di Massimo Lizzi
Nella sua difesa di Simplicio, Luisa Muraro legge il risultato elettorale come una vittoria dei partiti populisti ostili all’immigrazione e una sconfitta della Confindustria, invece favorevole. Concorda con la Confindustria nel ritenere gli immigrati una risorsa economica, ma difende gli elettori populisti, alla luce di due questioni che si pone anche lei: 1) Il benessere da noi guadagnato dobbiamo offrirlo alle ondate di nuovi arrivati, quando ancora ci dibattiamo per sfangarci da una lunga crisi che non passa? 2) A beneficio di chi va la risorsa economica, se i vantaggi sono dei ricchi quando l’economia va bene e gli svantaggi dei poveri quando invece va male? Così, gli elettori populisti, pur votando dei demagoghi, contro i propri interessi, mostrano di rifiutare la razionalità di un capitalismo fine a se stesso.
Di questa lettura condivido la conclusione sul capitalismo fine a se stesso, ma non le premesse, che spesso danno adito a conclusioni sfavorevoli ai migranti. È vero che i populisti si avvalgono della xenofobia, ma l’immigrazione è stato un tema secondario della campagna elettorale. È vero che riceviamo molti immigrati, ma siamo in un mondo in movimento e anche noi emigriamo: 100-200 mila italiani lasciano ogni anno il paese, 60 milioni di italiani sono all’estero. È vero che manca la giustizia distributiva, ma è anche vero che, senza un intervento della politica, i tassi di crescita sono troppo modesti per consentirla, anche quando diciamo che l’economia va bene; dunque le risorse economiche non valgono per arricchirsi, ma per non impoverirsi. Così il dilemma più pertinente mi sembra questo: noi italiani siamo in grado di difendere da soli il nostro livello di benessere?
Pare di no, perché perdiamo 300 mila lavoratori l’anno, a mala pena compensati dai nuovi lavoratori immigrati. Da molti anni, il benessere lo guadagniamo insieme a loro, che svolgono i mestieri più umili, duri, pericolosi e meno pagati, mentre danno in tasse e contributi più di quel che ricevono in servizi e assistenza, tanto da mantenere in attivo il bilancio dell’Inps; con i loro salari, in media più bassi del 20%, permettono l’acquisto di nuovi macchinari, che creano posti di lavoro per la manodopera più qualificata. Sono meno di un decimo della popolazione, ma producono più di un decimo del PIL. Con le rimesse aiutano i paesi di provenienza più della cooperazione allo sviluppo e degli investimenti privati. Nel complesso, l’immigrazione, non è una invasione, ma una trasfusione di sangue.
La paura di essere invasi dai disperati che attraversano il Mediterraneo e sbarcano in Sicilia (in calo del 32% nel 2017 e del 73% nel 2018), forma e allarma una pubblica opinione che si predispone a politiche di chiusura, anche in contrasto con i diritti umani e civili. Perciò, penso sia problematico accreditare questa paura. I migranti africani ci raggiungono per vie illegali e pericolose, perché l’Europa gli ha chiuso ogni possibilità di raggiungerci in modo regolare e sicuro. La Confindustria non è responsabile delle politiche migratorie ed è poco ascoltata. Prima i decreti del centrosinistra, poi e le leggi del centrodestra, tuttora in vigore, hanno ristretto i flussi di ingresso regolare e prodotto centinaia di migliaia di immigrati irregolari, i cosiddetti clandestini, periodicamente regolarizzati in massa, senza un vero governo dell’integrazione, con l’effetto di avere più abusivi, accattoni, micro-criminali.
Anch’io provo disagio per chi vive di espedienti, ma la marginalità non si risolve con l’esclusione delle persone. Peraltro, la realtà prevalente degli immigrati, anche quando sono poveri, è quella di persone rispettabili che conducono una vita dignitosa. Ed io apprezzo quasi sempre la loro presenza che compone una pluralità di voci, colori e simboli, che mi dà respiro con la sensazione di avere il mondo in casa. Ad alcuni di noi (compresa Luisa Muraro) la diversità piace, tanto che il 20% dei matrimoni sono misti. Ad altri invece non piace e non si fanno convincere dagli argomenti razionali. Si tratta di una differenza culturale. Noi nativi, siamo diversi per cultura, interessi, valori e l’immigrazione è motivo di conflitto anche tra noi. Se nell’intolleranza xenofoba c’è una parte di ragione, il miglior modo di comprenderla, per me, è combatterla.
(www.libreriadelledonne.it, 5 aprile 2018)
di Mira Furlani
Papa Francesco sulla prostituzione ha pronunciato parole chiare durante un incontro con i giovani al Pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma in vista della riunione pre-Sinodo dei giovani. Un lungo discorso il suo. Riassumiamolo:
«È una mentalità malata quella che porta a sfruttare la donna […]. Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. Chi fa questo è un criminale. Questo non è fare l’amore, è torturare una donna, è criminale». Francesco racconta in proposito di essere stato «l’anno scorso a visitare una delle case delle ragazze liberate da questa schiavitù: è da non credere. Una è stata rapita in Moldavia e portata legata a Roma, nel portabagagli», con la minaccia che le avrebbero ucciso i genitori. «Quelle che vengono per esempio dell’Africa vengono ingannate per un lavoro. Quando le portano nelle nostre città, quelle che resistono vengono torturate e a volte mutilate. Ci sono i giorni di “ammorbidimento”, quando arrivano: ti picchiano, torturano e alla fine cedi. Una delle ragazze mi ha detto che quando non ha portato la somma le hanno tagliato l’orecchio, ad altre hanno spezzato le dita. È una schiavitù di oggi. Qui in Italia, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, i clienti, al 90 per cento sono battezzati cattolici. E sono anche tanti. Io penso allo schifo che devono sentire queste ragazze quando gli uomini le fanno fare delle cose».
In un’epoca di liberismo come il nostro, dove tutto è diventato mercato, anche dopo sessant’anni dalla promulgazione dell’importante legge Merlin, i committenti, i clienti, gli sfruttatori del corpo delle donne restano sempre i maschi. Nel mercato libero il corpo femminile diventa sex work.
In questo contesto la postura spontanea di papa Francesco va nella direzione dello spirito della legge Merlin, così come ha messo in evidenza Silvia Niccolai nell’incontro sulla prostituzione avvenuto il 10 marzo scorso al Circolo della rosa/Libreria delle donne di Milano. Il suo giudizio, infatti, mette in causa coloro che alimentano la prostituzione con i soldi e che vi ricorrono pur sapendo delle sofferenze gravi da parte femminile.
Parlando a persone giovani papa Francesco ha trasformato un incontro rituale in un affondo politico nel nostro presente, affiancandosi alla discussione in corso nel movimento femminista. Il papa si rivolge cioè alla parte maschile, sicuramente e gravemente responsabile dei tanti mali legati alla prostituzione, senza fare delle donne il comodo capro espiatorio, come si è fatto per secoli e siamo sempre pronti a fare: il suo è un atto simbolico esemplare, doppiamente per un uomo nella sua posizione. E vale per tutti e tutte.
(www.libreriadelledonne.it, 22 marzo 2018)
di Cristiana Fischer
Care tutte,
ho letto l’articolo di Luisa Muraro “Difesa di Simplicio” e lo condivido in gran parte, ma voglio mettere in luce anche un altro aspetto della condizione dei Simplíci qui da noi e di quelli mondiali, e anche del Simplicio che è in me. Che condividiamo anche problemi di un genere diverso. Se in conclusione Luisa scrive che il capitalismo propone ormai solo se stesso ed è troppo poco, che cosa fare di conseguenza, chiede lei e chiedo anch’io?
Cominciare a prendere coscienza che è troppo poco, dice Luisa.
C’è un grande mare in cui navighiamo, a rischio di naufragare: il conflitto interiore di Simplicio, riversato in tv, sui giornali, nei social, nelle riunioni e a tavola, è tradotto in termini morali, i migranti hanno fame, sono perseguitati, subiscono le “nostre” guerre, subiscono i loro capi che “noi” sosteniamo, sono derubati da “noi” delle loro terre, acque, materie prime, quindi abbiamo il dovere di restituire accogliendoli.
In un delirio di onnipotenza, “noi” Simplíci della terra ci sentiamo colpevoli anche per quella parte del “noi”, i ricchi, il capitalismo che fa quelle cose. Siamo di fatto con il capitale solidali, nella difesa del poco che ci è rimasto, temiamo di perderlo se dobbiamo condividerlo, ma sentiamo e sappiamo che è doveroso e giusto accogliere i migranti.
Oppure, criterio più alto e generale, crediamo che è giusto che ognuno di loro sia libero di tentare di migliorare la propria vita, proprio come noi pretendiamo di poter scegliere scuola lavoro residenza. E perché invece un maliano no?
Ma è vero che possiamo in realtà scegliere, o almeno che ne abbiamo il diritto?
A un altro livello, ancora più alto, in ogni migrante è un’anima umana che ho davanti, il suo valore assoluto, chi sono io per voler impedire che arrivi qui, accettando i “campi” (Agamben) dei libici e gli accordi di Minniti?
Ecco i conflitti interiori del mio interiore Simplicio. Ma quanto veri, e insieme quanto bastardi e meticci: un po’ di religione, un po’ di etica “liberale”, un po’ di compassione, ed ecco le oscillazioni politiche e ideologiche, ecco le accuse di razzismo, o di buonismo, o di cinismo. Ecco il sofferto realismo di alcuni, e l’intolleranza che scoppia in altri, Bertoldo che sbeffeggia le buone maniere e i nobili sentimenti, e vota demagogico o reazionario. Ed ecco anche l’intransigenza e i vertici morali su cui si attendano noti intellettuali.
Il capitalismo ha ormai da offrire solo se stesso, è proprio così, ma saperlo ci salva dal rischio di naufragio, fisico e culturale?
Cominciare dal prendere coscienza di questo non significa vedere una strada davanti da imboccare: è fascismo, è razzismo, sì, no. Anzi, forse, non è detto neppure che una strada ci sia.
(www.libreriadelledonne.it, 22 marzo 2018)
di Serena Fuart
I reality mostrano a volte uno spaccato vero della società, mostrano personaggi più o meno famosi, che, nonostante sappiano di essere ripresi e sicuramente abbiano anche degli script da seguire, in qualche occasione non possono far altro che mostrare la loro vera natura: omofobi, sessisti, addirittura soggetti che incitano l’amico a uccidere la propria ex-moglie. Emerge anche il bello delle persone per carità, ma in queste trasmissioni va per la maggiore il peggio quasi sempre. Guardando noto anche le alleanze tra donne e uomini anzi più tra uomini che tra donne, spesso le donne in questi programmi competono tra loro mentre gli uomini fanno squadra. Cosa che succede anche in società. A parte i luoghi comuni, le donne sanno anche essere complici davvero e hanno delle relazioni solide e durature.
Mi sono chiesta allora da dove viene invece la competizione atavica tra donne e perché a volte capita che gli uomini facciano squadra meglio.
Come è stato detto e stradetto dal movimento femminista, il dominio sessista comincia da lontano e origina nell’innata paura che il maschio ha della femmina. Questa porta la creatura in grembo e genera sia maschi che femmine, entrambi completamente dipendenti da lei nei primi anni di vita (anche dopo, voglio azzardare). Allora, e cito sempre quanto dice la politica delle donne, il maschio, che non ha lo stesso sesso della madre, cerca il distanziamento da quel corpo che ama e teme e da cui è stato totalmente dipendente e si organizza con i compari per fare squadra, per sottomettere il sesso che chiamano debole ma che di cui in fondo hanno paura.
E le donne? Ebbene le donne non hanno paura delle altre donne e sotto sotto sanno della paura dei maschi per il loro sesso. Intimamente si sentono forti, sanno di questa loro forza e sanno anche che una donna, sia in un reality che nella vita normale, al maschio fa paura. E allora perché competere con chi in fondo ha paura? Perché non con una pari che è forte quanto se stessa?
Insomma, credo che avere delle relazioni tra donne sia meraviglioso, è una forza prorompente che può scardinare e ha già scardinato il dominio sessista. Ma non solo, relazionarmi con un’altra donna può darmi forza e competenza simbolica per vivere baldanzosa nel mondo.
Tuttavia ritengo che mentre per gli uomini fare squadra è indispensabile per l’innata paura verso l’altro sesso, per le donne non sempre è necessario.
