donna stanno in una feconda “tensione”.
Non so cosa intenda esattamente per feconda tensione ma, anche per il mio immaginario di donna laica, è un’immagine forte.
Cosa hanno in comune le parole del Papa con quelle di Masotto/Mazzoleni?
Entrambe condannano la cancellazione delle donne operata, nelle diverse epoche storiche e in modi diversi, dalla cultura maschile e prefigurano uno scenario con uomini e donne finalmente in relazione come soggetti parlanti nella loro differenza.
Oggi, con la fine del patriarcato, le forme di cancellazione delle donne sono più difficili da smascherare, perché più complesse: mi riferisco all’emancipazione e alla questione del gender.
L’emancipazione: l’avvento della libertà femminile mette al centro della politica il ripensamento del contratto sociale ma l’opinione pubblica, in maggioranza, registra come libertà femminile quella che è solo emancipazione: plaude ogni volta che una donna arriva a traguardi fino ad allora solo maschili e si batte il petto per le percentuali troppo basse di donne presenti nelle tradizionali roccaforti degli uomini, non considerando che l’inclusione paritaria delle donne nell’organizzazione sociale modellata su bisogni e desideri maschili non produce nulla che gli uomini non abbiano già fatto e/o pensato.
Il gender: l’uso del termine “genere” mostra la possibilità di non individuare più gli essere umani a partire da quella unità imprescindibile di natura e linguaggio, di biologico e simbolicoassieme che chiamiamo sesso, potendosi viceversa definire in base alla loro “percezione” psico-sociale. Così, se la differenza sessuale pensata dalla cultura maschile patriarcale ha storicamente prodotto la discriminazione delle donne, oggi, per porre riparo a quella e ad altre ingiustizie, c’è chi propone di prescindere completamente dal sesso come prima definito intendendo che solo in questo modo si eliminerebbero le discriminazioni. Ovviamente ci si deve porre il problema, essendo in aumento il numero di ragazze/i che si dichiarano gender fluid e casi, soprattutto di ragazze, che intraprendono il percorso di transizione. Infatti, nonostante buona parte della scienza medica sia giunta a conclusione che la disforia di genere in gran parte dei casi si risolverebbe da sola alla fine dell’adolescenza e nonostante le ormai numerose testimonianze di ragazze detrans che denunciano l’orribile e inutile calvario affrontato perché non seguite, a suo tempo, da buone terapie psicologiche, l’ideologia gender ha ancora moltissima presa.
Ma qualcosa ci dicono. E cioè che è ancora molto faticoso essere donna nella nostra società. Sono d’accordo con Silvia Motta quando scrive che la gran parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne (4). Probabilmente la stessa cosa accade alle ragazze che pensano di essere nate in un corpo sbagliato e quindi “desiderano” essere dell’altro sesso: le ragazze, più che essere maschi, è probabile che non vogliano affrontare le difficoltà dell’essere donna e/o la loro omosessualità. Forse lo stesso vale anche per i maschi che sempre più si discostano dai modelli di “mascolinità tossica” e si confrontano con il pensiero nato da pratiche di donne.
La libertà femminile permette a donne e a uomini di pensare la differenza sessuale non come contenitore di identità, ma come un processo in divenire, dove si costruisce un senso nuovo dell’essere donna e dell’essere uomo.
Quindi:«che cosa c’è di disumano oggi che consideriamo normale?»
Il Papa dice che cancellare la differenza significa cancellare l’umanità. Io penso che cancellare la differenza tolga a uomini e donne la possibilità di andare ad attingere al proprio sentire più profondo radicato nella differenza sessuale: gli stereotipi di genere sono una gabbia per entrambi i sessi, anche se probabilmente le donne ne patiscono maggiormente le conseguenze. Ma solo la ricerca del significato e del senso che vogliamo attribuire al nostro sesso può aprire a tutti e a tutte un’esistenza veramente libera, anche a chi non si identifica in un sesso o in un genere.
Note
(1) È la domanda che si pone Giordana Masotto nel suo articolo Arte e/è politica, Libreria delle donne, 29 febbraio 2024.
(2)Monito lanciato da papa Francesco durante l’udienza con i partecipanti al Convegno internazionale «Uomo-donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni» promosso dal Centro di ricerca e antropologia delle vocazioni (Crav) e che si tiene in Vaticano nell’Aula del Sinodo, in Avvenire, 1° marzo 2024.
(3) Giordana Masotto, cit.
(www.libreriadelledonne.it, 13 marzo 2024)
di Renata Sarfati
… ab rebus rerum simulacra recedunt.
«…dalle cose si distaccano
I simulacri delle cose.»
Lucrezio, De Rerum Natura, libro IV
Il 10 marzo è mancata Valentina Berardinone.
