Il diritto della madre: uscire dalla simmetria giuridica dei sessi nella procreazione
Convegno presso l’Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali, via Conservatorio 7, 29 novembre 2018, Sala Lauree.
Comitato scientifico: Valentina Calderai (Diritto privato, Università di Pisa), Daniela Danna (Sociologia, Università di Milano), Olivia Guaraldo (Filosofia politica, Università di Verona), Silvia Niccolai (Diritto costituzionale, Università di Cagliari), Elisa Olivito (Diritto costituzionale, Università di Roma), Susanna Pozzolo (Filosofia del diritto, Università di Brescia), Monica Santoro (Sociologia, Università di Milano)
Il convegno intende stimolare una riflessione delle giuriste e di tutti coloro che studiano la società intorno ad una coppia di domande: ci chiediamo se sotto la rivisitazione paritaria e neutra, che ha interessato nel corso degli anni il diritto di famiglia, non sia all’opera ancora, o nuovamente, un diritto prevalente del padre, e se questo assetto non possa essere ripensato, alla luce del patrimonio del pensiero femminista nel diritto. A questo pensiero intendiamo richiamarci, nelle sue ricche sfaccettature, che annoverano figure e percorsi diversi, ma sono tutte accomunate dalla critica nei confronti dell’automatismo della parità e dell’aspirazione alla mera simmetria dei sessi; riflessioni che hanno saputo sempre, partendo dalle donne, parlare del mondo, riconoscendo e criticando i modelli di convivenza che si sono venuti affermando, i quali condizionano e influenzano, anche, l’argomentazione giuridica e la riflessione sociale.
Si pensi all’elaborazione della nozione di ‘uguaglianza valutativa’ di Letizia Gianformaggio; all’ampia riflessione che approfondisce l’intreccio fra capitalismo e patriarcato e, in questa cornice, alle considerazioni di Carole Pateman sul ‘contratto sessuale’ e sulle ambiguità del concetto di ‘genere’; oppure alla riflessione che coglie, con Martha Fineman, il legame tra la “neutralizzazione” della madre e le esigenze del mercato. Oppure, agli studi che hanno riconosciuto nella medicalizzazione del corpo femminile, della gestazione e del parto, l’annuncio di una idea di soggettività e di socializzazione basate sulla ‘managerializzazione del sé’, che si sono col tempo rivelate cruciali nella costruzione della governamentalità ‘neo-liberale’, come nella lettura di Barbara Duden; e ancora alle ‘istituzioni della maternità’ di cui parla Adrienne Rich, che possono assumere storicamente forme diverse, ma riproporre identiche finalità espropriative e di controllo sulle donne, in particolare nella surrogazione di maternità.
Molti sono gli ambiti che si aprono e che possono essere esplorati, sia in chiave di diritto positivo, sia di analisi filosofica e sociologica, a partire da una riflessione volta a interrogare problematicamente una simmetria giuridica dei sessi nella procreazione che neutralizza la donna.
In particolare, da un lato, è stato da lungo tempo sottolineato che l’approccio ‘neutro’ ai temi della famiglia in nome della “parità” e della “fungibilità tra i sessi” può nascondere una nuova insidiosa discriminazione, nel senso di un trattamento incongruo e inappropriato, e di una perpetua svalorizzazione, nei confronti dell’esperienza femminile. Oggi, sul terreno della concreta esperienza giuridica, segnali significativi di simili insidie vengono chiaramente alla luce quando, in nome di un interesse superiore del minore tutto declinato nel cono di un principio paritario di bi-genitorialità, l’applicazione dell’affido condiviso apre a tragiche contraddizioni nei casi di conflittualità e di violenza. Più equa ci appare una prospettiva che, ben oltre il discorso individualista e il suo correlato paritario – oggi egemoni nel diritto – faccia spazio, proprio nel diritto, a una concezione costitutivamente relazionale della soggettività, nei suoi aspetti più concreti e materiali.
D’altro lato, è consolidata la consapevolezza che la famiglia, organismo centrale nell’autonomia sociale, risente delle dinamiche interpretative e delle pratiche che interessano il “governo” delle soggettività, e l’idea stessa di individuo e di persona, pratiche che hanno un loro centro nevralgico nella regolazione della fecondità femminile e degli istituti connessi. In questo quadro, rappresenta una sfida interrogare, per un verso, il concetto neutro di ‘omogenitorialità’– che si sostituisce a espressioni, sessuate, quali ‘doppia maternità’ e ‘doppia paternità’ – e, per l’altro verso, confrontare la rivendicazione di un principio neutro di “genitorialità alla nascita” con il principio mater semper certa – universale fino all’introduzione dell’istituto giuridico della surrogazione di maternità in California con Johnson v Calvert (1993). Riteniamo che la regula juris del mater semper certa possa essere interpretata oggi in chiave favorevole a nuove dimensioni di libertà femminile, traducibili in istituti giuridici capaci di rispecchiare la differenza sessuale.
In questa cornice possiamo enucleare, esemplificativamente, alcune domande:
- È possibile sviluppare un “universalismo” a partire dalla prospettiva femminista o l’analisi femminista deve essere annoverata tra quelle politiche “parziali” e/o di parte?
- Si può andare oltre l’anatema “essenzialista” che colpisce ogni uso politico e intellettuale dell’idea di differenza sessuale?
- Quali sono le connessioni tra prospettiva femminista e critica all’intreccio tra capitalismo e patriarcato?
- Come tener conto della differenza sessuale nella generazione e nella filiazione?
- Quali i percorsi della soggettività giuridica e dell’idea di libertà nelle visuali critiche del diritto, giusfemministe e della differenza sessuale?
- Donna, concepito, terzi: come individuare la libertà femminile nella generazione, in una scena della filiazione sempre affollata da ulteriori interessi?
All’interno di queste linee, possono essere individuati ambiti più specifici per l’indagine teorica e/o empirica, ad esempio:
- la filosofia e le applicazioni della legge che impone l’affido condiviso (e il collocamento della prole);
- il concetto di ‘bi-genitorialità’;
- il tema (e una definizione) dell’‘interesse del minore’;
- la surrogazione di maternità
- status familiari e riproducibilità tecnica della procreazione: l’impatto delle nuove tecnologie sulle istituzioni giuridiche della parentela;
- prospettive di analisi economica e giuridica del mercato della riproduzione umana;
- differenza sessuale e procreazione delle “coppie same-sex”;
- il nuovo lessico dei tribunali minorili e l’idea di famiglia che ne emerge;
- come cambiano l’idea di famiglia e di libertà nella generazione quando si inserisce come parametro il “progetto di genitorialità”;
- come può ripensarsi il diritto a partire da una soggettività costitutivamente in relazione.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
Ci piacerebbe che alcune opere fossero comune riferimento nel dibattito fra noi. Ne elenchiamo alcune, ma volentieri ne recepiremo altre che ci verranno suggerite: C. Pateman, Il contratto sessuale, Nuova ed. Moretti e Vitali, 2015 – A. Rich, Nato di donna (1977), trad. it. Garzanti, 1996. – B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico (1991), trad. it. Bollati Boringhieri, 1996 – B. Duden, L’epoca della schizo-percezione, in A. Buttarelli, F. Giardini, Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, 2008, p. 109-140. – S. Federici, L. Fortunati, Il grande Calibano, Franco Angeli, 1984 – I. Praetorius, Penelope a Davos. Idee femministe per una economia globale, Quaderni di Via Dogana, Milano, Libreria delle donne 2011- I. Praetorius, L’economia è cura. La riscoperta dell’ovvio, IOD edizioni, 2016 – L. Gianformaggio, Eguaglianza donne e diritto, Il Mulino, 2005 – Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, 1987 – M. Minow, The Supreme Court 1986 term. Foreword: justice engendered, in Harvard Law Review, vol. 101, 1987, pp. 10-95 – A. Cavarero, Il modello democratico nell’orizzonte della differenza sessuale, in Democrazia e Diritto, n. 2, 1990, pp. 221-241.
CALL FOR PAPER
Invitiamo le studiose e gli studiosi che sentono interesse per i temi che abbiamo delineato a inviare una proposta di paper entro il 15 settembre 2018 all’indirizzo mater.iuris@unimi.it
La proposta dovrà contenere il titolo dell’intervento e un abstract di circa 1.800 caratteri.
Coloro la cui proposta sarà accettata riceveranno comunicazione entro il 30 settembre.
Dopo lo svolgimento della giornata di lavoro, in considerazione dei risultati, stabiliremo se e come proseguire l’esperienza con una pubblicazione.
(www.libreriadelledonne.it, 28 giugno 2018)
Marirì Martinengo e Laura Minguzzi ci comunicano che il Parco delle Favole, collocato a Nord di Milano, nel quartiere Affori, avrà un nome proprio di donna: Parco delle Favole voluto da Luciana Cella Guffanti. La Giunta Comunale di Milano con un provvedimento ad hoc in data 8 giugno 2018 ha approvato la richiesta di modificare la denominazione precedente. Per realizzare questo parco, cioè trasformare a verde un terreno desolato, Luciana aveva lottato a lungo, coinvolgendo con il suo amore per la bellezza e la natura abitanti, scuole, istituzioni locali ed europee. Riuscì anche a scongiurare un progetto interregionale di costruzione di una grande arteria che avrebbe semidistrutto il parco. Luciana ha vinto le sue battaglie e realizzato il suo sogno, che oggi vive di per sé, nel suo nome. È stato così dato riconoscimento pubblico alla fondatrice di una impresa femminile e la storia non è stata cancellata.
(www.libreriadelledonne.it, 28 giugno 2018)
di Laura Minguzzi
Introduzione all’incontro con Valentina Parisi, autrice della Guida alla Mosca ribelle (Voland, 2017), Libreria delle donne – Circolo della rosa, 6 giugno 2018.
Ho sentito leggendo la Guida alla Mosca ribelle di Valentina Parisi una consonanza, una grande emozione nel ritrovare luoghi conosciuti e visti negli anni settanta per la prima volta e poi rivisti nel corso del tempo. Oltre al gusto per il viaggio. Ma il viaggio prima di tutto come messa in gioco della soggettività di chi lo compie, soggettività che, esposta a stimoli non usuali si rinnova e arricchisce, galvanizzandosi al contatto di genti e orizzonti immaginati, sognati, ma non ancora conosciuti. I non sperimentati spazi chiedono di fare il vuoto dentro di sé per accogliere quanto d’inaspettato ci è offerto. Ed è una postura politica fertile, destinata ad applicazioni anche in altri ambiti. Si sceglie in genere di fare un determinato viaggio, seguendo un desiderio, perseguendo un completamento di sé; un’altra caratteristica che sento in comune è di intendere il viaggio non solo per sé, ma anche per altri e altre.
Per il mio modo di viaggiare e conoscere altre culture ho letto con grande interesse i percorsi esplorativi della Mosca ribelle di Valentina Parisi perché ci guida a compiere un viaggio fatto di scoperte, un viaggio non banale non eterodiretto ma che fa leva sulla nostra curiosità personale, il nostro desiderio di arricchirci con lo scambio e con la lentezza del camminare per andare a vedere ciò che lei seguendo un proprio desiderio vuole mostrarci.
A me è sempre piaciuto progettare viaggi a mia misura, osservare le trasformazioni, parlare con la gente, con le donne, per andare oltre le notizie. Questo mi è stato possibile con gli scambi fra scuole che ho organizzato per una decina di anni (dal 1992 al 2003), quando insegnavo. Nel mio ultimo viaggio (da Mosca a Vladivostók) ho seguito le tracce e la storia delle Decabriste e dei Decabristi e come Valentina Parisi nella Guida, descrivendole e quindi pubblicandola, ho reso partecipi altri della loro vicenda rivoluzionaria. Mi piaceva che anche le mie alunne e i miei alunni, vivendo nelle famiglie russe, dessero corpi, una storia alla realtà, alla lingua che studiavano sui banchi. Con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991 io ho cominciato a sognare una civiltà europea senza frontiere, senza muri, che potesse lambire l’oceano Pacifico, arrivare oltre gli Urali fino a Vladivostók. Ho sempre temuto l’idea della fortezza Europa che si difende o si arma. Partivo perciò per capire cosa stesse succedendo, cosa pensasse la gente comune, le amiche, le insegnanti, cosa scrivessero i giornali della nuova Russia che si andava formando, tastare il polso della situazione e nelle scuole portavo la mia esperienza politica, libri di scrittrici italiane, e a mia volta compravo libri di scrittrici russe da leggere nelle mie classi.
