di Chiara Calori

 

Gli uomini prendono parola sullo scandalo Weinstein e il movimento #MeToo. Non è la prima volta: proprio su questo sito due sono intervenuti, uno facendo autocritica, l’altro rifiutandone l’onere, entrambi cogliendo coraggiosamente la sfida del confronto. Ora due vip dicono la loro. Con il #WeToo si accodano al dibattito e Repubblica ne registra i commenti in un’intervista (di uno solo dei due, Michel Hazanavicius, regista di L’artista).

Questa è la lettura che ne do: la posizione è ambigua (buon risultato per uno che, come lui stesso dichiara, rifugge l’ambiguità!). Sì perché alla dichiarazione di intenti, immediata, senza riserve, di voler essere dalla parte delle donne, non segue in coerenza il resto delle affermazioni. Oscilla tra un “finalmente [le donne] parlano” e un voler evitare spargimenti di sangue in questa che “potenzialmente è una rivoluzione” (ma l’avverbio ci dice già che non ci crede poi tanto). Offre aperta solidarietà alle donne e al contempo prende le distanze (loro due uomini non sono come gli altri, porci e dominatori) e presenta proposte di cambiamento che vanno dal generico all’insultante. Servono rieducazione, nuovi valori e un dibattito civile (come se finora i toni fossero stati barbari) e, più specificamente, l’uscita delle donne da uno stato di vittimismo che spianerà le disuguaglianze tra loro, che finalmente saranno “tutte uguali, con uguale diritto di parola”.

È tutto sbagliato. Le donne, ora, in questo momento, in questa vicenda, non sono vittime, sono donne che parlano. E prima? Anche, ed è da tempo che lo fanno! Nessuno le ascoltava, e ora qualcuno inizia a farlo. Non lui evidentemente, che non parla di donne, parla di categorie (“tutte”), di standard (“uguali”, a cosa? su che piano?), di diritti astratti. Lo diceva Simone Weil: non esistono diritti, solo obblighi. “L’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa.” E stavolta il neutrale maschile è esatto. È questo obbligo il grande assente in tutto il discorso del #WeToo: in uno scandalo tanto sconvolgente per questi uomini, non li sfiora il pensiero di un loro coinvolgimento diretto e del loro dovere di fare qualcosa in prima persona. Alla fine l’intento non è affatto chiaro: voi anche…che cosa?

Forse è solo una maldestra rielaborazione di quanto già fatto coraggiosamente dalle donne finora, ripresentato loro sotto forma di saggi consigli. Forse è solo l’ennesima e irritante versione de gli uomini mi spiegano le cose.

(www.libreriadelledonne.it, 2 febbraio 2018)

di Luisa Cavaliere

Mi ha colpito molto l’intervista rilasciata dall’onorevole Michela Marzano sulla sua esperienza di parlamentare appena conclusa. Un vero e proprio atto di accusa contro l’incompetenza, l’assenza di dibattito democratico e di confronto, le decisioni prese con procedure approssimative e frettolose. Facilissimo sarebbe obiettare all’onorevole Marzano che chi si avventura su un territorio minato com’è quello delle istituzioni deve prevedere di imbattersi in qualche difficoltà e in un po’ di solitudine. Ma alla prima facile obiezione deve necessariamente seguire una riflessione sulle questioni poste che alludono alla presenza delle donne in Parlamento, al loro ruolo, al sistema di selezione che le fa scegliere, ai criteri che si usano per valorizzarne i talenti, alle relazioni che tessono fra di loro. In Campania si è appena concluso il complicatissimo round della formazione delle liste e in esso possono essere letti tutti i mali della politica “istituzionale”. Dall’ambizione smodata dei mediocri, alla selezione in base all’accondiscendenza, al cinismo che evoca gli interessi della povera gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese come segno della propria sensibilità. Nelle liste le donne ci sono in osservanza della norma antidiscriminatoria che prevede che un sesso non possa superare il 60 per cento delle presenze né scendere al di sotto del 40 per cento. Una norma di tutela (paradossalmente vale anche per gli uomini, qualora le donne arrivassero al 60 per cento di presenza!) che sostiene e rende possibile il realizzarsi di un desiderio di “protagonismo” femminile legittimo in una società che si dica democratica. Genericamente democratica. Preoccupata di sanare ingiustizie e discriminazioni. Ma quella norma allude a tutta la cultura paritaria e antidiscriminatoria che meriterebbe una riflessione per la storia che ha avuto nella nostra regione e per le insidie che si annidano nelle sue pieghe a tratti anche seducenti.

Se la discriminazione con tutti i suoi nefasti corollari trova la sua ragione d’essere nella repressione della differenza di genere non è ricorrendo alla strategia paritaria che essa può essere sanata. Non è rimanendo prigioniere del sistema che genera la disuguaglianza che si può agire per il cambiamento radicale. La discriminazione parte dall’assunto di un universale maschile al quale tendere e dalla considerazione che le donne sono una massa indistinta da rappresentare con l’oggettività di un numero, di una percentuale.

La consapevolezza di questo inganno paritario dovrebbe generare da parte delle donne un’accettazione diffidente. Una padronanza del contesto nel quale desiderano misurarsi tale da imporre elementi di cambiamento, pratiche dissonanti, significative interruzioni delle abitudini.

Solo questa salutare diffidenza potrebbe, se sostenuta anche da alleanze “spurie” non prigioniere degli schieramenti, portare a un mutamento degli stessi criteri di selezione del ceto politico femminile che ora premia chi accetta e si fa vestale di una linea e ignora (come potrebbe non farlo) le dissonanze.

Il legittimo timore di essere ridotte a comparse e l’amarezza dell’onorevole Marzano potrebbero essere evitati entrando con le armi della critica e con la forza di una solida alleanza fra donne, proprio nel cuore della discriminazione. Nel perché di un’esclusione che somiglia alla paura e che non è una causa secondaria della crisi profonda della politica.

 

(www.libreriadelledonne.it, 01 febbraio 2018)

di Emanuela Mariotto

Quanto tempo occorre per parlare di un amore, quello per una lingua? Quanto tempo occorre per dire di un amore, quello per la madre? Più o meno lo stesso numero di anni, circa quindici.

Prima viene il libro, La lingua geniale (ed. Laterza), poi il racconto sulla madre.

Il libro di Andrea Marcolongo affascina. Ha un intento, trasformare le “paralisi” e “il terrore puro” che il greco ha provocato a molte e molti negli anni del liceo in passione. Infatti il sottotitolo annuncia “9 ragioni per amare il greco”.

Andrea, nonostante il nome maschile, anzi doppiamente maschile per l’uso che se ne fa nel nostro paese e per l’etimologia – Andrea in greco antico significa “il maschio” – è una donna, una giovane grecista. Il suo nome da maschio, dovuto a un padre imperterrito nella decisione di attribuirglielo, le ha provocato, da bambina, non pochi scherzi e non bastavano le consolazioni della mamma. «Andrea – le diceva – finisce con la A, quindi è un po’ femminile». No, Andrea non si accontentava, voleva un nome «tutto femminile, come le altre bimbe, non solo un po’».

Il capitolo che più mi aveva attirata è quello dedicato ai generi e ai numeri, che in greco erano tre, singolare, plurale, duale, per quel termine, duale, così caro al femminismo della differenza. Il numero a cui l’autrice dice ti amo, un numero che significa noi due – solo noi. «È il numero della coppia, per natura, o del farsi coppia, per scelta». Ecco, avevo pensato, ora l’autrice parlerà del duale per eccellenza, la madre e la sua creatura. Invece, no. Ci dice di fratelli, di sorelle, di amici, di amanti, ma di quella coppia prima e primordiale, nulla. Mi ero chiesta: a una grecista come lei può non essere venuto in mente il mito di Demetra e Kore, la madre e la figlia fanciulla, che nei testi sono citate, appunto, con un bellissimo duale, tó theo, le due dee, madre e figlia così intimamente unite da comparire in antichi bassorilievi come un’unica icona e quasi indistinguibili? Nemmeno un accenno, invece. E mi era venuto il desiderio di chiederle il perché di quella omissione, di quella dimenticanza che a me era sembrata così clamorosa. La risposta alla mia domanda inespressa è arrivata, inaspettata, da un suo articolo, La forza di parlare ancora di mia madre.

La madre di Andrea è morta di cancro quando lei era poco più di una bambina, tra la quarta e la quinta ginnasio e lei, per non adeguare le sue reazioni alle aspettative degli altri «come piangere sconsolata per farmi da loro consolare», scelse di sottrarsi, di non mostrare la fragilità della sua condizione di orfana, cesura talmente profonda da indurla a descrivere la sua vita come divisa in due, la vita di prima e la vita seconda. La scomparsa della madre, del “tesoro perduto e irrinunciabile della relazione materna” secondo la definizione di Wanda Tommasi, le ha chiuso la bocca per un tempo lunghissimo, fino a farle scegliere di non parlarne a nessuno, né amici né fidanzati e, tanto meno, di evocarla in un libro. Ha “ricominciato a dirlo”, si è “ripresa le parole” di fronte alla domanda di uno studente durante la presentazione del suo libro in una scuola: Perché in greco essere umano si dice brotós, destinato a morire?

Così l’amore per il greco e l’amore per la madre si sono ricongiunti nella risposta allo studente e, finalmente, l’autrice ci dice di quella relazione che il duale sapeva esprimere così bene perché «esprimeva un’entità duplice, uno più uno uguale uno formato da due cose o persone legate tra loro da un’intima connessione […], un modo di dare numericamente senso al mondo […], il meno banale dei numeri, difficile da classificare, impossibile da normalizzare. Il duale ha senso solo perché il greco antico sentiva il bisogno di esprimere linguisticamente qualcosa di più di un numero matematico, qualcosa che noi abbiamo perduto impegnati a far linguisticamente di conto con il pallottoliere della vita in mano: il senso delle relazioni tra le cose e tra le persone […].

Coloro che hanno avuto il raro privilegio di amare davvero sapranno sempre distinguere la differenza di intensità e di rispetto che intercorre tra pensare “noi due” e “noi”.