(www.libreriadelledonne.it, 22 marzo 2018)
di Luisa Muraro
Sono anni che la Confindustria ci spiega, cifre alla mano, perché e per come gli immigrati sono una risorsa per l’economia italiana. Ultimo in ordine di tempo, un libro ricalcato sul modello del famoso Dialogo di Galileo Galilei sui massimi sistemi, ossia il vecchio sistema tolemaico del Sole che gira intorno alla Terra e quello della rivoluzione copernicana, che ha trionfato. Il libro s’intitola Dialogo sull’immigrazione, autori Stefano Proverbio e Roberto Lancellotti (Mondadori 2018).
Il personaggio di Simplicio nel Dialogo di Galileo era un aristotelico tradizionalista. Nel dialogo di oggi rappresenta il popolo che non ha “capito” il messaggio razionale della Confindustria. Nella nuova puntata che io aggiungo qui, è il popolo che ha votato i partiti ostili all’immigrazione, detti perciò populisti. L’Italia non è un’eccezione, l’elettorato di mezza Europa e quello degli Usa vota ormai come Simplicio. Farò la difesa del Simplicio italiano.
Sono sempre stata convinta che Confindustria abbia ragione: gli immigrati sono una risorsa per la nostra economia. E so che Simplicio vota “male” votando in favore di personaggi politici che hanno fatto della demagogia la loro specialità. Tuttavia lo difendo, interpretando il suo comportamento alla luce di due questioni che mi pongo anch’io. Una s’intitola: a quali condizioni? l’altra: a beneficio di chi?
Quali sono le condizioni che si sono create con l’imprevista, massiccia e destinata a durare (dicono) ondata migratoria? Una la conosciamo bene, anche se non viene mai messa in conto. Tutti, dai responsabili politici all’ultimo disoccupato, ci troviamo presi in un dilemma, che si riassume ferocemente in queste parole: mors tua, vita mea. Siamo un paese che, arrivato a un certo benessere sociale, si dibatte ora per sfangarsi da una lunga crisi che non passa. Domanda: dobbiamo offrire il benessere da noi guadagnato anche ai nuovi arrivati? In che misura? Con quali risorse?
La cultura che ci ha portati a un certo benessere si è basata, soggettivamente parlando, sull’individualismo e sull’egoismo familiare: non siamo preparati a spartirlo con altri. La vecchia cultura che sopravvive e favorisce la coesione sociale, era basata su valori tradizionali e locali: può ispirare dei buoni sentimenti ma ispira anche diffidenze e timori. E non rappresenta certo una via d’uscita dalla strettoia. Ma via d’uscita non è neanche il calcolo economico fatto sui grandi numeri: primo, perché questo calcolo trascende l’esperienza delle persone in carne e ossa; e poi perché non ci fidiamo di chi lo fa. Non ci fidiamo, cioè, che si faccia in funzione di uno stare meglio tutti.
A beneficio di chi vanno, in effetti, i vantaggi dell’economia quando va bene? Si sa da sempre su chi ricadono gli svantaggi quando non va bene. Se invece va bene? Il ragionamento di Confindustria sulla risorsa economica che è l’immigrazione, basta a confutare luoghi comuni sbagliati del tipo “ci portano via i posti di lavoro”. Ma non dice ancora niente sul resto. Per esempio, non serve a smontare il principio della competizione economica, per cui ecco che cosa pensa il popolo dei Simplicio: oggi gli immigrati fanno i lavori scartati dagli italiani, domani però… E, ovviamente, non serve neanche a correggere la distribuzione ineguale delle ricchezze. Dopo la sconfitta del socialismo, dopo che è finito il sogno di una giustizia egualitaria, è diventato un sogno anche quella distributiva. Il principio della disuguaglianza, infatti, si è elevato al cubo facendo più ricchi i ricchi e loro soltanto.
Simplicio ragiona male dal punto di vista della razionalità capitalistica e peggio ancora dal punto di vista dei suoi propri interessi. Ma, con l’evidente irrazionalità del suo comportamento, dice qualcosa di molto condivisibile, che va esplicitato. Dice che il capitalismo ormai non ha più niente di politicamente positivo da proporre tranne che sé stesso, ed è troppo poco. Non sappiamo che cosa fare di conseguenza? Per cominciare, prendiamo coscienza di questo: è troppo poco.
(www.libreriadelledonne.it, 18/03/2018)
Video dell’incontro del 27 ottobre 2017 con Marirì Martinengo: La pratica della Comunità di storia vivente, presso l’Associazione Sofonisba Anguissola – Galleria delle donne (Torino, via Fabro 5). “Per essere totalmente e veramente umana la storia dovrà scendere fin nei luoghi più segreti dell’essere fino alle viscere; le viscere sono la parte meno visibile, non semplicemente perché non lo sono, ma perché fanno resistenza a diventarlo. E le viscere sono la sede dei sentimenti… Il sentire ci costituisce più di qualsiasi altra delle funzioni psichiche. Potremmo dire che le altre le possediamo, mentre il sentire lo siamo (María Zambrano, Per una storia della pietà, in “aut aut”, 279, 1887, pp. 63-69).” Le parole della filosofa spagnola ispirano la pratica della Comunità di storia vivente, che consiste nell’interrogare il segreto sentire di ognuna – alla presenza e partecipazione di tutte – fino a farlo emergere, tradurlo quindi in parola e infine in scrittura, sempre con attenzione alla sua contestualizzazione nel tempo in cui si è verificato e si è strutturato. Gli obiettivi della pratica sono il raggiungimento da parte di ciascuna di una soggettività più libera e di immettere le donne, con la loro storia, nella storia.
di Antonietta Lelario
L’8 marzo mattina a Foggia è stato molto bello. L’auditorium della Biblioteca provinciale si è riempito di bambine e bambini accompagnati da genitori, insegnanti, bibliotecari, come la responsabile della biblioteca ragazzi Milena Tancredi, per leggere le loro lettere al sindaco di Foggia, proponendo nomi di donne per le vie e le piazze della città. Oltre alle proposte sono stati proiettati anche dei video che documentavano il lavoro didattico che ha coinvolto più di 450 alunni di scuola primaria e media. E per il sindaco c’era ad ascoltare e a raccogliere lo stimolo, l’assessora alla Cultura del Comune dottoressa Paola Giuliani.
Nell’atrio della biblioteca una mostra di disegni e piccole istallazioni rendeva visibile la ricerca svolta nelle classi sulla “città a misura di bambino/a e cioè di tutti” con un linguaggio ricco, plurale che sa alternare la parola, il colore, il disegno, il bianco e nero, il collage, il plastico, come sanno fare solo nelle scuole primarie in questo caso le insegnanti della scuola primaria San Giovanni Bosco e degli Istituti Comprensivi De Amicis-Pio XII e Parisi-De Santis.
All’origine del lavoro a scuola c’è stato il desiderio di utilizzare un libro, “Una strada per Rita”, edito da Matildaeditrice, in cui l’autrice, Maria Grazia Anatra, racconta di una bambina appunto che scopre, facendo una ricerca per la scuola, che la sua città ha pochi nomi di donne e, incoraggiata dalla nonna, decide di scrivere una lettera al suo sindaco per porre rimedio a questa ingiustizia. Il libro è impreziosito dai disegni di Viola Gesmundo che sa far rivivere l’irriverenza della bambina e la libertà del suo sguardo. Per questo le immagini spesso escono dai margini, sulla testa della nonna è acciambellato un gatto, le cose usuali vengono capovolte, in primo piano appare il vento che scompiglia capelli e cappelli e il movimento la fa da padrone. La bambina rappresentata anche di spalle appare autrice della ricerca e spettatrice, sempre di corsa, ma anche capace di fermarsi e di sognare. Il pregio del libro è quindi nel suo invitare ad un esercizio di sguardo capace di vedere gli aspetti nascosti della città e a fare di ciò che manca il motore del desiderio. Così è stato per i bambini e le bambine a cui il libro è stato proposto, che subito, in modo naturale, si sono mossi per le strade cercando la verità che il libro raccontava e, verificandola, hanno voluto seguire le orme del personaggio fino in fondo in un gioco che è poi l’eterno gioco fra rappresentazione e vita. In questa capacità di rimanere vicino a ciò che è naturale sta la grandezza delle maestre, in genere di tutte docenti. Mi diceva infatti la maestra Donata Glori: «Non avrei dato seguito al progetto se non avessi sentito, quando ho messo il libro nelle loro mani, che i e le bambine si entusiasmavano e che il percorso rispondeva al loro desiderio, la sentivano come una cosa giusta per sé».
È stato bello che il libro portasse a scoprire quante donne interessanti ci sono nella storia di Foggia e come queste fossero rintracciabili grazie al lavoro di chi ne ha conservato la memoria, come per esempio il circolo la Merlettaia ha fatto con Liliana Rossi. Molte io non le conoscevo e mi sono felicemente incuriosita. Infatti le figure femminili che i bambini e le bambine hanno scelto di approfondire e a cui vorrebbero fossero intitolati luoghi significativi della città sono:
Filomena Cicchetti che organizzò la protesta contro l’aumento del pane
Ester Dolci De Pilato, scrittrice di libri per l’infanzia e per i ragazzi
Dora Gatta, cantante lirica
Maria Marcone, insegnate, scrittrice, impegnata sui temi della cultura e della giustizia
Luisa Panniello, prima e unica regina del grano
Liliana Rossi, musicista, impegnata politicamente e nel sociale
Amelia Rabbaglietti, poetessa dialettale e ricercatrice di tradizioni foggiane
Esterina Zuccarone, montatrice di film
È stato bello che il femminismo acquistasse corpo e senso per tanti e tante bambine nella ri-conoscenza per le donne che ci hanno preceduto.
Quindi grazie, care maestre, per la forza che avete saputo prendervi e avete saputo darci.
L’Attacco, 11 marzo 2018
di Chiara Calori
Il film Tre manifesti a Ebbing, Missouri continua a fornire spunti di riflessione, questa volta indirettamente, grazie a Frances McDormand e al suo discorso di ringraziamento per l’Oscar alla migliore attrice protagonista.
Questo tipo di occasione solitamente è il momento perfetto per dichiarazioni sensazionali, epiche, che devono però il clamore che suscitano più alle circostanze che alla sostanza delle parole. Temevo fosse anche questo il caso. Mi sbagliavo. Non ha usato parole McDormand, si è rivolta alle altre candidate come lei e ha chiesto loro, semplicemente, di alzarsi in piedi, di mostrarsi, di rendersi visibili alla platea. Prima alcune, poi tutte, l’hanno ascoltata e si sono alzate. E si sono emozionate.
Perché mai tante donne, attrici, registe, sceneggiatrici, che godono di fama e popolarità, che magari sono già state premiate nella loro carriera e che sicuramente hanno avuto molti riconoscimenti, davanti a questo gesto si commuovono a tal punto? Perché sentono che quello è riconoscimento, quello e non invece tutto il resto che fino a quel momento avevano ricevuto e che riconoscono forse improvvisamente come un apprezzamento ingannevole, non vero fino in fondo? Con quella semplice richiesta McDormand ha dato uno spazio a ciascuna di quelle donne e mi ha fatto capire quanto possa essere liberatorio ricevere qualcosa di giusto, senza averlo dovuto prima strappare con la lotta. Gratitudine era ciò che si leggeva nei loro occhi.
C’è stata un’altra cosa bella secondo me: quell’alzarsi in piedi le offriva come spettacolo a tutta la platea, è vero, ma forse chi è stato più colpito da quella visione non erano gli altri, erano loro stesse, nel reciproco guardarsi, nel reciproco prendere atto della propria esistenza come soggetti. È il capovolgimento di prospettiva di cui si parla in Non credere di avere dei diritti, con le donne che si mettono «nella posizione di soggetto che pensa a partire da sé la storia e la società»1. Ed è anche la fine del separatismo necessario: per esprimere la differenza sessuale servì spostare fisicamente in un luogo altro le portatrici di quella differenza, così identificandola e significandola, non venendo vista altrimenti. Ora possiamo dire che non serve più quell’atto estremo per palesare la differenza, ma non possiamo ancora dire che si palesi da sé: serve comunque un gesto che la renda visibile. Serve indicarla, affermarla, dirle di mostrarsi.
Forse per questo le politiche paritarie servono così male la donna: cancellando la differenza vanno esattamente nel senso opposto. E le parole con le quali McDormand ha salutato la platea avevano un po’ il sapore di quella logica: ad essa appartiene la inclusion rider, la clausola contrattuale che lei cita, la quale consente ad attrici e attori di pretendere una rappresentazione equa dei due sessi nel contesto sociale che fa da sfondo alla narrazione del film. È una chiusura che potrebbe far pensare, lì per lì, che il messaggio ne esca indebolito, ma un’ulteriore riflessione mi porta a dire che invece lo arricchisce. Dal solo accostamento di due diversi approcci – pensiero della differenza e politica del simbolico da un lato, logiche paritarie dall’altro – appare chiaro come la potenza del primo si sprigioni oscurando il secondo, che passa in secondo piano e sbiadisce.