Dal mio primo contatto con Mosca nel 1972, di questa città mi ha sempre affascinato la forma a centri concentrici, ad anelli che progressivamente si allargano (i kol’zo in russo), come quando nell’infanzia si getta un sasso in mare o in un lago e si formano cerchi che se il lancio è ben riuscito si allargano in modo quasi magico sempre di più, quasi all’infinito…
La Guida alla Mosca Ribelle di Valentina Parisi è molto precisa e dettagliata con mappe dei luoghi e dei quartieri descritti, come arrivarci con le fermate e le stazioni della metropolitana con alcune foto dell’autrice. Completa la guida un esaustivo indice dei nomi delle figure storiche e dei luoghi. Perciò è di facile consultazione, molto adatta anche per un viaggio autonomo non organizzato.
Gianpiero Piretto, nella prefazione, ci illustra perché Mosca è considerata la madre di tutte le città russe accompagnandoci attraverso i vari epiteti e attributi di Mosca in un percorso storico dall’origine della città, come prima sede del trono, e via via nel corso dei secoli. Mosca rappresenta l’antichità, la tradizione e ha goduto di una serie di attributi per distinguerla nel bene e nel male da Pietroburgo-Leningrado, città europea, voluta da Pietro il Grande all’inizio del Settecento. Nel quattordicesimo secolo Il principe Dimitrj Donskoj sostituì il vecchio Cremlino di legno con la pietra, la dolomite e il calcare, poi principi e boiardi preferirono la pietra bianca e allora Mosca si chiamò “Mosca dalle pietre bianche”. Poi oltre nel sedicesimo secolo per affermare la supremazia dell’ortodossia comparve l’appellativo “Mosca terza Roma”. Il profilo della città antica si manifestava nelle numerosissime cupole d’oro delle molteplici chiese e si fece ricorso all’espressione figurata, sòrok sorokòv, come dire mille millanta. Sòrok significa quaranta ma soròk indicava le unità amministrativo-religiose in cui la città era divisa. Così come “Mosca rossa” e “Mosca bella” testimoniano di come il nome della città fosse legato nella storia alle realtà più diverse, sacro e profano, alto e basso. Ma è nel ’57, pochi anni dopo la morte di Stalin, che a Mosca si ebbero le due settimane più intense, inaspettate e innovative che la storia dell’Unione Sovietica ricordi. Fu il VI Festival Mondiale della Gioventù e degli studenti. Fu il sessantotto prima della stagione dei figli dei fiori di San Francisco e del maggio francese. Negli anni settanta-ottanta trionfarono le canzoni d’autore del ribelle cantautore Vysòtzkij, i samizdàt, le produzioni manoscritte autonome della dissidenza politica e del femminismo. Infine per arrivare agli anni prima della grande ricostruzione degli anni novanta, l’epiteto “Mosca non è di gomma” sintetizza la resistenza degli abitanti a un allargamento smisurato dei confini. Dopo il crollo dell’URSS, la nuova identità riassunta nella Mosca-City ci presenta una capitale che vuole essere un centro affari internazionale. Un piano cominciato nel 1997: palazzi, grattacieli, torri, spazi espositivi.
Valentina Parisi nella sua introduzione ne segue lo sviluppo storico lento fino al ’900, secolo in cui il paradigma della lentezza si è capovolto. Decrescita è una parola ignota a Mosca. Frequente il termine megalopoli. Stabilire la popolazione attuale è un’impresa disperata. Dodici, tredici milioni? Ai dati ufficiali va aggiunto un numero fluttuante di presenze invisibili: sans-papier giunti per lo più da ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, braccia indispensabili alla crescita implacabile della capitale. La stessa struttura concentrica della città pare garantire un allargamento a macchia d’olio. Dal Piano Generale di ricostruzione degli anni trenta voluto da Stalin, Mosca attraversa ora l’ennesima fase di trasformazioni. Ci sono gli sviluppatori, developery in russo, che mettono mano alla città chiamando la trasformazione renovacija – rinnovamento – e vogliono tramutare Mosca in una città pedonale – peschechòdnaja, anche se il clima non invita certo alle passeggiate, per cui molte strade centrali vengono ristrette. Con la City si è tornati allo sviluppo in verticale con i grattacieli in vetro e acciaio. Ne è un esempio la Torre della Federazione, l’edificio più alto d’Europa, 374 metri.
Per non smarrirsi in un simile caos occorre una chiave di lettura. La scelta di Mosca come città ribelle è da rintracciare nel passato, dice l’autrice. Il filone letterario della narrazione dell’io comincia in Russia con l’autobiografia di un disobbediente, quella scritta da Avvakùm nel carcere di Pustoziòrsk, oltre il Circolo polare artico, mentre attendeva il martirio sul rogo. Mosca è da allora centro e luogo per le proteste antigovernative. Molti in Italia ricordano, ricordiamo, la protesta mondiale delle Pussy Riot, due delle quali, Mascia Aliòchina e Nadja Tolokònnikova, nel 2012-13 furono condannate a due anni di lavori forzati nella colonia penale di Perm, liberate nel dicembre del 2013 grazie alle pressioni internazionali su Putin, in quanto c’erano le Olimpiadi a Soci e non gli conveniva. Avevano osato denunciare le collusioni di potere fra governo russo e ortodossia e potere religioso rendendo visibili le relazioni fra Putin e il patriarca di Mosca Kirill con la performance scandalosa, definita blasfema nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. Mascia Aliòchina, madre single di Filipp, inoltre era attiva nel movimento ecologista e aveva partecipato alla difesa della foresta di Khimk attorno a Mosca, che stava per essere distrutta dal progetto di costruzione di un’autostrada. Io oggi mi chiedo, citando il titolo di un’opera del poeta Nikolaj Nekràsov: Chi vive bene in Russia? Un poema che parla della vita dei contadini, servi della gleba e delle loro sofferenze, sconosciute ai nobili che vivevano separati nei loro palazzi in città. Valentina ci descrive il quartiere dove visse Aleksandr Ràdiscev, un nobile condannato all’esilio in Siberia per avere pubblicato un libro di viaggio da Pietroburgo a Mosca in cui descrive ciò che ha visto. Ci fa conoscere Fanny Kaplan e un monumento a lei dedicato, nonostante la damnatio memoriae che a lungo l’ha bandita dalla storia della città. Aveva attentato alla vita di Lenin.
Rivolgo la domanda a Valentina: Oggi chi vive bene in Russia? perché la ribellione e la protesta nascono da questa domanda. Come migliorare la vita non solo materiale ma renderla più libera nell’espressione di sé? Io quando sento strategie politiche come quella di Putin, tipo la cosiddetta verticale del potere, che portò all’eliminazione delle elezioni autonome dei governatori e alla centralizzazione delle scelte, penso all’accentramento burocratico, al risucchiamento delle risorse a Mosca, come specchio per le allodole e così interpreto le proteste e le richieste di più autonomia delle città siberiane che si vedono sottratte le risorse dalla capitale. Dal punto di vista geopolitico vedo inoltre un progressivo spostamento della Russia verso l’Asia e mi pare che sia dimostrato anche dallo sviluppo abnorme e caotico di Mosca dal 2000 a oggi, come racconta Valentina nella introduzione. Una città asiatica molto più simile a Singapore, Hong Kong ecc.
Un’altra domanda mi preme. Come vivono le donne? Perché a differenza degli anni novanta non sappiamo più nulla delle produzioni letterarie e artistiche di giovani scrittrici o scrittori? Per esempio mi ha colpito ciò che ha scritto Chiara Zamboni in Femminismo fuori sesto, sul femminismo delle cucine nell’Unione sovietica degli anni settanta-ottanta, citando il libro di Svietlàna Aleksièvic Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo: «Allora la libertà di parola di queste donne contribuì a dare una spallata al sistema sovietico ma non creò un mondo nuovo e si è lasciato travolgere dal capitalismo» (pag. 12). Oggi Eduard Limonov richiama in Italia un grande interesse di pubblico. Sono impressioni che ho ricavato ascoltando una sua conferenza nel corso della quale ha attaccato duramente l’Aleksièvic, definendola una scrittrice nemica del popolo russo e addirittura criticando apertamente la scelta di conferirle il premio Nobel, attribuendolo anzi a una precisa volontà di attaccare la Russia e di porla in cattiva luce, denigrando il popolo sovietico.
(www.libreriadelledonne.it, 25 giugno 2018)
di Clara Jourdan
A Milano dal 6 giugno scorso i figli e le figlie di quattro coppie di donne hanno ufficialmente due mamme. Una bella notizia. La registrazione nell’atto di nascita avvenuta con una cerimonia pubblica in municipio era stata preceduta tre settimane prima da una dichiarazione del sindaco Giuseppe Sala, in risposta a una lettera pubblicata sul Fatto Quotidiano in cui due mamme avevano chiesto a Palazzo Marino di seguire l’esempio di Torino: «Non è una forzatura della legge, anzi. Ci abbiamo ragionato in un paio di giunte. Quando la maternità è certa, e non ci sono rischi di tratta di bambini, noi andremo avanti». E gli assessori competenti avevano aggiunto: «L’orientamento dell’amministrazione è tutelare i genitori e i loro bambini adottando questa procedura per tutte le mamme come Corinna e Francesca». Dopo la dichiarazione di nascita in ospedale, con l’indicazione della madre biologica, «le signore potranno prendere appuntamento con la direzione Servizi civici per il deposito della dichiarazione di riconoscimento dell’altra mamma e la conseguente annotazione sull’atto di nascita» (Corriere della Sera Milano, 17 maggio 2018).
Un avvenimento importante, e va sottolineato il linguaggio di chi l’ha annunciato, preciso e inequivocabile: «maternità certa», «indicazione della madre biologica». È il principio antico, che alcune studiose come Daniela Danna e Silvia Niccolai ci hanno ricordato in questi anni, del Mater semper certa, alla base di quasi tutti gli ordinamenti conosciuti. La madre è sempre colei che partorisce, o madre biologica, anche in presenza di altre figure materne, come la balia in passato e la madre genetica oggi, creata dalle tecniche di procreazione assistita. O la compagna della madre, che lei riconosce come altra madre e adesso può acquisire «lo status di genitore» (v. Silvia Niccolai, Maternità omosessuale…, Costituzionalismo.it, 3/2015). Si tratta di due mamme, dunque. E infatti le due donne nella loro lettera al giornale avevano chiesto di seguire l’esempio di Torino. Non quello di Roma dei due papà, che qualcuno ha voluto accomunare in maniera tendenziosa per compiacimenti di partito («La giunta Sala segue la via tracciata dalle amministrazioni pentastellate») o per spingere in quella direzione. No, e se qualcuno ha interesse a fare confusione, è questo il momento di fare chiarezza. Da una coppia di donne una delle quali ha partorito le loro creature, niente è più lontano di una coppia di uomini che hanno commissionato una creatura per toglierla alla madre e portarsela via. Non si può parlare astrattamente di “coppie omosessuali”, la non simmetria dei due sessi è assoluta ed evidente nella generazione, lo sanno tutti, anche quelli che si arrampicano sugli specchi per rendere accettabili famiglie programmate senza madre. Per soddisfare i desideri di paternità degli uomini si potrebbero invece ampliare le possibilità di adozione. Ma non è accettabile, mai, in nessun caso, far fuori la madre. E non si può usare il riconoscimento di due mamme per legittimarlo. Due mamme è un regalo della nostra civiltà, che non diventi un cavallo di Troia.
(www.libreriadelledonne.it, 15 giugno 2018)
di Alain Naze
Alain Naze, Manifeste contre la normalisation gay, Editions La Fabrique, 2017
Non si tratta di chiedersi, semplicemente, perché i gay vanno a destra. L’autore respinge in partenza una simile impostazione, perché confonde il sintomo e il male reale. Se le idee islamofobe e razziste hanno potuto insinuarsi nella “comunità omosessuale”, ciò si deve a un problema ben più strutturale: la normalizzazione, voluta dagli interessati non meno che promossa dallo Stato, di tutta una parte delle persone gay e lesbiche. Il passaggio decisivo si è avuto con la consacrazione del “matrimonio per tutti”, presentato come una rivendicazione vittoriosa e un traguardo di lunga data.