(www.libreriadelledonne.it, 30 gennaio 2018)

di Sara Gandini

We should all be feminist” recita la t-shirt divenuta virale in pochissimo tempo, presentata da Maria Grazia Chiuri in occasione della sua prima collezione come direttrice creativa Dior. Meryl Streep al Festival di Londra del 2015 andò con una maglietta con la scritta “I’d rather be a rebel than a slave”, citazione della suffragetta Emmeline Pankhurst. Famose cantanti e modelle amate dalle adolescenti hanno indossato t-shirt con slogan “The future is female”, slogan usato nel 1972 dalle fondatrici della prima libreria femminista di New York. Sono donne come Emma Watson, Taylor Swift, Beyoncé, Lady Gaga e Madonna.

Questo accade perché le donne sono dappertutto e in una dimensione di libertà inedita nella storia. Indubbiamente una conquista del femminismo. Infatti gioiamo quando vediamo le manifestazioni di milioni di persone che si sono tenute inizialmente negli USA con la Women’s March e hanno coinvolto decine di capitali in tutto il mondo.

Freeda a mio avviso sta in questo contesto. È un prodotto editoriale indirizzato alle cosiddette millennial: giovani nate tra gli anni ’80 e i primi anni 2000 che arrivano in una società segnata dalla globalizzazione, la tecnologia e la crisi economica, ma che per la prima volta nella storia si sentono davvero libere. Freeda significa freedom al femminile: «di fare, di essere, di pensare, in una prospettiva di piena auto-determinazione» come spiega Daria Bernardoni, 31enne direttrice di Freeda, azienda in cui il 75% dei dipendenti sono giovani donne. Con i loro video raggiugono anche decine di milioni di persone. Parlano di lavoro e di masturbazione femminile, di artiste radicali (dalla Abramović a Niki de Saint Phalle), di personagge dello spettacolo, ma anche della storia come Franca Viola, che hanno cambiato la storia patriarcale. E si trovano video di donne comuni. Ricordo per esempio il video delle tre ragazze che raccontano di essersi inventate una impresa originale, le portiere di quartiere, partendo dalla esperienza delle loro nonne e dall’importanza del ruolo dei vicini di casa. Non sono le classiche emancipate degli anni ’70. «Non vogliamo sostituire lo stereotipo della donna madre con quello della donna manager» spiega la direttrice, «il punto è proprio la libertà di decidere chi e cosa diventare nella propria vita, quindi lavorare perché le condizioni di questa libertà si verifichino».

Per certi aspetti mi sembra una grande agorà, fatta di narrazioni di esperienze in prima persona. Tuttavia è giusto domandarci chi stia dietro questo enorme business, come sollecitano Pat Carra e Elena Leoni che accusano Freeda di avere ingannato le lettrici occultando le proprie mire. Nella interessante inchiesta di Dinamo press si scopre che Freeda è un progetto editoriale dove i contenuti femministi funzionano come cavallo di Troia per vendere l’enorme quantità di dati così ottenuti alle imprese che vogliono sfruttare quel target per le proprie strategie aziendali, proprio come Facebook. «I social network sono ancora una volta un dispositivo biopolitico attraverso cui intrappolare e far diventare merce i nostri dati personali» scrive di Arya Stark per Dinamo Press.

In sostanza le domande secondo me sono: se il femminismo diventa un prodotto del marketing (il cosiddetto pink-washing) si rischia di depotenziare le lotte delle donne? Queste realtà strumentalizzano il linguaggio del femminismo stravolgendone il senso? Se oggi si parla di “femminismo virale” è solo merito del mercato?

Ma non c’è solo questo. Freeda è stato criticato perché racconta di quel femminismo americano di stampo liberal che vede la libertà femminile come auto-affermazione imprenditoriale. In effetti è sotto gli occhi di tutti che ci sono contiguità forti tra la nascita della soggettività delle donne e la trasformazione individualista, autoimprenditoriale, neoliberale, dominata dal mercato che caratterizza il tempo presente.

Ora è chiaro a tutti che il mondo ci guadagna se ci sono le donne, ma è molto meno diffusa la consapevolezza che il mondo si debba trasformare perché le donne ci siano. Per questo nell’ambito del ciclo di incontri «Femminismo tremendamente vivo» alla Libreria delle donne di Milano abbiamo discusso di femminismo e neoliberismo a partire dal libro Femminismo e neoliberismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà curato Tristana Dini e Stefania Tarantino e Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi di Ida Dominijanni.

Sono libri importanti che scommettono che il discorso della differenza sessuale sia capace di produrre un’eccedenza rispetto all’ordine neoliberale. Visto che non possiamo chiamarci fuori dal contesto in cui viviamo, per modificarlo dobbiamo far leva sulla posizione asimmetrica ed eccedente in cui le donne si trovano.

Come si fa? Non abbiamo ricette ma scommesse. Luisa Muraro usa l’immaginario per spiegarlo e, in un articolo pubblicato su Via Dogana 3, nomina un famoso passaggio della Lettera ai Romani di Paolo per affrontare un concetto non facile: l’indipendenza simbolica. Perché se è vero che nella disparità di potere si obbedisce, tuttavia esiste anche altro che fa ordine e che non può essere cancellato: la soggettività libera. Così nei social network, come nell’impero romano, bisogna entrare come un elemento non integrabile, come un elemento che stona. Per questo da una quindicina di anni ogni settimana ci ritroviamo alla redazione “carnale” del sito della Libreria delle donne di Milano. Si tratta di un progetto di grande impegno, basato sulla passione politica e lavoro volontario di una quindicina di donne (e qualche uomo), che ha portato ad avere ogni giorno migliaia di visite al sito (con punte di 5.000 accessi). Lettrici e lettori arrivano al sito in larga parte da Facebook (il gruppo e la pagina amministrate da donne della libreria) e l’interesse principale è sui contributi originali che scriviamo noi della redazione, che discutiamo molto sul taglio da dare ai testi e sul linguaggio più efficace. Perché il femminismo italiano è caratterizzato da un pensiero critico fine, che però rischia di essere fin troppo sofisticato e di non saper parlare alle più giovani, che si orientano sul web grazie a testi brevi e un linguaggio immediato. Sappiamo che c’è fame di uno sguardo intelligente sul mondo che sappia orientare, ma c’è bisogno di un pensiero che sappia fare le necessarie mediazioni, anche con le millenial, che sono ragazze sveglie, portano una soggettività libera, corrono veloci ed io vorrei correre con loro.

(www.libreriadelledonne.it, 26 gennaio 2018)

 

Siamo la Rete denominata 1° ottobre formata da associazioni, gruppi e singole personalità che intendono far valere il rispetto di principi fondativi della nostra civiltà: la integrità della persona delle donne, la procreazione come atto libero non soggetto al mercato e la salvaguardia dell’umanità del bambino che non può essere oggetto di compravendita. La pratica della maternità surrogata, in qualsiasi forma venga presentata, contravviene all’insieme di questi principi. La Corte costituzionale in una recente sentenza lo ha ribadito sostenendo che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità delle donne e mina nel profondo le relazioni umane”. D’altra parte la maggioranza del popolo italiano, come un recente sondaggio ha rilevato, si è dichiarata contraria a tale pratica.
Vi chiediamo pertanto di impegnarvi a rispettare il divieto di tale pratica previsto dal nostro ordinamento, di assumere misure per impedirne l’aggiramento e di agire a livello internazionale perché tale pratica venga progressivamente abolita.
Noi saremo impegnate, nella prossima campagna elettorale, a valutare la coerenza dei programmi e delle candidature. Faremo campagna invitando a non votare candidati o candidate che manifesteranno posizioni contrarie al mantenimento del divieto.

Firma la petizione

di Luisa Muraro

 

Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?

Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro, risponde con una lezione esemplare.

Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.

Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.

Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)

 

Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari

 

Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)… Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso…» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto – Alias, 24 dicembre 2011).

Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).

Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».

Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.

Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.

Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).

 

(www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018)

di Giordana Masotto – Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano

 

La notizia: con il 2018 in Islanda è entrata in vigore una nuova legge che intende porre rimedio alle discriminazioni contro le donne sul lavoro, in materia salariale e di carriera. Discriminazioni che continuano nonostante le norme sulla parità salariale, che pure ci sono da tempo sia in Islanda sia in Italia (e ovviamente in molti altri Paesi).

Che cosa cambia in sostanza? Fino ad ora un’azienda che viola quel principio di parità corre solo il rischio di essere denunciata. Adesso tutte le aziende islandesi con più di 25 dipendenti dovranno dimostrare che da loro non ci sono discriminazioni: solo così potranno ottenere una certificazione di qualità, codice ISO, che a questo punto le qualifica anche nel panorama internazionale. Non è un optional, è obbligatoria, e hanno solo da uno a 4 anni di tempo, a seconda delle dimensioni, per mettersi “in pari”.

È una notizia in linea con il “femminismo di Stato”, le politiche paritarie/antidiscriminatorie di alcuni governi nordeuropei, che fa seguito a uno “sciopero delle ore non pagate” fatto dalle islandesi. Fa un passo avanti rispetto alla logica dell’azione giudiziaria, che si è dimostrata poco efficace quando si tratta di andare a intaccare cultura, storia e condizioni materiali complesse. Con la nuova norma la parità diventa una qualità di base del contesto lavorativo, nuova e indispensabile per stare sul mercato. Tutto da verificare, naturalmente, quanto le nuove norme siano più cogenti delle precedenti e quanto possano risolvere i problemi. E comunque non si può non tenere conto che stiamo parlando di un contesto, quello islandese, delle dimensioni di… Bari.

Qualcosa che va nella stessa direzione è stato introdotto anche nel Regno Unito. Una legge del 2017 impone alle grandi imprese (oltre 250 occupati) di rendere pubblici, entro aprile 2018, dati che dovrebbero evidenziare le discriminazioni sia dei salari sia di carriera. Pare che per ora i dati stentino ad arrivare.

E in Italia? Il codice delle pari opportunità, fin dal 2006, obbligherebbe le aziende con oltre 100 dipendenti a fare rapporto sul tema. E le Consigliere di Parità, che dovrebbero controllare e agire, sono state istituite già nel 1991. Quello che sappiamo per certo è che di denunce ce ne sono poche.

 

Ma tutto ciò non ci emoziona più di tanto. Nè la pura logica della paga uguale per lavoro uguale (discriminazione salariale) né quella di quote e percentuali (discriminazione di carriera) possono riassumere la rivoluzione profonda che è in corso.

Alcune osservazioni per focalizzare meglio i problemi.