1Non credere di avere dei diritti, 1987 Rosenberg&Sellier, p. 26.
(www.libreriadelledonne.it, 8 marzo 2018)
di Silvana Panciera
“Prayer of the Mothers” è una canzone che riunisce donne ebree e musulmane. Ha accompagnato la marcia del 4 ottobre 2016, lunga 200 km (124.28 miles), nella quale centinaia di donne hanno marciato verso Gerusalemme per chiedere la pace. La canzone è nata dall’incontro della cantautrice Yael Deckelbaum con queste donne. Queste donne fanno parte dello Women Wage Peace, movimento di base fondato nel novembre 2014 da circa 40 donne, alcuni mesi dopo l’operazione militare Tzuk Eitan. E la canzone “Prayer of the mothers” è diventata il loro inno. Questo movimento ha anche una Lobby molto attiva che recentemente (il 29 gennaio 2018) ha presentato al parlamento Israeliano (Knesset) un progetto di Economia per la Pace e la Sicurezza.
Coraggio, donne di pace, la pace, ovunque ci troviamo, dipende soprattutto da noi. Le donne di Atene ce lo hanno insegnato fin dal V° secolo AC, come Aristofane lo descrive umoristicamente, ma non solo, nella commedia Lisistrata.
“Prayer of the Mothers” https://www.youtube.com/watch?v=YyFM-pWdqrY&feature=share
Per avere il testo di questa magnifica canzone nella vostra propria lingua, cliccate su Impostazion/sottotitoli.
(Cerere Gargnano, 6 marzo 2018)
La Cooperativa delle donne
COMUNICATO STAMPA
Dopo quasi quaranta anni di attiva presenza culturale in città, la Cooperativa delle Donne – che gestiva dall’8 marzo del 1980 la Libreria delle Donne di Firenze – è stata posta in liquidazione volontaria a causa delle crescenti difficoltà economiche legate alla crisi del mercato librario italiano.
Purtroppo l’aumento dei costi di gestione non consente più di mantenere aperta la libreria, nonostante l’impegno, la passione e l’amore per i libri delle socie della Cooperativa, nonostante le numerose iniziative culturali che continuano a svolgersi, nonostante il costante sostegno di molte e di molti. Come ex-presidente della Cooperativa delle Donne e attuale liquidatrice della stessa, esprimo tutta la mia riconoscenza a quante hanno reso possibile condurre per decenni questa significativa esperienza, che ha fatto vivere – in relazione con la specificità dell’essere donna – uno spazio di confronto, incontro, crescita culturale.
In questa fase di liquidazione di un patrimonio librario di qualità come quello della Libreria delle Donne, selezionato per lungo tempo, con attenta cura, comprendente anche volumi ormai difficilmente reperibili, verranno praticati nel mese di marzo sconti del 25% su tutti i titoli.
Libreria delle Donne, via Fiesolana 2/B, Firenze
Apertura da martedì a venerdì: 10-13 e 15.30-19.30; sabato: 15.30-19.30
(chiusura domenica e lunedì)
Firenze, 3 marzo 2018
Emilia (Milly) Mazzei
La Cooperativa delle donne – Via Fiesolana 2/B – 50122 Firenze
Tel. 055240384 – e-mail: libreriadonne@iol.it
http://libreriadelledonnefirenze.blogspot.com
P.I. 01645310481
Care amiche di Firenze sicuramente avete deciso per il meglio. Le energie così liberate andranno sicuramente in nuove imprese. Ora che avete più tempo vi aspettiamo più spesso alla libreria delle donne di Milano e insieme alle donne di Firenze vi diciamo grazie.
La fotografia come supporto per immaginarsi: l’autoritratto delle donne negli anni Settanta
Femminismo, identità, esplorazione del sé. Questi sono i temi centrali che si intrecciano nelle opere di molte artiste italiane attive negli Anni Settanta. Raffaella Perna ci racconta il loro utilizzo di un genere particolare: quello dell’autoritratto fotografico
“Per le donne il fare è una dimensione problematica: realizzare o no un progetto, un’idea, vuol dire passare radicalmente dal silenzio alla parola, e infiniti sono i motivi di autocensura, di castrazione […]. Se parlo di immagine/oggetto in quanto foto di donna, allora il nesso è con la rappresentazione mentale di me stessa, la rappresentazione dell’altra, il problema in generale di come si rapportano le donne alla loro immagine. Chi dà loro un’immagine? Storicamente lo sguardo maschile”(1). Così scriveva Paola Mattioli nel 1978 nel volume collettivo Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, pubblicato in collaborazione con le compagne del cosiddetto Gruppo del mercoledì per l’editore Gabriele Mazzotta: dalle parole di Mattioli emerge con chiarezza la consapevolezza, condivisa da molte altre fotografe e artiste della sua generazione, dell’urgenza di sperimentare nuove forme di rappresentazione del femminile, al di fuori dei canoni maschili dominanti.
Grazie all’impulso del pensiero femminista, negli anni Settanta diverse autrici in Italia scelgono l’autoritratto fotografico come terreno elettivo, da un lato, per demistificare le immagini stereotipate proposte dall’informazione e dai mass-media, dall’altro, per riconquistare il potere di rappresentarsi in qualità di soggetti attivi. “Fotografare sé stessi”, come ha sottolineato Susan Butler, “è inevitabilmente un’impresa schizoide” (2), durante la quale si fa esperienza dello scarto tra la percezione interna del sé e il sé esterno percepito dagli altri. Lo strumento fotografico riproduce lo sguardo altrui che si posa su di noi, con un inevitabile effetto di controllo: eppure, quando ci si pone simultaneamente davanti e dietro l’obiettivo, il meccanismo della visione s’inverte e la fotografia diviene un mezzo di autoproiezione, attraverso il quale scegliere attivamente come rappresentarsi agli occhi dell’altro. Per la donna, tradizionalmente oggetto dello sguardo e della rappresentazione altrui, l’autoritratto fotografico costituisce dunque una pratica privilegiata per sperimentare la propria soggettività.
LA MACCHINA FOTOGRAFICA COME STRUMENTO DI IMMAGINAZIONE
La stessa Mattioli, in una sequenza di sei immagini pubblicata nel libro citato poc’anzi, si ritrae nell’atto di fotografare, mentre il suo volto è coperto dall’apparecchio fotografico. Benché il richiamo alla Verifica n. 2 L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander di Ugo Mulas (con cui Mattioli si è formata) sia evidente, la sequenza è frutto di un processo diverso: partendo dal suo ritratto, Mattioli realizza infatti una sagoma fotografica, che appende al soffitto con un filo sottile, come un mobile di Calder, facendola oscillare vorticosamente nello spazio; in un secondo momento, la fotografa realizza una sequenza di scatti in cui riprende la sagoma in movimento, al fine di rappresentare, sulla scorta della lettura di Merleau-Ponty, la dimensione mutevole della percezione e il carattere soggettivo, quindi non neutrale, dello sguardo. Mattioli esplora la propria immagine, colta nel momento stesso in cui fotografa, nella convinzione che “la memoria meccanica della fotografia, molto spesso occasione per non vivere e per non vedere, può diventare in mano alle donne supporto per vedere e per immaginarsi” (3)
Allo stesso desiderio di “immaginarsi” si lega l’esigenza espressa da molte autrici attive in questi anni di rileggere il passato delle donne attraverso un processo di recupero di storie marginali o rimosse, nelle quali potersi rispecchiare. Nell’identificarsi con l’altra, la fotografia è uno strumento essenziale, che consente di convocare il passato e di porlo in relazione dialettica con il presente e di avviare uno scavo nella memoria, alla ricerca delle proprie origini. Si fonda sulla giustapposizione di immagini appartenenti a storie e tempi diversi, ad esempio, la serie Le streghe realizzata intorno alla metà del decennio da Libera Mazzoleni, dove l’artista interviene su alcune antiche incisioni dedicate alla caccia alle streghe, tratte in gran parte dal Compendium Maleficarum di Francesco Maria Guazzo, inserendovi il suo ritratto fotografico. Nell’immedesimarsi con le streghe Mazzoleni riconosce le sue radici nella storia delle migliaia di donne torturate e uccise tra il XV e il XVII secolo nell’occidente cristiano, in una persecuzione mirata a controllarne la vita, la sessualità, il corpo e il sapere, funzionale a confinarle al lavoro domestico non pagato, subordinandole all’uomo e alla famiglia (4); una storia, quella della streghe, che proprio negli anni Settanta è oggetto di un’intensa riscoperta da parte del femminismo. “Ricordo le ore passate nella biblioteca Sormani”, racconta l’artista, “leggendo e sfogliando testi diversi dove la riproduzione di litografie del Cinquecento intrecciava la mia emozione […]. Libera di immaginare, acquisivo allora la consapevolezza che anch’io stavo attraversando e vivendo quella demonizzazione del femminile insieme a chi è stata inghiottita dalla violenza di una storia che cancellava esistenze non assimilabili” (5).
ALLA RICERCA DELLA PROPRIA IDENTITÁ
Per Mazzoleni, come per Mattioli, l’autoritratto fotografico diventa quindi una pratica volta a riconquistare la facoltà e il piacere della narrazione: attraverso uno sguardo che si pone contemporaneamente al di qua e al di là dell’obiettivo, la donna smette di essere l’oggetto della visione altrui e si riappropria del corpo, della sessualità e della sua rappresentazione simbolica, per sconfessare le immagini convenzionali del femminile ed esprimersi con un linguaggio più autentico.
Da questa prospettiva va letta, ad esempio, la serie Scritture viventi di Tomaso Binga, nome d’arte di Bianca Pucciarelli, realizzata nel 1976 con il supporto tecnico dell’amica e fotografa Verita Monselles, dove l’artista si fa ritrarre mentre assume con il proprio corpo nudo la forma delle lettere alfabetiche. Le Scritture viventi possono essere interpretate come il tentativo di porre in luce l’ambiguità del processo di costruzione della femminilità: il corpo in carne e ossa della donna è ritratto nel momento in cui si adegua a forme linguistiche codificate, che ne plasmano l’identità. Questo nuovo alfabeto corporeo è concepito per riscattare l’occultamento della fisicità e l’apparente neutralità del linguaggio, in cui la donna non si riconosce, attraverso una rivalutazione dell’imperfetto, dell’errore, del fuori posto. “Non vogliamo più sentirci entità astratte”, scrive all’epoca Binga, “ma persone fisicamente, socialmente, politicamente umane” (6).
Nel processo di riscoperta della propria immagine e della propria identità, le donne trovano quindi nell’autoritratto fotografico un terreno ideale, che dà loro modo di contrastare la secolare difficoltà femminile di esprimersi liberamente. A partire da questa consapevolezza, negli anni Settanta, molte fotografe e artiste italiane scelgono l’autoritratto non soltanto per raccontare la loro esperienza individuale, ma anche, lo si è visto, per fare emergere una storia, quella della donna, fatta di silenzi forzati, non detti, parole trattenute e ideali di bellezza a cui non può e non vuole conformarsi, secondo una concezione che lega a filo doppio il vissuto personale a quello collettivo.
– Raffaella Perna
Raffaella Perna è dottore di ricerca in Storia dell’arte. Nel 2015 è assegnista di ricerca presso l’Università di Roma La Sapienza e dal 2016 è professore a contratto di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Macerata. I suoi studi si sono concentrati sui rapporti tra arte e fotografia in Italia, la pittura a Roma negli anni Sessanta e Settanta, i legami tra la fotografia e il femminismo. È autrice dei libri: Piero Manzoni e Roma (Electa, 2017); Pablo Echaurren
Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani (Postmedia Books, 2016); Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (Postmedia Books, 2013); Wilhelm von Gloeden. Travestimenti, ritratti, tableaux vivants (Postmedia Books, 2013); In forma di fotografia. Ricerche artistiche in Italia tra il 1960 e il 1970 (DeriveApprodi, 2009). È inoltre curatrice dei volumi: Ketty La Rocca. Nuovi studi (con F. Gallo, 2015); Etica e fotografia. Potere, ideologia e violenza dell’immagine fotografica (con I. Schiaffini, 2015); Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte (con I. Bussoni, 2014) e Le polaroid di Moro (con S. Bianchi, 2012). Ha curato mostre in spazi pubblici e privati, tra cui: L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015 (Triennale di Milano), Grandi fotografi a 33 giri e Synchronicity. Record Covers by Artists (Auditorium Parco della Musica di Roma). Suoi articoli sono usciti su “alfabeta2”, “Flash Art”, “doppiozero”.