Alain Naze ci ricorda che, già con l’ottenimento dei Patti di convivenza civile, i movimenti dei gay e delle lesbiche avevano fatto un passo indietro rispetto alle esigenze di un Contratto d’unione civile dalle prerogative ben più ampie della semplice coppia in situazione coniugale. Quello che è in gioco con la lotta omosessuale, e questo fin dagli anni 1970, è proprio la possibilità di altri modi di vita, altre pratiche amorose, affettive, amicali, da quelle proposte dal modello eterosessuale e borghese.
Focalizzandosi sulla rivendicazione del matrimonio, i movimenti di gay e lesbiche hanno in parte rinunciato a questo potenziale sovversivo, per ottenere la tolleranza, cioè l’indifferenza, della società eterosessuale dominante.
Tracciando questo consuntivo, l’autore ci invita contemporaneamente a reimmaginare altre possibilità, a ritrovare lo slancio utopico di Guy Hocquenghem, del Fronte omosessuale di azione rivoluzionaria (FHAR).
(Traduzione dal francese, www.libreriadelledonne.it, 15 giugno 2018)
di Luisa Muraro
Il Centro culturale Villa Pallavicini (via Meucci 3, Milano), alle 18.30 di lunedì 4 giugno, ospiterà un incontro pubblico e conferenza stampa in vista di un’opera commemorativa in piazza Vetra, che vuol essere In memoria delle cosiddette streghe.
“I pericoli del pensiero unico non sono mai finiti.” Così dice il Comitato promotore nel suo invito (https://www.facebook.com/events/164018961116348/). È vero, così vero che anche il Comitato, con tutte le sue buone intenzioni, è vittima del pensiero unico. Infatti, 1) confonde la caccia alle streghe con la persecuzione dell’eresia e 2) attribuisce la responsabilità di questi mali storici unicamente all’Inquisizione.
È umanamente e politicamente sbagliato, io dico, continuare a fare questa doppia confusione: corrisponde a un modo di ragionare molto comodo, comodo ma anche molto sbagliato. Una volta lo chiamavano: fare di ogni erba un fascio, ma la storia è il contrario di un prato da passare con la falce.
Spiego il primo punto della mia critica, la confusione delle vittime. La confusione tra eresia e stregoneria è un’invenzione fatta dall’Inquisizione alla fine del Medioevo per i suoi scopi, fra cui sfruttare le credenze popolari sulle streghe e mettere così in cattiva luce le persone giudicate eretiche. I Valdesi furono tra le prime vittime di questa odiosa propaganda, che arriva fino al maccartismo anticomunista degli Usa negli anni Cinquanta. In altre parole, l’Inquisizione ha inventato un metodo repressivo che fu adottato e continua a essere adottato dai poteri forti per avere mano libera sui loro oppositori: calunniarli.
Ma noi dobbiamo fare il contrario, dobbiamo fare la differenza tra le streghe e gli eretici! Dobbiamo farla per restituire la vera identità alle vittime, una per una se fosse possibile, ma che sia almeno sullo sfondo della loro grande differenza. La donna (o l’uomo) valdese era una cristiana lettrice del vangelo, anticonformista… chiamarla strega voleva dire coprire il suo comportamento di false interpretazioni e di sospetti infondati. D’altra parte, chiamare eretica una cosiddetta strega, era un modo per “cristianizzare” tutta una differenza culturale, occultare cioè i segni dell’antica civiltà precristiana e la sua presenza nella cultura popolare. La strega, infatti, è il paradigma di ogni differenza che ostacola i progetti e i progressi dei vincenti.
Quest’umanità perseguitata avrebbe in comune che sono stati, tutti e tutte, vittime dell’Inquisizione? Passo così al secondo punto, la confusione dei responsabili. Chi conosce la storia della congregazione di Guglielma, sa che le condanne definitive, eseguite nell’anno 1300, emanavano dai domenicani di Sant’Eustorgio, cioè dall’inquisizione che faceva capo a Roma, e che questa non ebbe il compito facile per l’opposizione più o meno aperta di altri poteri, laici e religiosi, fra cui il monastero di Chiaravalle. Chi conosce la storia delle caccia alle streghe sa che la strage durata secoli di persone innocenti, in gran parte donne, rientra nella storia della nascente Europa moderna e fu opera di poteri che cercavano capri espiatori, e durò tanto quanto la credulità popolare che consentiva loro di fare questo gioco… Mettere sotto accusa, oggi, l’Inquisizione, non è, forse, fare lo stesso gioco? O, meglio, prestarsi a quelli che vogliono farlo profittando della nostra semplicioneria?
(www.libreriadelledonne.it, 1 giugno 2018)
di Massimo Lizzi
Ho sempre visto la prostituzione come una condizione di servitù sessuale e non ho mai creduto possibile riconoscerle una dignità, tanto meno per mezzo di una legittimazione giuridica o di un linguaggio mutuato dal lessico professionale, commerciale o da qualche inglesismo. D’altra parte, non sarei capace di sopportare l’idea di vedere prostituita una parente stretta o una cara amica, non vedo perché dovrei accettarla per una donna estranea e anonima. Tra i miei conoscenti, pochi sono quelli che ammettono di aver frequentato prostitute. Tra questi, i più dicono di aver avuto una sola esperienza deludente, perché lei fu troppo passiva. Mio padre mi raccontò qualcosa di simile: appena giunto a Torino, giovane immigrato dal sud, nel 1953, andò subito in una casa di tolleranza: la prostituta rimase stesa inerte sul letto tutto il tempo e lui non ci tornò più. Il comportamento riferito della prostituta, lascia immaginare una resistenza passiva o una rassegnazione mortifera.
Comprendo, dunque, fin quasi a condividerle, le affermazioni che vogliono mettere fuori dal femminismo chi è favorevole alla prostituzione. Affermazioni che hanno il senso della scomunica e so non corrispondere al vero, perché conosco varie femministe favorevoli o possibiliste nei confronti della prostituzione, che preferiscono chiamare lavoro sessuale o sex working. Molte altre sono problematiche e non arrivano mai a una parola definitiva, a differenza di tante femministe del Nord Europa, che su questo argomento mostrano di avere le idee più chiare, come Rachel Moran, autrice del libro Stupro a pagamento, ospite della Libreria delle donne lo scorso 20 maggio. Aperti e possibilisti sono anche tanti uomini amici del femminismo. Il possibilismo maschile, tuttavia, lo reputo meno accettabile. Con il possibilismo, le donne hanno un conflitto tra loro; gli uomini hanno un conflitto d’interessi.
L’atteggiamento ondivago e compromissorio nei riguardi del sesso a pagamento credo abbia a che fare con le condizioni e la cultura del nostro paese. In Italia è molto ampia la disoccupazione femminile e nell’arte di arrangiarsi, la prostituzione rimane una possibilità, frutto di un calcolo che si può fare. L’Italia è un paese di cultura cattolica e i cattolici, nonostante il moralismo loro attribuito, hanno storicamente tollerato la prostituzione come male minore, come sistema fognario delle turpitudini maschili, a tutela delle donne per bene. Le culture tradizionali trovano nelle pieghe delle culture moderne le ragioni per riprodursi e giustificarsi, per esempio, nella declinazione neoliberale della libertà femminile o in quella individualista dell’autodeterminazione.
Ad aiutare questo riciclaggio culturale è pure un linguaggio che rappresenta il fenomeno come fosse centrato sulla donna che si offre e non sull’uomo che la domanda e, nell’insieme, come una operazione di mercato. È, dunque, molto giusta l’idea di ridefinire il linguaggio che nomina la prostituzione, per svelare la sua dinamica e il suo elemento propulsore: la domanda maschile di poter disporre del corpo di una donna senza doversi relazionare con essa e con il suo desiderio. In questo senso, come spiegano Rachel Moran e il femminismo nordico, ma anche le femministe spagnole, il cliente è un prostitutore, la prostituta una donna prostituita e la prostituzione un abuso pagato.
Da questo nuovo modo di nominare le cose, penso si debbano trarre tutte le conseguenze, anche sul piano giuridico, altrimenti si esprime un messaggio divergente sul piano simbolico: nominato il ladro, è impossibile esonerarlo dalla sanzione del furto. La legge Merlin non è una via di mezzo tra il modello nordico dell’abolizionismo e il modello tedesco della regolamentazione. La legge Merlin è una legge abolizionista e ha la stessa filosofia della legge svedese: decriminalizza la prostituta e criminalizza ciò che le sta intorno: lo sfruttamento, l’induzione, il favoreggiamento, il libertinaggio. Non prescrive, è vero, una esplicita sanzione per chi acquista sesso. Però, se il cliente diciamo di vederlo come un prostitutore e tale lo nominiamo, vediamo anche che esso è parte in causa, anzi l’agente principale dei comportamenti che la legge italiana definisce come reati: induce, favorisce e sfrutta. La criminalizzazione del prostitutore (alias cliente), quindi, è coerente con la legge Merlin.
(www.libreriadelledonne.it, 31 maggio 2018)
di Luisa Muraro
Non trovarsi in sintonia con i propri lettori e lettrici, è un incidente che può capitare, ma quello capitato al quotidiano cattolico Avvenire è così grave che somiglia al deragliamento di un treno. Sulla fine violenta della famiglia di Francavilla, madre, bambina e padre, la giornalista Marina Corradi ha scritto un commento sbilanciato e impressionante, fuori dai binari del buon senso, e si è portata dietro il giornale nella persona del suo direttore, Marco Tarquinio.
Che cosa è successo? Uomini che uccidono la moglie, uomini che, prima di uccidersi, uccidono i familiari, sono notizie non rare, purtroppo. Le circostanze ogni volta sono diverse ma ogni volta c’è un uomo che si comporta da padrone sulla vita di persone che facevano parte della sua vita. Tra le circostanze di quest’ultimo caso, una colpisce la giornalista e cioè che l’uomo abbia esitato sette ore prima di lasciarsi andare nel vuoto, facendo così la fine da lui data prima alla moglie e poi alla figlia (a loro, senza esitare, parrebbe). Quelle sette ore di suspense tra la vita e la morte suggeriscono a Marina Corradi l’immagine di un uomo diviso tra la disperazione di sé e una speranza di misericordia. Sarà questa figura letteraria alla Bernanos che l’ha spinta a dedicare la sua attenzione all’autore del misfatto non vedendolo più in questa luce e trascurando tutto il resto?
Si potrebbe supporlo ma l’intervento del direttore del giornale fa pensare che c’è dell’altro. Il direttore difende la sua giornalista, d’accordo, ma non ha visto, come sarebbe stato compito suo, quanto fosse squilibrato il commento di lei. E la difende dalle critiche con un’enfasi eccessiva che non si spiega se non pensando che lei abbia interpretato dei sentimenti profondi di lui. Lo conferma il titolo dato da lui stesso (suppongo) al pezzo, L’ultima battaglia di un uomo, titolo che non è infedele all’articolo ma gli aggiunge un qualcosa che lo fa diventare una provocazione. Deliberata? Non credo.
Credo piuttosto che il direttore aderisca, più o meno consapevolmente, ma prontamente, da uno che si sente parte in causa, al sentire inconscio (su questo non ho dubbi) di una donna che, in questo caso, non dico sempre, trova la sua ispirazione nello stare dalla parte dell’uomo. In lei, il direttore crede di vedere un’espressione di quella commovente pietà femminile che la civiltà patriarcale celebra e mette sugli altari.
Io, proclama il direttore verso la fine della sua lunga risposta, “non censuro e non mi faccio censurare”, nel senso che “non amputo della sua parte femminile” la pagina da lui voluta a commento della tragedia di Francavilla. La parte femminile è, ovviamente, l’articolo di Marina Corradi, che porta il numero 1, contro cui le proteste si sono giustamente alzate. Dunque, c’è anche una parte maschile? Sì, e bisogna leggerle entrambe perché sono complementari, ammonisce il direttore rivolto a chi protesta. Ma, se andiamo a leggere questa seconda parte, troviamo ben poco: parole sensate e un finale in cui tutti, vittime e colpevole, vanno ricondotti alla follia, promossa a “protagonista dei tre morti di Francavilla”. Niente che sia paragonabile alla provocazione del primo articolo.
