di Giuliana Giulietti
La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo del caso Weinstein è il Sottosopra rosso della libreria delle donne di Milano, È accaduto non per caso, pubblicato nel 1996 e che annunciava la fine del patriarcato. Vale a dire la fine del silenzio-assenso femminile al dominio maschile. Che oggi le donne parlino – e quando ne parla una poi parlano tutte a valanga come all’epoca del Berlusconi-gate – non è infatti un caso, ma il frutto di mezzo secolo di femminismo, della messa in scacco della distinzione tra pubblico e privato, dell’irrompere della soggettività femminile. Fine del patriarcato non significa certamente fine della pretesa maschile di dominare le donne, una pretesa sempre più violenta, convulsa, disordinata. Ma le cose sono cambiate, le donne non stanno più zitte – a Hollywood, nella Silicon Valley, a Wall Street – e gli uomini traballano, cominciano ad avere paura hanno paura, la pacchia è finita. E proprio perché è finita la loro reazione si fa più rabbiosa e sfoderano la vecchia arma con cui si sono assicurati, di generazione in generazione, il monopolio della narrazione della realtà: gettare discredito sulla parola femminile. La violenta campagna mediatica che si è scatenata in Italia contro Asia Argento è una replica di quella che si scatenò contro Veronica Lario, Patrizia D’Addario e le altre testimoni del Berlusconi-gate. Perché lo si sa, le donne che osano mettere in discussione il potere e la sessualità maschile svelandone “trucchi” e misfatti sono tutte instabili, pazze, bugiarde,manipolatrici, vendicative. Ma la campagna diffamatoria non è soltanto maschile. Alcune donne (opinioniste, giornaliste, blogger) si sono associate alla canea mediatica contro Asia Argento. E non poteva mancare, in tale contesto, l’attacco al femminismo. Il 26 ottobre il New York Times, cioè il giornale che ha fatto scoppiare lo scandalo Weinstein, ha pubblicato un pezzo di una certa Guia Soncini intitolato Il fallimento del femminismo italiano. Un articolo senza capo né coda, sconclusionato e menzognero dietro al quale – osserva Anna Maria Crispino – ci sta un meccanismo vecchio come il cucco: io scredito altre donne così mi accredito presso gli uomini. C’è da dire che qui in Italia (Rebecca Solnit dice che è così pure negli USA) dichiarare a ogni piè sospinto il fallimento, la scomparsa, la morte del femminismo è ormai una coazione a ripetere. Una nevrosi, una patologia. A ogni evento che chiami in causa le relazioni tra i sessi, la tiritera puntualmente ritorna sempre identica a se stessa. C’è un bellissimo saggio di Ida Dominijanni, Spettri del femminismo, pubblicato nell’ultimo libro di Diotima, Femminismo fuori sesto (Liguori) che mette a tema questi tentativi inesausti di liquidare, esorcizzare, spettralizzare il femminismo. Ne consiglio vivamente la lettura.
(www.libreriadelledonne.it, 10 novembre 2017)
di Luisa Muraro
La vendetta di Marilyn Monroe non è finita. L’affare Weinstein si allunga e si allarga, cresce il numero di quelle che parlano. Ci sono anche dei precisi sviluppi positivi tra gli uomini e tra le donne. Tra i primi viene meno l’antica complicità e alcuni cominciano a capire. Le risposte delle donne, tutt’altro che riducibili a una reazione unanime, alcune caute, fin troppo, altre baldanzose, esplorano i fatti per misurare l’entità del cambiamento.
Segnalo, tra quelle che ci riescono meglio, un articolo della giornalista inglese Laurie Penny su Internazionale 1229. Lei pensa, come noi qui, che l’affare Weinstein segni una svolta importante nei rapporti uomo/donna. Ma… c’è un ma, afferma l’autrice. Vediamolo.
L’articolo, piuttosto lungo, si fa notare fin dal titolo, che sembra made in Italy: L’orizzonte del desiderio. Non vi viene in mente niente? Il testo non è da meno. Io credo di indovinare che si rivolga specialmente alle donne più giovani, senza far loro la predica. A tutte trasmette questo messaggio: alziamo le nostre pretese. In che senso, lo dice bene il finale: “é importante che gli stupratori abbiano nuovamente paura delle conseguenze delle loro azioni”, ma (ecco il ma!) questo non è il modo di chiudere la faccenda: “per il bene di tutti, per i nostri corpi, le nostre vite e per le nostre relazioni, dobbiamo fare di più”.
Il fare di più si riassume in due imperativi: superare la cultura dello stupro; sviluppare una cultura del consenso. La spiegazione è tutta incentrata su due racconti fatti nel tipico linguaggio del partire da sé. Una lei racconta in prima persona le confidenze di un amico che si tormenta un po’ per il suo passato disordinato nei confronti delle donne e così si consola: “Tecnicamente non ho violentato nessuna”. Chiarissimo! Lei commenta: con queste parole siamo ancora nella cultura dello stupro. Secondo racconto. La stessa lei (l’autrice) si trova a fare sesso con un tale che poi commenta con una certa sorpresa e senza simpatia: “Ti è veramente piaciuto, godevi davvero!” Non si può ancora parlare di cultura del consenso – l’analisi di questo episodio porta a concludere – se il desiderio attivo femminile scoraggia quello maschile.
Il testo passa poi alle conseguenze politiche, che riporto per esteso. È impossibile che ci sia un vincitore nella vita sessuale. L’erotismo infantile degli uomini frustrati di oggi vede la sessualità come una battaglia combattuta sui corpi delle donne, un atto di dominio e conquista, da cui uscire trionfanti. Ma l’idea della battaglia dei sessi è fuorviante perché ci nasconde che, nella vita sessuale, o vincono tutti o non vince nessuno. Per capirlo, dobbiamo ripensare il consenso. Non è una cosa che si dà una volta per tutte, non è l’assenza di un no nè un contratto che può essere falsificato e discusso in tribunale. È ben di più, è qualcosa di continuo e negoziabile, e di più ancora, è la possibilità di un sì reale, è la presenza di un agire umano, è l’orizzonte del desiderio. Da qui, il titolo.
Un articolo da leggere. Da discutere, in caso; su alcuni punti si può dissentire, ma l’essenziale c’è e mi fa dire che l’affare esploso con lo scandalo della vita sessuale di un maschio, vita sporca quanto lui potente, sta diventando per le donne un buon affare. Potrebbe esserlo anche per gli uomini, molto dipenderà da loro.
(www.libreriadelledonne.it, 9 novembre 2017)
Nel mio contributo intitolato Papa Bergoglio: un discorso magistrale (www.libreriadelledonne, 13 ottobre 2017) parlo di un bel saggio dedicato alla mistica maschile e intitolato “Fare Uno”. Non credo che un saggio simile esista e, anche fosse, io avevo in mente e volevo citare il saggio (in realtà una raccolta di articoli) che s’intitola Pensare l’Uno, di Werner Beierwaltes, effettivamente un bel libro, tradotto da Maria Luisa Gatti, edito da Vita e Pensiero di Milano nel 1992 (seconda edizione). I saggi riguardano precisamente la filosofia neoplatonica e i suoi influssi. Il mio errore è meno grande di quello che può sembrare; direi che è un lapsus per il quale chiedo la vostra indulgenza. (Luisa Muraro)
(www.libreriadelledonne.it, 7 novembre 2017)
Con sorpresa facile da immaginare abbiamo letto nel NYT del 28-29 ottobre, la notizia del Failure of Italian feminism. C’è stato un fallimento del femminismo italiano? E le femministe italiane non si sono accorte di nulla! Anche noi che firmiamo siamo femministe, curiamo il sito della Libreria delle donne di Milano, aperta nel 1975, e tra noi alcune ci lavorano dagli inizi: tutta una vita!
