Franca Fossati, giornalista, femminista storica, ha militato in Lotta Continua e ha diretto per anni la rivista “Noi donne”. Intervistata da Fabrizia Bagozzi per la rivista di AREL (Agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta), sul numero Libertà, 1/2018, p. 108, ha preso posizione sulle tecnologie in tema di libertà femminile e procreazione. E ci invita a tener conto dei cambiamenti, veri e propri salti, che ci sono stati dopo gli anni Settanta.
Sull’aborto però vorrei aggiungere qualcosa. Quella stagione [approvazione della legge 194 e sconfitta del referendum abrogativo] fu vissuta con radicalità. Lo slogan era “Aborto libero, gratuito, assistito” e, perlomeno all’inizio, non si andava tanto per il sottile. Sapevamo molto poco della vita prenatale: il punto era avere la possibilità di abortire, l’autodeterminazione sul proprio corpo […]. Nella maternità e nell’Interruzione di gravidanza la tecnologia non era ancora entrata, se non de minimis. Quindi essere radicali nella rivendicazione dell’autodeterminazione sul proprio corpo – l’utero è mio e lo gestisco io – era per certi versi più semplice. Già non è più così per la fecondazione assistita, a cui io non sono contraria, dove invece la tecnologia entra eccome, basta pensare alla fecondazione in vitro. Con l’ingresso della tecnologia l’utero lo gestisce la medicina e quindi è più difficile essere radicali nel dire “decido io del mio utero”. Poi la separazione fra rapporto amoroso sessuale e procreazione che comporta la tecnologia è un’operazione simbolica non da poco. […]
E un salto ancora maggiore, sul piano simbolico, lo compie la Gestazione Per Altri, di cui oggi si discute molto. Fino alla fecondazione assistita il corpo materno non è espropriato dalla gestazione. Con la Gpa, la gravidanza – intesa come rapporto intimo e profondo fra chi la vive e ciò che cresce nella sua pancia – perde valore. Sia per chi la chiede, che non vive la gravidanza, sia per chi assume su di sé la gestazione, il cui frutto però va ad altri. È un fatto oggettivo a prescindere da come la si pensa, se si è pro o contro. Io sono contro. (A cura di L.M.)
(www.libreriadelledonne.it, 26 ottobre 2018)
di Silvia Motta
Parole così feroci e impietose da Papa Francesco proprio non me le aspettavo, nonostante io non abbia mai pensato o immaginato che la Chiesa modificasse la sua posizione sull’aborto. Mi riferisco in particolare a quel che ha detto nell’udienza di mercoledì 10 ottobre e a quel passaggio dove nel discorso irrompe il tema dell’aborto. Rivolto alla folla il Papa chiede e afferma: «Io vi domando: è giusto fare fuori una vita umana per risolvere un problema? È giusto affittare un sicario per risolvere un problema? Non si può, non è giusto fare fuori un essere umano, benché piccolo, per risolvere un problema. È come affittare un sicario per risolvere un problema».
Questo linguaggio, e in particolare la frase “affittare un sicario”, mi è arrivata come una lama nel cervello e per immediata associazione ho pensato: se ci sono i sicari ci sono anche i mandanti, anche se il papa non usa questa parola. Ecco, il Papa sta dicendo che i medici sono i sicari e noi donne siamo le mandanti dell’assassinio.
Ma come gli è venuta in mente un’immagine così orribile?
Le donne non sono delle assassine, tanto meno le mandanti. Quando ricorrono all’aborto – che non è una festa né qualcosa di minimamente desiderabile – il più delle volte vi arrivano da qualche pesante costrizione materiale, culturale o psicologica: rapporti sessuali dove il maschio non si fa nessun carico delle conseguenze, sottomissione a dettami religiosi che vietano la contraccezione e inducono all’obbedienza cieca, ignoranza eccetera.
Quanto ai medici, quelli che applicano la 194, che non fanno obiezione di coscienza e lavorano nel sistema sanitario nazionale, sono una minoranza coraggiosa che riconosce l’importanza di non esporre le donne ad aborti clandestini e insicuri e che si oppongono al business che intorno all’aborto fioriva e ancora fiorirebbe.
Nel mentre di queste riflessioni mi sono imbattuta nell’articolo di Luisa Muraro apparso sul sito della Libreria delle donne: Il Papa sull’aborto: per essere buoni ci vuole una civiltà.
Sconcerto si è aggiunto a sconcerto.
Luisa Muraro, dopo aver riconosciuto a Papa Francesco la libertà e l’autorità che gli compete nell’insegnare il catechismo cattolico e che «anche lui come gli altri e le altre che lo fanno, lo fa più o meno bene», in merito al brusco passaggio che nel discorso lo porta sul tema dell’aborto si chiede: «Ma era questo il momento e il modo giusto per parlarne?».
Di fronte a questa domanda, più che pertinente, io mi aspettavo un bel “NO”: non era questo il momento e tantomeno era il modo giusto per parlarne.
Invece Luisa risponde: «Le parole usate dal Papa suggeriscono una parziale giustificazione della sua scelta». Giustificazione che trae spunto da un’interpretazione che Luisa esplicita e si autorizza a fare. Cioè, di situare questo discorso del Papa sull’aborto nel quadro di una non-civiltà, come è quella a cui il pontefice si riferisce parlando del mondo in cui viviamo. Una non-civiltà nella quale vige la “cultura dello scarto” e dove avanzano “progressi scientifici” che portano verso scelte pericolose e applicazioni eugenetiche (ad esempio abortire quando l’analisi del DNA del feto portasse a una diagnosi infausta).
L’interpretazione di Luisa, che porta alla “parziale giustificazione”, non mi convince anche se nasce da una giusta preoccupazione. Io al Papa chiederei almeno perché ha usato quell’immagine tremenda che tradisce una rottura profonda con i soggetti a cui fa riferimento, le donne e i medici che praticano l’aborto.
Tra le donne che si trovano nella condizione di abortire ci possono essere, anzi ci sono, anche tante cattoliche che danno un gran peso alla sua parola: perché evocare una figura così impietosa e ingiusta com’è quella di “mandanti di un assassinio”? In passato la Chiesa aveva avuto parole di perdono verso le donne che avevano abortito (previo pentimento, s’intende!).
E che dire quando poi con sicurezza il papa afferma che tenere un bambino di cui si prevede – tramite l’analisi prenatale – qualche deficit o malattia genetica sarebbe “un dono”, quando è evidente che dono sarà solo se la donna decide liberamente di giocare, nel suo intimo, questa scommessa sulla sua vita futura e su quella del bambino?
E ancora, pensando ai medici-sicari, capisco l’offesa e il risentimento e solidarizzo con la loro protesta.
In qualche caso, sulla stampa, si è avanza l’ipotesi che il linguaggio usato dal Papa, ritenuto in sintonia «con una certa spontaneità popolare sudamericana», sia stato utilizzato «per mettere a tacere l’ala tradizionalista dei cattolici».
È probabile. Si sa che il Papa incontra pesanti ostacoli all’interno della Chiesa e il Nunzio apostolico negli Usa, Carlo Maria Viganò, è arrivato persino a chiederne le dimissioni.
Nonostante ciò trovo inaccettabile che, per questa ragione, si prenda la strada della criminalizzazione delle donne e di chi le assiste medicalmente.
(www.libreriadelledonne.it, 18 ottobre 2018)
di Luisa Muraro
Il papa insegna regolarmente il catechismo cattolico e lo fa con tutta la libertà e l’autorità che vanno riconosciute ad ogni insegnante. Anche lui, come gli altri e le altre che lo fanno, lo fa più o meno bene.
Arrivato al quinto comandamento, Non uccidere, il papa ha parlato del valore della vita e ha detto: la vita è aggredita dalle guerre, dalle organizzazioni che sfruttano l’uomo, dalle speculazioni sul creato e dalla cultura dello scarto, e da tutti i sistemi che sottomettono l’esistenza umana a calcoli di opportunità, mentre un numero scandaloso di persone vive in uno stato indegno.
Subito dopo si è messo a parlare del problema dell’aborto.
Il problema dell’aborto esiste, le donne lo sanno. Ma era questo il momento e il modo giusto per parlarne?
Le parole usate dal papa suggeriscono una parziale giustificazione della sua scelta. Ha detto: «Non si può sopprimere una vita per risolvere un problema». Forse non sta parlando dell’aborto in generale ma di un ulteriore problema che si sta ponendo ai nostri giorni. Sta diventando possibile tracciare il DNA del feto con l’analisi del sangue materno, e diagnosticare così la possibilità di futuri problemi di salute nella creatura nascente. In caso di diagnosi infausta, la futura madre (e non lei soltanto) si troverebbe in una drammatica situazione.
Apro una parentesi: chiamo futura madre la donna che, trovandosi incinta, ha detto sì, ci sto. E così, con la sua accettazione, il progetto di vita che è l’embrione si è convertito in un progetto di vita umana. La dottrina cattolica non fa questa distinzione, che invece è di primaria importanza e che io mi autorizzo, in ipotesi, ad attribuire al papa.
Domanda: quando il papa dice «Non si può sopprimere una vita per risolvere un problema», si rivolge alla futura madre per convincerla a restare fedele alla sua iniziale accettazione nonostante una diagnosi infausta? Risposta: sì e no.
Se fosse semplicemente sì, sarebbe come non avere idea del vissuto di una donna che si scopre incinta di una creatura (la sua creatura!) che è più o meno gravemente malata. Sarebbe metterla in croce, cosa che la morale sessuale cattolica ha già fatto in un passato che speriamo sia veramente passato. Sarebbe, insomma, una risposta non umana né cristiana.
Sì e no, ho detto. Le parole citate sono rivolte alle donne, ma non alla singola lasciata sola e neanche lasciata sola con la sua dottoressa per tentare una decisione che fatalmente andrà sul piano inclinato della salvezza personale, a meno di un’impennata eroica che io non raccomando a nessuna. Le parole sono rivolte a una donna inserita in una civiltà degna di questo nome, dove le possibilità offerte dalla conoscenza non sono comandate dal profitto e dal successo ma hanno il tempo di maturarsi nella ricerca del meglio per sé e gli altri, mai l’uno senza gli altri.