In primo luogo è indispensabile tenere conto che, almeno in Italia, il gap salariale non sta principalmente all’interno della singola mansione ma tra i diversi settori e ambiti professionali. Le professioni “femminili” nascono meno pagate. Negli anni settanta avevamo osservato che le paghe del contratto tessile (prevalenza donne) erano fino al 20% più basse di quello dei metalmeccanici (prevalenza uomini). Oggi maestre e assistenti sociali, pur avendo titoli di studio superiori, hanno stipendi inferiori a quelli di un operaio specializzato. E così via. Retaggio di un mondo in cui il salario principale era quello del capofamiglia/uomo e quello femminile era considerato complementare.

Le americane, negli anni Settanta, avevano imposto, almeno nelle pubbliche amministrazioni, il sistema del comparable worth ovvero la revisione dei punteggi/livelli di ciascuna posizione in modo da eliminare le differenze discriminanti tra maschi e femmine nel valore attribuito a ciascuna professione: per esempio, sopravvalutazione dello sforzo fisico e sottovalutazione delle capacità relazionali, per cui i giardinieri erano pagati di più delle assistenti sociali.

Ma la cosa più inquietante oggi su questo punto è che alcune professioni che si femminilizzano – come sanità ospedaliera, magistratura – hanno stipendi declinanti. Domanda: si femminilizzano perché sono meno pagate di un tempo o sono meno pagate perché sono una scelta preferita dalle donne?

Di certo sappiamo che le donne contrattano meno sui soldi anche perché hanno a cuore altri equilibri.

E veniamo così all’altra questione di fondo: maternità/paternità e dintorni (cura anziani – che è in crescita – e più in generale tutto il lavoro necessario per vivere). Più donne che uomini preferiscono riduzione/flessibilità di orario; per consentirle le aziende devono (o dovrebbero) riadattare la propria organizzazione del lavoro per rendere ugualmente produttiva una mansione ad orario ridotto/diverso. Spesso questo costo organizzativo – vero o presunto che sia – viene ribaltato almeno in parte sulla lavoratrice, in una sorta di scambio tra “orario friendly” e aumenti retributivi.

La conclusione su questi punti è che solo un’ottica più inclusiva per tutti, uomini e donne, della qualità della vita (Pil o Bil? Prodotto o benessere interno lordo?) potrebbe mettere un po’ di ordine nel benefico sconvolgimento prodotto dalla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ribaltando così un rischio diffuso, che attraversa anche tante politiche paritarie: di considerare le donne come vittime-da-risarcire e non come soggetti liberi che chiedono per tutti un più alto grado di giustizia.

Infine, non possiamo non vedere anche ciò che non è quantificabile, ma che importa e molto. Nel lavoro molte cose passano attraverso relazioni tra persone, individui in carne e ossa che prendono decisioni. Che incarnano, più che norme o politiche aziendali, i propri piccoli o grandi poteri. Quando parliamo di discriminazioni, meriti, qualità del lavoro, dobbiamo parlare anche di questo. Come intervenire? Noi pensiamo che la scelta giusta – e lungimirante – sia di valorizzare, nei diversi contesti lavorativi, le donne che hanno consapevolezza della posta in gioco e che pensano in grande. La buona notizia è che ce ne sono sempre di più.

 

(libreriadelledonne.it, 15/01/2018)

 

di Sara Gandini

 

“Gender (R)evolution” (ed.Mursia) è il titolo dell’ultimo libro di Monica Romano, attivista, scrittrice ed esponente trans del movimento LGBT italiano. L’autrice racconta i suoi vent’anni di esperienza di attivista e insieme le storie di chi negli ultimi cinquant’anni ha lottato in Italia e all’estero per il riconoscimento e i diritti delle persone T (trans). Le narrazioni si intersecano anche a letture che hanno rivoluzionato la sua visione delle cose, permettendo una presa di coscienza sul proprio desiderio e sulle lotte politiche conseguenti.

“Sarai una donna per il mondo tra poco, per cui ci sono cose che devi imparare e fare tue. Ad esempio gestire gli uomini con scaltrezza…”, le diceva la madre mentre Romano intraprendeva a 19 anni il percorso di transizione per divenire una donna trans (MtF, in gergo, male to female, da uomo a donna). Il sostegno della madre non le manca e questo è fondamentale per Monica Romano, che a tratti le sembra che il mondo stia cambiando, che si stia cominciato a capire, che la discriminazione sia a un passo dall’essere finita, ma di fronte alle violenze subite da alcune trans il dolore ha la meglio e riemerge la paura che si tratti solo di una illusione. E ci pone una domanda: perché c’è così tanto odio nei loro confronti?

Monica Romano sa bene di cosa parla perché le donne trans sono anche più esposte alle violenze rispetto agli uomini trans (FtM). Questi ultimi si mimetizzano, mentre le donne trans diventano dei bersagli. D’altra parte per il senso comune “una donna che diventa uomo” è molto più tollerata, perché sale nella scala sociale mentre “un uomo che diventa donna”, abdicando al privilegio di appartenere al genere dominante e al potere che ne consegue, è sovversivo rispetto all’ordine patriarcale, quindi imperdonabile.

L’autrice racconta infatti delle violenze subite da alcune “sorelle”, come le chiama lei, vittime del maschilismo e costrette a lavorare nell’industria del sesso. Per molte trans la prostituzione coatta è l’unica via possibile perché il mondo del lavoro è accecato dai pregiudizi.

E così le domande di senso si susseguono lungo il libro: Perché la società non è pronta per noi? Che cosa significa essere transessuali o transgender? Perché siamo quello che siamo? Nasciamo così o lo diventiamo? Per finire con la domanda più dura: la nostra è davvero una malattia?

L’autoironia le salva anche rispetto al rischio di perdersi tra definizioni, categorie e identità che caratterizzano i movimenti per i diritti civili: “gender fluid”, “gender queer”, “intersex”, “androgino”, “bigender”…
Ironia e senso critico sono le loro armi. E così in tutto il libro il ricorso alla medicalizzazione viene problematizzato e denunciati gli interessi dei chirurghi estetici che si approfittano delle fragilità dei/delle trans. La Romano ricorda inoltre che in Italia, così come in molti paesi, il cambio di sesso viene accettato anche senza la chirurgia demolitiva degli organi genitali. Sostiene tuttavia che la modifica del proprio corpo, anche medica, può essere fondamentale per vivere in pace con se stessi, per chi soffre di disforia di genere, ovvero quelle situazioni in cui sesso biologico non corrisponde a ciò che si sente vero e giusto per sé.
Le contraddizioni fanno parte della loro quotidianità: da una parte coniano il termine “euforia di genere” raccontando della gioia di vivere in alcuni momenti di conquiste e di condivisioni, e dall’altra l’autrice confessa il disprezzo che provavano verso loro stessi e il fatto che nessuno di loro sia immune da quel male dell’anima chiamato transfobia interiore.
Lottano per non mancare di rispetto verso se stesse, pur di farsi accettare e cercare redenzione da un presunto peccato originale: quello di cercare di “sembrare donne”. E così festeggiano tutte/i insieme quando qualcuna di loro rinuncia a fare l’operazione e cerca di accettarsi “senza mutilazioni”.

Quello che mi è piaciuto del suo sguardo è l’assenza di un punto di vista morale, di cosa sia giusto o sbagliato rispetto a chirurgie demolitive, terapie ormonali o altro. Stare all’ascolto dell’altra, alla sua verità soggettiva, è la loro pratica, come quella del femminismo che amo. Perché la messa in parola di ambivalenze e contraddizioni porta alla ricerca del proprio desiderio.

“Di quante parole avevamo bisogno” scrive “riprendevamo quel filo della nostra narrazione corale che ci era stato tolto dalle mani, partendo dalle singole storie”. Si rendono conto di avere un vissuto unico di cui devono prendere la responsabilità ed esserne protagoniste anche nella presa di parola.
Anche partendo da questo Romano polemizza con i fautori della cosiddetta “teoria gender”. Sottolinea che non avrebbe avuto alcun senso la sua lotta per essere riconosciuta donna dallo Stato e il suo definirsi donna transgender se la lotta trans fosse quella di cancellare i sessi. Il nominarsi donna trans, oltre a esprimere “la sua identificazione primaria al genere femminile”, come lei afferma, ha una valenza politica. Quando ha cominciato a fare attivismo ha iniziato a definirsi prima di tutto femminista e nomina il problema del maschile spacciato per neutro come un problema che permea tutti gli ambiti della vita, da quello famigliare a quello relazionale nel lavoro, dato che veniamo da una cultura patriarcale. Ribadisce quindi le relazioni politiche con gruppi femministi con cui ha iniziato da anni a creare ponti e alleanze, a partire dalla consapevolezza che il personale è politico e dal riconoscimento del valore dell’autocoscienza: “Noi non performiamo! Noi siamo” afferma la Romano.

Negli anni capisce che questa T, trans, diventa uno status per lei, non più un passaggio. Da allora in poi lei sarebbe stata una donna trans e “l’amore per il proprio corpo un ottimo presupposto da cui partire”, senza bisogno di rinnegare il dato biologico o la storia da cui viene.

Nel libro di Monica Romano ho letto di vite lontane dalla narrazione mainstream per cui i trans sarebbero solo casi umani, la cui vita è “una via crucis senza luce, quasi mistica e vagamente espiatoria.” Qui la fatica lascia spazio alla percezione che quel percorso è in realtà un dono, un viaggio che solo in minima parte riguarda il corpo e che ha regalato loro esperienze e incontri davvero speciali. Da una parte Monica Romano sottolinea l’importanza che nessuno pretenda di universalizzare la propria esperienza, rendendola paradigma, e tuttavia dichiara che le battaglie delle persone transgender hanno portata universale. La loro ricerca a mio parere ha molto a che fare con la ricerca del senso libero della differenza sessuale, fuori da logiche identitarie e biologismi. Monica Romano mostra un percorso personale e politico, a partire dalla riflessione sui corpi e sulla sessualità, che il femminismo secondo me dovrebbe riprendere.
La lettura di questo libro mi ha permesso di entrare in un mondo per me lontano e allo stesso tempo di ritrovarmi in una stimolante sintonia perché la differenza sessuale è un significante, un fatto “da scoprire e da produrre”, come scrivono le donne della comunità di Diotima nel loro primo libro “Il pensiero della differenza sessuale” (La Tartaruga, 1987). Monica Romano racconta di soggettività vive e combattive, molto politiche, e offre spunti da ascoltare e su cui riflettere, per il femminismo e non solo.