Pochi giorni prima della sua morte ero passata a trovarla. Mi accoglie la gentile Erika, «ormai non si sveglia quasi più…» mi dice. Entro nella sua stanza, voglio guardarla e salutarla, dorme minuta nel suo letto come un uccellino. Poi passo nel suo studio e mi soffermo a guardare quello spazio bello e luminoso che conoscevo bene, con le grandi tele in parte appese al muro e in parte posate a terra quasi a formare delle onde grigie e blu, sulla scrivania gli ultimi fogli che aveva dipinto pur vedendoci poco. Ma il mio sguardo cade su un foglietto scritto a mano attaccato alla parete che riporta il verso di Lucrezio in latino che apre questo ricordo. Mi commuove profondamente il suo modo di dire addio al mondo e la riconosco.
De rerum natura era il libro che teneva sul comodino e costituiva un suo costante riferimento, non a caso il suo lavoro artistico era permeato del mondo classico che aveva assorbito dalla Napoli in cui era nata e a cui era legatissima.
Non voglio parlare del suo percorso artistico e intellettuale che spazia dalla ricerca visiva più avanzata ad opere artistiche di grande rigore. Altre e altri lo faranno con la competenza necessaria.
Ho conosciuto Valentina, mia grande e preziosa amica, in Libreria delle donne. Valentina era tra le artiste che avevano donato una loro opera per finanziare l’apertura della libreria nel 1975 restando sempre parte della libreria e partecipe attiva anche con numerosi e generosi contributi artistici. Ricordo in particolare, in ordine cronologico, la copertina di Sottosopra del 1976, il secondo manifesto della libreria, una bellissima opera tutta d’oro sulla parete del circolo e un grande quadro.
Ritornando agli inizi del mio incontro con Valentina, voglio ricordare il momento in cui è nata tra noi una vera e propria amicizia: è successo nella cosidetta “via Disciplini”, un piccolo studio dove si festeggiava l’uscita della rivista Non è detto realizzata da Silvia Motta, Giordana Masotto, Elena Medi e Valentina che ne curava le immagini. Nell’atmosfera generale di allegria e di festa l’ho conosciuta più da vicino e siamo diventate amiche, un’amicizia che non si è mai interrotta fino a oggi.
Con lei ho scoperto dei mondi. La napoletanità era la sua vera essenza, ma era nel contempo cosmopolita per la sua storia familiare, poteva passare con disinvoltura dall’inglese al francese al portoghese. Amava la conversazione brillante, spiritosa, e lei lo era. Così come profonda era la sua cultura nella poesia, nella musica, nell’arte senza mai essere saccente, perché faceva parte della sua stessa natura.
Ha avuto una vita lunga e ricca di riconoscimenti e soddisfazioni, ma anche attraversata da grandi dolori. Aveva tuttavia conservato in fondo alla sua anima qualche cosa d’infantile che le dava la libertà di un sorriso, di una battuta anche negli ultimi giorni di vita.
Renata Sarfati
Seguono tre belle foto inviate e autorizzate da Paola Mattioli
(www.libreriadelledonne.it, 12 marzo 2024)
di Libreria delle donne
Flora De Musso è morta il 17 febbraio 2024. Era nata il 23 giugno 1946.
Femminista “storica” milanese – negli anni ’70 faceva parte del collettivo di via Cherubini – ha insegnato microeconomia nelle scuole superiori. Negli anni ’80, quando il pensiero della differenza ha cominciato a investire le pratiche professionali delle singole, soprattutto delle insegnanti, Flora ha avviato insieme ad altre un gruppo di riflessione sulla pratica pedagogica, che grazie a iniziative analoghe in altre città, incontri e convegni, ha fatto nascere la pedagogia della differenza (vedi Educare nella differenza a cura di Annamaria Piussi, Rosenberg & Sellier, 1989). Scritti del gruppo da lei curati sono stati pubblicati sulla rivista “Cooperazione educativa”. Nel 1992, con Luisangela Lanzavecchia ha curato il volume Libertà femminile nel ’600 (Libreria delle donne), che documenta uno splendido lavoro di ricerca da loro fatto in alcune classi. Nell’84 Flora aveva cominciato a mettere mano alla grande quantità di documenti, riviste, opuscoli accumulati nello scantinato della Libreria delle donne nella sede di Via Dogana, creando insieme a Gabriella Lazzerini l’archivio politico dei documenti 1974-1997, che nel 1999 è stato dato in comodato alla Fondazione Elvira Badaracco. Dal 2007 in poi si impegnò nel secondo “riordino” dell’archivio conservato nel seminterrato della nuova sede di via Pietro Calvi, insieme a Luca Bergamaschi, che continua l’opera. Tra gli scritti di Flora, vogliamo segnalare l’articolo Maria Grazia Zerman e i suoi doni (Via Dogana n. 92 “Cambiare l’immaginario del cambiamento”, marzo 2010), sulla cara amica morta nel 1995 che aveva lasciato un fondo per promuovere e sostenere economicamente la ricerca delle donne.
Alcune di noi hanno scritto i brevi ricordi che seguono. Sul sito abbiamo già pubblicato quelli di Luca Bergamaschi e di Francesca Graziani.