Uno scienziato francese impegnato in queste ricerche, ha detto: siamo premuti dagli investimenti privati in cerca di profitti; questa che si annunciava una promettente rivoluzione scientifica, sta mutandosi in una rivoluzione sociale che va troppo in fretta (v. Le monde, Science & Médecine, 26 settembre 2018). Accade così che le persone singole siano prematuramente caricate di scelte funzionali non al bene comune dei più, ma al profitto dei meno. Penso in primo luogo alle donne, perché si tratta, ancora una volta, di loro e del potere di dare la vita. Esattamente questo, infatti, è capitato con la PMA, la procreazione medicalmente assistita, che ha fatto da strumento per il business della cosiddetta GPA, come ho scritto sul Sottosopra intitolato Cambio di civiltà, punti di vista e di domanda, al seguito degli studi di Laura Corradi e di tante altre femministe.
Se la mia lettura si avvicina al vero, nel catechismo del papa non c’è stato un brusco passaggio dalla critica dell’ordine, anzi disordine dell’economia globale, al problema dell’aborto, non c’è stato l’uso pretestuoso della sofferenza dei molti per una condanna dell’aborto, come tanti giornali hanno inteso in buona o cattiva fede. L’insegnamento del Non uccidere riguarda anche l’aborto, sì, ma solo per dire che per essere buoni ci vuole una civiltà e che, oggi, questa necessaria civiltà della convivenza sta venendo meno.
(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2018)
Francesca Pasini
A Milano, rispettivamente alla Triennale, all’Hangar Bicocca, alla Quarta Vetrina della Libreria delle donne, le artiste Haegue Yang (Seoul, 1971, vive a Berlino), Leonor Antunes (Lisbona, 1972, vive a Berlino), Paola Anziché (Milano 1975, vive a Torino), puntano gli occhi sul costruire e abitare delle donne.
Una coincidenza che mi fa pensare a Ida Farè. Al Politecnico di Milano dalla metà degli anni ’80 ha dato vita al Gruppo Vanda, per “osare pensare la città femmina”. Sono nate tesi di laurea, corsi accademici e un ricchissimo circuito di riflessione sui “modi di abitare la città” da parte delle pioniere e di quelle che studiavano per diventare architette.
Ha portato il suo pensiero nel dibattitto femminista: al circolo Cicip & Ciciap e alla Liberia delle donne di Milano. Qui nel 2013 ha inventato il ciclo di conferenze filosofiche, abbinate a un aperitivo, Cibo dell’anima, Cibo del corpo. Nel 2001 aveva, infatti, creato il Gruppo Estia (l’antica dea del focolare) col quale accompagnava presentazioni, discussioni, incontri, preparando una cena. Una pratica diretta del suo pensiero che situa la cultura materiale all’interno delle relazioni intellettuali, politiche, affettive in accordo e non in contrasto con la cura del quotidiano.
Il suo insegnamento e le sue ricerche sono un’opera d’arte che acquista colori e visioni nella relazione con parole, cibi, pensieri, persone. La collego alle opere di Antunes, Yang, Anziché, inaugurate a Milano un mese dopo la sua morte, avvenuta l’8 agosto scorso.
In un suo libro molto famoso, Mara e le altre, aveva raccolto le esperienze di alcune partecipanti alla lotta armata, intercettando la differenza femminile anche in un territorio così plasmato sull’universo maschile come la presa delle armi.
Voglio intitolare questo scritto, Ida e le altre, per dar conto della sua germinale ricerca sulle donne, l’architettura, l’arte, che come un battito d’ali di una farfalla, a distanza di tempi e luoghi, appare in artiste che non l’hanno incontrata, non conoscono i suoi testi, ma hanno in comune la relazione con le altre.
Leonor Antunes dedica la sua mostra a Franca Helg, fondatrice con il marito Franco del famoso Studio Albini, tant’è che intitola la mostra e alcune opere, Last Days in Galliate, in ricordo della casa costruita da Helg per i genitori, dove è vissuta negli ultimi anni della sua vita.
Antunes s’ispira ad architette, designers, artiste del secolo scorso, di cui elabora particolari di oggetti e progetti, traducendoli in sculture indipendenti che, attraverso la frammentarietà diventano simbolo del ricordo. Molte hanno come titolo il nome stesso della progettista. Franca, è un piccolo insieme di sculture sospese, estrapolate dalle curve della gamba di un tavolino e dai ganci di un appendiabiti, realizzati da Helg nel 1955 e 1959. Ingranditi perdono funzionalità ed entrano in un altro territorio, come avviene con le parole di un romanzo o di una poesia che, spesso, producono altri scritti. Clara è una serie di sculture di legno e corda suggerite dalle sedie che la designer cubana Clara Parset, realizzò negli anni ‘40/’50. All’ingresso, gli elementi modulari in ottone verniciato nero, oro, verde, ocra, bianco, Altered climbing form, 2017-18, sono ispirati Mary Martin, artista del Costruttivismo britannico. Altered knot, 2018, un intreccio sospeso in cuoio e corda, è dedicato ai disegni di Anni Albers della fine degli anni ’40. La scultura Discrepancies with villa Sundin, 2016 è un’inventiva sintesi dell’edificio costruito nel 1956 da Greta Magnussen Grossman, una delle personalità fondatrici dei principi del Modernismo.
Haegue Yang con una barriera di fili di cotone rossi (134,9 m3, 2000/18), tesi a 10 cm di distanza l’uno dall’altro e leggermente declinanti, blocca un angolo di una stanza della Triennale. Sulla parete, altrettante linee tracciate in gesso rosso (81m2, 2002/18) creano un effetto specchio. E’ immediato pensare agli stop che attraversano le diagonali della vita, creando l’illusione di non doverli affrontare. Così Haegue Yang introduce la fluidità imprescindibile delle case, e mi fa venire in mente le innumerevoli variazioni che Ida Farè ha colto spostando lo sguardo dalla staticità dell’architettura, anch’essa ritenuta imprescindibile, al sistema di competenze diverse che si agiscono nella casa. «Nella produzione di un bene ci sono competenze diverse, ma sono poste in un ordine prevedibile, nell’intelligenza domestica, invece, c’è sempre l’imprevisto che può capovolgere l’ordine dei fattori e richiede doti di invenzione e un equilibrio variabile. Mi riporta al bricolage del possibile che i biologi dicono sia seguito dalla natura, che agisce e cresce secondo gli elementi che si trova a disposizione». (Una città, n.53, ottobre ’96).
Con Cittadella (2011), Yang, “camminando sul filo del rasoio”, come dichiara nel titolo della mostra, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, sposta lo sguardo dall’aspirazione durevole dell’architettura al “bricolage” e costruisce con tende veneziane, un imponente edificio trasparente, pieno di luci e di profumi, in cui si entra e si “abita”. Una straordinaria casa transitoria che normalmente abbiniamo alle civiltà archetipiche, nomadiche, come tende, capanne, tettoie, e anche al comportamento di costruzione quotidiana con mobili di famiglia, oggetti, vestiti, libri. Anche gli odori e i profumi richiamano alle competenze dell’abitare.
Mi viene in mente Anna Achmatova che di fronte a un’opera nuova, diceva: «ero lì, lì, per farlo anch’io». E allora perché non vedere nelle veneziane di Yang quell’architettura personale che ognuno crea con i materiali della propria esistenza? Yang è coreana, ma ha studiato a Francoforte e conosce la difficoltà di integrarsi altrove, l’ha trasferita in un testo (A study on How to make Myself Understood, 2000) mescolando varie lingue, che è risultato indecifrabile, un testimone di quelle spinose mediazioni per conoscere se stessa, che riappaiano nello specchio appeso alla parete dalla parte non specchiante (Mirror Series – Back, 2006). Un buio, un’assenza che non si può evitare e per la quale non ci sono mai case appropriate.
Paola Anziché crea delle sculture intrecciando lana grezza, juta, carta, hanno forma di gusci o di protuberanze organiche, sospese e trapassate dalla luce alludono all’abitare umano, al suo sviluppo verso il cielo, ma anche a quello animale, larvale che pende dagli alberi.(Materiali, 2018).
L’esplicito accenno al lavoro a maglia, alla tessitura, riporta alla “dote d’invenzione domestica”, di cui parla Ida Farè. Se nella cura l’invenzione è destinata a sparire nell’anonimato delle esigenze di vita, nell’arte indica una storia lunga di competenze femminili: dagli arazzi, agli erbari che hanno contribuito da un lato all’arricchimento della casa, dall’altro allo studio delle scienze naturali. Una competenza sprofondata per secoli nella cancellazione delle autrici effettive a favore dell’artista neutro/maschile. Non si tratta solo di un progressivo emergere delle donne nel campo dell’arte, ma di un’originale interazione tra materiali della vita e figure dell’arte.
Le immaginarie architetture di Paola Anziché indagano il bricolage della natura, per trarne spunto per autonome forme e mantenere in equilibrio le esperienze fatte nelle residenze in Azerbaigian, in Brasile e in altri paesi dove ha scoperto i materiali necessari alla sua “tavolozza” ed anche un passe-partout per entrare in contatto con l’amata maestra brasiliana Lygia Clark.
Anzichè ha studiato a Francoforte negli stessi anni di Yan e forse non è un caso che, pur con visioni molto diverse, tutte e due propongano inediti modi di abitare l’architettura.
Non è una deduzione a posteriori, ma un’intuizione che mi fa mettere insieme due eventi: la morte di Ida e la necessità di ricordarla al presente. Il presente, per me, è l’arte e l’innovazione che le artiste, tutte non solo quelle che cito, hanno impresso. Sono esperienze che creano figure per donne e uomini. Anche le case sono abitate da donne e uomini, anche la vita è fatta di donne e uomini. Fino a pochi decenni fa, però, si pensava al costruttore, all’artista, allo scrittore come un neutro maschile. Ora le donne, insegnano, creano, scrivono, costruiscono e tramandano così il loro sentire. In queste mostre si sente un forte un accento di differenza e la decisione di riannodare i fili con quelle che le hanno precedute.
Ida artista immateriale, ha portato fino in fondo l’idea di un’arte che si attua e si vanifica nella relazione: per questo la abbino alle opere di queste artiste.
Mi hanno fatto capire che il lavoro di Ida è una forma d’arte, che altre lo traducono in figura, altre in scrittura, altre lo vivono in presa diretta, anonima. Senza questa presa diretta potremmo capire l’arte? Spesso l’arte crea figure percettive fluide, perché? Per lasciare aperta la porta a chi guarda.