PER VISUALIZZARE CON LE FOTO
di Giordana Masotto
Questo testo è nato in occasione della presentazione alla Libreria delle donne di Milano del libro di Colette Shammah In compagnia della tua assenza (La nave di Teseo editore, 2018) in cui l’autrice attraversa la vita della madre Sophie che non c’è più e dialoga con lei. Dalla sedicenne ebrea di Aleppo che viene mandata sola a Parigi a studiare nell’Europa minacciosa del 1938/40, alla donna colta e indomita, esile come un «tratto calligrafico giapponese», madre di quattro femmine, che approda a Milano.
Io e Colette ci ritroviamo qui oggi dopo tanti anni perché questo luogo, la Libreria delle donne, ha un senso speciale che riassumo così: se continuiamo a cercare noi stesse le nostre strade passano da qui.
Colette Shammah si è presa l’impegno di raccontare la vita di una donna. Come scriveva Carolyn Heilbrun alla fine degli anni ’80 in Scrivere la vita di una donna, rendere visibile la vita delle donne «è una impresa femminista». Si tratta di trasformare le vite in storie perché «non sono le vite a fornire i modelli ma le storie». È un altro modo per creare simbolico. È un lavoro politicamente importante, come ci ha detto Virginia Woolf novant’anni fa (Una stanza tutta per sé). Per questa via possiamo anche – come dice Heilbrun con una libertà che a me piace – risignificare la parola potere: «Il potere è la capacità di prendere parte a un discorso dal quale dipende l’azione e il diritto di essere ascoltati.»
Tu, Colette, ti sei presa la libertà di guardare alla vita di tua madre. E di farlo, inevitabilmente, con i tuoi occhi e con il tuo sentire. Un bel regalo che fai a tua madre: «No, non volevo che il mondo ti dimenticasse, che cancellasse il tuo nome.» Onori lei e ti prendi la tua bella libertà, di esserci tu, tutta intera nella storia di tua madre. Questa è l’impresa che ci interessa.
Ci vuole coraggio per esserci in presenza della madre. Colette ce lo dice: di fronte a lei «ero sempre in bilico tra menzogna e chiusura.» Eppure, essere vista dalla madre è un passo obbligato: «Alla mia età, avevo ancora bisogno di essere vista da te. Peggio: di essere vista tout-court. Saperlo era stancante. Per questo dopo la tua morte ho ritenuto che fosse arrivato il momento di uscire allo scoperto e di rivelare chi ero veramente.»
I dispositivi per costruire e preservare la propria identità sono uno dei fili rossi che attraversano tutto il libro. Scopriamo ad esempio la fascinazione di Zekìye, la madre di Sophie, per una figura leggendaria di donna, un’antenata della Spagna del Cinquecento, ai tempi dell’Inquisizione: «Zekìye era affascinata da quella donna che aveva vissuto contemporaneamente due esistenze in due mondi diversi, una da esibire e l’altra da proteggere e nascondere, una donna che aveva due nomi, anzi tre: Hannah di nascita; Beatriz, imposto dall’Inquisizione; Gracia, scelto da lei.»
Anche la giovanissima Sophie si misura con la propria madre: «Ma non avrebbe mai smesso di stupirsi di come sua madre cambiava in presenza dei nonni paterni: sembrava diventare meno sicura di sé, più mite e arrendevole. Una cosa che non le piaceva. Da grande, avrebbe cercato di non fare come lei: non si sarebbe mai lasciata sottomettere.» Decisioni perseguite con fermezza anche quando la forza non c’è ancora: «Lei teneva le gambe rigide e dritte come un soldato. Molto dritte. Questo le dava una certa sicurezza. Si sentiva meno sola perché era salda sui piedi.»
Quando quella forza cresce la Sophie adulta è diventata «una donna dalle mille qualità, attraente e manipolatrice. Un’affascinante piovra piena di desideri.» Alla figlia non resta che invidiare «la tua forza di volontà, la tua precisione di desideri».
Fuga? Conflitto? Oppure la scelta di inabissarsi in una clandestinità che è un modo per convivere con le proprie fragilità sentendosi anche forti? O addirittura la consapevole strategia di Penelope per tessere in segretezza le proprie tele quando il contesto prende il sopravvento? Elaborare la fragilità o l’onnipotenza materna rimane un paradigma fondamentale per affrontare le disparità tra donne.
Ma c’è un altro aspetto di questo libro che mi preme sottolineare. Si scrive sempre nella lingua materna che, come scrive Luisa Muraro ne L’anima del corpo, «è lingua endogena e relazionale, parlante da dentro, trovata con altri, risorsa di un’interiorità non isolata, che si potenzia nello scambio con altre e altri, mediatrice di distanze che altrimenti si popolano di macchine e mostri».
Eppure Colette scrive e pensa in italiano – come ha deciso crescendo – benché la lingua dello scambio familiare, la prima lingua, sia sempre stata il francese. Questo contraddice la natura unica della lingua materna? No davvero. Perché il cuore del discorso sulla lingua materna è che è lingua soggettivante, cioè quella che ti mette in grado di rigenerare l’esperienza. È la lingua che sprofonda dentro quando cresciamo, ma rimane a disposizione e la possiamo recuperare dentro di noi. È la lingua dell’arte e delle relazioni. Quella che ti consente di riarticolare il rapporto tra pensiero e parola. Ha scritto María Zambrano: «vivere umanamente è andar nascendo, continuare a nascere.»
Non si può rinunciare all’inesauribile nascere. La lingua materna dentro di noi ci consente di continuare a farlo e a stare così nel mondo. Qualunque essa sia e comunque si trasformi: ricordo che da giovane mi piaceva andare all’estero per sentirmi più libera e proprio la lingua straniera mi sfidava a scoprire chi ero e fin dove volevo spingermi.
Un’ultima osservazione. A sorpresa l’autrice scrive: «Ritorno nel presente, all’hotel Westin Palace dove ogni mattina vado a ritrovarti, scrivendo.» Che meraviglia! Il luogo per ritrovare la madre – e dunque se stesse – è uscire dalla casa, dal tuo luogo, per poter cercare al di là del già detto della tua vita. Ti crei spazio fuori, in quel luogo insieme stanziale e di passaggio, esposto e misterioso che è la hall di un albergo.
Questa è l’altra lezione che la figlia impara dalla madre Sophie, nomade, mai profuga: «Aveva innata la capacità di sentirsi pronta e a casa ovunque. E di abitare a pieno titolo la sua realtà.» Una lezione che per Sophie viene da lontano: «Il rabbino aveva spiegato che per andarsene da un luogo era indispensabile aver assimilato il concetto di libertà, mentre per scappare non c’era bisogno di elaborare un sapere, poiché malgrado le apparenze la coscienza non si modificava e non avveniva alcun cambiamento.»
L’abbiamo imparato: la stanza tutta per sé ce l’abbiamo dentro e ce la portiamo nel mondo. Il cerchio si chiude: siamo tornate al qui e ora, radicate ed esposte, ad attraversare le nostre differenze.
(www.libreriadelledonne.it, 28 febbraio 2018)
Milano, Libreria delle donne – Circolo della rosa, 24 febbraio 2018 ore 18. C’era una volta un’Italia comunista che faceva paura agli americani. Oggi, si tratta solo di nostalgia oppure resta qualcosa da dire di quella grande esperienza di uomini e donne? A partire dal libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli Al lavoro e alla lotta. Le parole del Pci (Harpo 2017), ne discutono con le autrici Liliana Rampello e Massimo Lizzi.
Introduzione di Massimo Lizzi
Del glossario, la prima parte del libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli, ha parlato Liliana Rampello. Come lei ha anticipato, la seconda parte del libro consiste in dieci interviste di dieci domande a sei donne e quattro uomini protagonisti della storia del PCI. Una scelta che vuol far prevalere il punto di vista femminile e femminista su una storia prevalentemente maschile.
Le domande sono incentrate sulle ragioni dell’adesione al PCI; la formazione politica e culturale, individuale e collettiva; il rapporto tra i sessi e con il femminismo; le pratiche politiche e il giudizio sulla comunità del PCI, se migliore delle altre; la propria definizione politica oggi, poiché quasi tutte le persone intervistate non sono più iscritte ad alcun partito.
Le ragioni della scelta del PCI
Gianni Cuperlo, il più giovane degli intervistati, l’ultimo segretario della FGCI, dice che per la sua generazione — si iscrive alla FGCI nel 1976 — l’adesione al PCI non si caricò di una scelta epica e sacrificale, come per le generazioni precedenti. Aldo Tortorella ricorda della sua militanza di giovane partigiano a Genova, tre compagni: il primo fu colpito a morte in strada, il secondo fu impiccato, il terzo fu deportato in un lager. A lui poteva capitare la stessa sorte. Tentato più volte di lasciare il partito, non lo fece mai, perché l’avrebbe vissuta come una scelta vile nei confronti di chi aveva sacrificato la vita. Cuperlo definisce la sua una scelta quasi per inerzia: i giovani comunisti erano la comunità più prossima e più ospitale tra i moti collettivi della scuola.
La mia scelta fu ancora meno epica di quella di Gianni Cuperlo, che almeno visse la seconda metà degli anni ’70. La mia generazione è quella degli anni del riflusso e del disimpegno. C’era un grande turn-over di giovani, ma c’era anche un notevole nucleo di militanti costanti e quasi totalmente disponibili. Sapevamo di non essere epici, ma ci sentivamo gli eredi di un’epica. Non rischiavamo nulla e non avevamo paura che il tempo del rischio potesse tornare. Solo quando vidi un film sui desaparecidos argentini (La notte delle matite spezzate) mi resi conto del rischio potenziale che una scelta di militanza poteva sempre implicare. Ricordo che da bambino venivo mandato a comprare i giornali e mia nonna, che aveva una mentalità cospirativa, si arrabbiava se non tenevo l’Unità nascosta dentro La Stampa.
La scelta del PCI non era, per noi, solo una scelta tra partiti. Era una scelta di campo nel conflitto tra entità storiche. I comunisti si misuravano non solo e non tanto con gli altri partiti, quanto con realtà più grandi, importanti e potenti: la chiesa cattolica (con cui c’era un dialogo e una rivalità morale); la Fiat e il capitalismo (con cui c’era un rapporto di conflitto e negoziazione, per lo più attraverso il sindacato, sempre a partire da una visione di interessi contrapposti o differenti); gli Stati Uniti e l’imperialismo, lo stato che occupava il nostro paese con le basi militari, e che voleva ancora installare gli euromissili, ed era avversario, oltreché dell’Urss, dei vari movimenti di liberazione nei vari continenti.
La scelta del PCI era pensata dal quel nucleo militante forte come una scelta di vita. Sia nel senso che sarebbe durata fino alla morte. Sia nel senso che era la cosa più importante della nostra vita. Sempre disponibili (pure i turni di vigilanza notturni, in Federazione o alle Feste dell’Unità). Sempre attivi, anche in situazioni che apparentemente non c’entravano niente con la politica. Persino un corteggiamento poteva sfociare in un’azione di sensibilizzazione politica.
La fine del PCI, per essere stata un’abiura giocata nella contingenza della politica spettacolo, in retrospettiva ha ridimensionato tutto questo e ha fatto spazio alla percezione di aver vissuto una storia sbagliata, di aver fallito, di essere stati smentiti nella diversità e nell’originalità dei comunisti italiani. E quindi, la percezione di avere avuto e di avere politicamente torto. La trasformazione socialista della società italiana non era avvenuta. Il programma, la strategia, l’organizzazione del PCI non erano state adeguate perché avvenisse e non era in vista nessun adeguamento futuro, perché quell’obiettivo storico veniva archiviato. Si poteva allora essere comunisti per ragioni sentimentali rivolti al passato o per motivi utopici rivolti al futuro, ma non lo si poteva più essere per motivi politici rivolti al presente.
Il libro, almeno nel ripensare la storia passata, lenisce questo sentimento depressivo, perché mette a fuoco e dà valore politico ad alcuni aspetti della storia comunista, che nel bilancio delle realizzazioni, tra critiche e autocritiche, sono lasciati sullo sfondo o del tutto ignorati.