Io l’avevo conosciuta facendo insieme i “corsi abilitanti” all’insegnamento (Diritto e Economia) nei lontani anni ’70 e qui era nata un’amicizia affettuosa e di grande scambio. Con un’altra collega, tuttora mia grande amica, avevamo formato un gruppetto “vivace” e affiatato. In seguito, con una docente del corso che ci piaceva particolarmente, avevamo fatto anche un gruppo di autocoscienza incentrato sul lavoro dell’insegnante. Poi siamo finite in scuole diverse e io in anni successivi ho lasciato l’insegnamento… ci siamo un po’ perse di vista. Di quel periodo mi era rimasto un ricordo tangibile, uno stupendo scialle fatto da lei a maglia, attività nella quale era abilissima.
(Silvia Motta)
Abbiamo insegnato nella stessa scuola nel 1975. In viale Zara Flora ci aspettava con la macchina per andare a Lissone: Istituto del mobile. Andate e ritorni ci raccoglievano in una socialità femminile di colleghe. Così la informai dell’esistenza della Libreria delle donne, felicissima ci venne con me e in seguito mi ricordò spesso che le avevo dato la più importante opportunità della sua vita.
(Antonella Nappi)
Se può servire, io ricordo che negli anni ’80 dopo la pubblicazione del Sottosopra verde (1983) ho conosciuto Flora nel corso di due convegni, uno a Bologna e uno a Parma, che io stessa con altre della Biblioteca delle donne organizzai, e in entrambi Flora aveva sostenuto con fermezza l’efficacia della pratica dell’affidamento a scuola e in qualsiasi luogo di lavoro o altro, come una invenzione della Libreria delle donne che ogni donna poteva agire. In quel periodo questa pratica fu molto contestata e lei mi colpì per la forza con cui condusse questa battaglia nel movimento femminista.
Poi a Milano la incontrai nel gruppo delle insegnanti della Libreria nel sottoscala di Via Dogana e una volta trasferitami a Milano, molto più spesso, in Libreria, al Circolo della rosa e nel seminterrato della nuova sede della Libreria, al lavoro con Luca all’Archivio dei Libri preziosi e della rivista Via Dogana. Lavoro prezioso che Luca ha continuato per amore, per riconoscenza e perché non vada sprecata la ricchezza del pensiero e dell’agire femminile.
(Laura Minguzzi)
Il primo flash di Flora è legato a Grazia Zerman, le rivedo sempre insieme, belle, eleganti, forti, luminose; insieme facevano un turno in Libreria nel pomeriggio. Poi, quando Grazia mancò e fu istaurato un premio a suo nome per una tesi di laurea alle studentesse, la ricordo sempre presente all’appuntamento annuale.
Entrai in rapporto con lei quando, raggiunta la pensione, mi comunicò che intendeva organizzare l’archivio nel seminterrato della Libreria. Decidemmo insieme il necessario per iniziare e, per non pesare sull’economia della Libreria, ci attivammo per chiedere un contributo esterno così esiguo che ci venne subito accordato. Comprammo un computer, un deumidificatore e più avanti tanti faldoni per contenere i documenti.
Flora condivideva il progetto con Luca, suo amico e collega di scuola, li vedevo arrivare puntuali, determinati, precisi. Poi cominciò a diradare la sua presenza lasciando a Luca il compito di continuarlo, compito che tuttora porta avanti con impegno e piacere. Cominciai a chiamarla per avere notizie della sua salute, di cui non volle mai parlare, instaurammo così un rapporto a distanza fatto di leggerezza e ironia che è durato quasi quattro anni. Solo nell’agosto scorso mi mandò un messaggio in cui diceva la sua presenza in ospedale per riprendersi da una polmonite, ancora una volta minimizzando in modo affettuoso. Malgrado la gravità ricambiai l’affetto e la leggerezza.
Rivendico questo nostro rapporto in superficie ma non superficiale, fatto di attenzione reciproca, di leggerezza e di affetto. A Natale mi mandò questo messaggio: «Buona vita. bacini».
(Renata Dionigi)
(www.libreriadelledonne.it, 29 febbraio 2024)
di Francesca Graziani
Un ricordo di Flora De Musso, morta il 17 febbraio 2024
Nella malinconia di questi giorni ripenso alla strana storia della nostra amicizia: le prime nostre frequentazioni nel Gruppo Insegnanti nato in seguito alla discussione sul Sottosopra verde (1983) – dove tu eri la nostra riconosciuta capa – che dopo qualche tempo si spaccò per dissidi interni e le varie componenti del gruppo proseguirono per altre strade. A quel tempo noi due non eravamo intime amiche, anzi non ci eravamo neanche troppo simpatiche, data la diversità di caratteri; e per molto tempo non ci fu neanche motivo di frequentarsi se non in Libreria a qualche riunione. Anni dopo il caso ci portò a far la strada insieme verso la metro e ricominciò un cauto parlarsi, quasi come due animali che si annusano un po’ diffidenti: raccontavo i miei tentativi di allora di migliorare la mia cucina di sopravvivenza a te che eri una cuoca provetta trovando un certo incoraggiamento da parte tua – più avanti mi regalasti anche un aggeggio per tagliare il prezzemolo, che a dir la verità non ho mai usato.