Forse può sembrare romantico dire che la vita è per tutti e per tutte un’opera d’arte, e non è neanche vero. Credo però, che tutti e tutte quelle che hanno scelto, e sceglieranno di indagare se stesse attraverso le relazioni affettive, culturali, politiche e i conflitti che ne derivano, creano opere cruciali per l’esistenza. A volte prendono la forma visibile dell’arte, a volte appartengono al bagaglio interno e la loro visibilità non è materiale, ma percettiva, si realizza solo nello scambio tra sé e l’altro/a. Senza osservatori, osservatrici, lettori e lettrici non ci sarebbe questa trasmissione che distingue l’opera di uomini e donne, dalla creatività naturale di piante e animali. Noi riconosciamo la nostra immagine attraverso le opere che compiamo, gli animali, le piante non sembra, almeno così si dice.
La vita di Ida dopo la morte del figlio è stata una quotidiana creazione dentro di sé, nascosta alla visione, (come lo specchio di Yang) ma espressa nel progetto di una cucina reale e simbolica, che teneva insieme attività culturale, politica e quotidianità. E la quotidianità è spesso invisibile. Lei non si mostrava, ma accompagnava le sue cene con bellissimi menù scritti a mano. L’arte ha la capacità di rendere visibile la quotidianità attraverso immagini e parole, Ida l’ha fatto con il nutrimento di tutte e tutti coloro che venivano in Libreria per parlare di libri, di politica, di arte. Un gesto molto radicale che dà valore allo scambio culturale anche quando succede nel privato o in chi non è addetto ai lavori. Il cibo, in chi lo cucina e chi lo mangia, produce piacere e conoscenza in quanto relazione essenziale alla vita. Valga per tutti Il pranzo di Babette di Karen Blixen.
All’inizio quando dico che volevo intitolare questo scritto Ida e le altre, pensavo al suo libro e a una coincidenza specifica, le tre mostre oggi presenti a Milano, ma le altre sono ovunque.
Come scrive Lia Cigarini (Sottosopra, settembre 2018). «Dopo mezzo secolo di lavoro politico sia pratico che teorico, il movimento Me Too è arrivato a rompere il contratto tra uomini per regolare il loro accesso sessuale alle donne. A me non pare un tempo così lungo, se si tiene conto che le donne disposte a parlare, superando fastidi anche gravi e paure interne, hanno dovuto acquisire credibilità e autorità per essere ascoltate. Nel caso del Me Too è stata vinta finalmente la battaglia della narrazione femminile su quella maschile, battaglia che può fare da spartiacque nella storia del femminismo».
Le altre, tutte, che le conosca personalmente o no, mi fanno leggere l’arte come un territorio dove intercettare relazioni con donne e uomini, e non con un artista neutro/maschile. Anche questo è stato un sopruso che, per secoli, ha impedito alle donne di scrivere, dipingere liberamente, ritenendolo un’irrilevante stranezza, destinata a sparire col tempo. E invece no. Le opere delle donne hanno resistito. Dal baule di Emily Dickinson a quelle di tante altre, continuano a ripresentarsi nell’arte, nella scienza, nella letteratura, nella filosofia. Perché, come scrive Rebecca Solnit (Gli uomini mi spiegano le cose – Ponte alle Grazie, 2018), «Esiste una controcritica che cerca di ampliare l’opera d’arte, creando legami, spalancando significati, aprendo possibilità. Una bella critica può liberare un’opera d’arte che così potrà essere vista nella sua interezza, restare viva, intrattenere un dialogo senza fine che continui a nutrire l’immaginazione».
Questo nutrimento l’ho avuto anche dall’opera d’arte immateriale di Ida Farè, che mi ha fatto immaginare imprevedibili modi di abitare, smarrirsi, riemergere giocando le competenze della cura insieme all’intuizione teorica.
Haegue Yang, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, a cura di Bruna Roccasalva
Fondazione Furla e Triennale Milano, 7 settembre – 4 novembre 2018
Leonor Antunes, the last days in Galliate, a cura di Roberta Tenconi
Hangar Bicocca, Milano 14 settembre – 13 gennaio
Paola Anziché, Materiali, a cura di Quarta Vetrina
Libreria delle donne di Milano, 12 settembre – 5 ottobre 2018
Condotta da LUISA MURARO con l’assistenza di TERESA PANSERA. Nata per iniziativa di LOLA BRUNETTO
TERZO ANNO ACCADEMICO 2018/19
DA NOVEMBRE AD APRILE LA 3a DOMENICA DI OGNI MESE
Quest’anno ci dedicheremo a un problema facile da dire difficile da risolvere
IMPARARE A VIVERE
Il giorno 11 novembre 2018 alle ore 15, presso la Libreria delle donne di Milano, nei locali del Circolo della Rosa, riaprel’Accademia delle piccole filosofe – aperta anche ai piccoli filosofi, per il suo terzo anno di vita. È stata fondata da Lola Brunetto di anni 13 e da Luisa Muraro di anni 80.
Non è una scuola né una sala di gioco, ma un luogo-tempo che dedichiamo a pensare, parlare, ragionare, conoscere altre persone e noi stesse. Quest’anno, che cosa faremo? Ci aiuteremo a vicenda parlando, leggendo e pensando.
Luisa (guida di filosofia) e Teresa (maestra di scuola)propongono di fare così: scegliamo insieme una domanda per la volta dopo e scegliamo due persone, una piccola e una adulta, che la presenteranno. La volta dopo, le due persone scelte parleranno per prime; poi parleranno le altre per dire la loro idea e discuterla insieme. Non escludiamo di scrivere o di recitare, ci servirà a pensare meglio. Ma che tipo di domande? Quelle che vogliamo, per esempio: “perché dobbiamo andare a scuola, e i gatti invece no?”; “perché, secondo alcuni, gli abitanti dell’Africa non sono liberi di venire in Europa?”; “è vero che in futuro non morirà nessuno?”; “si sta meglio da grandi o da piccoli?”…
Letture consigliate: Pinocchio di Collodi, la Bibbia, fiabe… Per queste e altre letture, avrete a disposizione la Libreria delle donne. Tranne i libri, non c’è da pagare niente.
C/O LIBRERIA DELLE DONNE Via Pietro Calvi, 29 Milano (vicino a Piazza Cinque Giornate)
DATE INCONTRI:
11 novembre, 16 dicembre 2018; 20 gennaio, 24 febbraio, 17marzo, 14 aprile 2019
dalle ore 15.00 alle ore 17.00
Iscrizioni entro il 5 novembre 2018: lola.brunetto@gmail.com – tel. 333.6986820 chiedendo di Lola.
(www.libreriadelledonne.it, 8 novembre 2018)
Il 25 settembre scorso il Comitato nazionale francese di etica (CCNE) ha fatto conoscere le sue posizioni sulla nuova legge di bioetica che il Parlamento francese sarà chiamato a discutere nel 2019.
In tema di procreazione, come già in passato, il Comitato di etica si è dichiarato favorevole (consenso non unanime) alla procreazione medicalmente assistita (PMA) per le coppie di donne o le donne singole che desiderano procreare senza partner maschile, ricorrendo al dono di sperma. (Questa possibilità, in Francia come in Italia, non è prevista dalla legge in vigore.)
Per contro, il Comitato ribadisce il divieto della gravidanza per altri (GPA) e spiega la ragione etica di questo divieto (che vale in Francia come in Italia e nella maggioranza dei paesi del mondo): con la GPA si va incontro alla mercificazione del corpo umano, quello della donna e quello della creatura neonata. (Fonte: “Le Monde” 26 sett. 2018, p. 10)
(www.libreriadelledonne.it, 28 settembre 2018)
di Marirì Martinengo
Due mie amiche – vicine per età, diversissime fra loro, l’una all’altra sconosciuta, cittadine di città lontane – pur vissute negli anni del femminismo trionfante, non si sono mai avvicinate ad esso, anzi l’hanno guardato con distacco, scetticismo, perfino diffidenza, quasi a dire: “Ma a che pro?”
Io, che sono stata e sono invece femminista convinta, le ho sempre considerate, per questo aspetto, con una certa sufficienza come quelle cioè che non avevano capito l’essenziale, vale a dire la necessità e l’urgenza della rivoluzione.
L’una, Luciana (che ora purtroppo è morta), che si struggeva per non aver potuto studiare e coglieva ogni occasione per colmare le sue lacune, si accalorava per cose pratiche e contingenti, l’altra, Giovanna, insegnante brillante, lettrice accanita, si interessava d’arte e, profondamente religiosa, si dedicava ad opere caritative.
Sovente, negli anni passati, avvertendo la dissimmetria e distanza tra i miei e i loro interessi, ne avevo preso le distanze, a intervalli, senza però far mai mancare alimento alle nostre rispettive relazioni.
Recentemente – un po’ tardi – mi sono resa conto che tutte due – e parlo di Luciana come fosse ancora viva – in modi propri a ciascuna, non avevano e non hanno bisogno di aderire al femminismo, perché pensano e agiscono, in passato e ora, tranquillamente da donne.
Modi di essere che io mi sono dovuta riconquistare.
La prima, d’indole assai comunicativa, ha intessuto una quantità di relazione con donne e uomini del quartiere dove viveva, si è prodigata per rendere questo funzionante, pulito, accogliente: il grande parco che abbellisce il quartiere, è in massima parte frutto della sua iniziativa e dedizione nel tempo. È arrivata a pensare alla cura dell’ambiente, del primum vivere, negli anni Settanta, ben prima di me!
All’epoca della pubblicazione dei miei libri Le Trovatore, ne ha sostenuto vigorosamente e con successo la conoscenza e la diffusione, facendone acquistare delle copie dalle biblioteche milanesi e organizzando uno spettacolo estivo serale nei giardini di Villa Litta.
Giovanna ha costantemente messo in atto una pratica di relazione e di accoglienza: nella sua bella casa di Savona apre frequentemente le sue sale alle numerose amiche; ultimamente per far conoscere loro e regalarglielo con dedica personalizzata, il suo ultimo libro di poesie, Ti sento nel vento. In un suo precedente libro di memorie, Croce fiorita, aveva rievocato, con nostalgia e con grande considerazione, la genealogia femminile familiare. Alcuni anni fa ha messo in moto, coinvolgendole, le sue conoscenze anche istituzionali, per farmi presentare alla cittadinanza uno dei miei libri, La voce del silenzio, nella sala più prestigiosa della città.