In realtà, la parte maschile c’è, ma non è lo scritto numero 2. La fa lui, il direttore, lasciando trapelare, attraverso i sentimenti e le parole della sua giornalista, un preciso significato. Ed è la non dichiarata, forse inconsapevole ma evidente partecipazione alla vicenda disastrosa di un pater familias che diventa il simbolo dell’agonia del patriarcato.
Questa mia ricostruzione può spiegare l’incidente di Avvenire e, soprattutto, spiega come mai sia capitato proprio a un giornale cattolico. La fine del patriarcato per le società di cultura cattolica è una prova straordinariamente impegnativa, perché domanda agli uomini di spogliarsi dei loro fasulli primati e a tutti, donne comprese, di convertirsi alla libertà femminile: è una, forse la principale condizione se si vuole traghettare nel presente verso il futuro, quello che di grande, vero e buono il messaggio cristiano ha offerto alla civiltà umana.
Il femminismo che il direttore di Avvenire rivendica al suo giornale, mi dispiace dirlo, è robetta. Ci vuole ben altro; per saperlo, se uno non ha tempo o voglia per gli scritti di Carla Lonzi o di Luce Irigaray, si rilegga il discorso del papa ai membri dell’Accademia per la vita, il 5 ottobre 2017. Poche parole, per rendere l’idea: «Non si tratta semplicemente di pari opportunità o di riconoscimento reciproco. Si tratta soprattutto di intesa degli uomini e delle donne sul senso della vita e sul cammino dei popoli… Insomma, è una vera e propria rivoluzione culturale quella che sta all’orizzonte della storia di questo tempo».
Link agli articoli citati:
–La tragedia tre volte mortale di Francavilla al Mare/1. L’ultima battaglia di un uomo, di Marina Corradi, 22 maggio 2018
–La tragedia tre volte mortale di Francavilla al Mare/2. Se tutto è avvolto di follia, di Giovanni D’Alessandro, 22 maggio 2018
–L’orribile tragedia di Francavilla al Mare l’indignazione e la morte della pietà, di Marco Tarquinio, 25 maggio 2018
(www.libreriadelledonne.it, 29 maggio 2018)
Intervista di Clara Jourdan a Luisa Muraro
Il 25 maggio 2018 ci sarà in Irlanda un referendum per rendere possibile al parlamento di fare una legge in favore delle donne che chiedono di poter abortire senza andare all’estero. Il referendum del 25 maggio mira a abolire un emendamento costituzionale introdotto trent’anni fa che vieta di modificare la legge proibizionista. Tu che cosa prevedi e che cosa ti auguri?
Non so fare previsioni. Mi auguro che l’ostacolo venga tolto di mezzo e che il parlamento di Dublino possa fare una legge migliore di quella oggi in vigore. Oltre che patriarcale, la legge irlandese è ipocrita: non nega alla donna la possibilità d’interrompere la gravidanza, purché lo faccia all’estero. Sull’argomento suggerisco di leggere Órla Ryan, L’Irlanda decide sull’aborto (Internazionale 1255). L’Irlanda potrebbe seguire l’esempio dell’Italia e fare una legge come quella che c’è dal 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza, la 194, che fu votata da comunisti e democristiani ed è risultata in pratica una buona legge.
Tu hai detto al quotidiano Avvenire, 10 maggio 2018, che sei contraria al diritto di abortire. Hai cambiato idea?
Quello che citi non era il mio pensiero, era il titolo dato dal giornale all’intervista. Io ho detto e spiegato (come la giornalista Antonella Mariani riferisce in breve ma fedelmente) che sono contraria a considerare l’aborto un diritto.
Al seguito del pensiero femminista delle origini, la cui radicalità resta per me (e non solo!) una fonte d’ispirazione, penso che una donna non debba chiedere a niente e nessuno il permesso di diventare o di non diventare madre. È un principio di libertà femminile: il Diritto non l’ha ancora formulato in questi termini ma vale lo stesso, vale da sempre. Le innumerevoli donne che hanno abortito nella clandestinità (anche in Irlanda, inutile dirlo) sono giustificate da questo principio. Nessuna femminista, neanche quelle cattoliche, pensa che siano delle criminali. Semmai, pensiamo che siano delle fuorilegge. Quello che si chiede di avere per legge, non è il diritto di abortire, ma che sia lei a decidere sotto la sua responsabilità (“autodeterminazione”) e se decide di abortire, che riceva la necessaria assistenza sanitaria in nome del diritto alla salute.
Che differenza fa?
Nell’idea del diritto di aborto, a monte c’è la legge del padre. In regime patriarcale alle donne non sposate è vietato diventare madri; sposate, devono diventare madri per dare una discendenza all’uomo; in certe circostanze hanno il permesso (o l’obbligo) di abortire… Il diritto di aborto viene da questa storia. Fuori dal simbolico patriarcale, che senso ha? Perché mai una donna dovrebbe avere il diritto di non fare quello che nessuno ha il diritto d’imporle o di vietarle? Perciò, negli anni Settanta, invece di una nuova legge, molte femministe proponevano la depenalizzazione: cancellare il reato dal codice.
Nel suo commento all’intervista dell’Avvenire, “Aborto, tra scelta e diritto”, Cecilia D’Elia obietta che la tua formula sull’aborto che non è un diritto, è ingannevole, perché nel linguaggio comune dire che una cosa non è un tuo diritto è come dire che non puoi decidere tu.
Ha ragione Cecilia, se stiamo alla mentalità comune. Domina, infatti, nel senso comune, una mentalità per cui, tra le cose che abbiamo il permesso di fare e quelle che è proibito fare, non c’è spazio. In altre parole, non ci sentiamo autorizzate a essere noi stesse, ad agire con signoria. Oppure magari sì, ma nella completa irresponsabilità. Io combatto, dentro di me, intorno a me e in generale, per il superamento di questa mentalità ristretta e irresponsabile al tempo stesso. Specialmente in vista della libertà femminile, che altrimenti resta molto limitata (sto parlando delle donne, non faccio confronti con gli uomini). Bisogna finirla con il girotondo del chiedere permessi, reclamare diritti, mettersi contro e ingoiare rospi: diventeremo più libere e il mondo, più grande.
Che cosa pensi, in generale, dell’articolo di Cecilia D’Elia “Aborto, tra scelta e diritto”?
È un buon articolo nel quale mi riconosco, riassume i quarant’anni della legge 194 e fa il punto sullo stato attuale della questione in una maniera esemplare. Ma un confronto puntuale con la posizione da me espressa su Avvenire non sarebbe appropriato, perché io mi muovo su un terreno difficile, quello dell’interlocuzione con la cultura cattolica. Su un punto preciso, tuttavia, lei ha ragione contro di me, quando dice che all’Onu non ha vinto l’idea di una libertà illimitata sul proprio corpo, e in questa luce, mettere l’aborto: no, lei ha ragione. Hanno vinto i diritti sessuali e riproduttivi della donna, la formula è vaga ma accettabile.
Detto questo, dobbiamo renderci conto che il punto di vista della legge è limitato e non esaurisce affatto il tema della competenza e della posizione delle donne nella procreazione. Per esempio? Ho accennato alla responsabilità, un aspetto che rimanda ai rapporti tra libertà personale, orientamento morale e progetti di vita condivisi con altre e altri. C’è da riflettere anche sull’applicazione della 194. Molte se la prendono con i medici obiettori e non hanno torto, ma, a maggior ragione, dobbiamo pensare ai medici non obiettori: come interpretiamo la loro figura e il loro lavoro? Dire che fanno il loro dovere è riduttivo, perché la loro presenza fa compagnia alla donna in un passaggio pieno di ombre, che non vuol dire per questo meno umano, anzi!
Non hai pensato che fosse imprudente farsi intervistare dal quotidiano dei cattolici italiani sulla legge 194?
Il diritto patriarcale va decostruito e l’agente principale di questa decostruzione è uno e uno soltanto, la libertà femminile. (Lo dico pensando anche alla questione della maternità surrogata.) In pratica, bisogna portare il tema della procreazione fuori dagli opposti schieramenti maschili tra conservatori pro-life e progressisti pro-choice. L’unica cosa in cui questi schieramenti vanno d’accordo è di parlare e di pensare al neutro maschile. Si è visto a proposito della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, che ha avviato una stagione di messa fuori gioco dell’esperienza femminile.
Di conseguenza, bisogna rischiare. Il rischio è duplice. Da una parte si rischia di essere malintese oppure strumentalizzate da coloro che ci danno la parola. Dall’altra, si rischia di perdere credito presso le donne che non ti riconoscono più nelle parole con cui ti esponi al confronto con l’altro. Insomma, bisogna avventurarsi in una terra di nessuno per incontrare l’altro senza tagliarsi fuori dalla comprensione delle posizioni di partenza. Come si fa? Con un po’ d’intelligenza politica e molta fiducia: fiducia in quelli (quelle) che ti vengono incontro e fiducia in quelle (quelli) che ti sono vicine ma che di te ora vedono solo le spalle. Di questo parliamo quando parliamo di politica delle relazioni.
(www.libreriadelledonne.it, 21 maggio 2018)
Questa lettera è indirizzata alle donne che oggi siedono in Parlamento.
Siete le più numerose della storia della nostra Repubblica, vi trovate lì per il desiderio e la lotta delle donne che vi hanno precedute. Vogliamo celebrare con voi, che siate d’accordo o no, i 40 anni della legge che ha dato alle donne il diritto di dire la prima e l’ultima parola sul proprio corpo.
Un po’ di storia: la 194, legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, è stata fortemente voluta dalle donne contro la destra e a fronte di una sinistra a lungo titubante, alleato senza remore fu solo il Partito Radicale. Alla fine gran parte del Movimento femminista, le donne dell’U.D.I, dei Partiti di sinistra, dei Sindacati e delle associazioni e tante altre seppero mettersi insieme, dopo mediazioni non facili, e vinsero. Fu un vero e proprio atto di governo.
È questo insieme che vogliamo celebrare e mostrare oggi ancora vivo e potente.
Insieme abbiamo salvato tante donne dalla morte e dalla vergogna della clandestinità. È per questa coscienza che non ci può fare paura l’oscena propaganda che si sta scatenando in questi giorni contro questa legge, che pretende di mostrare le donne come assassine. Ma l’amore delle donne per la vita lo testimoniano secoli di storia.
È la nostra libertà a fare paura. Oggi tutti sono pronti a condannare la violenza, tutti contriti per ogni donna uccisa, per ogni donna maltrattata e abusata, ma sia chiaro: le radici di ogni violenza stanno tutte nella pretesa del controllo del corpo delle donne e se questo controllo un tempo era sacro, era legge, era dovuto, oggi è solo un terribile vizio.
Le donne non hanno più padroni. Di un gesto triste e grave come l’aborto, troppo spesso causato da una sessualità maschile irresponsabile, le donne rispondono non allo Stato ma prima a se stesse nel profondo della loro coscienza e poi a coloro che amano.
Oggi la denatalità fa paura, tanti dicono che sia colpa della nostra scarsa moralità, ma le donne non sono messe in condizione di avere figli, lo si vede dalle scelte economiche, da quelle politiche, dalla precarietà del lavoro, dai tagli ai servizi, da una scuola in perenne difficoltà, dallo scarso o nullo coinvolgimento degli uomini nell’esperienza della genitorialità, dai prezzi delle case e degli asili nido. Le donne non sono pazze, a fronte di un loro desiderio, non fare figli quando non puoi permettertelo è una scelta molto triste.
Ma il desiderio può non esserci e questo è un fatto di cui tutti devono imparare a tenere in conto. La maternità oggi è una libera scelta, non un obbligo, non un dovere, né una merce, risponde solo a un desiderio, ma questo desiderio è importante per la vita di tutti, per la vita della società stessa, poiché infelice è colui che nasce senza il desiderio della madre. Così pensavamo e così pensiamo.