La lettura dell’articolo ha fatto chiarezza. Si tratta di un pezzo di folklore giornalistico, dove non mancano né la mafia né Maria Goretti, scritto da una italiana che, volendo fare delle critiche, ha ceduto al gusto tipicamente italiano dell’autodenigrazione e della esterofilia. Forse c’era in lei qualche risentimento, sicuramente c’è una buona dose d’ignoranza delle differenze tra il femminismo Usa (oggetto delle sua filia) e quello italiano. Differenze che, lo si dice spesso ma in questo caso è ben vero, sono una ricchezza. Bisogna però saperle.
Quello che ci fa meraviglia e un po’ rabbia, cara redazione del NYT, è la vostra faciloneria nel dare spazio a una serie di affermazioni a metà fra il giudizio offensivo e la falsa notizia. Non avete sospettato niente? Forse sì, infatti avete pubblicato l’articolo nella sezione detta Opinion. Ma questo ci pare, scusate molto, un espediente ipocrita: le opinioni sono libere, d’accordo, ma riguardano fatti assodati; nell’articolo da voi pubblicato ci sono invece non poche informazioni distorte.
Onestamente parlando, un articolo come quello lo avreste lasciato passare se avesse riguardato, non diciamo il Regno Unito, ma semplicemente la Svezia?
Vi chiediamo, in sostanza, un’attenzione verso il femminismo italiano che sia degna della fama del vostro giornale. Oppure il silenzio. Grazie.
La redazione del sito della Libreria delle donne di Milano
(www.libreriadelledonne.it, 3 novembre 2017)
Libreria delle Donne editorial office, November 3, 2017
You can imagine our surprise upon reading in the NYT of October 28-29 the news of the Failure of Italian feminism. Italian feminism has failed? Without Italian feminists even realizing it?! We the letter-writers are feminists too. We run the website of the women’s bookshop La Libreria delle Donne, in Milan. The bookshop first opened in 1975 and some of us have been working here right from the beginning – practically a lifetime!
Things became a little clearer upon reading the whole article. It’s a piece of journalistic folklore, complete with predictable mentions of both the mafia and Maria Goretti; and it was written by an Italian woman who wanted to make a criticism, but has surrendered to that typically Italian taste for self-denigration and passion for all things foreign. Perhaps she feels some resentment, but she certainly displays a remarkable amount of ignorance of the differences between north American feminism (the object of her xenophilia) and that of Italy. Differences which, while it sounds like a cliché but in this case is actually true, are a form of wealth. One must, however, be aware of them.
What astounds us and angers us somewhat, dear editors of the NYT, is the cavalier attitude with which you give column inches to a series of statements that are somewhere between offensive judgment and fake news. Didn’t you have your suspicions? Perhaps you did, and indeed you published the article in the Opinion section. But, and you will forgive us, this seems to us a hypocritical workaround: opinions can be freely expressed, of course, but they concern established facts; whereas the article you published contains a series of distorted news.
Quite honestly, would you have let such an article slip through the net if it had been about Sweden, let alone the United Kingdom?
Essentially, what we are asking you is to treat Italian feminism in a manner worthy of the reputation of your newspaper. Otherwise, silence would be preferable. Thank you.
Website editorial team, La Libreria delle Donne, Milan, Italy
(www.libreriadelledonne.it, November 3, 2017)
di Betti Briano e Silvia Aonzo
La visita dell’atelier ‘residenziale’ di Dolores De Giorgi è stata preceduta da diversi incontri ‘creativi’ che ci avevano già consentito di conoscerne il ricco e vario bagaglio di esperienze e soprattutto la notevole tempra artistica. La sua partecipazione al progetto ‘Il Segno Femminile’ si è rivelata da subito in perfetta sintonia con i pensieri che di volta in volta venivano messi a tema; in occasione delle mostre allestite da Eredibibliotecadonne nella stagione 2016/2017 dedicate alla ‘Nascita’ e alla ‘RiNascita’ Dolores ha proposto due opere che rappresentavano con sorprendente efficacia il mettere e rimettersi continuamente al mondo connaturato alla condizione femminile: un bassorilievo raffigurante una donna a pezzi tenuti insieme da filo di rame, una statua composta da tronchi orizzontali di un corpo femminile che emergeva trionfante sulle pelli dismesse di precedenti vite. Abbiamo intuito subito che l’artista insieme alla sua visione dell’universo femminile ci offriva anche la plastica rappresentazione della sua biografia, il suo mettersi/rimettersi al mondo come artista e come donna.
Nel corso della visita ci ha infatti raccontato con sorprendente vivacità ed efficacia le sue molte vite: l’esordio con la grafica e la pittura nelle terre nordiche del Veneto e del Piemonte, poi la discesa a Savona anzi ad Albissola e la scoperta della ceramica, l’approdo alla tecnica raku; nel contempo l’attività didattica, come insegnante di educazione artistica, intrecciata naturalmente al ‘lavoro’ di mamma e di nonna e alle altre occupazioni familiari. Che anche in arte abbia avuto diverse vite lo testimonia il fatto che nel suo atelier non ha più lavori grafici o pittorici da mostrarci, ci dice che li ha venduti tutti e noi pensiamo che si tratti di un capitolo chiuso, di una vita passata. Risulta invece molto ben documentata la sua nuova vita con la terra. Dolores dichiara “tornando a lavorare la creta sono tornata alla terra”, intendendo a nostro avviso sia l’elemento primario da cui ha origine ciò che vive nel pianeta sia la gestualità infantile ed ‘innocente’ dell’impastare e manipolare la materia, perché –lei aggiunge- “la creta è di più che una tecnica”.
In effetti la sorprendente esposizione che parte dal garage e sale nella sua luminosa casa in collina ci fa capire in che cosa consista il ‘di più’ di cui l’artista parla: gli oggetti prendono forma e ‘identità’ proprio in virtù del materiale con cui sono costruiti dimodoché il particolare dinamismo espressivo che i suoi lavori presentano appare connaturato alla terra nella sua consistenza e nelle infinite possibilità plastiche che essa offre alla mano e alla creatività dell’artista; l’anima stessa dei soggetti rappresentati, siano essi umani, naturali o immaginari traspare proprio grazie al respiro e al calore che emana dalla materia. Le teste di donne dagli scaffali metallici catturano infatti il nostro sguardo e ci fanno entrare nel loro ‘mondo’ in virtù di pochi energici tratti impressi sulla creta; ci colpisce particolarmente un busto che la mano dell’artista come un colpo di vento ha saputo trasformare da scura massa statica a movimento puro, cosa che del resto avevamo già avuto modo di apprezzare in occasione di una mostra in un’imponente quadro raffigurante la rosa dei venti.