Giovanna fa parte della Consorzìa della Madonna della Colonna – di cui è stata priora e ora è priora emerita – unica confraternita composta solo da donne, le cui origini e i cui statuti risalgono al medioevo. Compra, per leggerli e per regalarli alle amiche, copie di libri della nostra Libreria, che mi chiede di fornirle.
Io, e molte altre con me, ho avuto bisogno di praticare appassionatamente il femminismo della differenza per accedere a quei saperi e a quelle consuetudini che Luciana e Giovanna, custodivano e custodiscono dentro di sé e amministravano amministrano con naturalezza nei consorzi sociali. Non necessitavano nemmeno della consapevolezza che io e altre femministe ci siamo adoperate a infondere e a propagandare. Io sono soddisfatta delle mie scelte, ma non posso non riflettere su questo paradosso.
Cioè le mie due amiche non femministe fanno e hanno fatto, più o meno quello che faccio e ho fatto io, ma passata attraverso trent’anni di macerazione: studiare, scrivere, discutere, organizzare incontri, convegni…
La mia esperienza, maturata nella mia frequentazione dell’una e dell’altra, mi dice che non è stata la mia influenza a contagiarle: esse erano così come le ho descritte, negli anni settanta del secolo scorso, quando le ho conosciute.
Quello che voglio dire è che il sistema patriarcale è stato così devastante e ha imperversato così lungamente e profondamente che ha provocato in alcune donne la rimozione e perfino la cancellazione della consapevolezza di sé e dell’autorità e la libertà che ne discendono, e in altre la necessità di lotte secolari per poter tornare ad essere se stesse e pensare e agire secondo quanto detta la propria naturale inclinazione. Luciana e Giovanna hanno vissuto e agito la propria femminilità in maniera piena, libera e autorevole, senza vederne l’aspetto politico.
Aggiungo due notizie recenti: per Luciana, in seguito all’interessamento e alle richieste insistenti della Associazione Amici del Parco e mio personale, appoggiata dalla Libreria delle donne di Milano e dal LabMi, abbiamo ottenuto, da parte del Comune di Milano, di nominare, sulla targa toponomastica del Parco di Affori, Luciana Cella quale creatrice del Parco stesso.
Il figlio di Luciana, Stefano Guffanti, in questi ultimi mesi, ha raccolto e ordinato la documentazione che testimonia l’attività della madre, tesa a fare della città luogo rispondente alle esigenze di coloro che vi abitano; ella si è spesa non solo per il quartiere dove abitava con la famiglia, ma anche per il piccolo paese Pella, prospiciente il lago d’Orta, loro residenza estiva. Quindi Stefano si è rivolto a me per avere indicazioni riguardo ad archivi cittadini, Centri documentazione Donna, eccetera, interessati ad accogliere, catalogare, disporre alla consultazione il materiale di quante – senza etichette – si sono spese per migliorare la vivibilità dei luoghi di residenza; la mia ricerca non ha conseguito risultati: Milano, città per altro civile aperta al nuovo, difetta di tali fondazioni e io non posso se non concludere formulando la speranza che tanto prezioso lavoro di cura non venga disperso, ma trovi collocazione adeguata e torni utile ad altre future ricerche.
(www.libreriadelledonne.it, 22 settembre 2018)
di Doranna Lupi
RACHEL MORAN, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Round Robin Editrice, Roma, maggio 2017, € 16
Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione è il titolo dirompente e autorevole che Rachel Moran ha dato al suo libro. Partendo dall’analisi della propria esperienza e dal confronto con molte donne conosciute nei sette anni vissuti in quell’ambiente ci porta a comprendere che la prostituzione non è un lavoro tra i tanti: non è come vendere l’hamburger al McDonald’s, lì la carne sei tu. L’uomo acquista un rapporto sessuale con una donna che non lo desidera e il silenzio di lei sul ribrezzo generato dal mettere il proprio corpo sessualmente a disposizione di uno sconosciuto, spesso ripugnante e violento. Disconoscere il desiderio dell’altra in un rapporto sessuale equivale a negarne l’esistenza.
Figlia di un padre bipolare e di una madre schizofrenica, Moran ha vissuto un’infanzia di povertà ed emarginazione. In questo contesto si è abituata al ritmo interiore che, in seguito, l’ha accompagnata durante gli anni della prostituzione: “nel profondo di me stessa sentivo di non essere adeguata, di non essere normale e di non essere rispettabile” (p. 26). Sarebbe rimasto puro orrore il suo racconto se fosse stata una semplice narrazione autobiografica, invece sin dalle prime pagine l’autrice si pone l’obiettivo “di prendere qualcosa di brutto e trasformarlo come in un processo alchemico in qualcosa di buono” (p. 24): cioè mettere a nudo quello che è veramente la prostituzione e condividere la presa di coscienza su un sistema oppressivo, creato e mantenuto dagli uomini per gli uomini. Una volta uscita dall’incubo della prostituzione, prestando attenzione al suo desiderio profondo di parlare, comunicare e scrivere, Rachel prende la strada del giornalismo e dell’attivismo femminista. Partendo da sé e dalla relazione con altre donne, scrive mettendo in gioco la sua verità soggettiva che diventa universale perché altre e altri la sentono vera anche per loro. Il suo obiettivo è che chi l’ha vissuta in prima persona, riesca a strappare la verità dalle proprie viscere su quello che la prostituzione le ha fatto.
Riconosco in questo libro le caratteristiche di una storia vivente che scova un nodo esistenziale, illuminando un’esperienza forzatamente tenuta nascosta, segreta. Il frutto di un lavoro su di sé che l’autrice fa superando pregiudizi e vergogna, in un doloroso scavo emotivo, alla ricerca del significato del proprio vissuto. Come sostiene Marirì Martinengo, fondatrice della Comunità di Storia Vivente di Milano, “estrarre dalla propria interiorità l’esperienza femminile e darle parola e poi scrittura, significa narrare la storia dei condizionamenti violenti imposti alla vita delle donne dall’organizzazione simbolica e sociale patriarcale, acquistarne consapevolezza e contemporaneamente studiare il modo di mettere al mondo le vie per sottrarvisi, avviando un movimento politico e storico in cui vi siano libertà e autorità femminili” (Sul Convegno di storia vivente dell’11 marzo 2017. Una giornata di festa, www.libreriadelledonne.it)
Con coraggio e determinazione Moran lavora su queste zone d’ombra, arrivando persino a indagare i danni che le interazioni perverse, dominate dal risentimento, dal disprezzo e dal disinteresse reciproco generano non solo nella donna prostituita ma anche nel prostitutore. Il denaro fa sì che gli uomini non abbiano margine di miglioramento nelle loro relazioni con le donne. Per esperienza so che quando gli uomini non mettono di mezzo il denaro e hanno relazioni positive con le donne c’è vero interesse reciproco che fa crescere entrambi.
Inoltre la disumanizzazione della persona come prerequisito e l’interiorizzazione della dinamica servo-padrone nella prostituzione richiamano qualcosa dell’essenza della schiavitù. In quest’ultima la funzione del cibo e della sistemazione era di far vivere gli schiavi per poterli sfruttare; nel caso delle prostituite il denaro ha lo stesso significato, cioè rende cooperative le donne sulle quali si vuole infliggere l’abuso e la violenza.
Il libro si legge trattenendo il fiato per il dolore che provoca accostarsi a tanta sofferenza. Nello stesso tempo si prova rabbia nel sapere che c’è chi rivendica come libertà essere prostituite, definendo la prostituzione sex work come fosse una qualunque professione, dove esistono clienti, transazioni economiche, imprenditori, libere professioniste e autodeterminazione. Un linguaggio che vuole legittimarla, in ogni caso più a vantaggio dei clienti che delle prostituite. Rachel ci fa riflettere: in fondo è un modo per tenere lontana una verità scomoda poiché ne va di mezzo l’immagine di sé. È un modo per sentirsi meno umiliata. Ma il registro linguistico con cui parliamo della prostituzione non è neutrale, bensì frutto di una lettura politica della società. Questo è il taglio che lei ha voluto dare alla presentazione del suo libro il 20 maggio scorso alla Libreria delle donne di Milano dove, in un incontro precedente, sullo stesso tema, Luciana Tavernini aveva dato grande risalto al suo libro, evidenziando la necessità di alcuni cambiamenti linguistici:“Moran mi ha convinto a cambiare il linguaggio: non prostitute ma prostituite perché questo termine mette l’accento sul fatto che è necessario vi sia il prostitutore, il cosiddetto cliente, perché una donna venga prostituita” (Video: Sulla prostituzione. Intervento introduttivo di Luciana Tavernini, www.libreriadelledonne.it, 6 aprile 2018).
Una delle conseguenze più dolorose per Rachel Moran è stata proprio la negazione della sua presa di parola sulla prostituzione da parte di altre donne, favorevoli invece alla sua legalizzazione. Perché, si è domandata, alcune sono fortemente ancorate a questo tipo di opinioni? Forse dovrebbero vedere l’immensità di qualcosa che va riconosciuta come oppressione sia per i milioni di donne, bambine, ragazze che ne sono violentemente coinvolte sia per i millenni in cui è durato questo abuso, che richiede di avere solamente una vagina, cosa che ogni corpo di donna possiede. E questo, che riguarda tutte, ci fa troppa paura, ci fa male.
Dunque si tratta di un testo fortemente politico: rompe “il regime di irrealtà che si è creato con la subordinazione del femminile al maschile” (Luisa Muraro, Tutto comincia da dentro, Donne Chiesa Mondo, 8 dicembre 2017, www.libreriadelledonne.it).
Il nostro è un tempo in cui si incomincia a credere alle parole delle donne e molte hanno ascoltato con grande attenzione ciò che lei aveva da dire, alcune, come il gruppo di Resistenza Femminista, sono arrivate a tradurre il suo libro come atto politico.
Da qualche anno queste giovani donne seguivano il blog di Moran “The Prostitution Experience”, dove lei scriveva usando lo pseudonimo FreeIrishWoman e denunciava la violenza che le donne prostituite subiscono nell’industria del sesso. Questo approccio al tema faceva a pezzi i miti patriarcali della “prostituta felice”, dell’“escort di lusso” (www.resistenzafemminista.it). Dopo la pubblicazione del libro le donne di Resistenza Femminista hanno organizzato e partecipato a numerosi incontri e dibattiti sul tema con lo scopo di spostare l’attenzione sulla richiesta da parte maschile del sesso a pagamento poiché solo negli stati dove è stata soffocata la domanda la prostituzione è nettamente diminuita. Questo è avvenuto in Svezia, Norvegia, Irlanda, Francia e Islanda dove vengono sanzionati i clienti.