Vi scriviamo per dirvi che, qualunque governo verrà, le donne non faranno un passo indietro, speriamo di avervi al nostro fianco. Continueremo a lavorare per affermare la nostra piena cittadinanza e per rendere migliore questo paese. Riempiremo le piazze, se necessario.
Firme
Cgil Nazionale, UDI Nazionale, Laiga, Rete per la Parità, Telefono Rosa, Dire, Donne in Quota, Casa Internazionale delle Donne Roma, Uil Nazionale, Differenza Donna, Teresa Manente, Senonoraquando Torino, SeNonOraQuando Bolzano, Museo delle donne di Merano, Snoqfactory, Alessandra Bocchetti, Catiuscia Marini, Linda Laura Sabbadini, Rosanna Oliva, Francesca Comencini, Gabriella Carnieri Moscatelli, Laura Onofri, Stefania Tarantini, Chiara Guida, Lidia Ravera, Anna Paola Concia, Marina Terragni, Le Kassandre Napoli, Patrizia Asproni, Paola Tavella, UDI Palermo Onlus, Onde donne in movimento Caltanisetta, Coordinamento antiviolenza 21 Luglio Palermo…
Stanno arrivando tantissime firme…
Per informazioni e contatti ledonnesonoqui@gmail.com
di Cristina Gramolini
Comincio dal fatto che non sono favolosa e non voglio esserlo. La principale ideologa transessuale italiana ha elevato la “favolosità” a marcatore della vita trans soddisfatta e il termine è stato adottato dalla parte queer del movimento lgbt. Favolose: un aggettivo al femminile per tutti, euforico della trasgressione sessuale. Ma tra quelli che parlano solo al maschile e quelli che declinano tutti i nomi al femminile non c’è troppa differenza per me: gli uni cancellano la differenza, gli altri se ne appropriano. Ecco che uomini gay o etero, contenti o meno del loro corpo maschile, sono favolose e hanno al seguito donne che non vogliono essere da meno, che si affrettano a dirsi favolose a loro volta, come abbiamo potuto leggere in taluni comunicati della rete italiana Non Una Di Meno. Tuttavia favolose erano le dive procaci degli anni Cinquanta, decisamente prefemministe.
L’ideologia transessuale avanza e arriva a rivendicare, con mio sgomento, il diritto al blocco della pubertà per i minori non conformi alle aspettative di genere! Allo stesso tempo chi va da uomo a donna (mtf) si vuole donna sempre più spesso anche senza ormoni e chirurgia, basta la parola; e si vuole lesbica, argomentando pacificamente che esistono donne con il pene e guai a contraddire, sarebbe da terf (trans excludent radical feminist).
Le mtf nei racconti di Marcasciano sono libere corsare del sesso gioioso, “meglio battere che combattere”. A questa idealizzazione si lega lo slogan sex work is work, già perché il sesso occasionale, mercenario o no, corrisponde a un panorama erotico e estetico maschile dalla lunga storia e dalla solida attualità e sono convinta che chi è maschio lo possa trovare davvero avvincente, tanto da non contemplare neppure che le donne possano avere una libertà sessuale diversa da questa. Dev’essere qui un punto dei tanti dell’incomprensione tra i generi. Comunque per me niente da eccepire se a fare sex work fossero solo maschi o ex maschi, invece non mi va l’estensione a me e alle donne in genere di questa formula.
Non sono cis-gender, come si dice oggi in ambiente transfemminista per indicare una nata femmina che si qualifica come femmina, traendone supposti privilegi di rispettabilità e egemonia. Le norme di genere avrebbero voluto ad esempio che io fossi interessata massimamente alla cosmesi mentre non sono così. Molto più cis-gender mi appaiono certe mtf che, giunte al genere di elezione, ne ricalcano gli schemi, tutte prese dagli accessori per signora e dai selfie continui.
Come molte, mi sono trovata prima a desiderare ciò che non avrei dovuto e poi a cercare di teorizzare il senso della mia disobbedienza al divieto, è lo iato tra la vita lesbica e la cultura lesbica, con le sue soluzioni consolatorie, autocelebrative, supportive ma anche critiche, politiche, artistiche. Ragiono per analogia: la vita transessuale viene prima della teoria transessuale, che avrà il ruolo confermativo necessario a una soggettività che vuole riscattarsi dalla norma sessuale che la svilisce. Ci vuole tempo per smitizzare, relativizzare il pensiero nei riguardi di una materia destabilizzante come il desiderio proibito, per esperienza sono in grado di comprenderlo. Ma mi oppongo senza mezzi termini all’appropriazione che il transfemminismo fa di noi, del nostro nome e della nostra storia, imponendoci l’obbligo di occuparci delle avventure del pisellino, amato-odiato-reso fantasmatico-rinominato come vagina, come se fossero cose che ci riguardano.
Conosco la rivolta contro il proprio sesso, non è un divertissement. Se questa ribellione giunge fino all’abolizione del sesso di nascita c’è la transessualità, che non è un prodotto della tecnica e della legge odierne, esisteva irriducibile anche prima nel travestimento e nel margine. Le persone trans sono donne trans e uomini trans, con cui camminare insieme se e quando ci sono mete condivise, purché ciò non comporti una nuova prevaricazione contro le donne: ognuno e ognuna diamoci un nome che ammetta la differenza. Il transfemminismo invece è una ideologia brandita sempre più spesso da anticonformisti generici, senza che venga reclamata come propria dai veri soggetti trans, forse perché questi ottengono in cambio una gradita inedita centralità?
(www.libreriadelledonne.it, 11 maggio 2018)
di la Redazione carnale del sito
Le donne e l’uomo che amministrano gli spazi della Libreria delle donne di Milano in facebook sono noi e noi siamo loro.
Abbiamo letto da qualche parte che la Libreria delle donne non si identificherebbe con quegli spazi: non è vero.
E’ una affermazione senza nessun fondamento e a leggerla siamo cadute dal pero.
di María-Milagros Rivera Garretas
Una sera delle feste di San Fermín del 2016, cinque maschi, presunti uomini, autodenominati “Il branco”, spinsero una ragazza in un portone di Pamplona, la violentarono in gruppo e filmarono la loro prodezza. Si sentivano tanto impunibili come alcuni magistrati, presunti uomini anch’essi, li hanno giudicati essere l’altro ieri.
Poche ore dopo aver saputo della sentenza, molte donne e alcuni uomini sono usciti in strada e hanno espresso la loro indignazione e il loro dissenso per una sentenza che non ha condannato i cinque maschi per stupro ma per cosiddetti “abusi sessuali”. Non sono andate a manifestare in posti qualsiasi ma di fronte a edifici che rappresentano lo Stato. Hanno subito capito che non era un tribunale qualunque ma lo Stato di diritto stesso che si scontrava, infrangendosi, contro la libertà femminile e contro la dignità e la grandezza che ogni donna ha per il fatto di esserlo. Come accade molto nei momenti radianti (Chiara Zamboni) della storia delle donne, un avvenimento così importante come questo, che lo Stato si infranga contro la libertà messa al mondo dalla fine del patriarcato, ha avuto il suo lato ridicolo: uno dei tre giudici che firmano la sentenza aveva chiesto l’assoluzione del branco dei maschi con l’argomento che non c’era stato stupro perché i delitti erano stati commessi in un ambiente “di baldoria”. L’estate scorsa, mia nipote di cinque anni mi chiese, a cena, «Nonna, perché ci sono uomini che non sono donne?» Forse è per questo: perché una bambina di oggi può essere, a quanto pare, più sensata di un magistrato.
È insensato che il Diritto distingua tra stupro e abusi sessuali. In questa distinzione si infiltrava il patriarcato per lasciare impunita la violenza contro le donne. È il varco malignamente previsto da alcuni perché altri (a volte, altre) interpretino i delitti contro le donne secondo il diritto ma non secondo giustizia.
Quelli e quelle che oggi giudicano, dentro o fuori dai tribunali, avvalendosi di sottigliezze come questa, sono, a mio parere, presunti uomini. Non fanno onore al loro sesso. Lo dico perché questa volta è accaduta nei mass media una rivoluzione simbolica. I giornalisti si sono divisi chiaramente e senza prevaricazione tra gli uomini che, riconoscendo autorità femminile, hanno saputo dire basta all’insensatezza, e i presunti uomini che hanno titubato, timorosi di attentare contro lo Stato di diritto, o si sono crogiolati nella sentenza che ha lasciato impunito, negandolo, lo stupro. Le giornaliste, da parte loro, si sono divise anch’esse, al punto che, in alcuni casi, davanti alle loro prime tre parole titubanti, molte donne abbiamo spento nauseate il “dispositivo”, non importa se chi parlava era di destra, di centro o di sinistra. Non ne possiamo più di presunti uomini.
Che lo Stato di diritto si infranga contro la fine del patriarcato è un avvenimento decisivo ed enorme, conseguenza del cambiamento radicale della politica del sesso messo al mondo dalle donne, una per una e giorno per giorno nel mondo intero durante gli ultimi cinquant’anni. Trasformando la relazione con noi stesse, con le altre e con gli uomini, abbiamo rivoluzionato la società e lasciato allo scoperto la insensatezza del Diritto in tutto ciò che ha a che vedere con il corpo femminile. Il Diritto è la grande costruzione maschile che sosteneva il patriarcato. Finalmente è riuscita a sconfiggerlo la libertà femminile. Godiamo della nostra rivoluzione!
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan, www.libreriadelledonne.it, 3 maggio 2018. Testo originale: El Estado de Derecho se estrella contra el final del patriarcado, Duoda, 28/04/2018, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/10/219/)
di Alessandra De Perini
Un libro dedicato alla madre che suscita un putiferio
Convinta del valore storico-politico del libro di Mira Furlani intitolato Le donne e il prete. L’isolotto raccontato da lei (Gabrielli 2016), ho chiesto io a Carla Neri e a Luciana Talozzi di Insieme ArTe -Amare Chioggia, che da diversi anni mi invitano a parlare nella loro città, di organizzare una discussione pubblica. Loro si sono fidate e mi hanno detto subito di sì. Carla ha invitato anche don Dino De Antoni, arcivescovo emerito di Gorizia e Aquileia, e io sono molto curiosa di sapere che cosa ne pensa lui di questo librino: poco più di 100 pagine, dedicato alla madre Lidia Bresciani, il primo scritto da una donna sulla storia della Comunità dell’Isolotto di Firenze. Un libro che ha sollevato un putiferio nelle Comunità Cristiane di Base, che è stato criticato, attaccato, ritenuto perfino offensivo e, tuttavia, continua a circolare.
Oggi non è più tempo di tacere
Il libro ormai c’è e va per la sua strada, presentandosi non come una semplice autobiografia, ma come testo di “storia vivente”. Mi riferisco al nuovo modo di fare storia sperimentato e messo in parole dalla Comunità di storia vivente della Libreria delle donne di Milano (DWF La pratica della storia vivente, ed. Utopia, Roma 2012), che punta sulla verità soggettiva e fa venire al pettine nodi, conflitti che erano stati messi a tacere, ma che, se non li mettiamo in parole, ritornano insistenti nel corso della nostra vita. Dopo cinquant’anni di silenzio, l’autrice prende finalmente la parola. C’è ancora chi la invita al silenzio. Questo, però, per noi donne, non è più tempo di tacere.
Una storia vera
Perché è importante il librino di Mira? Qual è la sua attualità? Quali nodi e questioni cruciali affronta? A chi si rivolge principalmente e a chi può servire praticamente?
L’autrice racconta com’è nata all’Isolotto di Firenze la prima Comunità cristiana di base in un susseguirsi di fatti, assemblee e avvenimenti, fino alla denuncia del 14 gennaio 1969 con l’imputazione di “istigazione a delinquere e turbamento di funzioni religiose del culto cattolico” nei confronti di nove persone: cinque sacerdoti, tre laici e una laica, cioè la stessa Casimira Furlani, detta Mira.
A livello profondo, il libro mostra quanto sia difficile per un uomo riconoscere autorità a una donna, come “per un cammello passare attraverso la cruna di un ago”, e racconta quanto lungo, pieno di trappole e di rischi, di incomprensioni e difficoltà sia il percorso che deve fare una donna per stare dentro la Chiesa, senza perdersi e rinunciare alla propria differenza.