Il prosieguo della visita ci fa capire che se la tradizione ceramica ligure costituisce la trama del suo mondo artistico, una coraggiosa sperimentazione ne rappresenta l’ordito; la tela che viene fuori rivelando impreviste ed inedite sorprese ci presenta la potenza creativa di Dolores nella sua radicale originalità. Il processo raku cui vengono sottoposti gli oggetti appare interpretato con un’arte del tutto personale di stendere gli ossidi a pennello, tale che l’argilla risulta rivestita ma non snaturata nella sua grezza costituzione. La sperimentazione si spinge fino alla combinazione di materiali, che di per sé sembrerebbero incompatibili con la terracotta, con relativa invenzione di tecniche per farli stare insieme; l’accostamento col plexiglass provoca un vero e proprio choc all’occhio di chi guarda per via del contrasto tra l’avveniristica levigatezza e trasparenza di questo e l’ancestrale materialità della creta mentre quello con il ferro, forse il preferito dall’artista, generando anche grazie ad una sapiente declinazione di colori una ‘illusione ottica’ di continuità tra i due elementi, ci regala un primordiale senso di terrena e naturale armonia.
Se ciò che abbiamo visto nel garage ci ha dato una chiara idea della genialità artistica di Dolores, salendo in casa abbiamo avuto testimonianza di come la sua forza inventiva si sposi con una inconsueta abilità tecnica: dagli oggetti d’uso che appaiono sculture alle soluzioni d’arredamento che in modo decorativo disegnano lo spazio racchiudendolo e sottraendone allo sguardo la funzionalità alla singolare intallazione nell’androne del palazzo che nasconde un’antiestetica macchia (esempio di arte condominiale).
Le opere a soggetto femminile rivelano un approccio ‘confidenziale’ di Dolores col tema ed il pensiero che anima la sua azione artistica ci appare in questo caso particolarmente decifrabile se non addirittura familiare. La postura delle teste, la torsione dei busti, ma soprattutto le pelli accasciate come corazze abbandonate dopo una battaglia o che si sollevano trionfanti ci raccontano degli stereotipi con cui dobbiamo quotidianamente combattere, delle molte sconfitte che incontriamo vivendo ma anche della nostra forza e della capacità di affrontare le difficoltà senza soccombere ma emergendo dalle avversità rigenerate proprio grazie alla forza creativa che ci appartiene in quanto donne. Un originalissimo arcangelo Gabriele che sorregge la Madonna mentre allatta il bambino, presentando una inconsueta rappresentazione del presepe, ci rivela come lo sguardo e la mano dell’artista sia in grado di regalarci nuove interpretazioni di soggetti ormai abusati e svuotati traendo inediti significati dai misteri fondanti della nostra cultura.
Le parole di Dolores confermano il legame con l’esperienza femminile che abbiamo visto nella sua arte: come la vita va vissuta giorno per giorno ‘senza programmi’ ma con apertura verso ‘tutto ciò che può capitare’, così l’arte nasce vivendo, dalla capacità di ‘accogliere e tramutare ciò che capita’.
(eredibibliotecadonne.wordpress.com, 2/11/2017)
Presentazione del libro di Liliana Di Ponte e Daniela Simi, Il mio paese adesso sono due, Ed. ETS, 2017 a cura di Laura Minguzzi, della Comunità di Storia vivente.
Nell’introduzione Catia Sonetti (direttrice dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno) definisce le due autrici “raccoglitrici sensibili di racconti.” Le storie che raccontano sono di venti badanti provenienti da tredici paesi diversi di età comprese fra i ventisei e i settantuno anni, «Vengono da lontano per riparare i buchi del nostro welfare». Il territorio è quello di Lucca e provincia. Gli incontri sono stati organizzati con l’aiuto di varie mediazioni spesso informali, come amiche, conoscenti o la Caritas. Tutte le donne intervistate sono state contente che qualcuno/a potesse interessarsi alle loro vite. Le domande erano semplici e dirette. Perché sei qui? Cosa ti ha spinto a partire? Chi hai lasciato per venire qui? Come vivi nella nostra città? Che progetti hai?
Il termine “badante”: l’Accademia della Crusca ha accolto nel 2002 il nuovo termine che in origine indicava il lavoro di chi accudiva animali bisognosi di cure continue come vacche e vitelli. Sta proprio in quella necessità del sempre, in quest’avverbio (ho pensato subito che in amore si dice “ti amerò per sempre”), lo spartiacque fra tutto ciò che non siamo più in grado di assicurare e coloro che lo garantiscono per noi. Nelle ricerche che ho consultato nel sito di In genere si usa il termine “assistenti familiari” o “lavoratrici domestiche”.
L’Italia è il paese con il più alto numero di lavoratrici domestiche e di cura. Ci sono circa 900.000 lavoratrici domestiche quasi totalmente straniere. Le due autrici, che non sono specialiste di metodologia di raccolta di testimonianze orali, hanno scoperto a loro spese che le confidenze più significative sono arrivate quando l’intervista era finita e il registratore spento «perché nonostante tutto lo strumento inibisce». Ma l’ascolto sensibile messo a disposizione da Liliana e Daniela ha fatto sì che l’intervistata si aprisse fiduciosa. Una qualità rara e preziosa quella dell’ascolto attento. Anche nella comunità di Storia vivente ricordo che Marirì Martinengo chiese che non si registrasse per esercitare il massimo di ascolto e attenzione alle parole dell’altra, valorizzando la presenza, la parola in presenza, la fiducia nell’ascolto dell’altra. La percezione colloca questo lavoro prezioso di cura o manutenzione della vita in un passato molto remoto, quasi secolare, cioè prima della fine della famiglia patriarcale. C’è una generale svalutazione e non riconoscimento di questo lavoro soprattutto femminile.
Mi ha colpito la scelta linguista delle autrici, cioè si citano fedelmente frasi delle donne intervistate che s’inventano parole che suonano molto espressive, per esempio “la manchezza”. Soma dello Sri Lanka dice: «Quando torno a casa, sento la manchezza…», «Qui mi manca “mi respiro” perché qui mi sento proprio strinta vita», oppure parlano un misto fra la lingua d’origine e l’italiano, come Ramona che in Ritratto di signora definisce il rapporto con l’assistita “un tribolo”.
Il libro è diviso in sette parti con una breve introduzione e una cartina geografica del mondo con le rotte di provenienza che conducono queste donne dai luoghi più disparati al territorio di Lucca (Albania, Ecuador, Bulgaria, Senegal, Romania, Ucraina, Filippine, Brasile, Russia, Sri Lanka, Perù, Marocco ecc.). Le autrici hanno scelto un metodo molto efficace scomponendo e ricomponendo i racconti in base a tematiche simili e inserendo brani autobiografici. Quella del racconto mi è sembrata una scelta felice; in Francia è appena uscito un libro di racconti di badanti che Guido Lagomasino mi ha consigliato.
Particolarmente toccante anche la scelta di introdurre ogni capitolo con una poesia di una poetessa straniera su tematiche di migrazione. Natalia Bondarenko scrive:
Mi prendi in giro tu
per come parlo la tua lingua,
per come sfuggo alle sue regole
per come la maltratto (per forza
di cose), ma è soltanto
un fatto di abitudine, trasmesso
da madre a figlia, dal seno al sangue,
dalla radice all’albero che combatte
la sete e non muore […].