Come affermava Carla Lonzi, affrontare e forzare in prima persona il blocco di un ordine simbolico che crea sofferenza e disordine è un lavoro che parte da dentro, producendo una profonda trasformazione interiore e aprendo varchi di libertà da cui possono passare donne e uomini. Moran definisce una profonda bramosia spirituale la spinta interiore che l’ha costretta a cercare e ritrovare il desiderio di pace tra sé e sé, quel sentimento che aveva sperimentato da bambina: “Avevo bisogno di riprendermi quella pace che avevo provato nella mia infanzia quando camminavo nel bosco, circondata dalla bellezza del mondo. Era la pace che mi dava la certezza di sapere chi ero, e di gioire di questa consapevolezza. Non c’è pace all’interno della prostituzione. Non c’è pace né nel tuo corpo né nella tua mente” (p. 357).
Leggendo le sue parole si ha l’impressione di assistere a un processo di guarigione, alla nascita di una nuova consapevolezza che la sottrae al risentimento e a un giudizio immiserito su se stessa e sulla propria famiglia.
Il libro si chiude con un commovente riconoscimento nei confronti dei genitori: “La malattia e le dipendenze che affliggevano i miei genitori mi hanno dato un’infanzia tutt’altro che invidiabile e una giovinezza irta di difficoltà, ma la loro salute, la loro parte dignitosa, la positività intrinseca nella loro più intima natura, fu in gran parte responsabile di avermi dotata degli strumenti necessari a superare l’eredità delle loro avversità” (p. 361).
Per Rachel non è stato sufficiente uscire dalla prostituzione: ha sentito l’esigenza di analizzare la sua esperienza, per illuminare se stessa e le altre. Ha cercato e trovato le parole giuste per narrare il suo vissuto aprendosi a una ricerca di senso, si è riorientata mettendosi in contatto con qualcosa di profondo e buono che da sempre era dentro di lei. Questo si percepisce dalla forza trasformativa delle sue parole, non solo per le donne ma per tutti e tutte.
Note biografiche
Rachel Moran nasce negli anni Settanta a Dublino in una famiglia problematica. Viene affidata a una casa d’accoglienza statale, a 15 anni vive l’esperienza della prostituzione. Impiegherà sette anni per liberarsi da quella vita. Nel 2000 riprende gli studi, ottenendo una laurea in Giornalismo e un Master in scrittura creativa. Nella primavera del 2011 prende parola come attivista femminista contro la prostituzione e da allora inizia a girare il mondo tenendo conferenze a livello internazionale sulla prostituzione e la tratta. Collabora con la Coalition Against Trafficking in Women e L’European Women Lobby. È cofondatrice di SPACE, una nuova organizzazione internazionale creata per dar voce alle donne che sono sopravvissute alla realtà violenta della prostituzione e che lottano perché venga adottato il modello nordico, come in Irlanda, Svezia, Norvegia, Islanda e Francia dove viene criminalizzata la domanda della prostituzione: il cliente.
(Viottoli, settembre 2018)
Sara Gandini
Essere riconosciuta come donna è un piacere di cui desidero che il mondo tenga conto. Negli anni ho imparato ad essere orgogliosa di quello che significa per me essere donna e vorrei che che questo mio modo di muovermi possa essere contagioso. A lungo molte donne – lo vedo nel mio posto di lavoro ad esempio – per non incappare in quell’immaginario misogino, secondo cui essere troppo femminili vuol dire essere poco credibili o professionali, si sono omologate ad un modo di agire, di vestire, di muoversi nello spazio che non avesse tracce della femminilità.
Ora, grazie al femminismo, la libertà delle donne non deve passare per la rinuncia alla femminilità. Cosa intendo per femminilità? Ha a che fare con la cultura, l’epoca storica, l’educazione ma sempre più per molte riguarda una ricerca personale su come si vuole significare soggettivamente l’essere donne.
Le donne hanno cominciato a pretendere di essere nominate al femminile nelle professioni perchè il fatto di essere donne sia visto e riconosciuto, non sia un fatto indifferente. La ricerca su come manifestare la femminilità ha a che fare con il desiderio di essere viste e riconosciute anche in quanto donne, per non finire nel neutro maschile.
Nascere maschi o femmine si presta all’attribuzione di significati e a me preme farne una ricerca libera, anche giocando con l’immaginario che viene da lontano, perché la nostra storia è intrisa di patriarcato ma si possono scorgere anche grandi esempi di espressione libera della soggettività femminile. Proprio rivisitando la nostra storia con un altro sguardo l’immaginario stesso si modifica e può aiutarci a far sì che il libero senso della differenza sessuale si renda visibile, anche dove meno ce l’aspettiamo, e sappia ispirare in ciascuna il proprio ‘voler essere’.
Le lotte che le donne hanno condotto negli ultimi 50 anni hanno permesso che si diffondesse maggiore consapevolezza e forza e credo che ora possiamo giocare con l’immaginario senza troppi timori di rimanerne incatenate. Ora potremmo provare ad usare l’immaginario comune per spiazzare i nostri interlocutori e non farci trovare dove si aspettano di trovarci.
Un bell’esempio di femminilità che spiazza è quello di un paio di fortunate serie televisiva americane (‘Good wife’ e poi ‘Good fight’) che raccontano le vicende di studi di avvocatura in cui le avvocate sono donne di successo che incarnano diverse figure di femminilità. Le brave attrici di questa serie, che ha vinto parecchie nomination e premi, tra cui quattro Emmy e un Golden Globe, raccontano della possibilità di essere donne di successo, ad ogni età ed orientamento sessuale, senza dover rinunciare alla femminilità. In particolare amo una personaggia creata da Carrie Preston, Elsbeth Tascioni, che è valsa all’attrice l’Emmy Award come Miglior Guest Femminile. E’ un personaggio ironico e intelligente che in qualche modo sfrutta gli stereotipi sulle donne: non è la classica donna emancipata e professionale, che sa come comportarsi da avvocata. Sembra un po’ persa, ha un comportamento ricco di stranezze, che le conferisce una certa vulnerabilità e poca credibilità. Si fatica a prenderla sul serio e questo aspetto si rivela un punto di forza, in quanto i suoi avversari abbassano la guardia, e lei spiazzando tutti riesce a fare giustizia.
La ricerca del senso libero della differenza ovviamente non si limita all’uso degli stereotipi che confinano gli uomini, e più spesso le donne, in schemi predeterminati e definiscono in modo categorico femminilità e mascolinità. Tuttavia i luoghi comuni, proprio in quanto tali, rappresentano un terreno conosciuto, il terreno che abbiamo in comune, da cui quindi possiamo partire, allontanarci, ma da cui non possiamo prescindere. Prescindere dai luoghi comuni è infatti prescindere da ciò che ci dà un immaginario, un vestito, una rappresentazione di noi visibile agli altri e a noi stessi. Contrastare i luoghi comuni può significare cadere nel non essere, nel niente di definito e mostrabile.
Le creature piccole ci insegnano a non essere schematici nella lotta agli stereotipi. Nelle fasi di crescita e di ricerca per capire chi vogliono essere le creature generalmente si riferiscono all’azzurro e al rosa, al gioco delle principesse e dei cavalieri (nel caso anche sovvertendo colori e ruoli) nonostante tutte le lotte contro gli stereotipi. Questo accade perché sono passaggi che mostrano una ricerca che riguarda la loro identità, da esplorare senza preconcetti e ideologie. Grazie al femminismo ora possiamo affrontare i nodi della crescita e della ricerca di sé in modo meno semplicistico, interrogandoci sul filo che corre tra lo stereotipo e la ricerca che tutti abbiamo la necessità di fare, fin da bambini, in quanto esseri sessuati che si muovono in un mondo profondamente mutato dalla libertà femminile.
Mostrare le differenze anche nel senso della ricerca di immagini positive della femminilità diviene di fatto un’opportunità per fornire un simbolico differente e di valore e per fa sì che ci si interroghi su come significare quel semplice e imprescindibile fatto di nascere maschio o femmina. Cosa vogliamo farne di questo fatto? Che donne e uomini vogliamo essere? Il mondo può cambiare se teniamo conto di questo fatto? Specifico che con i termini “donne” e “uomini” indico qualcosa non sta solo sul piano della cultura o della biologia, ma della “realtà”, nel senso di fare i conti con quel che in profondità la nostra verità soggettiva ci dice di noi.
Quelle domande orientano le scelte che riguardano il mio muovermi nel mondo, dal lavoro alla politica, dalla sessualità alla famiglia. Non mi faccio mettere in scacco da un mondo pensato a misura maschile, ma mi fido del mio sentire e mostro con orgoglio la mia differenza.
(www.libreriadelledonne.it, 15/09/2018)
Il titolo di questo seminario ha a che fare con il desiderio di alcuni uomini quanto a sé e la richiesta rivolta ad altri di sbilanciarsi dalla parte della politica delle donne. È un invito che ha un suo motivo. Le mappe più conosciute della cultura e della politica maschile sono in bilico tra cambiamenti sregolati, la difficoltà di stare in rapporto alla realtà, la ripetizione di vecchi percorsi e un crollo verticale di valori. La politica delle donne ha seguito in questi anni un filo che ha attraversato le mappe maschili senza confondersi con esse.
Ultimamente il femminismo ha acquistato un nuovo credito. A prima vista per l’effetto di diversi movimenti internazionali. Pensiamo alla manifestazione di un milione di donne e uomini a Madrid contro il femminicidio, come anche alla forza simbolica delle donne che hanno denunciato gli uomini pubblicamente nel movimento del #metoo. Come pure al movimento internazionale Non una di meno. Ma questo credito è legato soprattutto al fatto che le donne si sono esposte personalmente, hanno rinnovato la pratica del partire da sé e mostrato una autorità femminile guadagnata con il proprio esserci, al di fuori dalle forme garantite delle istituzioni.
In questo seminario vogliamo aiutarci nella non facile lettura del presente, e fare proposte per avanzare nel futuro che in parte è già nostro.