La formazione politica e culturale
Un aspetto è la formazione politica e culturale. Luciana Castellina vede i suoi compagni di scuola comunisti essere di gran lunga i più colti e intelligenti, quelli che esercitavano più influenza su di lei. Graziella Falconi da ragazza definisce il PCI come il più intelligente d’Italia. Io stesso intendevo l’essere comunista come l’essere più preparato degli altri nella conoscenza dei fatti, nel modo di interpretarli e nell’abilità dialettica.
Alcune risposte sui libri della propria formazione individuale vanno oltre il senso della domanda ed espongono di fatto una vasta indicazione bibliografica. Le persone intervistate hanno letto molto, alcune di tutto: letteratura, poesia, filosofia, saggistica, storia, i classici soprattutto. Le donne più degli uomini. Agli uomini mancano del tutto le autrici.
A significare l’importanza dei libri c’è una battuta attribuita da Marisa Rodano a Palmiro Togliatti: «Non perdete troppo tempo con i giornali, piuttosto leggete romanzi». E c’è soprattutto un tragico episodio raccontato da Emanuele Macaluso: la sorte di Michele Calà, il bibliotecario della sua cellula di partigiani a Caltanissetta, che sotto i bombardamenti, invece di rifugiarsi, si preoccupa di salvare i libri e viene ferito mortalmente da una scheggia.
Il PCI si concepiva come intellettuale collettivo, per esercitare una egemonia culturale nella società. Incoraggiava la formazione individuale e organizzava quella collettiva, mediante giornali e riviste, in particolare l’Unità e Rinascita, e una rete di scuole di partito, la più importante alle Frattocchie, fuori Roma, dove si tenevano corsi e seminari, anche di molti mesi, per gli operai, le donne, i dirigenti e gli amministratori locali.
La stessa vita di partito in sezione e l’attività di base nei quartieri, a scuola e nelle fabbriche, oltre che per la sua valenza politica e propagandistica, era considerata un aspetto importante della propria formazione. La consuetudine con un operaio era quanto di meglio, per evitare di diventare un astratto intellettuale operaista (Achille Occhetto).
Il giudizio sulla comunità politica del PCI
L’appartenenza e la vita di partito avevano un importante aspetto comunitario. Lia Cigarini racconta del militante andato via con il manifesto, ma poi tornato alla sua sezione del PCI, perché bisogna pur avere degli amici nella vita. Secondo Aldo Tortorella, dovunque andavi potevi trovare un compagno disposto ad accoglierti come un fratello o così pareva. In parte, pareva anche a me, se penso al rapporto speciale con genitori e insegnanti comunisti o al modo in cui potevamo essere accolti da comunisti sconosciuti, durante la diffusione dell’Unità o un’attività porta a porta. A scuola, l’ultimo anno, sospettavamo della relazione tra un professore e una studentessa: entrambi comunisti, in pubblico si davano ostentatamente del lei. Oggi sono sposati con due figli.
La comunità del PCI teneva insieme cose diverse. Diverse generazioni, diverse anime politiche, in particolare quella riformista e quella movimentista negli anni ’80, di cui le due autrici sono espressione. E questo nel rispetto e nella valorizzazione reciproca, o almeno ci si curava che apparisse così. Diverse figure sociali operai, impiegati, commercianti, artigiani, piccoli e medi imprenditori. Lia Cigarini racconta come nella sua sezione nel centro di Milano fossero presenti l’ambulante e il primo violino della scala, la portinaia e l’intellettuale, l’artigiano e il bancario.
Quasi tutte le persone intervistate ritengono che la comunità politica del PCI fosse migliore delle altre. Un giudizio che richiama la diversità dei comunisti italiani. Lia Cigarini dice che tutti i funzionari che conosceva avevano fatto due scelte serissime: la resistenza e la povertà. Luciana Castellina osserva che quando i comunisti hanno rinunciato alla loro diversità, non si sono avvicinati di più alla gente, se ne sono invece allontanati.
Il rapporto tra i sessi e con il femminismo
Questo è l’aspetto più problematico visto oggi da questa sede, ma già da molto tempo. Lia racconta di avere rotto con il PCI, le sue pratiche politiche, negli anni ’60, dando vita con altre al primo collettivo del femminismo della differenza (DEMAU).
Una signora libraia, giovedì sera, sapendo che sarei qui intervenuto oggi pomeriggio, mi ha chiesto qual era l’argomento in discussione. Le ho detto che presentavamo un libro sulla storia del PCI. Mi ha risposto che il PCI non l’ha mai appassionata tanto, perché lo vedeva come parte del mondo maschile. Nel motivare questo ha citato, non tanto il ruolo degli uomini, il rapporto tra compagni e compagne, quanto il modo in cui i compagni trattavano le loro mogli e fidanzate: le mettevano in secondo piano rispetto all’impegno prioritario della militanza. Da segretario di sezione, quando convocavo i compagni per telefono, spesso dovevo fare una trattativa con la moglie, se rispondeva prima del marito. La questione fu discussa in un comitato centrale del 1953, perché il PCI accusava la DC di non essere coerente con il suo modello di unità familiare, poiché con gli effetti del suo governo, la povertà, la disoccupazione, l’emigrazione, disgregava le famiglie. Tuttavia, al lavoro, il PCI aggiungeva la militanza totalizzante e questo sottraeva ulteriore tempo alla famiglia. Sorse così la preoccupazione tra i comunisti che le mogli trascurate potessero essere preda di vicini, amici benintenzionati o dei parroci ed essere convinte a votare per la DC. L’Unità pubblicò un editoriale titolato: «Per chi voterà tua moglie?». L’indicazione del CC del Partito fu, non quella di dedicare più tempo alla famiglia sottraendolo al partito, ma intensificare la propaganda politica in famiglia.
Il maschilismo del PCI era comunque il più amico delle donne. Aveva una cultura emancipazionista. Un’organizzazione di donne di massa, che se non teorizzava la relazione tra donne, a suo modo la praticava e quell’associazionismo femminile creò le condizioni e determinò la riforma del diritto di famiglia e la tutela delle donne divorziate. Il PCI fu l’unico partito a tentare di aprirsi al femminismo della differenza e oggi molti uomini femministi (pur sempre pochi) sono uomini che provengono dal PCI o dai suoi paraggi.
All’epoca, mi interessava il femminismo come uno dei movimenti di liberazione — nel glossario è definito come un elemento di comunismo insieme all’ambientalismo. Leggevo le femministe che scrivevano sugli organi di partito, perché ritenevo facessero parte della formazione del buon militante, le leggevo anche se capivo poco. Compravo persino Reti, la rivista diretta da Maria Luisa Boccia. Ma non avevo coscienza del dibattito femminista o non me ne ricordo bene. Sapevo però che nel partito c’era questo orientamento del femminismo della differenza, che si stava affermando con la Carta delle donne. Ricordo una mia compagna (di partito e di scuola) farmi questo discorso: «Sai noi donne siamo differenti da voi uomini. Voi vi riunite la sera, a noi piace riunirci di pomeriggio. Mentre discutiamo, vogliamo prendere il té, magari ci capita anche di emozionarci e piangere». Io rimasi allibito e le dissi che non le credevo, che lei si stava solo adeguando a una linea di partito, anzi delle donne del partito in quel momento guidate da Livia Turco.
La Carta è vista dalle persone intervistate come un tentativo di sintesi o di incontro tra la cultura del PCI e il femminismo, come un tentativo di andare oltre l’emancipazionismo. Si risolse, forse, soprattutto nelle quote rosa, non si tradusse in una pratica politica e il suo percorso fu interrotto dalla fine del PCI. Lia Cigarini chiede perché non riprese nel PDS, un partito meno strutturato del PCI, dove le condizioni per una pratica di relazione tra donne poteva essere meno difficile.
(www.libreriadelledonne.it, 24 febbraio 2018)
di Sara Gandini
«Responsabilità genitoriale» era il titolo dell’incontro organizzato da Differenza Donna, una ONG amministrata da figlie del movimento femminista, che a Roma gestisce alcuni Centri antiviolenza. Differenza Donna ha invitato ad uno stesso tavolo operatrici, educatrici, assistenti sociali, donne che hanno subito violenza, insieme a donne e qualche uomo che stanno riflettendo sulla differenza sessuale, non solo a livello professionale ma come passione politica. L’incontro a cui ho partecipato il 16 febbraio 2018 rientrava nel progetto Per un buon uso delle parole. Significare luoghi, attori, contesti della violenza maschile contro le donne e i minori.
Ho accettato di introdurre la discussione prima di tutto perché Claudio Vedovati mi ha invitato a farlo con lui, per la relazione che ho con lui, senza pensare molto al titolo dell’incontro. Spesso le donne si muovono in questo modo, per l’interesse nella relazione. Quando però ho cominciato a riflettere sul taglio da dare al mio intervento sono andata in crisi.
Fermatami ad interrogare il mio impasse, mi sono resa conto che il primo problema era legato al linguaggio: usare la parola “genitorialità” mi metteva in difficoltà perché so che comporta il rischio di mascherare una differenza fondamentale, soprattutto se si parla di violenza, quella tra madre e padre.
L’altra questione riguardava la mia postura di fronte alla violenza in famiglia. Mio era padre era depresso e alcolista e spesso paralizzava la famiglia con i suoi attacchi di ira. Tanto che ha fatto scappare di casa prima mia madre e poi anche me. Ma io sono tornata, cercando di tenere insieme conflitti e amore, e l’ho accudito fino a quando non è riuscito ad uccidersi. So quindi quanto le parole delle figlie siano avviluppate in un amore che temiamo, che può far da velo alla realtà, che non aiuta a trovare le parole per dire, per dare valore alla nostra importante verità soggettiva.
Mi ha quindi colpito un racconto di Flannery O’Connor dal titolo «Un brav’uomo è difficile da trovare» (1959), ripreso da Annarosa Buttarelli sulla rivista di Diotima, «Per amore del mondo». In questo racconto tre criminali incontrano una famigliola in viaggio con la nonna. Il Balordo, il capo della banda, dà ordine di ammazzare uno per uno i componenti della famiglia. La nonna comincia uno scambio con il Balordo e cerca di convincerlo che lui è un uomo buono e bravo. Lei non vuole credere che lui sia così cattivo come è evidente dai fatti; cerca continuamente di fare minuscoli ragionamenti in cui cerca di portare l’uomo a considerare che in fondo a se stesso un po’ di bontà potrebbe averla ma lui le risponde chiudendole la bocca così: «Non c’è piacere al di fuori della cattiveria». Alla fine la nonna capisce che non si può ragionare, non si può convincere l’altro che è meglio essere buoni, e a quel punto, la nonna fa il gesto risolutivo del racconto, preceduto solo da una frase che accompagna una carezza sulla spalla del criminale: «Ma tu sei uno dei miei bambini. Sei una delle mie creature!». Il Balordo le spara e la uccide, ma in lui cambia qualcosa, e lo veniamo a sapere da una frase rivolta ai suoi compagni che ridono dell’omicidio appena avvenuto: «Zitto, Bobby Lee. Non c’è vero piacere nella vita». Flannery O’Connor ci invita a vedere la realtà senza ricorrere a consolazioni: noi abitiamo in un territorio dove sempre più frequentemente prevale la crudeltà. L’autrice sembra indicare che non serve proporre modelli di comportamento a chi vorremmo “salvare”. Di fronte alla crudeltà, al piacere della cattiveria non si può opporre la volontà del Bene, non si può convincere, educare, trasformare, attraverso le numerose retoriche del Bene, in questo non c’è efficacia, anche se qualcosa accade ad un certo punto perché il criminale non riuscirà più a provare godimento perverso nel vedere soffrire gli altri, come fino ad allora aveva fatto. Le parole della nonna «Ma tu sei uno dei miei bambini. Sei una delle mie creature» fanno accadere qualcosa. Io direi che un altro ordine simbolico è apparso ed è caduto il piacere perverso della violenza, anche se la violenza non si è fermata.
Questo racconto mi conduce verso una contraddizione interessante, che non intendo sciogliere ma tenere lì, perché sia feconda. Da una parte questo racconto fa emergere una postura che è anche mia e di tante donne che hanno un senso smisurato di riparazione verso gli uomini e che so essere inefficace. Dall’altra parla di un di più femminile che ritrovo nelle parole di María Milagros Rivera Garretas: «è un’evidenza che a noi donne specialmente attrae la relazione per la relazione, […]. Io penso che questa predilezione – una predilezione storica, non predeterminata – abbia a che vedere con una capacità misteriosa che il suo corpo, il corpo di lei, segnala: la capacità di essere due. […] Lì risiede la sua grande dignità, il suo di più» (Donne in relazione. La rivoluzione del femminismo, Liguori, Napoli 2007).