Le cose ebbero una svolta improvvisa quando con mia grande sorpresa mi chiedesti di aiutarti a rivedere un lungo testo che avevi scritto sull’origine femminile dello yoga – e che spero si possa ritrovare fra le tue carte. Naturalmente avevo acconsentito volentieri: erano i primi anni duemila, avevo appena traslocato in mansarda e tu allora stavi ancora bene, le due rampe di scale dal terzo al quarto piano dove l’ascensore non arriva non erano ancora un impedimento; venivi casa mia e pian piano sistemavamo quella tua ricerca che avresti tanto voluto vedere stampata.
Ci vedevamo alle cene del sabato e dopo tu riportavi me, Traudel e Piera fino alla metro con quella tua macchina che ne aveva sempre una – tipo il riscaldamento che non riuscivi a spegnere in pieno giugno e sfrecciavamo con i finestrini completamente abbassati per non arrostirci – cene alle quali si è aggiunto poi il fido Carmelo, diventato il tuo scarrozzatore ufficiale.
Col passare del tempo ti è diventato più difficile spostarti in libreria per fare l’archivio e hai trovato un valido successore in Luca – che solo in questi giorni ho conosciuto – prima per me era “l’uomo del sottoscala”.
Il Covid prima, malattie e incidenti vari dopo ci hanno impedito di vederci ma non di sentirci. Sempre verso sera, proibito chiamarti prima delle 17.30/18.00 dato che causa insonnie notturne dormivi di giorno: ad aprire le nostre conversazioni prima di passare ad altro i bollettini medici di ambedue con relative riflessioni sulla vita e la morte, la vecchiaia etc. Sempre però con grande ironia, come quest’estate con l’ultima rompipalle arrivata: la cimice del letto che di lì a poco avrebbe infestato non solo il tuo letto ma anche quello dei parigini.
Esasperata dalla situazione mi hai chiesto se conoscevo qualche scongiuro adatto all’uopo; e mi è venuta in mente una giaculatoria in latino che mia madre recitava quando perdeva qualcosa e di cui mi ricordavo solo l’inizio. L’ho recuperata on line e scoperto che era un’antica preghiera inventata da un frate nel 1250 e recitata ancora oggi ogni martedì nella basilica di Sant’Antonio a Padova, quindi di comprovato effetto; dovevi solo digitare il primo pezzo: si quaeris miracula mors error calamitas.
Poco dopo mi è arrivato un tuo messaggio che ancora oggi conservo: «Ho letto due volte l’invocazione a Sant’Antonio e pare che funzioni. Miraculum!»
Chi l’avrebbe mai detto che proprio io e te avremmo trovato il modo di farci sempre delle belle risate!
Misteriosa è la vita e anche le relazioni.
Ciao, Flò.
Francesca
(www.libreriadelledonne.it, 22 febbraio 2024)
di Antonella Nappi
Pierfrancesco Majorino ci invita a una conferenza sulla salute a Milano. Scrive a me nei giorni in cui ho subito, coatta in casa, un inquinamento molto molto grave per la mia salute.
Ai convenuti alla conferenza dico: sapete bene che l’aria molto inquinata fa soffrire le persone e può anche farle morire. È tortura superare per giorni i livelli indicizzati di inquinamento, e ancor più crudele è accettare pur prevedendoli superamenti così alti delle soglie. Il bruciore delle vie respiratorie, la febbre, la tosse, la paura di non superare la notte, l’impossibilità di avere speranza per il futuro sono torture programmate, ripetute da anni a Milano. I benestanti vanno spesso in seconde case fuori città, dunque la tutela che i politici devono garantire è alle persone comuni, che forse non frequentano.
Da sessant’anni si conosce la situazione climatica di Milano, gli studi della Provincia ne dimostravano la mortalità e la morbilità già dagli anni ’50. Milano è una città che doveva rimanere piccola, poco densa di abitanti e immersa nel verde. Così come la provincia e buona parte della regione.
Non so dire da quando un politico per candidarsi in Lombardia e a Milano avrebbe dovuto comprendere e occuparsi per prima cosa dei limiti dell’ambiente per la salute degli abitanti, ma certo ormai da molti anni. Far finta che la tortura non ci sia, che l’unico argomento da trattare sia l’utilizzo economico del luogo, fa di ogni partito oggi ormai da tempo lo stesso torturatore.
È un’economia appropriata ai luoghi che dovrebbe illuminare i partiti umani; molte associazioni colte e associazioni popolari si sono fatte interlocutrici politiche umane. Ci vuole una rottura umana, nella politica degli uomini tra loro, perché manca. Ci vogliono donne parlanti da donne che li facciano ragionare. Dati sulla morbilità che li facciano ragionare di prevenzione primaria, ormai immediata.
(www.libreriadelledonne.it, 20 febbraio 2024)
di Luca Bergamaschi
Sabato 17 febbraio 2024 ci ha lasciato Flora De Musso che per tanti anni è stata impegnata in Libreria delle donne dando vita insieme ad altre al gruppo insegnanti, e ha curato l’archivio della Libreria con Luca Bergamaschi che ci ha mandato questo ricordo.