Partono col sostegno della famiglia che spera in benefici, ma a volte con l’ostilità di uno o più parenti. Ma in ogni caso giocano un ruolo da protagoniste in quel contesto, un ruolo attivo che spezza la visione di donna che accetta il proprio destino e dà vita a nuovi possibili orizzonti. È un riposizionarsi nel mondo. Diventano soggetti che portano reddito a tutta la famiglia. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla lingua. «Non capire le cose, non comprendere le richieste crea disagio, è una barriera». Usano soprattutto la TV per imparare o in alcuni casi le stesse assistite o parenti, una ha la figlia maestra, insegnano loro l’italiano. Io ho avuto la netta impressione di vedere attraverso il racconto di queste vite pararsi davanti ai miei occhi lo svolgersi della storia europea, e non solo, dopo la caduta del muro di Berlino e soprattutto le ultime vicende delle guerre di confine in Georgia e in Ucraina dove c’è di mezzo la questione della Nato. Nelle parole di due giovani amiche, Galina e Tamara, partite appena ventenni dalla Georgia, si comprende la crisi economica e politica di questo paese dopo l’intervento della Russia del 2008 per impedire l’ingresso di questa repubblica nella Nato. Così come per l’Ucraina sappiamo che la questione dell’accettazione in Europa è causa del conflitto permanente nelle regioni del Donbass, confinanti con la Russia, che vogliono l’indipendenza e continuare a gravitare nell’orbita della Russia. Oltre l’Europa ho conosciuto le vicende della guerra civile nello Sri Lanka nei racconti dei badanti, una giovane coppia di quel paese che ha lavorato e abitato presso i miei suoceri per alcuni anni, accompagnandoli verso la morte.
Il titolo esplicita la caduta del senso di appartenenza, lo stare in bilico, un equilibrismo faticoso ma che può portare a scelte di libertà o a ricadute nello sradicamento sofferente se non si lavora sul senso del lavoro, sulle implicazioni e le potenzialità innovative di questa particolare esperienza relazionale.
Qui in Libreria abbiamo ascoltato un esempio portato da un’artista, Donatella Franchi, del tipo di lavoro simbolico che aiuta a dare un senso alla relazione fra badante, assistita e parente dell’assistita – in questo caso la madre centenaria di Donatella – la relazione madre e figlia e le diverse badanti con cui nel tempo Donatella ha costruito una relazione, facendo emergere la creatività nascosta di ognuna di loro e scoprendone gli aspetti umani, le storie familiari, la realtà politica del paese di provenienza, tessendo una rete di significati che ha riscattato e sollevato dalla pura materialità contrattuale il lavoro di cura («Donne con le ali», non a caso, s’intitola il suo lavoro creativo fatto di poesie, installazioni, libri d’artista).
Difficoltà di accasarsi nella lingua, nel paese di adozione, dovuta forse al fatto di avere ancora in mente il modello di famiglia ideale che non esiste più. Molte delle testimonianze ritengono che valga la pena affrontare i rischi, i pericoli del Gran Viaggio (le mafie degli intermediari, delle agenzie)! Ne parlano Galina dalla Georgia, Anastasia dall’Ucraina, Flor dalla Bulgaria: c’è il pericolo di essere derubate durante il viaggio di ritorno, ma ne vale la pena soprattutto per i figli. Dalle macerie nascono nuove scelte di vita oltre il machismo e le violenze dei mariti che bevono. Ma la prima vera trasformazione investe loro stesse. In un articolo su Italiaoggi ho letto recentemente della difficoltà del ritorno perché soprattutto nei paesi dell’Est c’è la continua richiesta di reddito e le badanti sono una fonte sicura. Rivestendo il ruolo di capofamiglia non riescono a sottrarsi alle richieste. Anche Paula dell’Ecuador dice: «Sono stata tentata dai soldi pensando che qui incontravo il paradiso… però non è così, è duro. Mi mancano tanto i miei figli… Oggi per me non c’è motivo per restare…». Ma dov’è allora la libertà femminile? Anche nell’impostazione, nella struttura del welfare italiano c’è ancora una forma mentis legata alla vecchia famiglia tradizionale. Non si vedono i cambiamenti? Ranija, filippina, racconta invece di una felice esperienza. Gestisce da tre anni un bed & breakfast, perché lei dice di sé che pensa positivo e ha affrontato l’ignoto con questo pensare positivo. Anche Vera, albanese, si è felicemente stabilita in Italia e Tamara ha un lavoro regolare in una casa di cura di suore e un ottimo rapporto con loro ed è soddisfatta della sua scelta di vita.
Nella recensione di questo libro, in Leggendaria n° 123 dal titolo La catena internazionale della cura, la giornalista Francesca Caminoli pone questa domanda: perché le autrici del libro s’interrogano sul confine poroso tra privato e pubblico, sulle famiglie e sui modelli di welfare?
Anche le ricerche pubblicate di recente come Viaggio nel lavoro di cura di Sara Picchi, Ediesse 2016, rilevano il carattere usurante e complesso di questo lavoro in quanto non esiste mansionario e si distingue solo fra assistito/a autosufficiente o non autosufficiente… Un progetto di ricerca del Comune di Milano del gruppo CuraMI, condotto da Soleterre e dall’Istituto di Ricerca Sociale (IRS) nel 2015, ha tracciato un percorso sperimentale con un gruppo di una quarantina di donne. Un lavoro di parola di decontaminazione dal lavoro totalizzante al fine di migliorare la vita e la relazione con le/i pazienti attraverso uno scambio di parola e di auto aiuto. La sperimentazione è stata guidata da una psicologa, un’antropologa e una consulente del lavoro. Guadagnare tempo per sé, alla fine questa è stata la conclusione, migliora anche la relazione con l’assistita/o. Il punto di vista adottato era dalla parte delle lavoratrici e non come di solito succede dalla parte della famiglia italiana che richiede garanzie del servizio prestato.
Libreria delle donne – mercoledì 27 settembre 2017
di Massimo Lizzi
La violenza maschile capita per responsabilità diretta dei suoi autori e per responsabilità indiretta degli uomini assenti, silenti e indulgenti. Mentre le donne, che la violenza la subiscono, tentano di sottrarsi con strategie individuali e associate e con il femminismo, l’iniziativa maschile resta esigua, spesso di tipo professionale. Perciò, ha senso sollecitare gli uomini a considerare la violenza come una questione maschile. Lo ha fatto il presidente del senato Pietro Grasso. Un fatto nuovo, di grande valore; una novità che apre un conflitto e provoca resistenze.
La grande maggioranza degli uomini ancora rifiuta di assumersi le sue responsabilità e resiste in silenzio. Invece Edoardo Botteri, più coraggioso, parla e rappresenta in modo aperto questo spirito resistente: si sottrae al senso di colpa e rifiuta la corresponsabilità con tutti gli uomini, perché secondo lui limita e deprime la forza e la libertà dei giovani maschi nell’operare un cambio di civiltà.
Ma la giovane età non fa l’uomo nuovo: la maggioranza delle violenze fuori dalle mura domestiche è commessa da giovani maschi, spesso minorenni. E una colpa rimossa limita e deprime molto di più di una colpa riconosciuta.
In quanto uomo, io sento la colpa nei confronti delle donne. Così come la provo in quanto occidentale verso il resto del mondo, perché, a prescindere dai miei atti e dalla mia volontà, fruisco lo stesso dei profitti del colonialismo e dell’imperialismo. Nella relazione con le donne, tuttavia, pesano anche atti e volontà: non ho mai picchiato e violentato, ma ho commesso forzature e prevaricazioni, significative per il loro intento di controllare e subordinare. A questo aggiungo un immaginario di dominazione che si mescola con l’immaginario sessuale.
Con o senza i sensi di colpa, l’importante è ammettere la nostra colpa storica di uomini e la sua attualità. Perché questo ci orienta nella relazione con le donne, a partire – come sottolinea Umberto Varischio – dal riconoscere il primato della soggettività femminile nel definire la violenza. Nella relazione con gli uomini, una conseguenza di questa ammissione è la rottura della gerarchia e della solidarietà cameratesca. Come corresponsabili riconosciamo di essere associati ai violenti, ma lo riconosciamo per iniziare a dissociarci.