Milagros sostiene che nel comportamento della donna maltrattata c’è un enigma che è anche una delle facce di un di più femminile. Milagros invita quindi a ribaltare lo sguardo di fronte alla donna che subisce violenza e a non trattarla quindi come una persona succube o incapace perchè è proprio riconoscere un di più che permette di aiutare davvero. Altrimenti la donna, sprofondando nella miseria della vittima, resta senza via di ritorno a sé, all’amore di sé aperta all’altro, di cui lei si è resa depositaria. (“L’enigma della donna maltrattata” di Clara Jourdan, in “Per amore del mondo” Rivista di Diotima, 2008).
Alcuni si preoccupano che riconoscere quel di più possa avere un effetto controproducente rispetto al denunciare e al sottrarsi alla violenza. Su questo le donne dei centri antivolenza di Differenza Donna ci insegnano che non si aiutano le donne ad allontarsi dalla violenza spogliandole della loro dignità. E sono d’accordo con Milagros “Nessuno esce da una situazione difficile amputando un pezzo della sua vita, ma riconoscendo la grandezza del desiderio e dello sforzo che l’hanno portato lì, anche quando perde.”
Riconoscere un senso alle scelte della donne che hanno subito violenza fa cadere quel “disprezzo per la vittima” che è molto comune e che è la causa anche delle reazioni subite da Asia Argento quando ha denunciato. Una volta si dava per scontato che la vittima che non denuncia subito sia in difetto di qualcosa, ma il movimento nato con Asia e le attrici di Hollywood ha mostrato che le cose non stanno più così.
Nei confronti della crudeltà banalizzata, perché resa quotidiana, della distorsione comunicativa come mezzo manipolatorio che uccide la fiducia nella verità soggettiva, e che troviamo anche nella violenza in famiglia, Annarosa Buttarelli propone di riprendere a ragionare sul coraggio, liberato dalla virilità. Si riferisce al coraggio di quelle donne che non negano la sofferenza e la paura, non hanno bisogno di razionalizzare. Quel coraggio di dire che non ha a che fare con la ricerca della gloria, che non ha paura di mostrare ambivalenze e contraddizioni. Quell’alzarsi in piedi e parlare per un senso di giustizia che non ha bisogno di tribunali, che sta presso il proprio sentire, la propria verità soggettiva.
Penso ad Asia Argento: ha avuto il coraggio di esporsi personalmente, ha affrontato pubblicamente chi la criticava e con la sua presa di parola ha di fatto innescato il movimento partito dalle attrici e che poi ha investito le donne che lavorano in fabbrica, la politica, la scuola e che sta mostrando che le molestie e i ricatti sessuali non si danno più scontati, che le donne non ci stanno più.
Se da una parte noi donne non vogliamo rinunciare alla bellezza di essere due, alla relazione per la relazione, allo stesso tempo, quando il male ha la meglio, stiamo mostrando quel coraggio femminile che si alza in piedi e sa dire la verità, nonostante le contraddizioni del proprio sentire. Quel coraggio che sa allontanare e denunciare, senza rinunciare alla grandezza del proprio desiderio, senza disconoscere le scelte fatte seguendo i propri sogni.
(www.libreriadelledonne.it, 23 febbraio 2018)
di Pinuccia Corrias
Il 28 gennaio 2018, presso la Libreria delle donne di Milano si è tenuto un incontro fra donne appartenenti ai Gruppi donne delle Comunità di Base cristiane italiane, al Graal-Italia, alla Sororità di Mantova, a Thea-Teologia al femminile e la Comunità di storia vivente.
Intervento di Pinuccia Corrias
Solo la lettura de L’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro e le sue conseguenze sulla relazione con mia madre e, dunque, col mondo delle donne, credo che abbia avuto su di me conseguenze così significative come la scoperta della pratica di “storia vivente”, acquisita in particolare grazie a Marirì Martinengo.
Essa ha portato un altro pezzo di libertà nella mia vita attraverso la comprensione del libro di Mira Furlani, Le donne e il prete, in un percorso che descrivo in un testo di cui ho letto un breve pezzo all’incontro del 28 gennaio in Libreria a Milano, e che qui ripropongo per intero dopo averlo condiviso con Mira.
Mi presento. Anche se non faccio parte delle Comunità di Base, ho fatto un lungo percorso con Doranna Lupi e Carla Galetto nel gruppo Ricerca teologica e pensiero della differenza, che ha alimentato molto del pensiero e delle pratiche femministe di Pinerolo e valli.
Inoltre conosco Mira, sono stata sua ospite tanti anni fa e c’è stato uno scambio reciproco sulle gioie e gli scacchi della nostra vita. Anche per questo il suo libro, Le donne e il prete, mi ha interessata tantissimo; l’ho letto con grande passione e con altrettanta passione con Doranna e le altre ci siamo confrontate, senza trovare soluzione alla nostra conflittuale posizione; pur non negando il positivo che Doranna e Carla individuano nella loro bella prefazione, io mi sentivo bloccata da qualche cosa che mi sembrava mancasse e da cui veniva un’ombra anche a ciò che veniva detto. Da qui il rifiuto e quindi il silenzio tormentato.
Posso dire che per iniziare a rompere questo muro, mi sono servite all’inizio le parole di Luisa Muraro: «Mi parve una storia di “donne che non vanno d’accordo” e ciò mi diede fastidio» (Viottoli, n. 2/2017, p. 57).
Certo, anche in me avrei potuto riconoscere “pregiudizi misogini”, come chiamava i suoi Luisa, ma la cosa non mi placava, perché mi sembravano altrettanto misogini quelli usati per stigmatizzare la donna o le donne che in questa questione stavano dall’altra parte, e dunque i miei dubbi sulla bontà della scrittura di Mira, soprattutto in alcuni punti, continuavano a bloccarmi.
La lettura ripetuta di tutti i testi che Carla e Doranna hanno raccolto nell’ultimo numero di Viottoli – grazie! – in particolare di quelli le cui autrici hanno visto e hanno tentato di svolgere il nodo (che io sapevo essere anche il grumo doloroso della mia vita), insieme al mio desiderio di trovare una via di uscita valida anche per me stessa, mi hanno portata a due scoperte che proverò ad esplicitare.
La prima è il consiglio di Marirì Martinengo, madre insieme ad altre della Libreria delle donne di quella pratica che hanno chiamata “storia vivente” e di cui avevo letto i testi con interesse, ma che erano rimasti per me pura teoria senza un aggancio concreto alla realtà.
«La radice della nostra pratica è l’autocoscienza degli anni settanta, che aveva un suo progetto politico; la storia vivente ne ha un altro; il metodo, la pratica, è quello di andare a fondo dentro di sé fino ad individuare il nucleo, il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata: il narrarlo e lo scriverlo ne è la storiografia. L’esposizione, prima orale poi scritta, di quanto viene fuori, va contestualizzata (questo è il punto chiave!) e legata saldamente con i fatti di cui dicevo sopra. Occorre rifuggire dallo psicologizzare e mantenersi ancorate/i al terreno della politica» (sito della Libreria delle donne, 6 aprile 2017).
Aggiunge, poi, un’affermazione che lei stessa definisce “essenziale”: «Estrarre dalla propria interiorità l’esperienza femminile e darle parola e poi scrittura, significa narrare la storia dei condizionamenti violenti imposti alla vita delle donne dall’organizzazione simbolica e sociale patriarcale, acquistarne consapevolezza e contemporaneamente studiare il modo di mettere al mondo le vie per sottrarvisi, avviando un movimento politico e storico in cui vi sia libertà e autorità femminili. Proponiamo una storia a partire da sé – valida per donne e uomini – da un sé profondo che la filosofa María Zambrano e la storica María Milagros Rivera Garretas chiamano le viscere. (Forse l’universale come mediazione)» (idem).
Far parlare le viscere, dunque.
E c’è un punto in cui le viscere di Mira parlano e ciò che dicono non è quanto si sa e tutti raccontano sulla rivoluzione dell’Isolotto. Quella rivoluzione che tutti sanno e riconoscono, Mira l’ha vissuta da protagonista alla pari dei maschi, donna prometeica, forte e vincente. L’unica donna a subire il processo con gli altri uomini e come loro assolta.
Le viscere di Mira in questo libro gridano invece un altro nodo, rimasto sempre taciuto, che è quello riguardante il progetto delle “case-famiglie” con tutto ciò che vi è nato dentro e intorno e che ha riguardato la sua vita.
E non è affatto reticente, come suggerisce Luisa Muraro.
Dice tutto ciò e solo ciò che le viscere hanno sempre tenuto dentro nel loro groviglio doloroso e che l’ha sempre ferita e che ha sempre taciuto e che finalmente ha avuto la forza, grazie all’amore di altre donne, di tirar fuori.
Ecco, le viscere hanno parlato, ma ora, come dice Marirì Martinengo, il nodo va contestualizzato.
E il contesto, dico io, non è l’Isolotto, luogo in cui Mira ne ha fatto dolorosa e incompresa esperienza; il nodo non riguarda le donne e il “prete”, perché qui l’essere prete, secondo me che ho fatto un’esperienza simile con un uomo che prete non era, non c’entra: c’entra l’essere uomo – e perfino dei migliori – di quel tempo.
Qui il nodo è: le donne e l’uomo negli anni “rivoluzionari” del ’68 e dintorni.
Il contesto qui è il simbolico patriarcale nel rapporto uomo-donna: il simbolico, non il sistema! Che veniva allora contestato dai figli maschi coadiuvati dalle figlie femmine. Simbolico che negli anni ’60 e in buona parte degli anni ’70 funzionava uguale e quasi intatto in tutte le realtà miste: famiglia, scuola, partiti di sinistra ed extra-parlamentari, chiesa tradizionale e chiesa del dissenso; con una differenza, però, rispetto agli anni precedenti. Differenza di cui Mira era portatrice, come molte altre donne che in quel tempo si erano affacciate autonomamente alla vita sociale, sostenute da madri silenziose ma incoraggianti; una differenza di cui, tuttavia, eravamo in buona parte inconsapevoli.
Non per molto tempo ancora, però.
Era il tempo della discussione tra “liberazione” ed “emancipazione”, allora importantissima.
La differenza di cui parlo viene messa bene in luce da Alessandra De Perini, in un suo intervento del 22 settembre a Padova, commentando una foto.
«C’è una bellissima foto che per me ha un significato simbolico: mostra Mira che insieme a don Mazzi, ambedue giovani stanno salendo sull’Adamello. Lei è più avanti di lui, è più in alto e sembra rivolta verso di lui come per incoraggiarlo a salire. Nel momento in cui fu scattata la foto (un manifestato lo chiama il biopsicologo Badard, cioè l’espressione evidente di una realtà simbolica non esplicitata) lei, a livello profondo, è già collegata a una storia più grande, che scorre lenta, la trascende e narra di un’umanità femminile che lotta per affermare il proprio desiderio di verità, di esistenza libera, in fedeltà a sé e all’amore alla madre. Su di lui, invece, incombe una storia antichissima di potere maschile materiale e spirituale che lo appesantisce» (Viottoli, p. 56).
Eccolo il contesto che la De Perini (che non a caso è una storica) ha lucidamente individuato e che ora, nel 2018, possiamo dire, perché quasi 50 anni di femminismo ci hanno dato le parole per dirlo.
Quasi 50 anni. Perché il ’68 fu un tempo straordinario (vedi Alessandra Bocchetti, Cosa vuole una donna?) in cui noi donne condividemmo con gli uomini (e ciascuna con il proprio compagno di strada) tutto: privato e pubblico, corpi anime e spirito.
Capire che cosa è successo allora non era facile.
Ora, però, lo sappiamo.
Noi eravamo più avanti.
E sempre più avanti siamo andate; e ora, di ciò che è stato, sappiamo fare memoria efficace, storia vivente, mentre i maschi ricordano battaglie e vittorie, quasi sempre legislative! E così anche le donne che dai maschi – i migliori! – hanno mutuato il linguaggio e il simbolico.
Quello di cui parla Mira non è un nodo solo della sua storia personale, e neanche solo dell’Isolotto e della Chiesa patriarcale, ma delle donne e degli uomini che hanno attraversato quel tempo, soprattutto quelle che nel ’68 hanno mischiato la loro vita con i maschi e hanno fatto con loro progetti di vita.
E quel nodo finora non era mai stato elaborato politicamente dalle donne.