Un libro che passa di mano in mano
Dopo aver letto questo libro, un anno fa, forte anche della relazione appena iniziata con Mira, mi sono messa subito in movimento e l’interesse suscitato in tante donne e in alcuni uomini mi ha convinta a continuare. A poco a poco, mi sono trovata coinvolta in una vicenda il cui personaggio storico principale è Mira Furlani, cofondatrice con don Enzo Mazzi della Comunità di base dell’Isolotto. Ecco allora i due incontri di discussione a Mestre l’anno scorso, di cui è rimasta traccia perché li ho trascritti, poi una lunga recensione per la rivista trimestrale di azione Mag e dell’economia sociale di Verona (n. 3/4 luglio-dicembre 2017), infine le presentazioni alla Libreria delle donne di Padova, alla Feltrinelli di Parma, a Chioggia, prossimamente a Mirano, forse a novembre a Reggio Emilia. Per dare continuità nel tempo a questo libro ho messo in atto la mia rete di relazioni e conoscenze e, con l’aiuto prezioso dell’amica Désirée Urizio, ho fatto ricerche, ho raccolto documenti, foto, immagini, scritti, brevi filmati.
Il percorso di formazione dei preti
Con il gruppo “Donne e uomini in cammino”, di cui faccio parte e che si riunisce a casa di don Gianni Manziega, direttore della rivista Esodo, dopo aver discusso questo libro si è deciso di organizzare in autunno una giornata di riflessione aperta a credenti e non credenti, proprio a partire dalle tante questioni che il libro pone. Una di queste è la necessità, l’urgenza che gli uomini cambino radicalmente, adesso che le donne sono cambiate e affermano concretamente, in ogni campo della vita sociale, politica e lavorativa la propria libertà.
C’è un numero della rivista Esodo intitolato appunto Donne e uomini in cammino (n.3, 2015) che precede la pubblicazione del libro di Mira ma ne anticipa alcuni nodi. Nell’editoriale, firmato da Paola Cavallari e Gianni Manziega, è posta la questione della “relazione tra clero e donne”. Qui ho trovato due testimonianze molto significative che vorrei citare: una di Pierluigi Di Piazza, parroco di un paese in provincia di Udine, e l’altra dello stesso don Gianni Manziega. Entrambi parlano della loro formazione come sacerdoti e del loro rapporto con le donne. Il primo racconta della sollecitazione continua, quando era giovanissimo seminarista, a non incontrare nessuna ragazza, a rifuggirla come potenziale pericolo. In nome della legge del celibato obbligatorio per i preti, la donna è stata il soggetto deliberatamente escluso nella sua vita di uomo e di prete. Si è trattato di un percorso di “subdola violenza e repressione”, una dolorosa negazione. Il secondo scrive che non faceva parte della preparazione al ministero il problema “donna”, come se la Chiesa fosse “una comunità di soli uomini maschi”. Il giorno dopo l’ordinazione, ciascun prete doveva arrangiarsi per trovare nel rapporto con la donna il giusto equilibrio, tra imbarazzo, errori, timori. Di fatto, il seminarista era espropriato della propria corporeità, considerata fonte di peccato. C’era disprezzo per la donna, figlia di Eva che offrì all’uomo il tragico frutto. Altro che collaboratrice! La donna doveva essere una variabile insignificante e marginale all’interno della comunità cristiana, anzi un pericolo da evitare. “Questo tipo di educazione – continua don Gianni – suscitava in me un duplice sentimento: da una parte il desiderio represso della conoscenza di un ignoto da cui mi sentivo attratto e, dall’altra, la negazione e persino demonizzazione del mondo femminile”.
Questi testi sono prime forme di autocoscienza maschile che sarebbe molto importante si moltiplicassero tra gli uomini, dentro e fuori la Chiesa. Le donne hanno preso coscienza della condizione di non libertà in cui si trovavano, hanno detto pubblicamente la verità soggettiva e adesso è veramente tempo che anche gli uomini prendano le distanze dai meccanismi di potere interiorizzati, riconoscano l’altra, la donna, come uno dei due soggetti della storia umana, assolutamente libera, indipendente dai giochi del potere maschile. Ciò che deve cambiare è la forma mentis, un intero sistema di simboli e linguaggi, di criteri e valori, di pratiche e tradizioni di origine maschile. Solo così l’attuale conflitto tra i sessi può tradursi su un piano più alto e nuove forme di relazione tra uomini e donne si rendono possibili.
Un cambiamento necessario
Invece di accontentarci di luoghi separati, da tempo molte di noi hanno capito che, perché le cose cambino a livello profondo, conviene fare un cammino condiviso, donne e uomini, fuori dai ruoli e dai pregiudizi sessisti, senza separazioni o inclusioni. Di qui la necessità che inizi anche nella Chiesa cattolica, comprese le Comunità di base, una pratica di autocoscienza, soprattutto maschile.
Non è strano, quindi, che una donna come me, impegnata da molti anni nella politica e nel pensiero della differenza, si appassioni a questo libro e faccia in modo che non rimanga isolato come una voce nel deserto, ma sia letto, passi di mano in mano, sia messo in pratica.
Ci sono anche altre motivazioni che riguardano la mia storia politica e di vita e si collegano ad alcune figure femminili della mia famiglia, rimaste vive dentro di me. Non trovo necessario definirmi atea, mi colloco oltre la divisione tra credenti e non credenti, sul piano della libertà femminile e da qui cerco di interpretare i fatti che mi capitano e di comprendere che cosa sta succedendo intorno a me e nel mondo. Sono consapevole che con il femminismo rivendicativo di sinistra nei primi anni Settanta ho rischiato di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Avevo ragione allora a protestare contro il sistema di potere che si incarnava in figure ben precise di uomini di Chiesa, di Legge o di Scienza, in seguito però ho capito che, se restavo sul piano della critica, della lotta “contro” questo o quel sistema, non avrei trovato risposte al mio bisogno di infinito, di bellezza e di senso, il mio campo d’azione sarebbe rimasto chiuso dentro un orizzonte ristretto. Per fortuna, negli anni Ottanta donne più libere di me mi hanno indicato il tesoro della mistica femminile (dice Mira: “Non dimentichiamo le radici cristiane dell’Europa. Sono radici di libertà e di amore che ci conducono direttamente alle mistiche del Medioevo, alle Beghine e a Margherita Porete”). Poi c’è stata la lettura durata anni dei Quaderni e degli scritti di Simone Weil, il Diario e le Lettere di Etty Hillesum, gli scritti di Luisa Muraro su Margherita Porete, le Beghine, Il Dio delle donne (Mondadori 2003 e Il Margine 2012). Infine la ricerca dell’amica Nadia Lucchesi su Maria (Frutto del ventre, frutto della mente. Maria, madre del Cristianesimo, Tufani 2002) e su Sant’Anna (Anna. Una differente trinità, Tufani 2014). Scopro così straordinarie fonti di sapienza femminile e la mia vita da diversi anni si è aperta alla dimensione del soprannaturale.
Dallo storico conflitto tra donne e preti a nuove forme di relazione tra i sessi dentro e fuori la Chiesa
Il percorso religioso, spirituale e politico di tante giovani donne che si coinvolsero nelle lotte e nei movimenti degli anni Sessanta, quando il femminismo non era ancora un movimento di massa, si concentrò attorno a figure carismatiche di sacerdoti coraggiosi e radicali che volevano mettere in pratica il Vangelo, “uomini che credevano fermamente, oltre che in Dio, nella giustizia, nella libertà e nell’uguaglianza tra i popoli e tra i sessi” (dalla prefazione di Doranna Lupi e Carla Galetto della Cdb di Pinerolo a Le donne e il prete). Agli occhi di quelle ragazze “rappresentavano il meglio del genere maschile”, ma ben presto esse fecero i conti con un conflitto indicibile e molto antico che tornava a presentarsi dopo secoli di silenzio e dovettero affrontare concretamente il problema enorme del “posto fatto alle donne dalle imprese maschili, anche quelle più giuste”. Il ricatto, l’aut aut che fu posto loro fu questo: tacere, restare in ombra, lavorare tantissimo, dedicarsi alla comunità senza lamentarsi mai, sottomettersi a un’autorità maschile che si presentava come sacra, intoccabile ma, di fatto, agiva potere, oppure andarsene e sparire per sempre. Il racconto di Mira mette a fuoco questo conflitto storico tra donne e uomini dentro la Chiesa, innalzandolo sul piano della presa di coscienza radicale femminile e mettendo in evidenza la mancata presa di coscienza maschile. Mostra la necessità che si creino nuove forme di relazione tra i sessi, relazioni vere, forme di comunità in cui le donne non siano più semplici “collaboratrici di imprese maschili”, sostenitrici dei desideri degli uomini, e gli uomini cessino di credersi unici soggetti della storia, smettano di giudicare e teorizzare, rinuncino alla loro grandezza immaginaria e siano finalmente, semplicemente se stessi, solamente uomini, appunto. Quando gli uomini scenderanno dal piedestallo in cui si sono collocati, dando misura al loro ego, cominceranno finalmente a parlare in modo autentico, a partire da sé, senza vergognarsi se balbettano di fronte all’autorità femminile, attenta da millenni alla vita materiale, dalla nascita alla morte, esperta nello spirito e nel sapere pratico delle relazioni.
Ecco perché, allora, il libro ha incontrato tanta ostilità: radicalizza il conflitto con la Chiesa come istituzione che assegna alle donne un posto che oggi molte non vogliono più occupare, dà loro compiti e attribuisce “vocazioni” che non rispondono alla vera natura dei loro desideri. Il libro invita le donne a prendere la parola e a dire come stanno le cose, a non tacere in nome della pace e del quieto vivere, a non sacrificare se stesse per il bene della famiglia e della comunità.
Mira afferma che nella Chiesa cattolica ogni conflitto derivante dal nostro essere di due sessi viene falsato, la donna fatta sparire e caricata di colpe. Accanto allo “scacco del silenzio” delle donne nella Chiesa (ne parlano Doranna Lupi e Carla Galetto nel n. 110 di Via Dogana, settembre 2014, e nel n. 111, dicembre 2014), credo che si debba tener conto anche del grande “esodo” femminile dalla Chiesa avvenuto negli ultimi cinquant’anni. Entro questo scenario vanno collocati gli innumerevoli percorsi di donne che, senza rinunciare a Dio e alla propria spiritualità, si sono poste “altrove”, Al di là di Dio Padre, titolo del bellissimo e attualissimo libro di Mary Daly (Editori Riuniti, 1990, recentemente ristampato). Dai molti percorsi femminili di “esorcismo” e di trasformazione si è aperta la ricerca del divino femminile.
Il contesto
Le vicende narrate da Mira vanno collocate negli anni che hanno preceduto e seguito il Sessantotto, un’epoca di profonde trasformazioni, di forti aspirazioni di libertà e istanze di giustizia, in cui lo spirito ribolliva e si muoveva velocissimo. Intorno alla storia di Mira ruota l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, un intero mondo di rapporti, di speranze e di progetti che scommette sul rinnovamento spirituale e politico della società. L’Isolotto è il luogo in cui si svolse gran parte delle vicende narrate. L’Isolotto era un quartiere periferico di Firenze, immerso nel verde, costruito negli anni Cinquanta secondo criteri di nuova edilizia popolare, per volontà del sindaco La Pira che, infatti, nel 1954 assegnò i primi alloggi popolari a 3000 persone: donne, uomini, bambini, famiglie, giovani coppie che, provenendo dai quartieri popolari di Firenze, dall’Italia del Sud, dall’Istria e dalla Grecia, si trovarono di fronte al compito di dare vita al quartiere allora ancora privo di servizi. Quello stesso anno arrivò all’Isolotto il nuovo parroco don Enzo Mazzi, giovane e desideroso di impegnarsi anima e corpo nella costruzione di una comunità.