 

 

(libreriadelledonne.it, 12/01/18)

di Luisa Muraro

 

Bellissimo il titolo dell’articolo di Nadia Lamlili su “Jeune Afrique”, e coraggioso. La nostra cultura viene da una religione del dio incarnato per cui a noi sfugge l’audacia di accostare la grandezza divina e quella umana, per l’islam incommensurabili. Ed è così che sentiamo che la donna fa una differenza: lei può… Buono anche il testo, nella sua semplicità senza pretese. Secondo me, c’è da imparare sia dalla sua scrittura sia dalla lettura che ci dà della realtà.

Per cominciare, ci insegna che, se vogliamo scrivere, meglio avere qualcosa da dire. E dirla!  Senza perderla di vista e senza ripeterla piattamente. Il titolo, quando è buono, la farà risuonare. Nei testi brevi, meglio non perdere tempo con tanti giri di parole, e Lamlili non lo perde. Il suo incipit è una costatazione generale d’impatto forte (nei paesi arabi le cose cambiano favorevolmente per le donne), non messa lì tanto per cominciare; segue un ma ed ecco l’annuncio di quello che ha da dire, richiamato nel finale. Di mezzo, viene tutto quello che serve a sostanziare, documentare e, in caso, chiarire.

Quanto alla lettura della realtà, la giornalista parla chiaro: le buone leggi non sono sufficienti, deve cambiare anche una certa cultura maschile dominante nelle classi popolari e per cambiarla ci vuole anche l’azione convergente di quelli che hanno responsabilità educative.

Senza riscrivere l’articolo, che parla da solo, attiro l’attenzione sullo snodo principale del ragionamento. Nadia Lamlili è consapevole che l’accettazione di sé, passaggio fondamentale nella lotta delle donne, trova aiuto in un’immagine sociale di valore, che va promossa da persone in posizione di farlo. Cosa che, nei paesi dei quali sta parlando, in particolare nel suo che è il Marocco, chiama in causa anche l’autorità religiosa.

Qui la nostra lettura rischia di sbandare. Improvvisamente sentiamo l’esigenza di darle ragione o torto. Sentiamo il brutto richiamo dello schieramento. Nella cultura di sinistra il valore delle differenze e della pluralità, è moneta corrente a parole, ma in pratica?

Anni fa, prima che si costituisse l’Isis, in Emilia (se ben ricordo), durante una manifestazione di lavoratori alcuni partecipanti scandirono slogan con  il nome di Allah. Il giornalista del manifesto trovò da ridire e Valentino Parlato intervenne a difendere quei manifestanti spiegando che la laicità non è un credo e non va imposta come se lo fosse. Giusto, ma la saggia posizione di Valentino Parlato poteva bastare a valorizzare l’uomo che, nella difficile condizione d’immigrato straniero e sfruttato, cercava dignità e forza invocando il suo dio? I fatti succeduti in seguito, suggeriscono che no, non bastava.

La nostra lettura rischia di sbandare, secondo me, a causa di opposti pregiudizi che abbiamo noi. Avrete notato anche voi che la denuncia femminista degli stereotipi che ingabbiano l’immagine sociale delle donne, porta degli esempi che sono… sempre più stereotipati! È evidente che la denuncia riguarda i presunti stereotipi degli altri nella perfetta ignoranza dei propri.

Nadia Lamlili assegna all’autorità religiosa un compito notevole nell’educazione del popolo. Vuol dire che si tratta di paesi arretrati? Ma lei, di fatto, respinge una proposta di cultura laica che viene propagandata da paesi ex coloniali, nel suo caso la Francia. Vuol dire allora che dobbiamo darle ragione? No, né l’una né l’altra cosa: il dilemma rispecchia i nostri pregiudizi. Infatti, la giornalista di Jeune Afrique in questo passaggio del suo discorso non fa ragionamenti sociologici o storici; lei sostiene semplicemente che bisogna tenere in conto tutto quello che può favorire la libertà femminile. Punto.

La politica delle donne domanda una spregiudicatezza sui generis, speciale e intuitiva al tempo stesso. Questo articolo ne è un esempio.

Nel Piano delle femministe che hanno un piano contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, si nota una costante preoccupazione di laicità obbligatoria in tutte le proposte che vengono avanzate. Mi domando: è realistico in un paese in parte cattolico, che ospita molte comunità mussulmane destinate a diventare italiane? Ed è necessario? A me pare che sia un caricarsi di pre-giudizi che hanno una loro storia e un loro senso, ma che vanno lasciati indietro, nella convinzione che, senza, la libertà delle donne camminerà più veloce. Una volta ho coniato questo titolo: Partire da sé e non farsi trovare. Ora aggiungo: neanche dai propri pregiudizi, e vi chiedo: è possibile?

 

(www.libreriadelledonne.it, 5 gennaio 2018)

di Giordana Masotto
E se stesse finendo la carica identitaria dell’orgoglio gay? Adesso c’è chi sente stretta quell’etichetta. Qualcosa che sta perdendo la sua forza allegra e dirompente, ma piuttosto marginalizza. «Non voglio essere chiamato gay, perché sono un uomo. Mi sembra incredibile che ancora oggi si usi questo termine: sono biologicamente un maschio. Lo stesso vale per una donna, che è una donna punto e basta, al di là di tutto. La parola gay è stata inventata da chi ha bisogno di etichettare e io non voglio essere identificato in base alle mie scelte sessuali». Così si esprime Stefano Gabbana (noto imprenditore della moda, Dolce & Gabbana, in coppia anche nella vita per 20 anni) in una recente intervista sul Corriere della Sera (17 dicembre 2017).

Dunque: qui abbiamo un essere umano di sesso maschile, pubblicamente noto per la sua omosessualità, che nel momento in cui vuole essere compreso in tutta la sua umanità afferma di volersi dire uomo e ritiene che lo stesso valga per le donne. Umanità è: donne e uomini liberi/e. Liberi/e anche nelle loro scelte sessuali che certo non devono discriminarli/e, ma che neppure possono esprimere pienamente e riassumere la loro soggettività.

Guardiamo la cosa dall’altro punto di vista: dirsi uomo, dirsi donna non sono più rigidamente connotati dalla storia patriarcale, ma possono essere usati per indicare una nuova comune umanità, singolare e plurale.

È un segnale interessante, credo, per tutti gli uomini che vogliono ragionare sul proprio essere uomini, che abbiano relazioni omosessuali e/o etero.

È un segnale che va a rinforzare quello che Cristina Gramolini dice da tempo, a costo di conflitti laceranti. Nel congresso di Arcilesbica dell’8-10 dicembre è stata eletta presidente: anche questo un segnale da non sottovalutare. Dice Gramolini con lucida ironia: «La nostra collocazione è nel movimento delle donne. (…) La parola dell’anno è femminismo. E il femminismo non è un pranzo di gay». E precisa: «È  vero che la femminilità ha delle incrostazioni culturali ma non si riduce solo a questo, non è una finzione: la donna esiste. (…) Non è che sotto il genere non ci sia nulla, la differenza esiste».

Mi preme sottolineare questi segnali perché gettano un po’ di luce su quello che ritengo un nodo importante del presente: l’inganno identitario. Ci stiamo immersi. Etichette e appartenenze invadono le vite e lo spazio pubblico, si sedimentano nelle relazioni e nella politica, dai profili dei social alle rivendicazioni nazionaliste. Offrono ancoraggi disperati in tempi di incertezze assolute.

A scuola, tanto tempo fa, mi hanno insegnato che è un errore dire “sono insegnante”, “sono impiegata”, è corretto dire “faccio l’insegnante”, “faccio l’impiegata”. Mi pare una buona regola, anche se giustamente lottiamo per poter aderire a quello che facciamo. Era così anche nel femminismo degli anni ’70: nei gruppi di giovani donne che eravamo allora si parlava moltissimo di sessualità, volevamo andare oltre gli schemi culturali e storici imposti al nostro essere donne. La radicalità non faceva certo difetto, anzi era nello spirito del tempo: si facevano esperienze in molte direzioni, ma non veniva in mente di farsi definire da quelle scelte e da quelle scoperte. Questo non vuol dire che tutto andasse liscio, c’erano problemi e tensioni certo – i piccoli gruppi possono essere anche molto normativi – ma le definizioni identitarie non erano attraenti. Niente è sufficiente a definirci una volta per tutte.

Oggi io vedo segnali di questo inganno identitario anche in campo femminista.

Mi riferisco in particolare al testo di Non Una Di Meno “Abbiamo un piano”. Il testo, frutto di una complessa e ricca scrittura collettiva, afferma di basarsi sui principi del femminismo e del transfemminismo. Dunque lotta contro il “binarismo di genere” come prodotto storico – cioè violenza del maschile che si impone come neutro universale per controllare il corpo femminile e la sua “spaventosa” capacità generativa – ma intende anche cancellare il maschile/femminile per educare invece a “una pluralità, potenzialmente infinita, di differenze”. Da qui la necessità di moltiplicare le sigle delle preferenze sessuali (LGBT*QIA+…) che diventano così inevitabilmente etichette identitarie con relativa rivendicazione di diritti e regole del politicamente corretto.

Al contrario, io credo che possiamo radicarci nelle nostre esperienze, nei punti di vista che ne scaturiscono, nelle pratiche politiche che scegliamo, ma non in etichette identitarie. Possono darci forza per combattere discriminazioni e ingiustizie, ma non oltre. Quello che sta dentro i nostri armadi (da cui il coming out) e quello che vogliamo di volta in volta portare in giro fa parte di una contrattazione continua: teniamoci stretta questa libertà e questa sfida. Siamo andate/i oltre: partendo dalla presa di parola, mettendo in discussione i destini legati a identità sessuali forgiate da secoli di rapporti di potere, possiamo dirci donne libere e uomini liberi che cercano relazioni con donne e uomini. Sessualità e politica sono incontri liberi di soggetti radicati nei propri corpi sessuati. Moltiplicare i sessi all’infinito non rende più aperta e vitale la società, al contrario spegne le dinamiche del desiderio e del conflitto, mette argini e binari a ciò che deve correre libero.

Quando noi parliamo di differenza sessuale non parliamo di identità. Lo ha ribadito di recente Luisa Muraro nell’articolo Possiamo chiamarlo il piano femminista della libertà? commentando “Abbiamo un Piano”.