Quando entrai nella scuola come insegnante, quasi cinquant’anni fa, ero da poco laureato in filosofia, pieno di “brillanti” idee e fermamente intenzionato a riempire la testa dei miei studenti e delle mie studentesse di tutto quello che avevo imparato. Ero giovane, sapevo parlare e mi veniva facile imporre anche una certa autorità. Insegnavo storia e filosofia nei licei e, in quegli anni di furibonde contestazioni, il solo fatto di essere accettato dalle classi mi illudeva di essere un bravo docente. Poi passai a insegnare lettere in scuole medie di periferia e in Istituti Tecnici, con davanti ragazzi e ragazze il cui unico scopo sembrava quello di sopravvivere alle cinque ore di lezione. Le mie certezze andavano sgretolandosi e iniziavo a rendermi conto che la trasmissione della conoscenza non era forse l’obiettivo primario del mio stare a scuola. Ero in piena crisi, complicata dalla perenne precarietà del mio posto di lavoro.
Ma poi nella scuola ho incontrato delle donne. Ho conosciuto anche tanti insegnanti maschi, alcuni pure molto bravi, ma sono state le donne a darmi una nuova coscienza e una nuova prospettiva. È con loro che ho iniziato a capire che quello che conta non è tanto la trasmissione del sapere quanto la relazione entro cui si colloca quella trasmissione. Entrare in relazione con ragazzi e ragazze, senza confusione dei ruoli, ma con la maggiore attenzione possibile alla persona; questo è quello che mi hanno insegnato le donne. La prima è stata Lia Giordano, un’insegnante eccezionale alle medie. Poi ne ho conosciute tante altre. Con Gabriella Lazzerini avevo un rapporto speciale, legato al fatto di essere entrambi insegnanti di lettere e al nostro comune lavoro in biblioteca. Con lei sono arrivato alla Libreria delle donne e al Circolo della rosa. Con lei mi sono avvicinato alla politica della differenza, di cui non ho mai approfondito tutti gli aspetti teorici, ma di cui mi affascinava il desiderio di dare valore alle donne del presente e del passato, senza limitarsi al chiuso della lamentela e della rivendicazione.
Con Gabriella è arrivato il mio rapporto con Flora, che ho conosciuto quasi quarant’anni fa, ma con cui ho avuto un rapporto privilegiato negli ultimi vent’anni. Non era stato facile entrare in relazione con lei quando eravamo insegnanti nella stessa scuola. Chiunque l’abbia conosciuta sa quanto potesse essere tagliente nel giudizio e apparentemente urticante. Noi maschi, in particolare, eravamo il suo bersaglio preferito.
Ma quando abbiamo iniziato a frequentarci, e soprattutto a lavorare insieme nell’archivio della Libreria, ho scoperto una Flora del tutto diversa. Raramente ho incontrato una persona di così grande generosità, sarcastica ma pronta a prestare attenzione per qualsiasi mio anche piccolo problema, capace di essere vicina senza leziosità, incisiva nel crearmi dubbi senza farmi sentire un idiota, sempre disponibile all’ascolto e sinceramente partecipe nei momenti di dolore e di difficoltà. Impossibile elencare tutto quello che mi ha insegnato, per esempio l’importanza del conflitto, a me tendenzialmente incline al compromesso e alla pavida conciliazione.
Non è e non sarà facile scendere nello scantinato della Libreria a riordinare e inventariare quei libri e quelle riviste che Flora mi ha fatto amare e su cui abbiamo passato ore e ore di lavoro e di chiacchiere. Lo farò in sua memoria e perché la sua opera non vada sprecata.
Senza indulgere al patetico, quanto di più lontano dal suo stile, voglio affermare con sicurezza che la sua vita ha avuto un grande valore: per tanti e tante che l’hanno conosciuta, per studenti e studentesse e certamente, nel mio piccolo, per me.
Con la sua forza di carattere e la sua combattività ha voluto essere protagonista della propria fine così come lo era stata della sua vita e ha scelto di accomiatarsi in modo fiero e orgoglioso. Io ho avuto il triste privilegio di restarle accanto fino al compimento del suo ultimo viaggio.
(www.libreriadelledonne.it,18 febbraio 2024)
di Silvia Motta
Sono tre parole che si rincorrono, talvolta si intrecciano, spesso si sovrappongono quando si parla di donne e di femminismo. Ma dicono cose diverse e sarebbe meglio usare un linguaggio di precisione per non annacquare, deviare o mistificare discorsi e significati.
Parità
Vuol dire fare il confronto tra due elementi o due entità e ritenerle perfettamente sovrapponibili. Direi che è un concetto quantitativo: pari grandezza, pari ampiezza, pari peso, pari valore monetario, ecc. Sarebbe piuttosto improprio dire pari sentimenti, pari emozioni, pari valori spirituali, pari atteggiamenti, pari amore, pari cultura ecc. Semmai si dice «stessi sentimenti, stessi valori, stesso amore, stessa cultura». Cioè qualcosa che assomiglia, ma non identico.