(www.libreriadelledonne.it, 26 ottobre 2017)
di lm
Come il faraone Tutankhamon ha fatto morire quelli che violarono la sua tomba, così Marilyn torna a colpire i comportamenti maschili che hanno saccheggiato la sua femminilità. Marilyn non giudica nessuna e non perdona a nessuno. Dopo i Kennedy, ora tocca a Hollywood. Leggiamo: si sapeva, hanno sempre fatto così. Rispondiamo: viene il momento in cui non si farà più così. È venuto. (lm)
(www.libreriadelledonne.it, 20 ottobre 2017)
di Clara Jourdan
Edoardo Botteri, in dialogo con la presa di posizione di tre uomini contro la violenza degli uomini sulle donne (Lui non ci sta. Messaggio di un uomo a Umberto Varischio, Pietro Grasso e Paolo Di Paolo, www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2017), afferma: «Io mi sottraggo volentieri al senso di colpa, perché è un sentimento depressivo che mi opprime e limita il mio agire. La violenza che gli uomini fanno sulle donne non mi fa sentire corresponsabile, bensì responsabile di migliorare le cose». È vero che il senso di colpa fa problema, e non solo è depressivo, può anche essere pericoloso, può portare a odiare le persone che ce lo suscitano quando le abbiamo danneggiate senza volerlo. Pensiamo all’avversione che molti sentono per gli impoveriti del mondo che vengono da noi, verso quella ricchezza che l’Europa nei secoli passati ha loro sottratto e l’Occidente continua a prendersi e noi continuiamo a godere. Forse la parte di misoginia maschile che non dipende dall’invidia della potenza femminile può dipendere dal senso di colpa verso il torto storico del patriarcato sulle donne, i cui effetti continuano al presente e coinvolgono anche gli uomini di buona volontà. Allora è meglio che gli uomini si sottraggano al senso di colpa? No. Purtroppo le cose agiscono comunque nel profondo e il senso di colpa fa male ma serve alla presa di coscienza, ci avvicina alla verità del nostro stare in questo mondo. Dove essere responsabili significa sentirsi corresponsabili, cioè parte della storia che vogliamo cambiare, per poterla cambiare davvero.
Per questo mi è venuto un brivido a leggere la proposta di Edoardo: «Liberiamoci dai sensi di colpa, e non inculchiamone di nuovi in chi non ne ha, soprattutto nei giovani maschi, che non devono chiedere scusa per essere maschi, ma devono sentirsi liberi e forti per poter operare un cambio di civiltà». Io non mi fido di chi ha bisogno di non guardare a fondo dentro di sé per poter essere libero e forte. È troppo fragile. È come gli uomini di una volta, che per comportarsi bene avevano bisogno di essere protetti dalla verità, rassicurati dalle mogli e madri, dalle nostre madri, che al contempo mettevano in guardia noi dalla sessualità maschile. Un doppio registro che si è sgretolato con il femminismo. C’era in esso una complicità femminile con il patriarcato, non so se perché sentita necessaria per evitare mali peggiori o se perché viene naturale voler proteggere dalla verità le persone che amiamo. Comunque sia, non è più proponibile. Che anche gli uomini prendano coscienza della sessualità maschile, in cui si lega amore e violenza, come ricorda Botteri citando Lea Melandri, che non a caso è una donna. Che accettino di interrogarsi sul serio per conoscersi più di quanto li conosciamo noi.
(www.libreriadelledonne.it, 20 ottobre 2017)
di Paolo Di Paolo
Buongiorno, ho letto con interesse l’articolo di Botteri; una piccola precisazione. Scrive Botteri: «Di Paolo suggerisce che anche l’uomo più mansueto fa violenza sulle donne». No, non ho mai scritto né pensato questo. Ho invitato da essere umano di sesso maschile i miei simili a ragionare su eventuali episodi di violenza, anche solo psicologica, anche solo una voce alzata troppo. Non è esattamente la stessa cosa.
Grazie mille.
(www.libreriadelledonne.it, 19 ottobre 2017)
di Luisa Muraro
La giornalista Ester Palma ha dato ampia notizia di un discorso fatto dal papa il 5 ottobre all’assemblea generale della Pontificia accademia per la vita. Ha fatto bene, si tratta infatti di un discorso notevolissimo che porta Bergoglio ai primi posti nella storica graduatoria degli amici delle donne. Nessuna se l’aspettava. Dirò tre punti salienti del discorso, punti non annegati in un mare di parole già dette. Al contrario, sono l’ossatura del discorso. Dirò infine il problema che secondo me resta aperto.
L’autore del discorso non usa la parola “coscienza evolutiva” ma ha chiara l’idea che siamo in un passaggio importante, un vero e proprio salto, nella consapevolezza umana di quello che è la vita. Elenca le circostanze di questo passaggio, specialmente quelle che lo rendono altamente rischioso. Non parla contro “la potenza delle biotecnologie”, ma segnala l’esistenza di un materialismo tecnocratico che ci può portare fuori strada.
Secondo punto. Ci sono due bersagli polemici più nettamente indicati. Uno è il narcisismo, che il papa chiama egolatria (culto dell’ego), con l’aggiunta mia che questa è una piega e piaga molto più maschile che femminile. L’altro bersaglio è la convinzione che neutralizzando la differenza sessuale si possa correggere le ingiustizie storiche contro le donne. Il papa indica l’alternativa in termini a me (e a una parte delle femministe) chiarissimi, ma buoni per tutte e tutti: “Un nuovo inizio dev’essere scritto nell’ethos dei popoli, e questo può farlo una rinnovata cultura dell’identità e della differenza”.
L’autore sa, terzo punto, che il nuovo inizio si deve alla rivoluzione femminista. Parla di rivoluzione e non usa la seconda parola, che però sottende la parte centrale del discorso, quella che ha attirato l’attenzione della giornalista. Comincia con l’alleanza dell’uomo e della donna, per dire che “va ben oltre il matrimonio e la famiglia”. Da sottolineare. Si tratta, dice il testo, di una vera e propria rivoluzione culturale che sta all’orizzonte della storia di questo tempo. Meglio di così non si poteva dire. Questa alleanza è chiamata “a prendere nelle sue mani la regia dell’intera società”: donne e uomini portano la responsabilità del mondo in politica, nella cultura, nel lavoro e nell’economia. La radicalità di questa visione detta le parole di critica al femminismo della parità (“non si tratta di pari opportunità o di riconoscimento reciproco”), e quelle che invitano la Chiesa cattolica a riconoscere onestamente i suoi ritardi e le sue mancanze.
Una domanda s’impone: eliminato il confinamento domestico delle donne e la loro subordinazione agli uomini, aperta la strada al senso libero della differenza sessuale, scartata la deprimente utopia del neutro, quali sono le nuove poste in gioco nei rapporti tra i sessi?
È la questione che apro: la sessuazione della vita, per cui questa si riproduce con l’incontro di due viventi tra loro differenti, quando arriva fino a noi esseri umani, crea squilibrio, un fecondo e ineliminabile squilibrio. E questo per una ragione leggibile nella storia umana. E cioè che l’uomo sa, vuole e mira a fare uno (Fare Uno è il titolo di un bel saggio sulla mistica al maschile) mentre le donne sanno farsi due nel corpo come nell’anima. Bisogna cominciare a dire qualcosa di concreto su questo punto; la differenza si salva accettando lo squilibrio della dissimmetria.