Voglio solo aggiungere che la “perenne negoziazione” della differenza sessuale ha sì bisogno di agire politico e di conflitto, sia nelle relazioni che nel modificare lo spazio pubblico a tutti i livelli – simbolico e materiale – ma non di trasposizione sociale in quanto tale. Lascio la parola a Judith Butler che lo dice meglio di me: «Questo umano non sarà “uno”, in verità, non avrà una forma definitiva, ma sarà impegnato nella perenne negoziazione della differenza sessuale, secondo modi che non hanno un effetto naturale o necessario sull’organizzazione sociale della sessualità. Nel sottolineare che questa rimarrà una questione persistente e aperta, intendo suggerire di non avere alcuna fretta di dare una definizione inconfutabile di differenza sessuale, e che preferisco lasciare la faccenda aperta, problematica, irrisolta, e promettente» (J.B., Fare e disfare il genere, Mimesis 2014).

Noi diciamo “il senso libero della differenza sessuale”. Frase importante perché, a volerla capire fino in fondo, ci dice anche che la libertà non può essere ridotta ad autodeterminazione, ma è sempre in relazione. E questo apre un altro capitolo.

(www.libreriadelledonne.it, 5 gennaio 2018)

di Sara Gandini

 

(in fondo intervento di Silvia Niccolai)

 

 

Quando vedo una madre alle prese con la ricerca di libertà della figlia, insisto perché si riconoscano le capacità e le qualità che si intravvedono nella figlia, perché la si sostenga, anche se imperfetta, anche su aspetti che, in una società come la nostra a misura maschile, potrebbero sembrare difetti o potrebbero portare ad essere persone non di successo. Io sono figlia di una femminista che ha lottato per la sua libertà e si inorgogliva anche a veder crescere la mia. Ho acquisito col tempo la consapevolezza della forza interiore che quella certezza mi dava e che mi permetteva di dire: il mondo è migliore se ci provo pure io, e i progetti che metto in piedi riescono a farcela anche quando io non potrò esserci, se do fiducia alle donne che se ne faranno carico.
Perché dico questo?

Perché le donne della mia generazione raramente si alzano in piedi per far sentire la loro voce. C’è ancora un diffuso senso di inadeguatezza femminile che non credo si possa più attribuire solo alla storia patriarcale. Le donne della mia generazione che vogliono fare politica spesso si riparano all’ombra delle madri, delle donne che hanno fatto il femminismo.

Eppure grazie al femminismo il mondo è cambiato. Le eccellenze femminili non fanno più notizia, ci sono grandi donne in ogni ambito, dall’economia alla scienza, spiccano e sanno esserci con intelligenza. Le donne hanno imparato a lottare per sé, per poter emergere e arrivare a posizioni di potere, e hanno imparato a lottare per poter vedere riconosciuta la propria personale autorità. Questo non è poco, ma non basta.

In generale le figlie e i figli degli anni ’70 non hanno fiducia nella possibilità di poter incidere, di poter contare qualcosa, di poter far accadere eventi importanti nel mondo: hanno scarsa fiducia nelle proprie potenzialità politiche. Rispetto alla generazione precedente, che a 20 anni pensava di poter cambiare il mondo, soprattutto le donne non si sentono mai abbastanza preparate, e le ragioni sono varie. Due sono quelle cruciali.
Innanzitutto le vite delle 40-50enni sono senza spazi. Nella mia esperienza, dalla impiegata nel settore pubblico, alla dirigente universitaria, alla ricercatrice in settore privato, alla negoziante creativa, le figlie degli anni 70 sono alla sopravvivenza, anche se non mollano. Arrancano nel lavoro, per reagire al costante mobbing e alla retorica della crisi che rende le loro vite ricattabili. Strappano il tempo con le unghie dalle proprie vite, per non ridursi ad esser solo casa e famiglia. Resistono perché nel mondo ci sia libertà e intelligenza femminile ed essere fiere delle loro vite. Eroine le chiamo. Sono donne che lottano lontano dai riflettori, perché qualcosa di nuovo possa accadere, non solo per se stesse.

L’altro motivo è che l’autorità femminile fatica a circolare. Raramente si vede un genuino riconoscimento del valore dell’altra da parte di chi ha acquisito autorità. Credo che si tratti di un difetto di attenzione, di amore, di sogno da parte delle madri biologiche o simboliche verso le donne che vengono dopo. D’altra parte le donne della generazione di mia madre hanno dovuto lottare con se stesse, prima di tutto, per non ricalcare il modello materno della madre sacrificale e oblativa. E’ stata una conquista interiore essenziale quella di mettere al centro il proprio desiderio, le proprie personali ambizioni, il proprio protagonismo.
Ma per creare società femminile ci vuole un altro ingrediente. Per far circolare autorità tra donne ci vuole il lievito dell’amore per l’altra. Come madre, non solo biologica, penso sia fondamentale assumersi questa responsabilità: restituire alle donne venute dopo di me uno sguardo che renda loro giustizia sulle capacità di poter agire con intelligenza sul mondo, perché sono convinta che questo inneschi un circolo virtuoso unico.
La madre (o chi per essa), che sa vedere la bellezza di sé nella figlia, che è fiera della libertà che ha saputo mettere al mondo, invita ad andare nel mondo senza paura e il mondo cambia di conseguenza. Faccio riferimento a quel circolo virtuoso di piacere dello scambio-amore-autorità circolante delle relazioni genealogiche tra donne prima di tutto, perché sono convinta si apra a spirale per arrivare anche agli uomini e alla società tutta.

 

 

PS Qualche giorno dopo avere pubblicato questo mio intervento ho incontrato il commento di Silvia Niccolai pubblicato nel libro Gestazione per altri. Pensieri che aiutano a trovare il proprio pensiero. Lo riporto di seguito perché penso illumini il mio testo e al tempo stesso allarghi lo sguardo politicamente:

 

 

Il problema di fondo – mi sono interrogata su questo – è mancanza di amore tra donne, questo è il punto, che è un punto di politica delle donne. Mi viene da dirla così: c’è troppo poca omosessualità femminile, omofilia femminile potrei dire. Quando ero giovane e iniziavo a conoscere il pensiero della differenza, facevo l’assistente universitaria, quindi seguivo questi tutti maschi in fila dietro il professore, e una mia amica mi fece notare: “Ma lo vedi i maschi come si piacciono fra di loro”, non per forza sono omosessuali sessualmente o affettivamente, ma c’è un forte senso di solidarietà, ammirazione, sostegno, emulazione. Non è per dire male degli uomini, al contrario, è per dire che questo senso di amore per il proprio sesso mi piacerebbe vederlo circolare di più, più fiducioso, tra le donne. Penso che invece sia sempre all’opera, nelle donne, l’idea che le donne in fondo siano degli interlocutori deboli, anche politicamente, rispetto agli uomini, e quindi ci si appoggia a un interlocutore che si ritiene più forte. Che ci sia anche un po’ di docilità femminile in gioco? In ogni caso è un conto pesante da fare, è un bilancio un po’ pesante, poco amore delle donne per le altre donne, l’amore che può spingerti ad avere cura di cercare le soluzioni, usare le parole che valorizzano le donne, e non il contrario.

Io non faccio il giudice, ma penso per esempio che se mi fossero capitate cause come quelle con le coppie lesbiche che vogliono adottare avrei cercato, proprio per amore delle donne e del mio essere donna, di differenziare, di far presente che si stava parlando di coppie di donne, di argomentare il meno possibile in termini neutri e antidiscriminatori, di evitare trappole linguistiche come “genitorialità” o “progetto di genitorialità”, che annullano l’esperienza e la differenza femminile. Avrei cercato di valorizzare la presenza della madre, il suo consenso. Lì c’era una mamma che dava il suo consenso all’adozione dei figli da parte della partner, e quello andava valorizzato, se la madre dà il consenso l’interesse del bambino deve essere considerato sussistente per definizione, tranne evidenze contrarie. È diverso dire che a quella certa creatura fa bene stare con la mamma che sua madre ha scelto, e dire che per ogni bambino sono sempre preferibili “rapporti di genitorialità più compiuti e completi” dell’avere la madre sola. Si può fare tanto se si punta a valorizzare l’esperienza femminile come tale, nominandola come tale. Non è che nel diritto manchino i modi per trovare le argomentazioni che direttamente o indirettamente valorizzano le donne, il problema è che spesso c’è una sorta di solidarietà a riconoscere, ancora oggi, più potere ai maschi e a prescegliere sistematicamente parole e argomenti che non valorizzano le donne.

(Intervento di Silvia Niccolai alla discussione del V Incontro sulla gestazione per altri al Circolo della rosa di Verona, 25 novembre 2016, pubblicato in Aa Vv, Gestazione per altri. Pensieri che aiutano a trovare il proprio pensiero, a cura di Morena Piccoli, VandAePublishing, Milano 2017, pp. 208-210.)

di Luisa Muraro

 

Si rimprovera all’autrice di Le donne e il prete il ritardo con cui ha raccontato certi fatti che hanno al centro un uomo da molti ammirato com’è stato e rimane Enzo Mazzi, fatti che, in parte, non gli fanno onore. E, soprattutto perché raccontarli ora che è morto e non può dire la sua, non può rendere conto di sé a quelli che custodiscono la memoria del suo nome?

La prima domanda che viene da porsi è proprio questa. Perché Mira Furlani, che è stata una protagonista nella storia dell’Isolotto, come fu evidente nel celebre processo del 1971 che la vide unica – e combattiva – donna tra i nove imputati per la rivolta dei fedeli di don Mazzi contro il diktat del vescovo Florit, perché ha aspettato tanti anni, quasi cinquanta! a darci il racconto di fatti che riguardavano la sua partecipazione a una storia che appassionò molti e che non pochi ancora ricordano?

Non so la risposta, ma di questo sono piuttosto sicura: ha scritto non prima di aver trovato la misura giusta per raccontare. Il tanto tempo trascorso da allora le è stato necessario per trovarla e forse ci voleva tutto…

Ho fatto la conoscenza di Mira Furlani su un treno che riportava lei a Firenze, me a Milano, entrambe di ritorno da un convegno femminista romano. Erano gli anni Ottanta, anni buoni per il femminismo in Italia. Nel corso della conversazione, in piedi nel corridoio, quasi subito lei mi parlò del suo impegno nel progetto delle case-famiglia dell’Isolotto, una vicenda che mi risultò oscura. Conoscevo la storia di Enzo Mazzi, prete progressista e conciliare, perseguitato dal vescovo reazionario di Firenze e difeso dai cattolici del dissenso, oltre che dai suoi parrocchiani, con il seguito delle messe celebrate in piazza, fino al processo terminato con l’assoluzione di tutti. Ma di case-famiglia non sapevo nulla. Mi colpì che era proprio questa la faccenda che stava a cuore alla mia interlocutrice, era lì che lei voleva portare la mia attenzione.