Non sbaglia, forse, Marcello Vigli quando afferma che le difficoltà nella relazione uomo-donna aumentano se l’uomo è un prete (cfr.Viottoli p. 42), ma sbaglia di certo quando non capisce che don Mazzi non si è scontrato con Mira in quanto prete. Questo può essere avvenuto in altre situazioni, ma è un’altra storia.
E per chiarire ancora di più, vorrei dire alcune cose a chi ha scritto a nome dell’Isolotto.
Che Mira ci abbia impiegato così tanto tempo a scrivere è la prova più grande del suo amore per don Mazzi e della sua volontà di non trascinarlo in una situazione di confronto pubblico ambigua oltre che difficile.
Voi scrivete: «Don Mazzi, che non è più con noi da cinque anni (e si sente tutto il dolore e la desolazione per questa perdita irreparabile, perché – lo sappiamo – i morti non tornano!) e non può quindi, anche se lo volesse, rispondere a Mira» … e noi capiamo “per difendersi”!
Ma, vedete, Mira non ha scritto questo libro per parlare di don Mazzi ma per dire di sé.
Non più, però, di quella Mira pubblica che aveva già dato e ricevuto la sua parte nel processo all’Isolotto.
Perché quella era una Mira dimezzata, mutilata. Era quella che, di fronte al valore dell’esperienza dell’Isolotto, ancora una volta, come sempre abbiamo fatto per tanto tempo noi donne, ha messo da parte se stessa e il suo grumo di dolore irrisolto, e a spada tratta ha difeso ciò che l’Isolotto rappresentava per chi l’aveva fatto.
Col tempo, però, con la maturazione del pensiero della differenza e il sostegno di donne che stavano dalla sua parte, Mira ha trovato, dentro il dolore e lo scacco, d’improvviso le parole perfette per dire quel suo dolore e quel suo scacco. Dirlo.
Bene per alcuni/e. Male per altri/e.
Rischiando di essere fraintesa, di essere letta secondo schemi e pregiudizi a volte perfino umilianti, consapevole di dire una parola tagliente, che poteva ferire, insicura talvolta perfino che ne valesse la pena.
Ha sentito che doveva dirlo. Per se stessa. Non per don Mazzi o per l’Isolotto o per le case-famiglia.
No. Per Giustizia. E la Giustizia è indissolubile dalla Verità. (Ed è maiuscola per chi la sente essenziale per il proprio essere e il suo rapporto con Dio. Come Giobbe).
E la verità è che dentro l’Isolotto, come dentro il ’68, come dentro le rivoluzioni maschili non c’era (e non c’è, credo) posto per una donna che volesse, e voglia, essere “soggetta” e non protagonista o oggetto.
Non ce n’era. E neanche gli uomini migliori, preti o no, potevano rispondere ai desideri di Mira, o delle donne come lei.
Perché per quei desideri non c’erano ancora né parole né pratiche e perché – l’abbiamo imparato dopo – affinché i desideri delle donne si attuino, occorre che una donna non sia sola, ma in relazione con un’altra donna. In più: per entrare in relazione con donne “così”, gli uomini dovrebbero essere “altri” uomini, che io non posso sapere come devono essere. Perché io non conosco uomini “altri”.
So, però, per esperienza diretta, che anche quando qualche donna ci tenta e qualche uomo ci prova, c’è spesso un’altra donna che – chissà perché – facilita a quest’uomo la strada per restare quello che è: un uomo che si crede Dio.
A differenza di María López Vigil, giornalista cubana che ritiene che la “mascolinizzazione” del divino «contribuisca […] alla disuguaglianza tra uomini e donne. E alle diverse espressioni di violenza degli uomini contro le donne» (Viottoli, p. 78), mi convince di più pensare che da una pratica di violenza sulle donne – non solo e non necessariamente fisica – nasce un simbolico onnipotente, per cui l’uomo si sente un dio e dunque si crea un dio maschile.
Ma qui non è questo il punto.
(www.libreriadelledonne.it, 16 febbraio 2018)
Domenica 28 gennaio 2018, presso la Libreria delle donne di Milano si è tenuto un incontro fra donne appartenenti ai Gruppi donne delle Comunità di Base cristiane italiane, al Graal-Italia, alla Sororità di Mantova, a Thea-Teologia al femminile e la Comunità di storia vivente.
Introduzioni di Carla Galetto e Doranna Lupi
1) Prima di tutto un grazie di cuore alle donne della pratica di “Storia vivente” che ci ospitano qui in Libreria e che ci accompagneranno in questa giornata. Per noi (Doranna e io) la Libreria delle donne di Milano è il luogo simbolico di una rivoluzione ancora in atto, tanto per citare il sottotitolo del libro Mia madre femminista di Luciana Tavernini e Marina Santini.
Avere a disposizione parole nuove per dire la verità sulla nostra esperienza e per dire il mondo è già molto e qui ci sono queste parole. Però per creare nuova realtà condivisa, per creare nuovo simbolico non è sufficiente condividere testi e parole di altre donne, ma è necessario attraversare quel vuoto, quel silenzio da cui tutte noi siamo partite e trovare soggettivamente il pensiero che sa decifrare ciò che si sente, in relazione con le parole e con i corpi (in carne e ossa) delle altre donne.
2) Da cosa nasce il desiderio di incontrarci con voi? La proposta è nata da Doranna, a cui subito ho aderito, dopo la sua partecipazione al Convegno sulla “Pratica della storia vivente” dell’11 Marzo 2017 qui, nella libreria delle donne Milano, a cui eravate presenti tutte: Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Modini, Giovanna Palmeto, Marie-Thérèse Giraud. Abbiamo subito condiviso questa proposta con le nostre amiche delle cdb, compagne da trent’anni di un percorso condiviso su donne e divino, proposta estesa anche ad altre che fanno parte di gruppi donne che in questi ultimi anni si sono unite a noi.
I motivi principali che ci hanno spinte a sentire la necessità di questo incontro sono due:
- a) l’esigenza più volte espressa nei nostri collegamenti di lasciare traccia scritta del nostro percorso
- b) l’obiezione silenziosa sul libro di Mira Furlani (di cui vi parlerà Doranna).
- a) Mi sembra innanzitutto importante riprendere alcuni accenni a questo desiderio, emersi negli ultimi anni del nostro percorso.
Già nel coordinamento del 12/1/13 c’è stata la proposta di “portare fuori, ad altre, le cose che abbiamo capito e vissuto”. Si è sentita la necessità di usare parole vere per dire la realtà che si vive, cioè partire da sé. Le parole delle donne, le nostre parole, si sentono troppo poco. Bisogna renderle pubbliche, renderci visibili.
Noi non siamo le rappresentanti della “questione femminile” delle Cdb, ma siamo in un percorso in cui si manifesta il senso libero della nostra differenza. Autorità che ci riconosciamo, forza che ci dà parola pubblica.
Successivamente, nei Coordinamenti nazionali del 2014 (2/3/14) veniva evidenziata la necessità di una persona esterna a noi (insieme a qualcuna interna) che collaborasse con noi per rileggere la nostra storia (fare un articolo, scrivere un testo…), per “bucare il muro”. Si è detto che è poco conosciuto il nostro percorso e abbiamo difficoltà a comunicarlo.
Un nodo fondamentale segnalato era come gestire i conflitti per poter costruire una “sottile striscia di futuro”. Conflitto sì, ma anche desiderio di mantenere la relazione.
Nel Coordinamento nazionale 19/11/16 ancora una volta emergeva il bisogno di ripercorrere un percorso fatto, per rimettere in movimento il presente: rileggere il passato serve per capire il presente, ma ciò che conta è il presente. Occorre rimettere in gioco il presente, a partire da sé, soggettivamente; documentare adeguatamente la presenza di libertà femminile.
E infine nell’ultimo Coordinamento nazionale di ottobre (7/10/17) il nostro gruppo donne di Pinerolo ha portato una proposta da cui riprendo alcuni passaggi che, secondo me, sono fondamentali:
Possiamo iniziare a scrivere senza avere la pretesa della perfezione: è una crescita, una maturazione, un cammino, perché cresce la consapevolezza di quello che abbiamo fatto e stiamo facendo. È difficile scrivere in tante, è vero, però potremo trovare delle modalità più adatte.
A volte, per paura delle divisioni interne, si cerca un’autorità esterna che scriva, che dica qualcosa al posto nostro, mentre è meglio fare dialogare le differenze con diversi testi di narrazioni…
Ci sono già molti testi scritti da donne che applicano questo metodo.
Occorre scrivere la storia di un periodo che ha coinvolto e tuttora coinvolge le soggettività, cioè cominciare a raccontare che senso ha avuto, perché c’è stata questa svolta, ad es. quella di creare gruppi di donne delle cdb; perché alcune di noi siamo tuttora dentro le cdb…
È stato possibile fare una ricerca dentro le cdb, parlare con verità…? Quali conflitti ha aperto e quali conseguenze nel bene e nel male? Quali relazioni sono state necessarie per acquisire forza e autorità?
Noi dobbiamo fare in modo che il nostro diventi un racconto di storia vivente, non un asettico racconto fatto da un’altra esterna a noi. Dobbiamo smetterla di pensare che sia necessario raccontare la storia con obiettività, prendendone le distanze. È la nostra storia e dobbiamo raccontarla noi intrecciandola alla storia, ai fatti e alla nostra esperienza soggettiva. La misura ce la dà la nostra relazione, che in questo senso è politica. I gruppi di autocoscienza ci hanno insegnato molto. Dobbiamo trovare parole nostre!
Questa nostra proposta è stata accolta, come vedete…
Ecco: a partire da questi desideri, interrogativi, pensieri e a partire dalla relazione preziosa tra di noi che ci ha dato forza in una ricerca che ha trasformato radicalmente la nostra spiritualità, sostenendo la nostra libertà… abbiamo pensato a un lavoro in cui emerga la “Storia vivente”, scritta da noi.
Non autocelebrazione del nostro percorso (che Luciana Tavernini chiamava monumento funerario) come se fosse un’esperienza conclusa, bensì la storia di come le nostre storie e i nostri percorsi si sono intrecciati. Dove? Nelle specifiche realtà, negli specifici contesti. Come poi i contesti specifici si sono modificati in conseguenza ai percorsi delle donne.
Come le pratiche elaborate nel percorso comune e separato delle donne sono andate a modificare, a interferire, anche a confliggere negli specifici contesti.
Quali pratiche di relazione con donne (con quali donne) hanno rafforzato entrambe le parti nei singoli contesti e a livello nazionale. Per esempio a livello territoriale le donne del gruppo di Pinerolo hanno stretto relazioni di scambio con pastore valdesi e con il Centro studi e pensiero femminile di Torino (Aida Ribero, Ferdinanda Vigliani); a livello nazionale abbiamo avuto relazioni con teologhe cattoliche e protestanti (Letizia Tomassone, Elisabeth Green, Daniela di Carlo), donne con altri percorsi di spiritualità (Antonia Tronti, Antonietta Potente), con filosofe di questa Libreria e della comunità di Diotima (Luisa Muraro, Chiara Zamboni).
Penso sia importante ripercorrere questa nostra storia senza fretta, prendendoci tutto il tempo necessario per rivisitare un cammino trasformativo molto lungo… ponendoci domande, confrontandoci ciascuna a partire da sé, attraversando i nodi che abbiamo dovuto o dobbiamo ancora prendere in mano e dipanare con pazienza e cura, mantenendo viva la relazione tra di noi. Più che il prodotto finale è importante tutto il processo con cui cercheremo di tentare questa pratica di storia vivente. Sarà sicuramente occasione per esprimere, e speriamo anche di realizzare, il nostro desiderio vivo.
Carla Galetto
“Quando appare sulla scena un testo che ci racconta la storia dal punto di vista dell’esperienza femminile c’è, prima di criticare, da rallegrarsi e poi da capire cosa faccia ostacolo alla rappresentazione del mondo dal punto di vista femminile” (Luisa Muraro, “Testimonianze”, 514, 2017).
Uno dei presupposti della pratica di storia vivente è che qualsiasi storia collettiva sia imprescindibile da ciascun soggetto. Luciana Tavernini, autrice con Marina Santini del libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, sostiene che la storia vivente non è l’unica storia da raccontare, ma se si riesce a fare questa pratica e a trovare il proprio nodo, si riesce meglio a fare l’altra storia. È così che la nostra carne diventa parola.