Il primo passo essenziale è quello di dire la verità di ciò che stiamo vivendo tutte e tutti. Dire la verità è legato ad un senso profondo di giustizia che ci espone personalmente in rapporto alla vita degli altri. In questo le donne sono favorite da una cultura materiale che sta vicina all’esperienza comune.
Dire la verità di quello che viviamo, per quanto doloroso possa essere a volte, libera il desiderio. Apre nuove strade.
Il secondo passo è considerare l’inventiva politica delle pratiche del movimento delle donne: quelle sperimentate già ma soprattutto quelle che stanno nascendo a ridosso di questioni brucianti – esistenziali, politiche, economiche – in cui siamo tutte e tutti coinvolti.
Bibliografia:
Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2017.
Diotima, Femminismo fuori sesto. Un movimento che non può fermarsi, Liguori, Napoli 2017.
Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg&Sellier, Torino 1987.
Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg&Sellier, Torino 2013.
Matteo Angeli (a cura di), Il pensiero che muove la politica, Ytali ed., Venezia 2018.
Annarosa Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013.
Il seminario inizia il 5 ottobre (2018), che è un venerdì, alle 17,20 per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 26 ottobre:
– Venerdì 5 ottobre, ore 17,20 aula 2.1.
Luisa Muraro – Difesa di Simplicio. Capire le ragioni di quelli che non capiscono
– Venerdì 12 ottobre, ore 17,20 aula 2.1.
Annarosa Buttarelli – Prossimità
– Venerdì 19 ottobre, ore 17,20 aula 2.1.
Chiara Zamboni – In territorio pericoloso con bussola ma senza mappa
– Venerdì 26 ottobre, ore 17,20 aula 2.1.
Caterina Diotto – Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale
Il seminario si tiene all’Università di Verona, Area studi umanistici, via San Francesco 22.
(www.libreriadelledonne.it, 11 settembre 2018)
di Silvia Marastoni
Partirà a ottobre, per iniziativa della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, il primo progetto italiano di ospitalità, accoglienza e inserimento socio-culturale per donne migranti e richiedenti asilo promosso da un Centro Antiviolenza autogestito.
«Un viaggio per la libertà», spiega presentandolo l’avvocata Manuela Ulivi, presidente di CADMI, «consentirà a donne in uscita dai CAS o dalle strutture SPRAR (dopo aver ottenuto lo status di rifugiata o un permesso di soggiorno regolare) di vivere in una casa-rifugio dove potranno intraprendere un percorso di elaborazione del trauma della violenza e di empowerment personale, acquisendo strumenti di autotutela, di formazione professionale e per la ricerca di lavoro, con l’obiettivo di arrivare alla piena autonomia emotiva, economica e abitativa e di dare compimento alla loro ricerca di libertà».
Occasioni, ragioni e esperienze all’origine del progetto
L’idea, racconta, «è nata alla fine dell’anno scorso, quando il Trust Nel nome della donna (creato da Giovanna Foglia, Fiorella Cagnoni e Serena Foglia per sostenere “imprese” femminili rivolte alle donne, ndr) ci ha offerto in comodato gratuito una palazzina che può ospitare dieci donne con i loro figli. Pensando a come utilizzarla, ci siamo ritrovate a riflettere sui nuovi bisogni che la presenza di tante migranti vede nascere nei nostri contesti, e sulle esperienze che abbiamo maturato in questo ambito anche all’interno della Rete nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re. (Donne in Rete contro la Violenza).
«Sempre più spesso, infatti, negli ultimi tempi, abbiamo avuto richieste di sostegno da parte di donne straniere. Le testimonianze di chi entra per prima/o in contatto con loro all’arrivo in Italia ci dicono che quasi tutte – per non dire tutte – raccontano storie di violenza sessuale e di genere: da quella coniugale o intra-familiare alle mutilazioni genitali femminili, dai matrimoni precoci o forzati agli stupri, dalle gravidanze a rischio o indesiderate ai traumi psicologici acuti; dallo sfruttamento sessuale da parte dei datori di lavoro o nel circuito della tratta ad altre forme di sfruttamento e violenza fisica, psicologica, economica». Tra gli ultimi in ordine di tempo, «anche i racconti delle donne sbarcate dalla nave Diciotti ci confermano che non si può più attendere nel dare risposte competenti e concrete». Ed è una necessità che riguarda anche donne presenti da tempo nel nostro Paese: molte di loro, dice infatti Manuela Ulivi, «ci hanno cercate perché all’uscita dalle strutture in cui erano state ospitate in attesa di “regolarizzazione” tornavano a essere vittime di violenza o maltrattamenti».
Che sia il motivo che spinge alla migrazione e/o venga subita nel corso del viaggio verso l’Europa, nei centri di detenzione libici e perfino, all’arrivo in Italia, nei luoghi di cosiddetta “accoglienza”, la violenza è, dunque, un’esperienza comune. Un trauma, sostiene Manuela Ulivi, «che richiede un affiancamento e un sostegno specifico: competenze, metodologie e pratiche proprie dei Centri Antiviolenza creati dalle donne» che una realtà come CADMI ha elaborato in oltre trent’anni di attività. Fondata nel 1986 all’interno dell’UDI, prima esperienza di questo tipo in Italia, la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano ha infatti affiancato da allora più di trentamila donne in difficoltà; e dall’apertura della prima casa segreta nel 1991 ha seguito oltre 600 progetti di ospitalità, diventando un punto di riferimento essenziale per chi subisce violenza (sia essa fisica, psicologica, sessuale, economica o stalking) e per le realtà aperte in molti altri luoghi seguendo il suo esempio. Oggi, dice Ulivi, «questa competenza è messa a disposizione di donne migranti che cercano un percorso di accompagnamento per raggiungere le autonomie fondamentali, rivista e costantemente aggiornata in rapporto coi cambiamenti che attraversiamo». Nonostante la grande e consolidata esperienza maturata, infatti, «a volte – soprattutto all’inizio – abbiamo scontato la nostra impreparazione, perché le richieste di queste donne ci hanno poste davanti a bisogni e problematiche nuove: dai percorsi formali connessi alle esigenze di riconoscimento legale (di cui le nostre avvocate sono in grado di occuparsi, singolarmente, ma rispetto ai quali ci mancava – e sentivamo il bisogno di acquisire – una competenza collettiva), alla necessità di capire a fondo cosa significa accogliere chi scende da un barcone, arrivando da un viaggio come quello che affrontano (un’esperienza che noi non viviamo direttamente), alla maggior conoscenza e comprensione dei loro contesti di provenienza…».
Il confronto all’interno della Rete dei Centri di D.i.Re. ha messo poi in luce ulteriori difficoltà condivise: come si legge in un suo documento, «Le condizioni di emergenza e discontinuità in cui i Centri si trovano a prestare assistenza a un numero crescente di “beneficiarie”, la gravità e la complessità dei casi da gestire e soprattutto l’acuta problematicità delle donne e delle minori vittime di tratta è diventata […] fonte di particolare preoccupazione per le operatrici di D.i.Re, che hanno sentito il bisogno di rafforzare le proprie conoscenze del fenomeno migratorio attuale e le competenze operative e culturali necessarie per delineare percorsi di sostegno e aiuto di qualità anche per i casi più gravi».
«Queste nostre esigenze», racconta Manuela Ulivi, «si sono a un certo punto “incontrate” con la maggior attenzione prestata negli ultimi anni dall’UNHCR all’“elemento di genere”, e con la sua necessità di acquisire conoscenze e strumenti specifici riguardo alla violenza contro le donne. È nata così, nel 2016, una collaborazione che si è concretizzata nel progetto Samira: un percorso di ricerca e formazione reciproca (il cui rapporto è disponibile sul sito di D.i.Re., ndr) che per noi ha avuto un ruolo molto importante anche nella decisione di destinare questa nuova casa-rifugio a donne migranti. Un’iniziativa che parte da CADMI, ma che sta in relazione con tutta la Rete anche in vista di una sua possibile propagazione in altri contesti».
L’importanza delle relazioni e delle “pratiche solidali” fra donne
«Come tutti i nostri progetti», sottolinea Manuela, «anche Un Viaggio per la libertà è nato innanzitutto grazie alle relazioni, alle risorse personali e economiche messe in campo da donne».
Il Trust Nel nome della donna ne è il primo esempio: come racconta Giovanna Foglia, «già in passato ha sostenuto la Casa, finanziandola per alcuni anni quando i fondi pubblici sono venuti a mancare. E oggi» aggiunge «sono entusiasta di questo nuovo progetto. Ho vissuto una vita nomade, viaggiato in molti Paesi, conosciuto tante donne le cui condizioni di vita somigliano a quelle di chi vediamo arrivare in Italia. Le frontiere non mi sono mai piaciute. Ho sempre considerato il mondo un unico, solo pianeta, e quella di potersi muovere una libertà essenziale. Perciò mi sembra molto importante stare al fianco di donne che – per desiderio o forzatamente – cercano di costruirsi un progetto di vita in Paesi diversi dal loro. Insieme a CADMI vogliamo sostenere la loro scelta di libertà, contribuire a far sì che il loro viaggio abbia un esito positivo. E penso sia fondamentale che le donne assumano come pratica politica il supporto anche economico a iniziative intraprese da altre e a realtà come il Trust, per garantire alle “imprese” femminili sostenibilità e durata nel tempo senza dover dipendere dalle istituzioni o da altri».
È quel che hanno fatto anche una madre e le sue tre figlie: grazie a una parte dell’importante donazione che CADMI ha ricevuto da loro, infatti, sarà possibile coprire l’intero budget di spesa del primo anno.
«Come ci auguravamo, però», dice Manuela Ulivi, «anche istituzioni e soggetti privati stanno iniziando a collaborare al nostro progetto e a sostenerlo»: un impegno in questo senso è stato già assunto dalla Prefetta Luciana Lamorgese e da Fondazione Cariplo (quest’ultima attraverso un contributo di 100.000 euro). Altri, come l’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Milano, stanno guardando con interesse a questa nuova esperienza valutando possibili sinergie.
Anche al rapporto con queste istituzioni, sottolinea Ulivi, «ha contribuito la rete di relazioni costruita nel tempo con donne che operano al loro interno, come la Vicesindaca della Città Metropolitana Arianna Censi e la Presidente della Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili del Comune Diana De Marchi».