Parte della Chiesa cattolica era allora attraversata dagli aneliti di giustizia e dalle istanze di cambiamento che provenivano da diverse parti della società italiana. In particolare, la Chiesa fiorentina era ricca di fermenti preconciliari e vi operavano figure straordinarie e carismatiche di preti, filosofi, pensatori, teologi, poeti, presbiteri, politici che negli anni ’50 e ’60 misero in discussione i privilegi e i fondamenti su cui si reggeva da secoli la Chiesa cattolica, collocandosi dalla parte degli ultimi, dei poveri. Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Ernesto Baroni, don Milani, don Bruno Borghi, Giovanni Vannucci, Giorgio La Pira, detto il sindaco “santo”, erano contemporanei e amici di don Mazzi. La Toscana fu in quegli anni un laboratorio politico e religioso originalissimo e l’Isolotto, terreno vergine, recepì lo spirito di rinnovamento dell’epoca. Non a caso, nacque proprio lì, nel 1968 la prima Comunità cristiana di base.
Il nodo irrisolto
Appena arrivato all’Isolotto, don Mazzi chiamò a raccolta i giovani del quartiere nelle “riunioni del giovedì”. Quando Mira lo incontrò aveva vent’anni ed era al suo primo impiego. Di famiglia socialista, iscritta alla CGIL, sapeva poco o nulla di religione, ma aveva dentro un senso di vuoto e un forte desiderio di verità. Quel giovane parroco le dava fiducia. Nacque tra loro una profonda amicizia. Fu così che iniziò l’impegno sociale, politico e religioso di Mira e la sua partecipazione alle vicende dell’Isolotto: la nascita delle prime case-famiglie, la lettera di solidarietà in occasione dell’occupazione del duomo di Parma, il conflitto aperto dal vescovo Florit con don Mazzi e con tutta la comunità dell’Isolotto che lo sosteneva, fino alla rimozione d’ufficio di don Mazzi, il processo, l’interrogatorio in tribunale.
Mira, attraverso don Mazzi, incontrò la forza e l’attualità del Vangelo e da lì condivise con lui una scelta di vita, di partecipazione e solidarietà verso gli ultimi. L’incontro tra loro diede il via a un cambiamento che coinvolse altre e altri. Non aveva alcun sospetto Mira, all’inizio del rapporto con don Mazzi, fiduciosa e innamorata di Gesù, del prezzo alto che lui le avrebbe fatto pagare: la cancellazione del suo impegno materno nelle case-famiglia.
Come tanti uomini, anche i preti, posti di fronte a donne come Mira, capaci di pensiero autonomo e di indipendenza simbolica, invece di stare nello spazio autentico della relazione con l’altra da sé, prendendo atto dei suoi desideri e della sua concreta realtà di vita, hanno agito strategie di negazione, si sono difesi dalla libertà di una donna, nascondendosi dietro l’universale maschile che include il femminile, cancellandolo o inglobandolo e incanalandolo in forme “addomesticate” e controllabili.
La storia del rapporto con don Mazzi e con la Comunità dell’Isolotto è rimasta dentro Mira come un nodo irrisolto che solo cinquant’anni dopo riesce a sciogliere, autorizzata e incoraggiata da alcune donne: Luisa Muraro della libreria delle donne di Milano, Carla Galetto e Doranna Lupi della Comunità cristiana di base di Pinerolo.
Un divino in cui riconoscersi
Il libro di Mira ci fa vedere che anche i preti, come tutti gli uomini, non vedono il lavoro di cura e la fatica delle donne per sostenere il ritmo e le difficoltà della vita quotidiana dentro e fuori la Chiesa. Quel lavoro, da un lato, lo esaltano come espressione dell’amore materno, dall’altro, lo danno per scontato, rimanendo così fuori dalla realtà. I preti si comportano come se non sapessero niente dell’amore che ci vuole per portare avanti e tenere unita una famiglia, crescere figli e figlie, lavorare dentro e fuori casa.
Ecco perché penso sia urgente che gli uomini in generale, e quelli di Chiesa in particolare, si aprano alla realtà e provino gratitudine, riconoscenza per la vita ricevuta da una donna.
Mira con il suo racconto ci invita a collocarci oltre l’imperativo cattolico di amare tutti in egual modo, ricordandoci che, nel perseguire l’uguaglianza a tutti i costi, una donna perde se stessa e la propria soggettività perché esce dall’ordine simbolico della madre che costituisce la sua esistenza. Bisogna allora che nella Chiesa cessi la retorica dell’amore materno, inteso come dono gratuito e sacrificio di sé, insieme alla rigida divisione dei compiti e dei ruoli.
Ricordiamoci, infine, che nessun uomo, come dice Mira, potrà mai soddisfare il desiderio smisurato di una donna che aspira al divino come bisogno di infinito. Senza un divino in cui riconoscersi – scrive Mira, richiamandosi a “Donne divine” di Luce Irigaray (Mestre 1984) – una donna perde il senso di sé e della propria differenza e costruisce la propria vita attorno a un falso Dio.
(www.libreriadelledonne.it, 30 aprile 2018)
di Luisa Muraro
Le sindache (e i sindaci) d’Italia, possono credere nella cicogna che porta i bambini, ma quelli che preparano i telegiornali, no, loro no. Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini. Nel telegiornale delle ore19 di sabato 28 aprile, hanno dato la notizia di un bambino che ha due padri, anzi “due papà”, e come tale è stato regolarmente iscritto all’anagrafe di Roma. Non sembrava l’annuncio di un qualche miracolo della scienza medica. La signora che ha letto la notizia, se, come dobbiamo supporre, era incredula, l’ha nascosto molto bene. E così dovranno fare, suppongo, le segretarie, le maestre, i parenti, i nonni, i pediatri, e via via, fino a quando l’interessato, reso consapevole, smetterà di annunciare che lui ha due papà. Che commedia sia questa, se questo è tutto il progresso in cui possiamo sperare, io non so. Dico solo una cosa ai dirigenti della Rai tivù: c’è un sacco di posto per la finzione, per la fantapolitica, per la finta realtà, per la pubblicità e la propaganda; evitate, per favore, di usare lo spazio delle notizie per raccontare certe storie. Prima ho detto “pretendo”, ma ho sbagliato, scusate, nei vostri confronti non ho diritti, pago il canone e ho l’obbligo di pagarlo in ogni caso.
(www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2018)
di Carla Turola
Riceviamo in ritardo e volentieri pubblichiamo questo scritto sul 25 aprile.
La libertà l’ho imparata da mia mamma e lei dalla sua. Tutte due hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze dell’antifascismo di mio nonno che era anarchico. Io sono nata nel 1948, quando la lotta contro il regime fascista era ormai conclusa e la libertà cominciava a prendere forma nella vita comune. Nonostante la mamma fosse d’accordo con l’antifascismo radicale di suo padre, non avrebbe mai potuto combattere da partigiana. L’idea di prendere le armi le era estranea: avendo lavorato nella falegnameria di famiglia, era brava nelle trattative commerciali e contraria ad ogni forma di guerra. E tuttavia, proprio la guerra le aveva dato l’occasione per capire che un’epoca millenaria di dominio maschile sulle donne era finita per sempre. Essendo gli uomini impegnati a combattere al fronte, morti o deportati, circa 650 donne furono assunte alla fabbrica di orologi Junghans della Giudecca a Venezia, dove venivano prodotti ordigni bellici, mine e spolette per le bombe. Lei era tra quelle operaie e mi raccontò che, dopo l’esperienza del lavoro in fabbrica, nessuna di loro si sarebbe più rassegnata a dipendere economicamente da un uomo o a mettere al mondo, come era successo a mia nonna, dodici figli, molti dei quali morti bambini.
Il 25 aprile la mamma indossò una gonna corta a fiori, una blusetta di picchè e andò in piazza San Marco a vedere sfilare le partigiane: così spavalde, in calzoni, con i fucili a tracolla o le pistole alla cintura, quelle donne non le fecero paura, anzi, provò ammirazione per loro, sentì che l’avevano protetta. Mia nonna, invece, festeggiò la sua liberazione solo alla morte del marito. Quando rimase vedova, iniziò a indossare abiti di colori vivaci, mentre prima si vestiva sempre di nero.
Una cosa rimase oscura nei racconti della mamma: il voto del 2 giugno 1946 che lei diede alla monarchia. Rimproverata dal marito, subito se ne pentì e non ne volle più parlare per vergogna.
Al Referendum avevano partecipato più donne che uomini: 13 milioni di donne, rispetto ai 12 milioni di uomini. La Repubblica vinse, superando però di poco, meno di due milioni, i voti dati alla Monarchia. Io mi sono fatta l’idea che la mamma, come probabilmente molte altre donne, si fece orientare dalla Chiesa, forse dal patriarca a cui, probabilmente, riconosceva più autorità che al marito.
Non credo che la lotta di liberazione ci sarebbe stata senza le tante donne che, come mia mamma e mia nonna, quella libertà la portavano nel cuore e non erano più disponibili a negoziarla. Anche per questo il 25 aprile va considerata una festa delle donne: dentro al processo di democratizzazione e di liberazione le donne rilanciarono la loro lotta millenaria per la libertà tuttora in corso.
(www.libreriadelledonne.it, 26 aprile 2018)
di Vita Cosentino
Se ne è andata troppo presto Gioconda Pietra, il 25 aprile 2018, colta di sorpresa dal male nel pieno della vita attiva, con ancora tanti desideri e progetti. Da poco in pensione, si dedicava con passione alla politica cittadina, presa dalle tante battaglie sociali e civili che le stavano a cuore come consigliera comunale.
Da sempre Gio era instancabile. Per dirne solo qualcosa, oltre al lavoro di insegnante, da anni e anni organizzava Sestogioca per tutte le scuole elementari di Sesto San Giovanni e con la sua associazione di donne Le Malandre gestiva a livello volontario un centro di aggregazione giovanile cittadino.
Gio emanava simpatia ed era la donna più generosa che ho conosciuto nella mia vita. Buona lettrice, soprattutto di romanzi, preferiva su tutte Virginia Woolf. L’ho sempre vista accompagnata da un cane dalmata. L’ultima, la Selly, l’ha fatta disperare perché era sordastra e non rispondeva ai comandi. Quando abitava in via del Riccio, ogni primavera aspettava le rondini, che avevano fatto il nido sotto la sua tettoia.
Un paio di anni fa si era riavvicinata alla Libreria delle donne di Milano e in un testo per Via Dogana 3 ne parla come “tornare alla casa della madre”. Sì, perché l’avventura femminista di una vita per lei era cominciata da lì.
Gio aveva la fierezza di essere donna. Era una qualità della sua persona e della sua presenza. Che attraeva. Quando la conobbi negli anni 80 nel bel mezzo di lotte sindacali era alla ricerca di qualcosa e si entusiasmò subito all’idea, che veniva dalla Libreria, di esserci a scuola come donna. Poi ci ritrovammo come colleghe nella Calamandrei, e fu la sua forza contagiosa che permise di avviare esperienze che cambiarono in profondità il modo di intendere e di fare la scuola. Intere serate passate a leggere e discutere. Era elettrizzante riportare al centro l’umano, il fatto di essere maschi e femmine e abbandonare con leggerezza il ruolo del “buon programmatore”. Gio era una donna libera e trasgressiva, sapeva ridere e fare battute al vetriolo. L’ambizione era di cambiare la scuola da cima a fondo e sarebbe tutta da scrivere la storia di quello che con l’apporto di tante altre insegnanti fu realizzato nei dieci anni successivi. Ma ora lei non c’è più a ricordare la sua parte.
Gio insegnava educazione fisica e aveva la passione dell’animazione teatrale. Ne fece uno strumento duttile per portare la ragazze alla scopertà del sé attraverso il gioco corporeo e il racconto “con una sempre maggiore coscienza di ciò che si è e del proprio valore”. Questo in termini diversi funzionava anche per i ragazzi. Ma in quegli anni ci interrogavamo soprattutto su come favorire nelle ragazze il costituirsi della soggettività femminile. E in questo con il suo lavoro ha contribuito a un cambiamento di cui oggi si vedono i risultati.
Man mano negli anni aveva perfezionato il suo impianto di lavoro teatrale e assieme a Candida Canozzi aveva scritto un vero e proprio manuale per cui ha cercato invano un editore. Su questo tema veniva chiamata a tenere corsi per le future insegnanti. Mi auguro che quel buon manuale veda la luce. Lo merita!