Nell’ambito del femminismo, specie quello che prende la scena attraverso i media (giornali, tv, rete) la parola parità trionfa in un perenne confronto frustrante con gli uomini e il mondo maschile. Si usa in maniera ossessiva la parola parità, si dice che le donne lottano per la parità.
Ma ecco qui la confusione.
Io penso che la grande parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne. E qui la cosa tra l’altro si complica perché le discriminazioni, nel mondo occidentale, sono in gran parte sottili. Ad esempio, pagare meno una donna è una disparità vietata dalla legge, ma gli escamotage escogitati per trasformare una retribuzione identica sulla carta ma minore nei fatti sono tanti: le donne spesso “scelgono” per necessità di fare il part-time, possono fare pochi straordinari perché devono tuffarsi a casa dove hanno il secondo lavoro, non godono di quegli speciali benefit che sono legati proprio all’orario pieno o alla possibilità di fare tardi la sera.
In fondo la lotta più cristallina per la parità sta in un “togliere” per fare spazio al nuovo. Togliere le discriminazioni sancite nelle leggi e stampate nella psiche e nei cuori per introdurre nuovi punti di vista.
Non a caso i migliori frutti del movimento femminista degli anni ’70 si sono tradotti in conquiste che toglievano ostacoli e ingiustizie riservate esclusivamente alle donne (negli studi, nelle carriere pubbliche e private, nella gestione della famiglia). Cioè sancivano che gli uomini non possono continuare a comportarsi come avevano fatto per secoli. Così è stato abolito il delitto di onore, il reato di adulterio, lo stupro è diventato un delitto verso la persona non contro la morale, è stato eliminato il pater familias (così ben rappresentato nel film di Cortellesi).
Le nuove leggi che ne sono seguite sono state, in molti casi, il necessario intervento finalizzato ad esplicitare i diritti mancanti che il togliere aveva evidenziato (il divorzio, la non penalizzazione dell’aborto, l’abolizione della patria potestà, la parità di retribuzione, l’istituzione dei consultori ecc.).
Quando invece si propongono nuove leggi, queste possono definirsi innovative e positive per le donne solo se tengono conto del loro punto di vista, quello che per millenni è stato ridotto al silenzio e piegato nella sottomissione. È un esempio luminoso l’istituzione della sanità pubblica, proposta non a caso da una donna, Tina Anselmi, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 che soppresse il sistema mutualistico ed istituì il SSN – Servizio sanitario nazionale entrato in vigore nel 1980.
Non si può dire la stessa cosa di quelle leggi “in aggiungere” (cioè che vorrebbero apportare parità), come è avvenuto ad esempio con le quote rosa, apparentemente destinate a scardinare il soffitto di cristallo – cosa che nei livelli apicali è avvenuta in maniera minima – mentre ai livelli inferiori crea riserve/ghetti e neutralizza l’incidenza della presenza femminile.
Certo a noi donne tocca un compito molto arduo: non affidare alle leggi l’idea della conquista della libertà femminile, ma essere consapevoli che le leggi cambiano in positivo se la nostra presa di coscienza e la nostra determinazione diventano socialmente rilevanti e riescono a stimolare anche la presa di coscienza maschile.
Uguaglianza
È un concetto più ampio della parità. Essere uguali non vuol dire essere identici. Il termine ha in sé “l’altro da sé”, la dimensione sociale, il “noi”. L’uguaglianza si situa nella dimensione politica, nel governo della società, con tutti i suoi componenti umani. E se consideriamo il pianeta, includerei anche i non-umani, seppure continui a sentire una significativa differenza tra me e una pianta o un animale.
L’eguaglianza è un bene prezioso e raro, che non esiste in sé e che non si crea spontaneamente. È un’ispirazione, una guida nel comportamento e nel pensiero, mai raggiunto fino in fondo, ma capace di creare ponti tra entità e situazioni diverse. È la porta di accesso alla libertà.
Libertà
Áncoro il mio pensiero alla riformulazione del concetto operata da Luisa Muraro che quando parla di libertà femminile indica un processo dove si costruisce e dove avanza «il senso libero della differenza sessuale». Che vuol dire: riconoscimento di sé in quanto donna e tensione all’autorealizzazione in una pratica di relazione e di riconoscimento tra donne/con le donne.
Vuol dire liberare pensiero ed emozioni dal riferimento coatto alle leggi, ai riti, ai valori patriarcali che possono produrre – come è avvenuto – competizione emancipatoria, emulazione, imitazione, ma non sono portatori di nuovi significati.
Si parla dunque di una libertà che affronta la complessità della differenza sessuale senza rinchiudersi e/o proteggersi attraverso la moltiplicazione di etichette identitarie.
Che non azzera la differenza sessuale nell’illusione di un neutro che in realtà è maschile.
Che non vende l’anima alla scienza quando questa afferma che tutto ciò che si può fare va fatto: guerre, distruzioni, violazioni dei corpi femminili comprese.
(www.libreriadelledonne.it, 12 febbraio 2024)
di Silvia Baratella
Un nuovo #metoo è in corso all’Università di Torino. Le studentesse stanno denunciando abusi, ricatti sessuali e ritorsioni da parte di alcuni docenti e le notizie cominciano ad approdare sulla stampa. Mi ha colpita l’intervista in merito a una delle universitarie torinesi, andata in onda a Prisma su Radio Popolare del 13 febbraio.