Chi ha letto Le donne e il prete, riconoscerà che anche nel libro c’è questo spostamento di attenzione rispetto ai racconti correnti sull’Isolotto. Ma nel libro viene esposto con una fermezza di sguardo che non c’era nel racconto del treno. “Racconterò i fatti così come li ho vissuti”, leggiamo nel primo dei capitoli dedicati a questa parte della narrazione, che non a caso sono quelli centrali nel libro. Va detto che ci troviamo in presenza di un’autrice che, senza avere speciali titoli di studio né passate pubblicazioni, scrive bene e sa raccontare, abbreviando e allungando secondo le esigenze della narrazione.

Il significato dello spostamento da lei operato, ci ho messo del tempo a capirlo.

Come risulta dalla lettura del libro (e risultò al processo), Mira ha vissuto e ricorda l’intera, appassionante vicenda di quel quartiere. Questo era in costruzione quando lei, giovanissima, ci arrivò, nel 1955. Dunque, l’attenzione preferenziale che lei porta sulla nascita delle case-famiglia, è deliberata. Devo dire che, ascoltandola la prima volta, di ciò mi resi conto, sì, ma l’ho interpretata nel peggiore dei modi, come sintomo deteriore di un soggettivismo tipicamente femminile. Mi parve una storia di “donne che non vanno d’accordo” e ciò mi diede fastidio. Dentro di me ho cercato di scusarla, nient’altro.

La lentezza della mia mente gravata da pregiudizi misogini interiorizzati, cosa che capita anche a una femminista, c’entra. Insieme ad altro, però, che riassumo alla buona: non è facile per una donna vedersi e farsi vedere come personaggio storico anche quando lo è al cento per cento. Pensate a Hillary Clinton.

Quello di Mira Furlani è un caso tutt’altro che unico ma per certi versi esemplare della dis-crepanza tra la verità soggettiva e la versione che diventerà storica, quando si tratta di protagonismo femminile. Le donne sono presenti e attive nella storia umana, chi più chi meno e a vario titolo, ma per tutte c’è una crepa che si apre al momento della ri-presentazione, similmente a quello che può capitare quando si secca un manufatto d’argilla o, peggio, si raffredda il bronzo fuso.

I libri di storia sono pieni di uomini perché l’esperienza di “lei” non fa testo, letteralmente. Dunque, se un testo per finire appare, come questo che ci racconta un tratto importante della storia italiana, dalla ricostruzione al movimento femminista, c’è da rallegrarsi, prima di qualsiasi critica. E poi da capire che cosa faccia ostacolo alla rappresentazione del mondo dal punto di vista femminile.

In tutti i libri che raccontano l’Isolotto – così comincia il capitolo 4 di Le donne e il prete – l’argomento delle case-famiglia è stato presentato frettolosamente. Come mai? L’autrice risponde con poche parole sulle quali bisogna fermarsi: “la nascita delle case-famiglia per bimbi orfani e abbandonati è stata sempre liquidata frettolosamente, col timore che parlarne più di tanto significasse intaccarne il privato” (io sottolineo). Se si presta un ascolto attento, qui si sente il punto cieco di una sofferenza. Sarebbe sbagliato, secondo me, imputare la reticenza esclusivamente a chi scrive. Chi legge deve fare la sua parte.

Mi sono chiesta: il progetto delle case-famiglia obbediva a scopi di propaganda? Mira Furlani non è sfiorata da un pensiero simile, e lei c’era. Il progetto, dice, era per l’Isolotto un concreto impegno di carità evangelica, e per i tempi di allora fu un passo avanti nel superamento degli istituti di assistenza ai minori.

Ma c’è dell’altro, mi pare evidente dalle parole citate. Forse, nell’ideazione del progetto o nella sua realizzazione, l’intensa amicizia tra Enzo e Mira conobbe un salto di qualità che non fu accettato, non dico: da lui o da lei, perché si tratta di una relazione ed è troppo difficile fare le parti – senza tuttavia ignorare che, in quel contesto, lui aveva un’autorità superiore a quella di lei. Forse, il nuovo non fu accettato perché la comunità non lo avrebbe accettato. E fu in questa direzione che si arenò lo slancio trasgressivo che animava tutta l’impresa dell’Isolotto.

Ecco il significato dello spostamento di attenzione che ho già segnalato. È un problema non da poco! Riguarda il senso di quel che può capitare a esseri umani e la direzione in cui procedere per il meglio desiderato e desiderabile. Si tratta di far emergere la verità soggettiva, di farla risaltare nel quadro generale, di farla lavorare simbolicamente per avere una rappresentazione più vera della realtà storica. Non dico soltanto al passato ma soprattutto al presente-passato/futuro, ossia man mano che la realtà stessa si pro-duce: viene avanti.

Nel racconto storico, in questo caso e in generale, la presenza delle donne, quale che sia il loro contributo, si usa ormai dire che viene messo ai margini. Non è esatto, sarebbe più giusto dire che la presenza viene obliterata, e il contributo mangiato, cioè “lei” resa illeggibile e il suo contributo assimilato, tutto in vista di una rappresentazione unitaria, senza le complicazioni di una alterità irriducibile.

Apro una parentesi. La cultura femminista ha tanti meriti ma ha anche tanta strada da fare. La sparizione delle donne dai libri di storia, non è l’effetto della loro discriminazione dalla scena pubblica, ma, al contrario, di un’integrazione che arriva alla consumazione, e non si può dire che sia finita.

Sulle pagine di Testimonianze non è tempo perso, spero, aggiungere che, in conseguenza di questa semplificazione unitaria, tutto ne viene offuscato, non escluso il sentimento religioso, che si forma malamente senza un forte senso della differenza dell’altro. Quando un uomo dice “io sono solo un uomo”, troppo spesso sottintende che il suo altro sarebbe Dio. Non dovremmo consentirci quest’abbreviazione, ne va di Dio, che per me non è cosa da poco.


(“Testimonianze”, n. 514, dicembre 2017, pp. 98-100)

di La Città Delle Mille


La Città Delle Mille è il fondo librario di MILLE LIBRI scritti da MILLE AUTRICI, che prenderà forma nella città di Bergamo grazie alle donazioni di tutte quelle e tutti quelli che vorranno partecipare.

L’aspirazione che lo anima è diventare uno strumento di conoscenza e di diffusione del pensiero delle donne, a disposizione di tutta la città.

Chiediamo di donare libri che abbiano significato e importanza per chi sta donando. Libri e autrici che abbiano smosso il pensiero, confermando o stravolgendo convinzioni, aprendo nuove prospettive, mutandone di vecchie, e che abbiano lasciato un segno. Libri come esperienze da condividere e dai quali a volte è forse anche difficile separarsi!

Chiunque può presentarsi al CSC – Centro Socio Culturale di via Borgo Palazzo 25 negli orari di apertura per donare un libro o consultare quelli già presenti nel fondo.

A chi dona è richiesto di scrivere il proprio nome, il nome dell’autrice e il titolo del libro, la data della donazione e il genere letterario più indicato su un foglio apposto all’armadio dei libri.

Per ora questo progetto non è inserito in alcun sistema bibliotecario.

Esistono delle guardiane di questi libri e sono le ragazze promotrici di La Città Delle Mille: Francesca Bolazzi, Adele Pappalardo e Greta Riva.

Il progetto di raccolta è reso possibile grazie al supporto e alla collaborazione di altre donne: Cristiana Capelli responsabile del CSC di Borgo Palazzo, della dottoressa Adamaria Rossano e di Alessandra Gabriele dell’Associazione La Terza Piuma.

A sostenere il progetto ci sono la forte convinzione che le pratiche di relazione, di dono e di cura siano molto più importanti e rivelatrici di quelle che reggono le economie “tradizionali” del profitto e ancora, che il pensiero differente delle donne sia la vera risorsa per determinare significati nuovi, prospettive comuni e altra civiltà.

 

INFORMAZIONI e CONTATTI

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I libri possono anche essere inviati per posta da tutta Italia, da tutto il mondo!

 

(www.libreriadelledonne.it, 29 dicembre 2017)

di Laura Milani


«Vediamo un fatto italiano, ancora lo scandalo di quel magistrato, gran porco, che, come si sa, adesso finalmente è nel mirino della stessa magistratura». Così Enrico Mentana (al TG la 7 del 18 dicembre) ha introdotto il servizio su Francesco Bellomo, il magistrato e consigliere di Stato che avrebbe costretto le sue studentesse a presentarsi ai corsi vestite con minigonna e tacchi, e che per questo è indagato dalla procura di Bari (LaPresse).

Qualcuno ha commentato l’espressione di Mentana definendola colorita e tagliente, qualcun altro ha notato una mancanza di aplomb e una postura fuori le righe ma, allo stesso tempo, ha riconosciuto che quello che Mentana ha detto è il commento che chiunque avrebbe potuto fare da casa. Altri invece hanno sostenuto che non avrebbe dovuto prendersi la libertà di giudicare prima di una sentenza.

Il video ha fatto il giro del web e ha raccolto l’approvazione di molti, donne e uomini. La coloritura delle sue parole mostra l’insofferenza di un uomo per il comportamento di un suo simile: lui ha semplicemente voluto affermare che non ci sta ed è bastata una parola per dirlo. Quando gli uomini intervengono per scheggiare la complicità maschile, per dire che non ci stanno, qualcosa accade. Ed è un buon giorno per tutti.