In quell’articolo di Via dogana scrive: “Il mondo è anche mio. Non solo loro”. Gio era impulsiva, impetuosa, non poteva star ferma di fronte alle ingiustizie e a volte si arrabbiava con il mondo intero. Però poi ci ripensava e ne discuteva con le amiche più fidate e trovava le parole per fare la mediazione politica necessaria. Gio era veramente presente nella sua città e sentiva che tutto la riguardava. Voleva esserci nella cosa pubblica e “contrastare in ogni modo che il potere prendesse il posto della politica”. Quel libro di Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, le era piaciuto molto e lo regalava alle assessore con cui era in relazione.
Gio conosceva tutti e tutti la conoscevano. Era amata, a cominciare dai fratelli a cui era molto legata, e amava la vita. Solo ogni tanto, fin da giovane, sul suo volto si stampava una ruga di malinconia. In quei momenti diceva che sentiva l’inutilità della vita di fronte all’abisso della morte. È vero. Eppure per lei questo non vale perché ha lasciato un segno nel mondo e nel cuore di chi l’ha conosciuta.
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(www.libreriadelledonne.it, 26 aprile 2018)
di Luisa Muraro
“Siamo stufe delle belle parole e della politica vuota” hanno scritto quelle di Wans parlando della rivista Artforum. Wans è l’acronimo di We are not surprised (“non siamo sorprese”). Di che cosa? Provate a immaginare.
Incurante di questi umori femminili originati dal Metoo, il direttore della Stampa ha scritto un enfatico elogio delle donne per proporre di mettere una qualche donna a capo del governo prossimo futuro. Alberto Leiss, che da anni frequenta il femminismo, sul manifesto del 14 aprile riferisce e sottoscrive l’editoriale, ma senza entusiasmo tant’è che, prima del punto finale, si ferma a chiedersi: questo inneggiare al valore femminile “non sarà una vecchia via di fuga?”
Vecchia e sempre nuova, mi viene da commentare, ma la parola giusta forse è un’altra: vacua. Nel suo famoso elogio dell’amore, la prima immagine squalificante che usa l’apostolo Paolo, è proprio questa: la vacuità.
La vacuità è il rischio che corrono gli uomini quando decidono di parlare bene delle donne. Sono sinceri ma sono ignoranti e il movente profondo potrebbe essere sempre lo stesso (la vecchia storia che dice Leiss), cioè i sensi di colpa. Con l’aggiunta, ai nostri giorni, di un certo opportunismo.
Motivi per sentirsi in colpa non mancano agli uomini, specialmente a quelli che comandano sugli altri. Motivi grandi come case. Nel 1992 le Edizioni Dehoniane di Roma hanno pubblicato un libro, Misoginia, a cura di Andrea Milano, che lo dice: dal passato remoto il male della misoginia è arrivato al passato prossimo (i famosi Codici della rivoluzione borghese…) e dal presente si dirige impunito verso il futuro, aiutato dalla Rete, mai interrogato come si deve.
Ma i sensi di colpa non servono: sono funghi effimeri e spesso velenosi. Così ho avuto l’idea di fare come i confessori di una volta con i penitenti senza immaginazione, e come fanno oggi gli esaminatori con gli studenti senza idee: dargli una traccia. Chi sente l’impulso di parlare bene delle donne, lo ascolti e si chieda: che cosa ho da dire, io, precisamente? sono informato? dove vado a parare? sono di quelli che saltano le notizie del femminismo e si dicono: ormai è finito? sesso a parte, quante e quali donne conosco personalmente per nome e cognome? sesso a parte, che interesse provo per loro? sono pronto a dare un seguito pratico alle mie parole? o voglio solo fare colpo? a chi e che cosa penso veramente quando cerco la cosa giusta da dire o da fare? che cosa so io per certo della società femminile? vado dietro ai soliti luoghi comuni? o, peggio, mi compiaccio di comodi rovesciamenti dei luoghi comuni? L’elenco potrebbe continuare e non si dica che è troppo lungo. D’altra parte, non è obbligatorio parlare bene delle donne: dopo tanto parlarne male, la sola cosa vietata è parlare a vanvera. Lo stesso vale per la politica, come dicono le americane: stufe di belle parole e di politica vuota. Che, tradotto per gli italiani, vuol dire: non fate delle donne il pretesto per i vostri vizi di sempre.
(www.libreriadelledonne.it, 20 aprile 2018)
di Paola Mammani
Oba Ewuare II, re-sacerdote dello stato di Edo, regione dalla quale proviene il 95% delle giovani nigeriane immesse con l’inganno sul mercato europeo della prostituzione, ha revocato la validità, anche retroattivamente, dei riti woodoo con i quali i medici di villaggio, in combutta con trafficanti e maman, vincolano le giovani all’obbedienza ai loro carnefici e soprattutto al silenzio sull’identità di questi ultimi, pena la morte, la pazzia, o altri orribili mali, per se stesse e per i loro familiari.
Ai primi di marzo, a Benin City, il re ha diramato il suo editto con una pubblica cerimonia alla presenza di tutti i rappresentanti della religione juju e di madri e nonne esultanti. Ha così strappato in un colpo solo – anche se, pare, ben preparato – il potere di ricatto e minaccia dalle mani degli sciamani, e li ha severamente ammoniti, con un atto simbolico esemplare.
La notizia veniva riportata tempestivamente on line, il 9 marzo, dal sito nigeriano dailypost.ng e successivamente ripresa da altri siti, anche in lingua italiana. Si riconosceva il più delle volte il valore e il coraggio del sovrano – in qualche caso si sottolineava l’interesse politico personale che lo avrebbe spinto a consolidare in tal modo il suo regno – ma i più si chiedevano, in ogni caso, se l’editto avrebbe avuto un effetto concreto presso le giovani schiave.
Nei giorni successivi un inarrestabile flusso di video e foto dell’evento ha raggiunto le ragazze nigeriane in Europa. Da La Repubblica e dal Corriere Fiorentino del 7 aprile scorso abbiamo appreso che le giovani, ormai rassicurate, sempre più numerose si rivolgono alle associazioni di volontariato per sottrarsi agli sfruttatori e riprendersi le loro vite.
Tralasciando le grandi questioni che investono il ruolo e le possibilità del volontariato in questa contingenza e la discussione su eventuali azioni politiche di appoggio da parte degli stati europei, mi chiedo: quanti “re-sacerdoti” potrebbero fare altrettanto, nel mondo? E in quanti campi della vita politica e sociale?
Lo sanno che se vogliono sfilare lo strapuntino da sotto le ginocchia dei loro simili più indegni, possono avere forza di donne su cui contare?
Il re-sacerdote della chiesa cattolica, per fare solo un esempio, un pensierino in questa direzione lo avrà fatto? Per espugnare cittadelle ormai indifendibili, da quelle finanziarie a quelle fondate sullo sfruttamento silenzioso e sistematico del prezioso lavoro femminile domestico e di cura erogato dalle suore, si sarà accorto di quanta intelligenza, sapienza ed esultanza di donne potrebbe avere dalla sua?
Nota
Il gran numero di link sotto riportati si spiega con la complessità della materia. Pur ripetendosi le informazioni essenziali, ogni articolo permette di accumulare preziosi, differenti dettagli sul tema, o elementi di analisi. Per dirne una, Domenico Quirico, su La Stampa del 20 marzo, rileva scandalizzato il silenzio dei media, dei soliti esperti e dei politici, su una vicenda di tale rilevanza. Segnalo che solo su agensir.it si ritrova il video che testimonia della presenza delle donne festanti alla cerimonia.
http://dailypost.ng/2018/03/09/edo-native-doctors-revoke-curses-placed-trafficked-victims/
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/liberate-dai-riti-voodoo-ancora-vittime-dei-clienti
www.periodicodaily.com/2018/03/31/ewuare-ii-leditto-salvare-migliaia-ragazze-nigeriane/
https://terredeshommes.it/nigeria-tratta-juju/http://
http://spogli.blogspot.it/2018/04/repubblica-7_39.html
(www.libreriadelledonne.it, 20 aprile 2018)
di Sara Gandini e Stefania Giannotti
Due donne, definendosi uomini per un giorno, sono andate in boxer e a seno nudo in una piscina di Londra nel giorno dedicato agli uomini. Lo racconta Luigi Ippolito sul Corriere della sera del 19 marzo 2018 (Sono un uomo (solo per oggi): a Londra è scontro sulla legge per autodefinirsi»). Entrano senza problemi. Una volta dentro, un anziano signore si volge verso di loro chiedendo la ragione della loro presenza. Le ragazze rispondono che per quel giorno sono uomini. Si tratta di una provocazione per protestare contro la proposta di legge inglese in base alla quale le persone transessuali potrebbero ottenere un certificato di riconoscimento del loro nuovo sesso senza il ricorso ad attestati medici o a operazioni chirurgiche. Questa vicenda e la lotta delle donne trans ci porta una contraddizione viva e politica.
Sappiamo che il sesso di cui nasciamo fa parte del non disponibile, anche se l’appartenenza di genere non è immutabile. Luisa Muraro nella lezione di filosofia La disponibilità dell’indisponibile del 2016, ci dice che “indisponibile” non vuol dire impossibile o proibito, ma costituisce una guida che ci avverte, che crea barriere simboliche, che protegge l’essere umano e allo stesso tempo può fare da ostacolo. A volte capita che ci sia «[…] un rigetto intimo e personale dell’identità basata sul corpo anatomico: un corpo anatomico maschile, nel caso delle transessuali. Ed è questo il caso in cui siamo d’accordo che sia reso possibile e accettato, culturalmente e legalmente, cambiare il genere sessuale e poter dire: “io sono una donna […]”» (Luisa Muraro, Via Dogana 3, 5 aprile 2018).
Tutto ciò riguarda le trans, ma riguarda anche noi che siamo nate dello stesso sesso della madre. Ci riguarda perché grazie al femminismo abbiamo affermato “io sono una donna” e ne abbiamo fatto un atto politico.
La società, il mondo esterno, la cultura in cui siamo cresciuti, lo sguardo degli altri, con chi siamo in relazione, tutto conta nel definire chi siamo. Così come contano i corpi, quello con cui nasciamo e quello che, crescendo, facciamo in modo ci assomigli sempre più. Ma il corpo in sé non parla: è necessario significare e far parlare la differenza sessuale. E in questo il femminismo è venuto in soccorso alle donne.
È importante domandarsi quali pratiche politiche siano da intraprendere dalle persone trans per fare quel non facile passaggio, dettato da una rivoluzione e una transizione che parte da “dentro”, senza necessariamente essere costrette a esami e accertamenti specialistici o a cure ormonali e operazione chirurgiche.
Pensiamo che non siano la medicina e la tecno-scienza a poter risolvere le domande su chi siamo e cosa vogliamo farne del fatto di essere nate/i di un sesso o di un altro. Così come non è la rivendicazione dei diritti, ma sono la pratica di relazione tra donne e l’autorità femminile che modificano in profondità il simbolico e la realtà, che fanno guadagnare il rispetto degli altri. E questa è una strada praticabile anche dalle donne trans, orientate dalla loro verità soggettiva. E’ fondamentale che ci sia accettazione da parte della società femminile e noi lottiamo con loro per questo.
Il gesto provocatorio delle due ragazze (Sono un uomo solo per oggi) vorrebbe porre la questione dell’indisponibilità del sesso e il fatto che la legge non è la soluzione, tuttavia non muovendosi sul piano simbolico e dell’autorità rischia di ridicolizzare la dolorosa e appassionata lotta delle donne trans. Mentre ritroviamo riflessioni e pratiche femministe nei testi di alcune attiviste trans. Tra queste, Porpora Marcasciano avverte nel suo ultimo libro L’aurora delle trans cattive (ed. Alegre, 2018) che la politica dei diritti è legata a filo stretto con il desiderio di essere integrate e “normalizzate” in una società che andrebbe invece rivoluzionata.
La manifestazione delle due donne in piscina, contro una proposta di legge sicuramente discutibile, secondo noi banalizza la differenza sessuale, cosa che non interessa né a noi né a chi ha pagato duramente per potersi definire donna T.
(libreriadelledonne.it, 14/04/16)