(www.libreriadelledonne, 13 ottobre 2017)
“Una famiglia” film di Sebastiano Riso
di Stefania Giannotti e Rosaria Guacci
Un corpo di donna infelice e gravido di figli da vendere. Una donna bellissima abissalmente sola, subordinata, incapace di tutto, debole, uno scarto. Un maschio da horror. Un ginecologo affermato, insospettabile, ma corrotto. Una coppia di gay come acquirenti. Una coppia etero che ha già acquistato sullo sfondo. Un parto in un sottoscala, in piedi, da sola con cordone ombelicale e tutto. Forbici sporche di sangue. Cassonetti capienti. Sul finire una giovane che seguirà la sorte della prima. Abissalmente sola, subordinata, incapace di tutto, debole, uno scarto. Come la prima. Basta? Ah sì: tutto questo ambientato a Roma, la capitale. Proprio in Italia dove per legge “mater semper certa est”.
Nella sala del Centrale di via Torino a vedere “Una famiglia” di Sebastiano Riso siamo in sei spettatori. E tra questi noi due: Stefania e Rosaria.
Dopo, davanti alla pizza mezza Margherita e mezza Marinara, ci chiediamo “che cosa viene messo in scena?”
“Una famiglia” è un film che ha coraggio ma non funziona. Ci dispiace dirlo: proprio noi due che come altre siamo contrarie senza mezzi termini alla compravendita di creature umane, alias Gpa.
Ravvisiamo che questa rappresentazione violenta dell’uso del corpo femminile, finisce con l’infierire sulle vittime stesse e costituire un’ulteriore violenza. Nulla ha a che vedere con la lotta per la libertà femminile.
Questo non è un bel film: ne escono male donne, uomini, relazione eterosessuale e omosessuale… tutti. E’ un insulto all’intera umanità e le prime a rimetterci sono proprio le donne; tutte, personagge secondarie comprese. Non c’è scampo né speranza per nessuno.
Possiamo capirne le buone intenzioni, pronunciarsi contro la Gpa e raggiungere un vasto pubblico, ma una scena così morbosa, un dolore così manipolato non può che respingere.
Sebastiano Riso, giovane regista gay, ha preso un sacco di botte da due machi che le darebbero forse anche a donne, poveri inermi, bambine/i e siamo sinceramente solidali con lui.
La deputata Cirinnà, che ha accusato il regista di omofobia, fa il suo giochetto politico e lo fa male (non è la prima volta). A noi sembra umanofobia.
Aspettiamo Riso al suo prossimo film: che sia migliore di questo!
(www.libreriadelledonne.it. 12 ottobre 2017)
di Edoardo Botteri
Tre uomini hanno di recente preso posizione contro la violenza degli uomini sulle donne: Varischio sul sito della Libreria delle donne, Grasso in TV e Di Paolo sull’Espresso. Il loro è un mea culpa unanime che si può riassumere in un concetto: ogni uomo è corresponsabile della violenza maschile sulle donne, anche se non la agisce in prima persona. Grasso chiede scusa a nome di tutti gli uomini per l’ennesimo femminicidio. Varischio scrive: “sono corresponsabile delle violenze agite da altri perché maschio”. Di Paolo suggerisce che anche l’uomo più mansueto fa violenza sulle donne.
Ogni uomo, quindi, è colpevole in quanto uomo? Io mi sottraggo volentieri al senso di colpa, perché è un sentimento depressivo che mi opprime e limita il mio agire. La violenza che gli uomini fanno sulle donne non mi fa sentire corresponsabile, bensì responsabile di migliorare le cose: riconoscendo i miei atti di violenza, interrogandomi sui motivi di quegli atti e cercando il confronto con uomini e donne per educarmi alle relazioni. Liberiamoci dai sensi di colpa, e non inculchiamone di nuovi in chi non ne ha, soprattutto nei giovani maschi, che non devono chiedere scusa per essere maschi, ma devono sentirsi liberi e forti per poter operare un cambio di civiltà.
La violenza è l’ombra della forza, e ogni uomo che voglia sentirsi libero deve lottare affinché l’ombra non prenda il sopravvento. E’ un conflitto interiore, più presente negli uomini che nelle donne, forse per biologia o per storia, o per entrambe. Ma non è gusto dire che io e uno stupratore siamo corresponsabili della violenza agita da lui, io e lui condividiamo il rischio di arrendersi all’ombra.
Grasso dice che il problema della violenza maschile sulle donne parte dagli uomini e solo gli uomini possono risolverlo. Io penso invece che non si possa fare a meno del coinvolgimento delle donne, non solo in quanto vittime di violenza e portatrici di esperienze e saperi imprescindibili, ma anche in quanto soggetti di ogni relazione uomo-donna, violenta oppure no. Mi trovo infatti d’accordo con Melandri quando scrive che la violenza c’entra con l’amore “[…] per tutte le ambiguità e contraddizioni che si porta dietro, così come c’entra una fragilità maschile che va interrogata alla luce della consapevolezza nuova che abbiamo oggi di un potere – dell’uomo sulla donna – innestato e confuso profondamente con le esperienze più intime, come la sessualità, la maternità, i legami famigliari. […] Possessività e paura degli abbandoni nell’amore non sono solo dell’immaturità maschile, ma di entrambi i sessi”. Parlare di intreccio fra amore e sopruso non significa fornire un alibi alla violenza maschile, ma significa andare alla radice del problema per affrontarlo in modo efficace. Uomini e donne insieme.
(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2017)
di Paola Mammani
È morta a Parigi, il 6 settembre scorso, all’età di 83 anni, Kate Millett, autrice di Sexual Politics, La politica del sesso, testo pubblicato negli Stati Uniti nel 1969, edito in Italia nel 1971. Millett ottiene grandissima e immediata notorietà con questo primo lavoro, che è la sua tesi di dottorato presentata alla Columbia University di New York.
Si tratta di un’ampia illustrazione della capillare articolazione del potere e del dominio esercitato dal patriarcato sulle donne, attraverso una enorme quantità di esempi, analisi, riflessioni che coinvolgono il diritto, la storia, l’economia, l’antropologia, la psicoanalisi, e molte altre forme del sapere. Vi si mostrano i mille modi in cui le donne subiscono una grandissima pressione sessuale che tende a sottometterle e umiliarle.
Una notevole sezione del saggio è dedicata all’opera letteraria di D.H. Lawrence, Henry Miller, Norman Mailer e Jean Genet e, comunque, tutto il testo è fittamente intessuto di analisi di testi letterari. Da qui il ruolo grande di pioniera della critica letteraria “femminista”, che viene riconosciuto a Kate Millett per aver attraversato col suo sguardo critico immensi territori della letteratura anglo americana, alla ricerca del disvelamento più radicale dei rapporti intercorrenti tra i sessi nella inciviltà del patriarcato.
Quando pubblica Sexual Politics, Millett è già attiva nel movimento femminista, ed ha alle spalle importanti esperienze di studio e di insegnamento. Ha frequentato l’università del Minnesota, lo stato in cui è nata, ha proseguito gli studi ad Oxford, in Inghilterra, e in ultimo alla Columbia. Alla fine del 1968 viene allontanata dal Barnard College, dove insegnava, per aver appoggiato le rivolte studentesche.
Aveva anche soggiornato a lungo in Giappone nei primi anni sessanta per approfondire lo studio della scultura che continuerà a praticare. Incontrerà lo scultore Fumio Yoshimura che diventerà suo marito.