L’intervistata, iscritta a un corso di laurea frequentato quasi solo da maschi, ha ricevuto attenzione da uno dei suoi docenti e ha pensato di aver finalmente incontrato un professore che teneva in considerazione le ragazze. Le aveva persino proposto di fare la tesi con lui. Peccato che l’avesse fatto toccandola un po’ dappertutto, spalle braccia faccia, tanto che lei si era chiesta se non ci stesse provando. Si era risposta che non era possibile, che era solo un modo di fare. Quando si è cominciato a parlare di docenti molestatori in ateneo, le è venuto subito in mente lui e si è detta di nuovo che era impossibile. Solo quando il nome di lui è uscito nero su bianco sulla stampa se ne è convinta, e a quel punto le sono venuti degli attacchi di panico. Tranne quel professore, ci tiene a precisare, i docenti maschi la hanno sempre rispettata. Commenta che è inaccettabile che una ragazza arrivi a non rendersi neppure conto di essere stata molestata, che la colpa è dello Stato che non fa educazione sessuale.
Il racconto è sincero e sentito e il quadro che ne esce è rivelatore. Intanto, il sollievo che prova la studentessa quando un professore finalmente si accorge di lei (prima di capire che è per molestarla) è indicativo del riconoscimento che una giovane donna può aspettarsi in quell’università: i docenti “non molesti” ignorano le allieve fino a farle sentire inesistenti, sarebbe così che le “rispettano”? Poi, la studentessa racconta di uno sdoppiamento che tante donne hanno vissuto e da cui molte sono uscite grazie al confronto fra donne e all’autocoscienza: lei sa benissimo che il professore la sta molestando, ma è convinta di sbagliarsi; sa benissimo che lui ha i requisiti del molestatore, ma lo ritiene impossibile finché non glielo certifica l’autorità del “quarto potere”. Solo allora si autorizza a credere a sé stessa e a provare il panico che le covava dentro. E alla fine chiede smarrita a un’altra autorità di potere, lo Stato, di decretare che ciò che ha dolorosamente vissuto (ed è stato per forza doloroso per lei, se ha scatenato attacchi di panico a posteriori) è un abuso e che lei è autorizzata a considerarlo tale.
Affidandosi così allo Stato però sancirebbe la rinuncia al suo sentire e alla sua esperienza, la rinuncia alla sua verità soggettiva. Lei, come tutte noi, non ha bisogno che il potere le dica che cosa sa già di aver subito, ha bisogno di credere a sé stessa. Non ha bisogno di un corso di educazione sessuale per sapere quando una mano addosso, anche solo sulla spalla o sulla guancia, non la vuole. E che di conseguenza quella mano, lì, non deve starci. Ha bisogno della relazione con altre donne per autorizzarsi a dar credito al proprio sentire. È creando relazioni con altre che può contribuire a creare un’università a misura di donna. Io le auguro con tutto il cuore di riuscirci e forse questa sua presa di parola pubblica sarà un primo passo; di sicuro è preziosa perché permetterà di fare chiarezza ad altre che vivono la stessa confusione.
Però sarebbe d’aiuto se i movimenti organizzati la smettessero di inventare e proporre sempre nuove rivendicazioni che mantengono le donne dipendenti da chi deve concedergliele: distolgono un sacco di energie dallo sperimentare spazi comuni di libertà.
(www.libreriadelledonne.it, 13 febbraio 2024)
di un gruppo di donne e uomini
Questo appello ci arriva da un’amica, una delle persone che l’ha redatto. È stato mandato anche al Manifesto e ad altre testate.
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso di isolamento.
Il 7 ottobre, non solo gli israeliani, ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’azione di Hamas (organizzazione che noi condanniamo assolutamente) e abbiamo provato dolore e rabbia.
Anche la risposta all’orribile attacco di Hamas da parte del governo israeliano ci ha sconvolti.
Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 25.000 palestinesi e a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra, mentre la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora nelle mani dei terroristi.
Purtroppo sentiamo che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della Diaspora sembra non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro.
I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.
Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare le voci critiche e allarmate di chi vive in Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.
Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni, anche personali. Per questo non vogliamo stare in silenzio, soprattutto oggi, Giorno della Memoria.
Ci troviamo in forte difficoltà di fronte a questo giorno: non possiamo condividere la modalità con cui si vive il Giorno della Memoria, se essa si riduce a una celebrazione rituale e vuota di significato. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.
Questo 27 gennaio 2024 ci appare una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini?
Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti negativi come l’indifferenza verso il dolore degli altri, la disumanizzazione del nemico e la violenza sui più deboli.
Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti.
Non siamo d’accordo con le indicazioni dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene cosa sia l’antisemitismo e ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi, soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti anche con parte della sinistra. Ma non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei.
In questo momento, quando tutto è difficile, proviamo a pensare e a sentire insieme.