L’accoglienza come pratica politica femminista
«Come primo passo, preliminare all’avvio del progetto», dice Manuela Ulivi, «nei mesi scorsi abbiamo preso contatti con i CAS e gli SPRAR, e stiamo valutando come organizzarci per gestire il passaggio delle donne che ospiteremo, per evitare che all’uscita dalle strutture si trovino in una “terra di nessuno” o in situazioni di violenza, e possano invece cominciare a riprendere la propria vita nelle loro mani. A seconda della situazione di ciascuna, del suo progetto di vita e del percorso che costruiremo con lei, il periodo di residenza potrà durare da qualche mese a due anni».
Insiste molto, Manuela, su un’idea e una pratica dell’accoglienza centrata sul protagonismo delle donne “ospitate”, sul rispetto della loro autonomia e volontà, e su una modalità di lavoro fondata sull’ascolto, l’attenzione alle singole storie/esperienze, la solidarietà tra donne e la relazione: «elementi da sempre alla base dell’azione di CADMI che – con l’indipendenza – rivendichiamo come nostra specificità di Centro autogestito. Chi opera qui, infatti, compie innanzitutto una scelta politica, e questo fa la differenza: sono donne che hanno elaborato il pensiero e le pratiche del femminismo, quelle che molti anni fa sono state all’origine della nascita di questo luogo».
Questo approccio, sideralmente lontano da quello passivizzante, burocratico e impersonale che connota larga parte delle strutture “ufficiali”, ha orientato anche la ristrutturazione della palazzina, affidata a Emilia Costa, pioniera dell’architettura eco-sostenibile italiana e parte della “squadra” del Trust. Il progetto, spiega infatti Giovanna Foglia, «ha messo al centro la qualità della vita di chi abiterà nella casa. Vedo i Centri in cui chi arriva è tenuta/o come in galera, luoghi recintati in cui si è costretti a vivere tutti insieme in spazi ristretti, senza la minima privacy, e dove spesso manca anche l’indispensabile… Luoghi che ti dicono che non vali più niente. Noi, al contrario, abbiamo voluto ridare dignità a partire dalle condizioni abitative, costruendo una casa accogliente, che non sia solo un tetto, ma un posto in cui vivere bene. L’attenzione per gli aspetti “funzionali” è andata di pari passo con quella per l’agio e per la bellezza. Per questo tra gli spazi comuni ho fortemente voluto anche una “stanza del benessere”: a significare concretamente e simbolicamente che una buona accoglienza e una buona vita non sono fatte solo dello stretto necessario; che l’essenziale – quel che davvero può garantirle – non è il minimo indispensabile per sopravvivere, ma molto di più.
«La stessa cura, declinata anche come responsabilità verso il pianeta e le generazioni future, ha guidato le nostre scelte negli interventi strutturali: abbiamo dato molta importanza ai materiali utilizzati, al tipo di impianti, al risparmio energetico, all’impatto ecologico…».
Adesso che la ristrutturazione è finita, conclude Manuela Ulivi, «Un viaggio per la libertà è pronto a partire. Il nostro desiderio e impegno è quello di aprire la strada a un nuovo modo di fare accoglienza, che sappia anche guardare al futuro di una società davvero inclusiva. E in un tempo in cui intolleranza e razzismo stanno occupando la scena pubblica siamo convinte che un’iniziativa come questa sia più che mai necessaria».
(www.libreriadelledonne.it, 8 settembre 2018)
di Silvia Basso e Lucia Bertell
Per ricordare Lucia Bertell, amica e collaboratrice della Libreria delle donne morta a 54 anni il 30 agosto 2018, riproponiamo online un importante contributo apparso su Via Dogana n. 44-45, settembre 1999.
Questo dialogo, immaginario nella forma ma reale nella sostanza, è frutto della relazione che lega Lucia e Silvia: entrambe trentacinquenni, hanno lasciato il loro precedente impiego per lavorare insieme e con altre. Per loro il lavoro porta il segno di una scommessa: l’impresa. Che è, più e prima che una struttura economica e giuridica, tenere insieme ciò che solitamente – e anche per loro, prima di questa esperienza – rimane separato: il lavoro (e il denaro), la politica, alcune relazioni essenziali.
S. Ci siamo incontrate all’università (a Verona) grazie a un’importante relazione comune con una donna, Tonia, che ha aperto a entrambe un interesse politico per la pratica della differenza. Da lì sono nate in me prima una grande sofferenza per la distanza (di senso) in cui il mio lavoro mi portava, lontana da ciò che avevo cominciato a gustare in quelle nuove relazioni; poi la voglia crescente di trovare il modo per lavorare insieme. Ho riconosciuto subito in Lucia un elemento che ci accomuna: sapere che il lavoro è, per noi ma non solo, un luogo di senso oltre che uno strumento di sussistenza. E di autonomia (le emancipate!). Ma volevamo farne un luogo di libertà; e questo ci ha vincolate l’una all’altra, e all’altra.
Io, che esercitavo il lavoro autonomo, la libera professione, non sopportavo più il carattere tutto strumentale delle relazioni possibili, almeno per me, nel mio ambiente di lavoro.
L. E’ un dato che le donne ricerchino senso e libertà nel lavoro. Noi lo sappiamo e siamo consapevoli di avervi portato pratiche che abbiamo ereditato dal femminismo e dalla politica delle donne. Abbiamo trovato spazi di libertà già simbolicamente significati dalle donne che ci hanno precedute e siamo riuscite a creare luoghi di libertà lì dove abbiamo deciso di scommettere, sperimentando una miscela generatrice di un nuovo inizio, valido per noi, che ci ha messe nella condizione effettiva delle ereditiere. Parlo della miscela che contiene pratiche di relazione di vincolo non strumentale, partire da sè, autogestione ed economia non profit. A Luisa Muraro che dubita ci sia qualcosa di nuovo in tutto ciò rispondiamo con le sue stesse parole, che rispetto al già dato “la sovversione riguarda il modo in cui le cose sono combinate insieme, cioè il loro senso”1.Nel ricercare senso e libertà nel lavoro sperimentiamo questa miscela che ci permette di trovare, grazie all’impresa e alla vita associata data, ripeto, dalle relazioni di vincolo non strumentale, non semplice piacere ma senso e libertà.
S.L’inzio di questa storia coincide con l’uscita di un libro dal titolo emblematico e con un’idea che alcuni uomini della sinistra avanzavano: la fine del lavoro. Sembra che la femminilizzazione abbia coinciso con la fine. Ma di quale lavoro allora si parla, nell’uno e nell’altro caso? Non bastano gli attributi fordista/postfordista a spiegare la diversa posizione che molte donne (e sicuramente più donne che uomini) hanno riguardo al lavoro e a a ciò che vi trovano e vi portano.
L.Infatti noi abbiamo portato le nostre relazioni nel luogo del lavoro e dell’economia. Da questo è nata Mimesis, la nostra impresa, la nostra vita associata.
S.Ma non è stato un movimento inverso? Non abbiamo portato il lavoro tra noi, nelle nostre relazioni? Il frutto di questo movimento è diventato lavoro associato, ciò che noi chiamiamo impresa. Non abbiamo messo denaro per l’avvio: solo lavoro associato. Abbiamo fatto delle nostre relazioni il capitale di rischio di questa impresa, ciò che ne ha permesso la creazione, che ne garantisce la vita e ciò che è messo continuamente in gioco e a repentaglio. Questa era ed è tutta la nostra ricchezza.
L. Sì, è stato un portare il lavoro e la questione economica nelle relazioni. E’ un rischio, un elemento poco compreso o additato come ambiguo dalle donne che ci precedono, perchè è un’invenzione il tenere assieme, nel primum delle relazioni, politica e lavoro. E’ una nuova scommessa, che riguarda noi per prime che interpretiamo la nostra condizione. E’ questo ciò che chiamiamo fare impresa, che non è la stessa dell’imprenditore e dle codice civile, ma una forma che prende il lavoro quando si organizza intorno ad alcune relazioni fondamentali che fanno kairòs degli elementi considerati invece strumentali come l’avere obiettivi, muoversi per progetti o quant’altro. E’ l’irrinunciabile ricerca femminile di libertà l’unica garanzia che le relazioni non siano seconde a nulla, anche se questo può sembrare troppo sfuggente.
S. In noi c’è stata sicuramente una baldanza nel fare questo salto, e non sono mancate e non mancano le difficolà e i rischi. Con questo sappiamo di portarci in un luogo cruciale di contraddizione. Nominerei così la contraddizione per me: cercare di portare tutto l’essenziale là dove so che non può starci, in un luogo nel e dal quale io stessa voglio essere più libera. Io amo lavorare, ma non lavorare molto; quando mi ritrovo a farlo, questo mi provoca disagio e insofferenza. E ne soffrono le mie relazioni, oltre a me. Il rischio è il soffocamento. Non c’è opposizione tra libertà dal e libertà nel lavoro: l’una strada non si dà senza l’altra; ed è possibile, per me, solo in questa forma di lavoro associato. Se in questo periodo, ad esempio, posso godere di più tempo libero per concentrarmi su un’altra occupazione (la tesi di laurea) è solo grazie a una libertà che circola nelle nostre relazioni, che sono la nostra rete organizzativa (è una rete, appunto, non una struttura). E io cerco di restituire la libertà di cui posso godere con la cura che, analogamente, una donna mette nell’ordinare e gestire la vita familiare: è con questo spirito che mi occupo dell’amministrazione della nostra impresa. Con questa cura e questa libertà.
L. Io non parlerei comunque di libertà dal lavoro. Per me cercare la libertà nel lavoro significa trovarla nel vincolo delle nostre relazioni e metterla al lavoro per noi, farla proprio lavorare al posto nostro. Infatti per te mi pare di vedere che è in particolare una relazione quella che ti permette di godere di più tempo libero.
L’impresa viene di volta in volta significata dalla relazione duale come parte della vita associata, che riordina il tutto dell’impresa e ci dà l’opportunità anche di lavorare meno, di liberare spazi, di non appiattirci alla misura del denaro esclusivamente in rapporto al tempo di lavoro. E’ ciò che io nomino come il comunismo di cui non posso fare a meno a partire dalle mie relazioni, ciò che individuo come elemento di resistenza femminile al capitale, che si fa conflittuale al capitale attraverso le pratiche di relazione.