Tra i lavori successivi, due testi autobiografici, Flying, In volo, del 1974 (edito in Italia nel ’77) e Sita del 1976 (edito in Italia nel 1981). Si tratta di testimonianze del suo impegno personale a sperimentare e ricercare nuove forme di vita, di amore, di sessualità.
Più tardi, nel 1990, pubblicherà The Loony-Bin Trip, in italiano Il trip della follia, sottotitolo Cronaca di una sofferenza, la difficile storia del suo lungo periodo di malessere psichico, che avrà inizio con un episodio di ricovero in un ospedale psichiatrico nel 1973.
È abbastanza facile rintracciare in Internet la bibliografia completa del lavoro dell’autrice e gli interventi che The New York Times, The Guardian e The New York Review of Books le hanno dedicato in occasione della sua scomparsa.
Interessante la traduzione di Milena Sanfilippo, sul sito delle edizioni SUR, di un articolo di Maggie Doherty apparso sul New Republic lo scorso anno, in occasione della nuova edizione di Sexual Politics, ormai da tempo introvabile, a cura della Columbia University Press. È un nuovo riconoscimento al valore dell’opera di Kate Millett, agli anni fervidi di cui fu protagonista. La Doherty ci dice della ricorrenza del suo nome, dei temi e delle analisi da lei affinate, negli interventi delle intellettuali e studiose che animano il dibattito pubblico negli Stati Uniti.
Siti utili:
https://www.nytimes.com/2017/09/06/obituaries/kate-millett-influential-feminist-writer-is-dead-at-82.html
https://www.theguardian.com/world/2017/sep/07/kate-millett-obituary
http://www.nybooks.com/daily/2017/09/29/kate-millett-sexual-politics-and-family-values/
http://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano/21-04-2016/kate-millett-la-politica-del-sesso/
(www.libreriadelledonne.it. 6 ottobre 2017)
di Luisa Muraro
La notizia che associa il mio nome a quello dell’ex governatore della Puglia, Nichi Vendola, non è vera. È nata per un malinteso. Se volete dare la colpa a qualcuno o a qualcuna, niente polemiche, me la prendo io. Quando ho scoperto che anche Nichi Vendola era stato invitato dalla Rai Tv 3 a parlare di nuove maternità, ho sentito che non potevo partecipare a quel programma.
Perché lo hanno invitato? Una risposta c’è, ovvia e molto criticabile.
Non ho niente da ridire sulle idee di questo personaggio, le rispetto e in parte le condivido, ma non tutto è rispettabile nel suo comportamento. C’è chi va all’estero per farsi fare le scarpe o il vestito. È un insulto ai poveri. Andarci per farsi confezionare un bambino, è un insulto ai poveri, alle donne e ai bambini. So che ci sono coppie infertili che questo lo fanno: non approvo il loro comportamento, ma so che hanno delle giustificazioni. Il caso di Nichi Vendola è ben diverso. Lui è un uomo politico ed è andato all’estero per aggirare la legge italiana, ha agito in contrasto con l’orientamento raccomandato dall’Europa e si è presentato all’opinione pubblica ignaro di essere nel torto anche verso l’ordine simbolico materno. Ha fatto della madre un mezzo per soddisfare un suo desiderio, che in sé era degno, ma non a queste condizioni.
Non si tiri fuori l’omofobia. A Nichi Vendola io accosto per un confronto quel sindaco socialista francese che ha detto: io, omosessuale, soffro di non avere bambini, ma lo accetto, e non chiederò né allo Stato né alla scienza di rimediare a una mancanza legata alla natura dell’omosessualità, lo faccio per rispetto di me stesso e per rispetto dei bambini (Le Figaro magazine, 29.3.2013).
(www.libreriadelledonne.it, 29/09/2017)
di Mira Furlani.
Vorrei si parlasse meno di stupri, femminicidi, violenza sulle donne, e di più di forza femminile. I due carabinieri di Firenze non se l’aspettavano d’essere denunciati per aver stuprato due studentesse americane, come mai? Ragioniamoci su.
Quante sono le donne che non denunciano di essere state stuprate e quante sono le denunce archiviate? Sono tantissime e loro, i due carabinieri, lo sanno benissimo. Loro, e non solo loro, fanno affidamento sull’immunità perché rappresentano l’Ordine con la “O” maiuscola, fanno parte del “potere”, mica sono immigrati. Sanno che possono contare sulla solidarietà maschile, quindi… io penso che una simile vicenda non sarà stata la prima e, forse, non sarà neppure l’ultima.
Però questa volta hanno fatto male i loro conti: le ragazze hanno avuto coraggio, li hanno denunciati con l’appoggio delle compagne della scuola che frequentano, compreso quello del Consolato Generale degli Stati Uniti di Firenze. E con le prove acquisite sarà dura uscirne con la solita frase: «ma loro sono state consenzienti». Questa volta il gioco sporco è stato scoperchiato e il “potere” dei due carabinieri si è sciolto come neve al sole.
Ringrazio le due studentesse, porgo loro tutta la mia solidarietà e le invito a non vergognarsi di Firenze e dell’Italia, bensì di tutti gli uomini che qui come negli Stati Uniti e altrove non rispettano le donne.
(www.libreriadelledonne.it, 26 settembre 2017)
di Laura Colombo
Immaginate una famiglia milanese. La piccola di casa ha iniziato la scuola materna in una zona semi centrale e molte delle creature che la frequentano sono figlie e figli di immigrati, dai quattro angoli della terra (Nord Africa, Latino America, Sud Est Asiatico).
Miguel (il nome è di fantasia) è figlio di una regina nera, mezzo cubana e mezzo brasiliana. Non conosciamo il padre, ma anche lui deve essere di pelle scura. Miguel diventa amico della piccola, che ne parla a casa. E così arriva la domanda: “ma Miguel, lui di dov’è?”. La piccola li guarda con aria interrogativa, non capisce la domanda. Poi risponde, con semplicità e stupore: “è di Milano!”.
Da giugno si discute della legge sulla cittadinanza, approvata dalla Camera alla fine del 2015 e da allora in attesa di essere esaminata dal Senato. Questa legge riguarda soprattutto i Miguel e le Aisha, bambine e bambini nati in Italia da genitori stranieri o arrivati in Italia da piccoli, che frequentano le nostre scuole e sono amici delle nostre figlie. Certamente c’è una complessità a livello giuridico e ci sono grosse questioni in gioco sul piano della politica, lo vediamo tutti i giorni. Tuttavia mi chiedo: perché non sentire e far propria la verità contenuta nello sguardo e nelle parole di una bambina? Forse si vedrebbe che il re è nudo e che questa legge è necessaria.
(www.libreriadelledonne.it, 21/09/2017)
di Umberto Varischio
Le violenze sessuali sulle donne, gli stupri che subiscono, sono una responsabilità mia, nostra come maschi.
Non dobbiamo mai scordarci di ripeterlo e affermarlo in tutti gli ambiti: nelle nostre riflessioni, nelle relazioni amicali e in quelle pubbliche, sul lavoro, nei luoghi di studio e nella comunicazione, pubblica e privata.
I recenti episodi di violenza sessuale di Rimini (compiuta da stranieri) e di Firenze (agita da italiani, oltretutto carabinieri) ripropongono la questione maschile e il legame tra maschilità, violenze sessuali e immigrazione.