(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2024)
di Umberto Varischio
Non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. Consideriamo un oggetto come il tavolo che vediamo di fronte a noi. È innegabile che esista concretamente come oggetto con caratteristiche fisiche evidenti come colore e durezza. Tuttavia, cosa lo fa considerare un oggetto, un’entità reale, un tavolo? La nozione di tavolo si basa sulla sua funzione: è un mobile progettato per essere utilizzato come tavolo. Questa definizione presuppone l’esistenza dell’umanità che ha il bisogno di appoggiare oggetti o per mangiarci sopra. Ciò non riguarda intrinsecamente il tavolo in sé, ma piuttosto il modo in cui lo percepiamo e lo utilizziamo. Se cercassimo il tavolo in sé, privo di relazioni con l’esterno e soprattutto con noi stessi, scopriremmo che non esiste come entità isolata.
Il mondo non è suddiviso in entità indipendenti. Una catena montuosa non è intrinsecamente divisa in singole montagne: siamo noi che la separiamo in parti che colpiscono la nostra percezione. Praticamente quasi tutte le nostre definizioni sono relazionali: una madre esiste in quanto vi è un figlio, un pianeta è tale perché orbita attorno a una stella, una posizione ha significato in relazione a qualcos’altro.
Quella che ho cercato di illustrare sinora è la tesi di Nāgārjuna, un filosofo buddhista vissuto tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo in India e considerato uno dei primi e principali pensatori originali del Mahāyāna o “Grande veicolo”, nella rielaborazione del fisico teorico Carlo Rovelli nel suo saggio divulgativo sulla fisica quantistica intitolato Helgoland.
Per tornare alle relazioni, l’aspetto che più mi interessa, il femminismo in generale si basa sulla presa di coscienza personale e sulla relazione. La relazione inizia con il rapporto con sé stesse e si sviluppa ulteriormente nella relazione con il mondo circostante; possiamo orientarci se guardiamo dentro di noi e se costruiamo e manteniamo relazioni con il mondo.
Certo, le relazioni sociali sono ben più complesse di quelle che si possono stabilire nel puro spazio fisico, ma si può ipotizzare che, come scrive Maria Luisa Boccia, la rivoluzione del simbolico rappresentata dal femminismo della differenza e le relazioni abbiano la propria matrice in un “materialismo ontologico” che si occupa dei corpi, della materialità dell’esistenza.
Nella mia adolescenza sono stato educato a pensare, come quasi tutti quelli della mia generazione, che riconoscere i miei bisogni individuali volesse dire riconoscere una propria debolezza e che la dipendenza da altri e altre fosse una minaccia alla mia mascolinità. I miei sentimenti di bisogno e di dipendenza sono stati spesso svalutati e mi si insegnava a vivere autonomo, senza aver bisogno che di poche relazioni significative.
Per un uomo che ha avuto questo apprendistato patriarcale, abituato a vedersi come un’isola e a non sapere che «le isole si tengono per mano sotto il mare» (King Crimson, Island), è suggestivo pensare che la materialità dell’esistenza, che è anche il luogo della politica e del vivere insieme, sia ontologicamente basata principalmente sulle relazioni e sull’interdipendenza.
(www.libreriadelledonne.it, 15 febbraio 2024)
di Redazione del sito
Dalla sua inaugurazione il 16 novembre 2023, la mostra Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione, in corso al Palazzo Ducale di Genova fino ad aprile, ha fatto discutere. La mostra include infatti una sala allestita con un letto, delle proiezioni sulle pareti simboleggianti il sangue ed estratti sonori delle dichiarazioni dell’artista al processo, in un punto di passaggio obbligato per accedere al resto della mostra, incentrando tutta la storia di Gentileschi e delle sue opere sugli episodi di violenza sessuale subiti dalla pittrice. Inoltre, il bookshop della mostra propone alla vendita un libro che esalta le “gesta erotiche” dello stupratore e dei gadget con la frase della sua confessione («Io del mio mal ministro fui»).
A seguito delle proteste di attiviste, storiche dell’arte, studentesse e giornaliste, e di una lettera aperta apparsa sul manifesto il 3 febbraio 2024, Ilaria Bonacossa, la nuova direttrice di Palazzo Ducale, ha rilasciato il 7 febbraio un’intervista a Radio Popolare di Milano in cui ha annunciato che i gadget sono stati rimossi dal bookshop. La direttrice si è espressa anche a proposito della sala, dichiarando che verranno aggiunti dei tendaggi per dare la possibilità di passare senza vedere l’allestimento e si aggiungerà un avviso che indicherà che i contenuti della stanza possono offendere chi entra. Bonacossa ha anche affermato che la vicenda di violenza non deve diventare «l’unico motivo per guardare al lavoro di Artemisia» e che nel suo programma futuro ci sarà «una modalità meno teatrale e meno biografica di raccontare le artiste donne. Non è che la biografia di per sé sia il male, è se la biografia diventa l’unico motivo per cui si guarda al talento femminile». Il problema non è questo, bensì l’uso morboso di un evento biografico femminile, che si tratti o no di un’artista.
(www.libreriadelledonne.it, 8 febbraio 2024)