È necessario quindi dire le cose con parole che rispondano alla nostra esperienza. Teniamo presente il Sottosopra Rosso del 1996 intitolato È accaduto non per caso. È finito il patriarcato non vuol dire che sono finite, sparite di colpo e del tutto le forme e le strutture create dal patriarcato, bensì che è finito il sostegno delle donne a questo ordine simbolico, è finita la loro complicità, il silenzio-assenso, e questo ha aperto un’enorme crepa in quel sistema, da cui è già passata molta libertà femminile. Certamente da questo passaggio si è immessa anche l’ondata di donne americane che ha reso pubblica la denuncia delle molestie sessuali maschili in tutti gli ambiti, portando alla luce il contrasto tra i sessi e restituendo un fatto, che veniva considerato personale, a una dimensione pubblica. Abbiamo visto, però, che ci può volere molto tempo, come diceva Marisa Guarneri (presidente onoraria della Casa delle donne maltrattate di Milano) nel suo intervento introduttivo in occasione dell’incontro di Via Dogana 3 del 14 gennaio 2018: ci vuole il tempo necessario per rimettere in ordine ciò che è prioritario per la libertà di una donna e questa necessità va riconosciuta dalle altre donne. La libertà femminile è anche un rischio, come ogni movimento di libertà può provocare delle reazioni e a questo dobbiamo essere pronte.
Perché Carla e io, sostenute dalle donne del nostro gruppo di Pinerolo e dagli uomini della redazione di Viottoli, abbiamo raccolto in un dossier tutto ciò che è stato fino ad ora scritto sul libro di Mira Furlani Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei? Libro che lei ha scritto dopo 50 anni dai fatti che racconta. Lo abbiamo fatto perché era in ballo qualcosa di grande per la nostra libertà, cioè la credibilità delle nostre parole e la legittimazione necessaria per dirle, in una narrazione della storia che introduce elementi nuovi e un punto di vista nuovo rispetto a quello maschile tradizionale. Il racconto di Mira Furlani risponde con forza alla necessità di raccontare la storia di una donna dal proprio punto di vista, andando anche a scovare nodi profondi che, inevitabilmente, portano a galla qualcosa di rimosso e suscitano reazioni. In questo caso l’autrice indaga e mette in luce aspetti impensati del suo periodo storico.
Il dossier era necessario per rompere e spiegare, prima di tutto a noi stesse, quella che Laura Minguzzi ha definito l’obiezione silenziosa che ha provocato il libro all’interno delle comunità di base e soprattutto tra le donne delle cdb.
In questo caso si è verificata una circostanza particolarmente fortunata. Non c’è voluto molto tempo né grandi sforzi poiché, contemporaneamente all’obiezione silenziosa, molte e molti altri, dentro e fuori dalle cdb, hanno parlato legittimando e rilanciando i contenuti della narrazione di Mira. Questa differenza di punti di vista e di modi di agire ci ha mostrato concretamente l’efficacia della pratica politica delle relazioni tra donne e del riconoscimento di autorità femminile anche da parte maschile. In un secondo tempo infatti, la proposta della pubblicazione del nostro dossier sulla rivista Viottoli è venuta da un uomo della redazione, Memo Sales, marito di Luisa Bruno e facente parte del gruppo uomini di Pinerolo.
Nei luoghi dove questo avviene, si ha un rilancio. Mentre il silenzio ha l’effetto di rimuovere, depotenziando la libertà soggettiva, la pratica politica delle relazioni tra donne è orientata all’ascolto attento di ciò che l’altra ha da dire, attraversando i conflitti, valorizzando il di più che si mostra nelle parole dell’altra, cercando e trovando schegge di simbolico che confluiscano nella corrente viva di pratiche e pensiero di una rivoluzione ancora in atto.
Il libro di Mira si può considerare a tutti gli effetti un testo di storia vivente. Cosa lo rende tale? Sempre sulla rivista Testimonianze, Franco Quercioli, nell’intervista a Mira, mette in risalto questioni fondamentali rilevate nel testo e, nelle sue domande, parte dalla genealogia materna, dalla pratica delle relazioni tra donne, dalla cultura della differenza che ha messo in moto processi di autocoscienza maschile, arrivando ad affermare che, per questo, il libro di Mira guarda al futuro di tutti, non solo alla dimensione religiosa e della chiesa. Secondo Giuseppina Vitale, nel suo articolo sul numero 9/2016 di MicroMega, l’autrice si lascia alle spalle il tema della democratizzazione ecclesiale, aprendo spiragli di discussione sulla maternità e sul ruolo (attivo) della donna nella Chiesa, argomenti di indiscussa attualità.
Tutto questo può già essere considerato come il risultato scaturito dalla narrazione di una storia vivente che, come dice ancora Luisa Muraro, “fa emergere la verità soggettiva, la fa risultare nel quadro generale e la fa lavorare simbolicamente, per avere una rappresentazione più vera della realtà storica”.
Non è sul piano dei principi che scorrono i ricordi di Mira, bensì sull’esperienza pratica di un vissuto che si è scontrato con la disparità dei rapporti tra uomini e donne. Il suo racconto mette in evidenza che senza il femminismo dell’autocoscienza e la scoperta dell’ordine simbolico della madre non sarebbe mai riuscita a uscire da quella sottomissione.
Dalla storia delle case famiglia emerge il nodo che per tanti anni ha travagliato Mira. Le case famiglia dell’Isolotto non sarebbero esistite senza le madri affidatarie e senza l’iniziale collaborazione/accettazione di Mira Furlani a tale progetto. Ma è proprio su questo che a un certo punto è avvenuto lo scontro più profondo, quello tra autorità maschile e autorità femminile, in pratica tra Mira e coloro che volevano ridurre l’autorità femminile a servizio oblativo.
L’imprevisto fu che Mira e sua madre si ribellarono a quella che era una vera e propria sottrazione di autorità e disconoscimento del simbolico materno.
Doranna Lupi
(www.libreriadelledonne.it, 16 febbraio 2018)
di Umberto Varischio
«Quanto dicono diverse signore francesi, tra cui Deneuve, ci è di conforto». Questo scriveva Michele Serra sulla sua rubrica “L’amaca” (Repubblica, 11 gennaio 2018).
Serra non è certo stato l’unico uomo a esprimersi in questo modo; altri l’hanno pensato e condiviso tra gruppi di uomini. Alcuni li conosco anch’io.
Mi sembra che dietro questa presa di posizione ci sia un retro-pensiero che dichiara: finalmente anche alcune donne francesi non indulgono più nelle noiose distinzioni terminologiche tra molestie e seduzione e anzi ci chiedono di “importunarle”. Non perdiamo tempo quindi a porci tanti problemi, lambiccandoci sulla distinzione tra due termini che spesso consideriamo, nelle nostre pratiche, quasi equivalenti; tralasciando però una questione fondamentale, il consenso.
Discorsi di questo tipo mi ispirano sconforto, se non irritazione e al limite rabbia. Mi chiedo e chiedo a loro: come facciamo ad equivocare tra seduzione e molestie? Come possiamo non renderci conto che dietro alle pratiche raccontate sempre più pubblicamente da altre donne ci sono relazioni di potere e non libertà?
Ora, per nostra sfortuna, ci si mettono oltre cento tra attrici, registe, produttrici e sceneggiatrici italiane a ricordarci la differenza che c’è tra molestia e seduzione. E a puntare il dito sulla questione delle relazioni di potere sottintese.
Dobbiamo quindi riabbassare la testa, dimenticare il breve conforto che ci era stato concesso da Oltralpe, e aspettare che passi la bufera? Oppure fare qualcos’altro?
Forse sarebbe meglio che smettessimo di cercare una facile conferma delle nostre convinzioni più profonde, smettere di rifugiarci sempre in un “grembo confortevole” e restare nel disagio, nello sconforto che queste prese di posizione ci generano per vedere cosa ne nasce. E magari poi cercare di vedere le cose del mondo non solo dal nostro punto di vista maschio-centrico.
(www.libreriadelledonne.it, 16 febbraio 2018)
di Luisa Muraro
Un giorno, ho chiamato Rosetta Stella (se non la conoscete, chiedete di lei) e le ho detto: scendi in strada, vendi quello che hai, comprati una spada e andiamo. Era il nostro stile, un po’ biblico, adesso lei è morta (era nel suo stile farci delle sorprese) ma, se fosse viva, tornerei a dirglielo.
Abbiamo la fortuna di essere donne, viviamo un tempo straordinario di cambiamento nei rapporti fra donne e uomini, che vuol dire anche fra uomini e uomini, fra donne e donne, trans comprese. Il femminismo è preso in mezzo, com’è naturale che sia, perché tutte, da un mese, da un anno o da una vita, siamo impegnate a cambiare il mondo nel senso di una più grande e più condivisa libertà femminile. Non per questo andiamo d’amore e d’accordo. E anche questo è naturale, perché il femminismo è movimento delle donne e le donne non sono un gruppo sociale, non fanno partiti, non si muovono in maniera uniforme verso questo o quell’obiettivo, anzi non è neanche possibile fissare degli obiettivi, per le molte differenze che si sono tra noi, di ogni tipo. Ma, da questo movimento di donne esce un disegno sempre più vasto e leggibile, come nel racconto di Karen Blixen. Perciò dico: se riusciamo a trovarci d’accordo, meglio; se non riusciamo, accettiamo i conflitti. Ma che siano fatti bene, che vuol dire per me: con il sentimento che confliggere è praticamente necessario; con la fiducia che ne esca un disegno che comprende sempre più donne.
Se qualcuna mi chiedesse qualche consiglio, ne darei due, uno maggiore e l’altro minore. Consiglio maggiore: farsi un’idea di quello che sta capitando. Consiglio minore: non aggredire ma spiegarsi, non reagire ma interagire.
(www.libreriadelledonne.it, 9 febbraio 2018)
di Elvia Franco
Il no secco e pubblico delle 124 artiste riguarda non solo la violenza sessuale. Ma la violenza etica, intellettuale, economica, la violenza psicologica, anche larvata.
Queste 124 compagne di viaggio comunicano un sentimento di gioia. Vorrei che facessero un film su queste cose. Ne hanno l’intelligenza, la creatività, il furore e la speranza.
Sono contenta.
(www.libreriadelledonne.it, 8 febbraio 2018)
di Mirella Maifreda
Si chiamava Anna Chiodi, aveva 59 anni, ed era “anche” una di noi.
Il 29 gennaio Anna si è spenta. Da tempo si sapeva della sua malattia, ma quando la notizia della sua morte ci ha raggiunte ci ha trovate impreparate, quasi sorprese e dire che dell’aggravamento delle sue condizioni eravamo informate da tempo; ma la rimozione è una tentazione troppo forte per potervi rinunciare.
Da oltre 10 anni faceva il turno come libraia alla Libreria delle donne di Milano. L’ultima volta che è venuta in libreria era la fine di novembre: ha comperato dei libri, abbiamo chiacchierato “così… con leggerezza”, appariva serena e distesa nei tratti. Non sapevamo, né lei né noi, che sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo incontrate.
La Libreria delle donne per Anna era una parte importante di “parte” della sua vita, così come la sua fattiva militanza nell’ArciLesbica di Milano, così come la pratica della sua professione di pediatra, così come la disponibilità all’ascolto che è stata testimoniata con affetto e commozione da più parti.
Ieri, insieme ad alcune amiche della Libreria, ho partecipato al suo funerale; da tanto non sentivo che tale parola “partecipare” avesse un significato così potente, così pregnante.
Pregnante era nelle parole dei suoi familiari e nelle numerose e sentite testimonianze delle sue amiche e compagne di viaggio, politico ed affettivo.
Anna era una e molte; mentre ascoltavo i ricordi che si inanellavano pensavo che ognuna di noi conosce, ha frequentato e conserverà un pezzetto di lei unico e sconosciuto alle e agli altri.
Potrei aggiungere altro, ma io appartengo a quel genere di persone per le quali la morte impone pudore e silenzio.
Termino prendendo a prestito delle parole di Rossana Rossanda: «La presenza sensoriale è ciò che più dolorosamente viene a mancare con la morte, la ferita più acuta, più penetrante, più restia a farsi catturare dalla memoria. Colpisce ogni volta che affiora inattesa, eppure presente in sottofondo, come un taglio non destinato a rimarginarsi. È vero, sopravviviamo all’altro, e questo ci rassicura tanto da riprendere il cammino, talvolta con più energia e creatività, ma non siamo più gli stessi». In passato ho già incontrato queste frasi e mi tornavano alla mente mentre, tornando a casa, ci congedavamo da Anna.
(www.libreriadelledonne.it, 2 febbraio 2018)