(www.libreriadelledonne.it, 29 dicembre 2017)

di Chiara Calori

Non posso evitare di parlare suonando preoccupata, allarmata e drammatica oltre ogni ragionevole misura, di fronte alla vicenda che ha coinvolto l’autorità sanitaria statunitense Center for disease control and prevention (CDC), la quale si è trovata assurdamente limitata dall’amministrazione Trump nella sua libertà di espressione, nella forma di un elenco preciso di termini da non utilizzare nelle richieste di finanziamenti per il 2019, le quali verranno rispedite al mittente “per correzioni” se contenenti le parole incriminate, evidentemente non gradite da esecutivo e Congresso. Un’operazione sottile, quasi raffinata, come dev’essere quando si vogliano introdurre limitazioni in una società democratica. Vediamo dunque le parole (già trattandosi dell’amministrazione Trump un’idea ce la si può fare, ma, anche qui, si è andati oltre ogni “ragionevole” aspettativa): diversità, diritto, vulnerabilità, transgender, feto, basato sulla scienza e basato sull’evidenza. Già l’insieme delle parole rivela una precisa scelta politica, diretta a colpire gli ambiti che vivono di quei termini e le relative politiche, quella delle donne in primis, e si potrebbe scrivere un articolo a parte per ciascuna di quelle espressioni. Invece di fare quello però, mi porrei piuttosto qualche domanda. Che cosa ha in mente un’amministrazione che vieta (o che sconsiglia caldamente, è uguale) l’utilizzo di un certo tipo di linguaggio? Perché poi farlo in sordina, quando ha ormai ben dimostrato di non voler fare un tipo di politica discreto e dialogante, bensì esplicito, fatto di slogan populisti e di eliminazione delle riforme democratiche dei suoi predecessori? Mi vengono in mente due risposte: o sperava che il tutto passasse inosservato, senza polveroni, o si è accorta che i diritti civili (tra cui il diritto alla salute per tutti) sono uno scoglio troppo saldo per pensare di travolgerlo con aperte riforme. Meglio lavorarlo alle fondamenta, di nascosto possibilmente.

Ogni tentativo di razionalizzare l’evento suona però falso e non riesce a cancellare l’impressione di fondo, che rievoca immagini, conosciute – almeno per le generazioni occidentali più recenti – solo leggendo libri, di stati totalitari che si ingeriscono nella vita e nella mente delle persone al punto di ridefinirne il vocabolario e la memoria. In 1984 si parla di “neolingua”, un inglese manipolato per servire gli scopi ideologici del regime, e di una storia collettiva che viene riscritta ogni giorno per renderla coerente con la narrazione statale o meglio, per costruirla. Perché è così: ciò che è raccontato esiste, e ciò cui viene negata la possibilità di essere detto viene privato della possibilità di esistere. Parafrasando Carla Lonzi, “quello che lui non dice non esiste”. Il linguaggio non è solo comunicazione. Il femminismo ne è ben consapevole, dal momento che proprio quello strumento ha reso possibile un riscatto delle donne, l’affermazione della loro pretesa di esistere (a modo loro) in questo mondo che è uno, la costruzione di una rete di riferimenti simbolici che funge da mappa per definirsi come identità uniche nel rispetto della propria singolarità (radicata nel genere). Qualsiasi attacco al linguaggio è un attacco all’essere umano e alla sua possibilità di esistere. Teniamo gli occhi e le orecchie aperti. Chissà quali potrebbero essere le prossime parole vietate…

(www.libreriadelledonne.it, 22 dicembre 2017)

di Luisa Muraro

Dei tanti moti, movimenti e rivolte che hanno dato una scossa al mondo, mezzo secolo fa, uno soltanto è arrivato fino a noi, il femminismo. Lo hanno chiamato ondata ma le ondate si ritirano, questa invece no, è rimasta e si è ancor più alzata in questi ultimi anni, in Italia come in tante altre parti del mondo. Femminismo è la parola dell’anno 2017, secondo lo storico dizionario Merrian Webster. Una vittoria sorprendente ma non inaspettata, è stato il giusto commento.

Ciò si deve anche a una nuova generazione di donne che al femminismo si sono richiamate per dare un nome alla loro lotta, parlo, per l’Italia, delle autrici e ispiratrici di Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. La loro mobilitazione, la loro proposta e la loro scelta di appartenenza sono per tante come me una provocazione gratificante con la quale vale la pena di misurarsi.

Comincio dal titolo. Trovo che sia buono: ha la forma di un annuncio, sta sospeso fra il promettente e il minaccioso, e risveglia l’attenzione. Il sottotitolo è necessario a completare il senso del titolo, ma gli fa ombra. Sembra quasi che ci siano due forme di violenza, quella di uomini contro donne e un’altra, imprecisata, violenza di genere. Avete uno o due piani? So, sappiamo tutte che la violenza maschile contro le donne non esaurisce la violenza associata alla sessualità. Io lo avrei detto così: Piano femminista contro la violenza sessuale e sessista.

Non difendo il mio sottotitolo, voglio invece capire la preoccupazione che traspare dal loro sottotitolo. L’Introduzione offre questa spiegazione: sì, il nostro piano riguarda due tipi di violenza, quella di uomini su donne e quella che si esercita “contro le soggettività LGBT*QIA+”. Ma io obietto, primo, che questo uso di “soggettività” è puramente convenzionale (la parola ha un altro significato), e poi che le lesbiche (L) sono donne, così come i gay (G) sono uomini. Sia chiaro che critico la spiegazione come tale, non il significato della formula LGBT*QIA+ nel suo insieme, compresa la sua tendenza ad allungarsi, che fa ridere ma ha un preciso significato, come dirò.

La lettura di Abbiamo un piano mostra in che cosa consista la preoccupazione che dicevo. C’è una parola che fa problema: sesso. C’è un’idea che si vuole respingere: i sessi sono due. C’è una posizione femminista da cui si vuole prendere le distanze, quella della differenza sessuale, che risale a Carla Lonzi, cioè agli inizi dell’ondata che non si ritira.

Partiamo da qui. La differenza sessuale non è tra uomini e donne: nel tra le differenze sono tante, di natura culturale e perciò mutevoli. La differenza sessuale è in, cioè nella singolarità del singolo, e lo collega alla grande storia della vita. Infatti, appare nel momento evolutivo in cui la vita si biforca, inventa il due per riprodursi dalla combinazione di due viventi tra loro differenti che portano ognuno/ognuna l’impronta del suo essere uno di due. I sessi sono due. Si chiama sessuazione ed è un’invenzione della vita stessa per riprodursi con più opportunità di durare, insegna la biologia.

L’invenzione del due arriva, per via evolutiva, anche alla specie umana. Ma non prendiamola come l’invenzione matematica dei numeri, è un’invenzione affidata alla natura e la natura fa le cose come vengono, un po’ per caso e molto per necessità. È a questo punto che accade quello su cui stiamo ragionando. L’essere umano nasce che può imparare a parlare e parlando diventa consapevole di sé per cui sa di non essere uno… Lascio la parola a Judith Butler che su questi temi ha molto riflettuto e scritto: “Questo umano non sarà uno, non avrà una forma definitiva, ma sarà impegnato nella perenne negoziazione della differenza sessuale”. Quest’ultima costituisce così “il luogo in cui si formula e riformula l’interrogativo concernente la relazione tra il biologico e il culturale” (dal nono capitolo di Undoing Gender, 2004).

Forse per trovare una risposta definitiva a questo interrogativo o per bisogno di conformarsi alla natura credendola perfetta, forse per qualche altra ragione, esempio la volontà maschile di disporre della fecondità femminile, in passato l’invenzione evolutiva dei due sessi dal cui incontro la vita può riprodursi, è stata interpretata come una legge di natura, una legge che doveva valere in assoluto, come la forza di gravità (tanto per intenderci). Non è così e basterebbe a dimostrarlo il fatto che la natura stessa non obbedisce a questa sua presunta legge. Ma c’è ben di più ed è il fatto della libertà umana.

Se è vero, come penso, che la differenza sessuale non è tra un individuo chiamato donna e uno chiamato uomo, ma in, se è vero, come si pensa comunemente e scientificamente, che siamo il risultato di un’evoluzione, creature desideranti, parlanti, agenti, consapevoli di sé, che si differenziano tra loro, singole e originali, bisogna bene che quella differenza venga assunta e interpretata liberamente.

Sono arrivata al punto: quell’elenco di sigle LGBT*QIA+ che si allunga indefinitamente, si è formato per dare voce alle minoranze sessuali, ossia a coloro per i quali quella presunta legge di natura era una forzatura e si traduceva spesso in qualche violenza, anche gravissima.

In questo come in altri casi, dobbiamo costatare che le minoranze, spesso pagando di persona, sono lì a segnalarci l’ottusità delle maggioranze che si cullano in dottrine che veicolano pregiudizi e violenze. Nella lista di sigle, insomma, oltre all’espressione di una unione fra diversi che rivendicano i loro diritti, a me pare di vedere anche una raffigurazione della ricerca del senso libero della differenza sessuale che ci riguarda tutti, tutte, compresi quelli che optano per l’in-differenza. È la “perenne negoziazione” di Butler. Socialmente, il risultato sarà sempre una sistemazione provvisoria, cerchiamo che sia la meno costringente possibile. Ma, umanamente, nella soggettività e nelle relazioni che la costituiscono, si tratta di quella ricerca mai finita per diventare quello che siamo, in carne e ossa e in prima persona. Carla Lonzi la chiamava autenticità. Possiamo chiamarlo il piano femminista della libertà?

(www.libreriadelledonne.it, 21 dicembre 2017)

di Vita Cosentino

Le donne sono dappertutto e tutto traballa. Sulla rivista Via Dogana abbiamo parlato a più riprese di Cambio di civiltà come posta in gioco del nostro tempo, come orizzonte grande del nostro agire. Luce Irigaray nei suoi libri da decenni prefigura un mondo che sia veramente di uomini e donne. A mio modo di vedere negli ultimi mesi c’è stata un’accelerazione in questa direzione, siamo a una svolta. Alcuni accadimenti ne sono segni evidenti e riguardano sia le donne che gli uomini. Hanno a che fare con la parola, una parola che rompe con la complicità. Qualcosa è diventato intollerabile. In questione è il rapporto tra uomini e donne e lo svelamento del nesso tra sesso e potere. Si sapeva che in certi ambienti, come per esempio il cinema, ci fosse un sistema di abuso di potere da parte di uomini potenti che esigevano prestazioni sessuali in cambio di promesse di lavoro, ma tutto passava sotto silenzio. Ora non è più così. Hanno cominciato a parlare conosciute star di Hollywood in un gigantesco scandalo a carico di Weinstein, un noto produttore di film di successo. Da lì è cominciata un’onda che non accenna a fermarsi e travolge parlamenti (l’europarlamento e il parlamento inglese), partiti politici, come in Francia, mondo universitario, scientifico, sportivo e via e via ogni giorno si aggiunge qualche tassello a questo quadro.E finalmente anche in Italia qualcuna ha parlato. Si è amplificato sui social ( con l’hashtag #metoo anche io, è successo anche a me) ed è diventata una valanga.