Sulle violenze contro le donne non posso permettermi di addurre scusanti o distinguo: ma cercare di capire non significa né giustificare né avallare.
Il pensiero è fondamentalmente un modo per capire e la mancanza di pensiero, come c’insegna Hannah Arendt, genera mostri.
Sul legame tra violenze sessuali sulle donne e immigrazione mi ritrovo quindi completamente nel testi scritti, subito dopo i fatti di Capodanno 2015 a Koln, da TK Brambilla (che si può leggere qui), Laura Colombo e Sara Gandini (consultabile qui) e in quello successivo di Giordana Masotto (qui riprodotto da Inchiesta n.191)
Ma come uomo non posso minimizzare le violenze agite da migranti e italiani e, tantomeno, cercare delle giustificazioni o anche delle spiegazioni che solo le donne, se lo ritengono necessario, possono elaborare: come hanno fatto in passato e continuano a produrre anche oggi.
Ogni altro discorso che potrei fare ora avrebbe probabilmente un retrogusto di giustificazione oppure quello, altrettanto inaccettabile, del cambiare d’argomento perché “questo non è il vero problema”.
Non posso quindi che sentirmi responsabile delle violenze, sessuali e non, che i miei simili agiscono sulle donne.
Poco importa che non sia io l’attore di queste violenze sessuale e fisiche o di altre forme di violenza: e di queste ultime attore lo sono stato.
Tra le tante cose che imparato dalle donne una è questa: se una di loro afferma che io sto esercitando una forma di violenza su di lei, indipendentemente da quello che posso pensare io, quella è violenza.
E sono corresponsabile delle violenze agite da altri perché maschio, per il tanto di potere che il patriarcato ha messo nelle mie mani e che io non ho rifiutato fino in fondo.
Un dato di fatto è innegabile: le violenze dei maschi continuano e sono strutturali e trasversali.
Essere maschio mi rende corresponsabile, tacere mi fa diventare connivente e simbolicamente co-autore.
(www.libreriadelledonne.it, 15 settembre 2017)
di Gemma Albanese
Lavoro quotidianamente con i cosiddetti migranti economici: vengono da paesi africani, dall’Est Europa, più di rado dal Sud America o dal Sud-Est asiatico.
Lavoro allo sportello di microcredito di Mag Verona da 6 anni: accogliamo e accompagniamo quanti hanno bisogno di un piccolo prestito per un’emergenza economica o per avviare un’impresa, sviluppando insieme a loro riflessioni su bilancio familiare e gestione del denaro personale. Il nostro lavoro si fonda sull’ascolto e sulla relazione con queste persone, che molto spesso sono migranti.
Non si tratta di migranti dell’ultima ora, ma di persone arrivate in Italia mediamente dieci anni fa, quando un lavoro ancora lo si trovava. Si rivolgono a noi perché stanno vivendo una difficoltà economica, molti sono degli habitués dei servizi sociali: non sono più poveri di molte famiglie italiane che pure ho incontrato, ma si fanno meno remore a chiedere aiuto, anzi conoscono bene il sistema degli aiuti da parte di Stato, Comune e Associazioni, che considerano una parte fissa delle loro entrate.
Queste sono le persone che incontro ogni giorno e l’esperienza ha portato il mio sentire sui temi dell’immigrazione a maturare.
Tradizionalmente il dibattito sulla questione migranti si divide in due filoni principali, ossia tra quanti sono pienamente a favore dell’accoglienza, perché vedono i migranti come soggetti deboli da supportare e tutelare, e quanti invece – perlopiù movimenti populisti – rifiutano lo straniero portatore di diversità e di problemi che si fatica ad affrontare.
Io da sempre mi annovero nella prima categoria, ma negli anni e con l’esperienza allo sportello di microcredito ho messo a fuoco delle sfumature: sono per l’accoglienza ma sono stanca di inutili buonismi.
Perché noi apriamo le porte ai migranti, ma poi è vero che l’integrazione è poca, con tutto ciò che ne consegue: ghettizzazione, contrasti, ostilità reciproca.
Questo però per responsabilità di entrambe le parti: c’è sicuramente una mancanza di politiche adeguate da parte dello Stato, come anche un clima spesso ostile verso i migranti che certo non crea buone basi per un dialogo, ma dall’altro lato ci sono spesso anche migranti per cui integrarsi semplicemente non è importante. Ad una parte rilevante degli stranieri che incontro non interessa imparare seriamente l’italiano, nemmeno dopo dieci anni di vita qui, né interessa particolarmente conoscere la cultura italiana. Sono piuttosto i figli, la seconda generazione, quelli più propensi a “mischiarsi” con gli Italiani.
Serve quindi a mio parere un’accoglienza che si preoccupi di una sincera integrazione, chiedendo a chi accoglie, ma anche a chi viene accolto di fare la propria parte.
Integrazione che per me passa in primis dal riconoscere i migranti come un soggetto attivo. Ad oggi, ad esempio, sono sempre oggetto dei discorsi sull’immigrazione, ma molto di rado interlocutori attivi, quasi mai vengono chiamati ad esprimersi nelle discussioni che li riguardano. Questo li lascia fuori in partenza dalla relazione con la comunità che li accoglie.
Allo stesso modo, l’impostazione assistenzialista del nostro Stato sociale li rende oggetto di aiuti unidirezionali e non protagonisti della relazione di aiuto. Gli interventi di stampo assistenzialista, infatti, si preoccupano di dare supporto senza chiedere una reciprocità, il che in alcuni casi va bene – penso a chi è in difficoltà estrema –, ma in molti altri deresponsabilizza, legittimando chi riceve l’aiuto a pensare che non sia obbligatorio fare la propria parte.
Mi pare quindi importante trovare modalità concrete per rendere i migranti soggetto attivo e non oggetto, perché questa è la premessa per un passo ulteriore: spingerli ad attivarsi nella comunità che li accoglie, all’interno di una relazione paritaria e reciproca.
Personalmente mi piacerebbe che più migranti cercassero di conoscere meglio la comunità in cui vivono e che si chiedessero non solo cosa quella comunità può fare per loro, ma anche come dare un loro apporto. Credo che questo farebbe cadere anche molte ostilità nei loro confronti.
Questo nuovo approccio improntato all’attivazione si sta fortunatamente già diffondendo: sia enti privati e associativi, come quello in cui lavoro, che enti pubblici stanno superando l’idea di assistenzialismo, chiedendo un’attivazione all’interno della relazione di aiuto.
Ad esempio, nei percorsi di bilancio familiare che io e i miei colleghi seguiamo, puntiamo tutti i giorni su questa dimensione: invitiamo le donne e gli uomini migranti (e non) che incontriamo a raccontare le loro abitudini familiari, culturali ed economiche e li incoraggiamo a mettersi in gioco in prima persona con piccoli cambiamenti per migliorare la loro situazione economica.
Il secondo passo però, ossia l’attivazione spontanea verso la comunità di accoglienza, non è certo conseguenza immediata e scontata. Nella mia esperienza, ad esempio, ho preso come un successo la richiesta di un gruppetto di signore nigeriane di imparare le basi della cucina italiana.
Sono perciò consapevole che la strada verso la “reciproca integrazione” è ancora lunga, serviranno tempo e un lavoro dedicato (sia a livello di azioni individuali, che di progetti, che di politiche locali e nazionali), ma sono convinta che in questa direzione si debba perseverare per una risposta finalmente matura e costruttiva sui temi dell’immigrazione.
(www.libreriadelledonne.it, 8 settembre 2017)