Ho letto svariati articoli, anche di donne, che sottovalutano questi avvenimenti oppure criticano le attrici che, come Asia Argento, si decidono a parlare dopo tanti anni. Mi sembrano letture miopi che non colgono l’essenziale di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi.

È cominciata una presa di parola di massa in tutto il mondo occidentale. Come dice Rebecca Solnit in un’intervista sul quotidiano La Repubblica: “Ad Hollywood, nella Silicon Valley, negli uffici, gli uomini si dicono: non possiamo continuare così. Lo stesso le donne: non possiamo più restare in silenzio”. (19 ottobre 2017). Sì è vero, qualcosa si è definitivamente rotto. E questo è già l’inizio di un nuovo patto tra uomini e donne.

Sono consapevole che è azzardato chiamare quanto sta accadendo autocoscienza, perché mancano le persone in carne ed ossa che si parlano e si confrontano. Sono consapevole che c’è un cascame di ipocrisie, di eccessi, di conformismi, ma tutto questo non può distoglierci dall’aspetto principale, soprattutto se si crede in una politica basata sulla parola. Parlare è già avviare la trasformazione del rapporto uomini donne, non o non solo nell’ambito dell’intimità, ma nella vita pubblica, in tutti quei luoghi dove troppo spesso gli uomini prevaricano. Sotto accusa c’è quell’intreccio sesso, denaro, potere, che abbiamo conosciuto con Silvio Berlusconi. Non era un’anomalia, era un sistema, come ha ben svelato Ida Dominijanni nel suo libro Il trucco. Era l’infrastruttura del potere maschile e sta saltando. Oggi vediamo quanto è estesa in ogni ambito della società e mentre negli Stati Uniti Weinstein viene cacciato dalla sua stessa Casa di produzione, è un vero scandalo che in Italia Berlusconi possa ripresentarsi sulla scena politica e tentare di candidarsi alla guida del paese nel silenzio generale.

C’è una richiesta di cambiamento della società nelle sue strutture profonde. È finito il tempo dell’attesa o delle lamentele da parte delle donne. Anche tra gli uomini molti dicono che è finita. È venuto il tempo di fare i conti. Il ripatteggiamento del rapporto uomini donne si fa dal vivo, luogo per luogo, situazione per situazione,con gesti di rottura, come stanno facendo quelle donne che hanno cominciato a parlare.

Siamo all’interno di un cambiamento così vasto e galoppante che si può parlare di rivoluzione culturale. Oggi le rivoluzioni non hanno caratteristiche di piazza, di spargimenti di sangue come ci insegna la storia, sono piuttosto rivoluzioni soggettive. Perché questo è il tempo delle soggettività. Non sappiamo quali sviluppi e conseguenze avranno questi fatti. Arrivano imprevisti e destabilizzanti. La questione principale è rendersi conto di quello che sta capitando. Farsi contagiare dall’onda e non rimanere alla finestra a guardare. Farsene attraversare. Clarice Lispector ha scritto: “Se progredisco nelle mie frammentarie visioni, il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa”.

Le donne sono le maggiori protagoniste di questo cambiamento. Si tratta di esserci. Ciascuna come donna consapevole della propria presenza nel mondo.

(www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2017)

Una tazzina di caffe, un cellulare acceso sulle notizie del giorno, il vasetto di marmellata, e una domanda: “Sei abbonata a Internazionale? Comincia la giornata con la newsletter […]“
Si tratta della campagna abbonamenti di Internazionale n. 1232, il settimanale di politica, informazione, cultura con articoli da tutto il mondo.
“Cerca la differenza” diceva un giochetto sulla Settimana enigmistica.
E noi l’abbiamo trovata: hanno scritto abbonatA”!
L’internazionale si rivolge alle donne, prima di tutto (perché il femminile non è escludente), e su queste fonda la sua campagna abbonamenti.
Un bel salto simbolico.
Stefania Giannotti e Sara Gandini

di Massimo Lizzi

Sono, per me, molto ammirevoli le donne, che sull’onda del caso Weinstein, denunciano in pubblico le molestie maschili. Sfidano il pregiudizio sessista, affrontano la rivalsa degli uomini, ed aprono per tutte uno spazio di riscatto. Molte hanno fatto nomi e cognomi.

Gli uomini democratici ammettono il maschilismo diffuso, ma si dicono preoccupati per le generalizzazioni e la giustizia sommaria. Gli uomini, accusati senza prove, verrebbero messi alla gogna, rovinati nella reputazione e nella carriera, nonostante il principio della presunzione di innocenza.

Il garantismo, in effetti, è un principio importante. Insieme con altri: la libertà d’informazione, la tutela dei più deboli, il contrasto dei reati, specie quelli che prosperano nell’omertà. Il garantismo dev’essere il principio prioritario? Esso tutela l’individuo dallo stato. Tuttavia, in un rapporto di potere, il più forte può far valere le sue garanzie per neutralizzare la tutela pubblica del più debole.

In tal modo, si sono spesso garantiti gli uomini violenti, come è mostrato nel documentario “Processo per stupro” (1979), dove per garantire gli imputati loro assistiti, gli avvocati difensori trasformano in imputata la parte lesa, rovesciandole addosso la summa di tutto il loro maschilismo, e in particolare il teorema «se se ne fosse stata a casa, non le sarebbe successo». Una linea di difesa che esprimeva in pieno il rapporto di potere tra i sessi, e puntava a mantenerlo.

Il garantismo agitato dai progressisti è maturato nel dopoguerra, quando la magistratura era quella reclutata dal fascismo con una formazione inquisitoria; poi ancora negli anni ’70, contro la legislazione d’emergenza, che, in assenza della flagranza di reato, esponeva ogni sospettato all’uso della forza e al fermo di polizia. Fu un garantismo giusto, data la sproporzione repressiva e l’essere parte in causa dello stato, con il rischio di vanificare la separazione tra l’accusa e il giudizio. Esteso ad altre situazioni, dove gli accusati sono parte del sistema di potere, nel caso della mafia, della corruzione politica, della violenza maschile, l’assillo garantista diventa un ideologismo e può farsi strumento di impunità.

È il caso del garantismo opposto alle testimonianze delle donne molestate che, in sostanza, dice loro: siate riservate, denunciate subito alle autorità, oppure tacete per sempre. Ma le violenze private sono spesso indimostrabili; non tutti gli atti molesti hanno rilievo penale; e le vittime non hanno sempre un interesse effettivo ad aprire una causa giudiziaria che può diventare per loro una seconda violenza. Infatti, moltissime sono le donne che non hanno neppure nominato i molestatori nella loro denuncia pubblica sull’hashtag #metoo, per mostrare il carattere endemico del fenomeno e non in un’ottica giudiziaria o persecutoria.

In verità, sono gli uomini, gestori del potere mediatico, a trattare le testimonianze come accuse giudiziarie; a considerare lo schema di gioco del tribunale l’unico valido per regolare il dibattito pubblico. Così come sono uomini i gestori del potere nello spettacolo, nello sport, in politica, che decidono di espellere i colleghi accusati, magari dopo averli a lungo coperti, nella condivisione della stessa cultura sessista.

La gestione scandalistica e sanzionatoria delle testimonianze provoca un effetto censorio, perché trasforma le vittime in carnefici. Se dalla parola di una donna dipende la sorte di un uomo, qualcuna forse sarà tentata di diffamare, ma molte saranno indotte a tacere, per rifiutare una tale responsabilità. Tra le garanzie da salvaguardare, dunque, c’è in primo luogo la libertà delle vittime di testimoniare le violenze subite senza essere obbligate a prendere la via del processo.

(www.libreriadelledonne.it, 30 novembre 2017)

di Marta Equi

Un gruppo di galleriste, artiste, curatrici, direttrici di musei, insegnanti e altre figure professionali del sistema dell’arte internazionale (tra cui artiste del calibro di Laurie Anderson, Cindy Sherman, Barbara Kruger e Jenny Holzer e galleriste come Sadie Coles e Barbara Gladstone) si presenta in questi giorni con la campagna L’abuso di potere non soprende (Abuse of power comes as no surprise)1. Nella lettera aperta, pubblicata dal The Guardian, le circa 7000 donne annunciano che non staranno più in silenzio rispetto agli abusi esperiti in questo mondo e perpetuati da artisti, galleristi, collezionisti, direttori etc.2

Non trovo sconvolgente l’accusa rivolta al mondo dell’arte – sono cose che noi sappiamo. (Appunto, no surprise.) Piuttosto, cioè che mi sembra interessante è questo: il cambio di registro. Mi spiego. È un momento di successo, si potrebbe dire, per il femminismo nel mondo dell’arte contemporanea; mi riferisco a importanti mostre internazionali, sezioni dedicate a fiere d’arte e acquisizioni consistenti nei musei di arte femminista o di arte prodotta da artiste.

Eppure, le firmatarie scrivono che si tratta di istituzioni e di individui di potere che beneficiano, finanziariamente e simbolicamente, dal riferimento al femminismo, senza cambiare in realtà i comportamenti sessisti e degradanti, tacitamente accettati in questo mondo.

Secondo la mia lettura della campagna, il punto chiave è che queste donne non chiedono (più) maggiore riconoscimento delle opere delle artiste o altre operazioni di visibilità nel sistema, ma si espongono in prima persona nel dire e chiamano a responsabilità gli altri soggetti coinvolti. Questo passaggio è importante perché indica come non sia più sostenibile l’idea di una autonomia astratta dell’opera (e di tutto ciò che le è connesso, il Sistema dell’Arte) rispetto alla persona che ne è a diverso titolo coinvolta (produzione, curatela, critica etc.).

L’arte, per me, è quel prezioso ambito del nostro stare dove una possibilità di senso, poeticità e libertà è sempre a disposizione, nella sua fragilità.

Ma non si può più credere nell’opera in assenza di una presa di responsabilità personale – ce lo insegna Carla Lonzi. In questo senso la critica femminista, sempre contemporanea, non distrugge, ma semmai pone le basi perché quel prezioso ambito del nostro stare sia vero e abitabile.

1 L’espressione cita un’opera d’arte degli anni ottanta di Jenny Holzer, facente parte della serie “Truisms” (verità inconfutabili / ovvietà)

2 Leggete qui la lettera mandata al The Guardian (Lunedì 30 ottobre) 

Qui il sito dove si possono leggere i nomi delle firmatarie e seguire l’iniziativa sui canali social


(www.libreriadelledonne.it, 16 novembre 2017)