S.Tu parli di un comunismo di cui non puoi fare a meno. Tonia di un capitalismo. Ma di quale profitto si tratta per noi? Per molte donne l’elemento irrinunciabile, il motore e il frutto (di cui magari si gode a sprazzi) del lavoro e dell’impresa è la libertà. Di questa ne vogliamo il più possibile. Sempre ancora…Lì ci vedo l’elemento di resistenza al capitale di cui prima parlavi. E’ una resistenza in senso duplice, proprio a causa dell’ambiguità della nostra posizione: qualcosa dentro di me resiste da un lato a essere ridotta alla logica della mercificazione; dall’altro, a essere portata al lavoro. Io sono tutta nell’impresa, ma qualcosa di essenziale che non sono io ma che mi riguarda resta fuori. E’ un essenziale impersonale, che non dipende da me. E che io ho conosciuto proprio nell’impresa, quando mi sono messa con altre a scommettere sulla possibilità di portarvi la libertà. Ora, ci sono molte cose che mi fanno dire “la mia, la nostra impresa”; ma sono anche certa che questa non dipenda da me, da noi che la facciamo; sono certa che il cuore di questa impresa sia motivo di vita, di movimento, di ricerca, ma la libertà accade quasi per caso ed è “senza perchè”. L.Sembra che la libertà accada a caso, ma sicuramente ci mettiamo nella condizione in cui qualcosa possa accadere. Non è sicuro che accada, non è programmabile e non è sempre a disposizione, ma ci sono situazioni, relazioni direi, che permettono l’accadimento della libertà. La relazione di vincolo è un taglio in cui tutto l’essenziale passa per me. Portarvi il lavoro e il denaro è un rischio, come dicevamo prima, ma la radicalità del tenere al primo posto la relazione di vincolo fa resistenza e confligge, per le forme che ci diamo, con il capitale. Certo non è pacifico: è politico e quindi richiede uno stato di attenzione a ciò che accade perchè le cose non sono guadagnate una volta per tutte. Ma la forza mi viene proprio dal movimento del portare tutto l’essenziale. Compreso il lavoro. Forse è perchè sento che la posta è alta e non posso rinunciare a giocare il tutto per tutto. L’impresa mi garantisce, d’altra parte, perchè non è coincidente con il lavoro quanto piuttosto con un ordine molto più grande.
Silvia Basso, dopo aver lavorato per anni come arredatrice d’interni, ha scelto di riprendere gli studi e ha trovato passione politica nel movimento dell’autoriforma dell’università. Laureanda in filosofia, ha voluto con Lucia e Antonia fare di Mimesis un’impresa no profit e l’ha preferita al lavoro autonomo. Lucia Bertell è una delle fondatrici di Mimesis. Dopo essersi laureata con una tesi sulle imprese femminili autogestite, attualmente è impegnata in una ricerca sul lavoro della lingua materna e le imprese di donne nel conflitto con il capitale.
(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2018)
di Luisa Muraro
Asia Argento è stata vittima di quello che probabilmente era un ricatto da parte del suo giovane amico Jimmy Bennett, e forse anche una trappola da parte di chi non sappiamo. E ora, dopo che lei ha ceduto al ricatto e pagato un risarcimento per un abuso sessuale probabilmente inesistente, e dopo che, per vie anonime, il fatto del pagamento è stato scoperto, visto dai più come un’ammissione di colpa, lei è diventata la vittima della sua ingenuità e del suo scarso discernimento.
Davanti al ricatto di lui (uno che sa come tirare su soldi per vie giudiziarie, cosa che, come attore non gli riesce bene), lei doveva dire no e approfittare dell’occasione per far capire all’opinione pubblica americana un paio di cose.
Primo: la lotta in cui lei si è impegnata, all’insegna del me too, è un passo in avanti della lotta femminista oggi condivisa dalla parte migliore della società americana, e non soltanto, per migliorare i rapporti tra donne e uomini mettendo fine a una cultura di violenza e di prepotenza degli uomini verso le donne.
Secondo: la sessualità maschile e quella femminile sono differenti per i motivi culturali suddetti e per motivi anatomici, per cui è improbabile che un giovanotto quasi adulto, di professione attore, non sappia rispondere alle proposte amorose di una sua amica più vecchia.
La differenza sessuale esiste, anche se il diritto finge d’ignorarla, e i giudici americani lo sanno, così come sanno che è loro compito non applicare meccanicamente la legge ma interpretarla e applicarla caso per caso.
Era rischioso e impegnativo, d’accordo, ma, alla prova dei fatti, non più rischioso del pagare. Ma, soprattutto, ne valeva la pena. Pagare, invece, è stato un cedimento non degno di una donna nella sua posizione politica.
Vengo così all’interrogativo che mi preme di più. Asia Argento ha capito il senso e il valore del suo stesso impegno nella vicenda apertasi con lo scandalo Weinstein? L’hanno capito, a loro volta, le femministe che allora l’hanno sostenuta e ora si tirano indietro?
Non si trattava soltanto di denunciare delle molestie o delle violenze sessuali. Si è trattato di dire pubblicamente basta! e metter la parola fine a un regime ricattatorio di scambi sesso-potere, basato sulla complicità maschile, che alle donne costava, ad alcune una forzata, umiliante, sopportazione e alle altre, quelle che non si esponevano, una beata ignoranza. Ma tutte abbiamo pagato per quel regime, con una grande o piccola perdita di onore e di libertà, anch’io.
Come dicevano nel glorioso Sessantotto? È solo un inizio, la lotta continua. La risposta, a questo punto, è di leggere con intelligenza l’accaduto e non negare la solidarietà né ritirare la simpatia ad Asia Argento. Come qualcuno ha scritto, qualsiasi cosa sia successa tra lei e il giovanotto, non cambia un ette al male patito da donne come lei e come la grande, dolcissima Marilyn Monroe, male che Asia ha denunciato pubblicamente con ammirevole forza d’animo.
(www.libreriadelledonne.it, 27/08/2018)
Fotografia di Paola Mattioli
Care amiche, solidarietà. Non si tratta della sede di un gruppo o di un partito ma della casa delle donne e le donne sono l’umanità. Roma aveva offerto questo luogo alle donne del nostro paese e del mondo. Senza, non sarà più Roma ma una capitale qualsiasi, anzi piccola e meschina. Siamo con voi,
Libreria delle donne di Milano.
(www.libreriadelledonne.it, 26 luglio 2018)
di Cristiana Fischer
Devo mescolare il tema di parlare bene di -alcuni- uomini (serata del 7 luglio ’18 in libreria) con quello delle donne che si fanno ascoltare, VD3 “alla luce di un credito politico crescente”, tenendo conto della battuta che subito affiorerebbe: perché parlano bene degli uomini?
Devo mescolare i due temi del parlare bene e del farsi ascoltare per affrontare le due questioni che pone Lilli Rampello nel suo contributo “C’è autorità della parola femminile sul corpo delle donne. E sul resto?” che sono: 1 che proposta politica possiamo fare in una comunità democratica giunta a essere a rischio? 2. la realtà politica a noi nota è diventata una potente costruzione retorica, efficace, machista e manipolata.
Ebbene io ne parlerei anche male, degli uomini, tranne che di alcuni e per alcuni aspetti. Per esempio di un figlio, di un marito, di un cognato, di alcuni amici, direi che il positivo -per me- prevale sui ben noti lati negativi, non li elencherò. Si tratta di uomini che mi riconoscono libertà e autorità amicale e materna (che riassumerei nell’equilibrio di dare a ciascuno il suo, il comunismo materno di cui sentii da Lia molti anni fa), in vicinanza con quanto scrive Massimo Lizzi “considerare la donna, non solo come l’altra, ma come l’una, e l’uomo come la sua variazione”. Uomini che mi consentono di frequentarli con piacere in reciproco riconoscimento, senza “il passo di fuga del maschio”, perché il materno è sostanzialmente accogliente.
A sinistra invece avevo frequentato ultimamente uomini che non attribuiscono alcun valore alla modalità di autorità amicale e materna in cui mi riconosco, perché il materno lo vedono solo come servizio e quindi automortificazione, e del legame amicale con una donna non sanno proprio che farsene, amici sono tra loro, una donna può essere una *compagna*, una discepola, una pari competitiva. Stavo in un posto, per dire, in cui si svillaneggiò il #metoo, che avrebbe schierato i maschi in un necessario separatismo per paura delle menadi sostenitrici e sostenute dal neoliberismo, e che non riconosceva alcun significato politico nella pratica del partire da sé, quindi me ne andai.
Abbiamo ancora molto da pensare e studiare per capire questa realtà nuova scrive Lilli, e mi pare di capire che vuole soprattutto poter interloquire, criticare, avere cioè la forza di produrre cambiamenti.
Cambiamenti però non solo dirompenti ma anche costruttivi, e come altro impostarli se non ancorandoci ancora di più al nesso autorità libertà che ha coperto ormai una intera generazione di donne, rese capaci di un discorso più ampio e più radicale? Fin che il discorso avrà corso e potrà servire…
(www.libreriadelledonne.it, 20 luglio 2018)
di Massimo Lizzi
Gli amici delle donne sono stati definiti da Luisa Muraro, nella serata della Libreria ad essi dedicata, come una minoranza di uomini sempre comparsa nella storia dell’umanità, caratterizzati dal non aver colmato di sé, né di Dio, la propria intima alterità iscritta nell’evento evolutivo della sessuazione. Nel dibattito, Giordana Masotto ha indicato negli uomini, anche in quelli che considerano migliori le donne, la caratteristica opposta: l’incapacità di riconoscersi parziali, di saper dire, oggi, cosa significhi per loro essere uomini. Questo impedisce, secondo lei, di stabilire una relazione tra i sessi fondata sul riconoscimento della differenza sessuale, senza la quale è impossibile rigenerare il mondo a partire da due soggettività.
In effetti, questa serata della Libreria è capitata in un momento particolare, nel quale gli uomini odierni amici delle donne, o che tali vorrebbero essere, trovano nel movimento delle donne, rispetto ad alcuni anni fa, un’accoglienza più scettica e diffidente, talvolta persino respingente. Alcune femministe hanno rilanciato il separatismo, non solo per formare gruppi di donne, ma anche per proporre l’esclusione degli uomini dalle forme di lotta femministe ispirate a quelle più tradizionalmente maschili, dove la separazione è impraticabile, come le manifestazioni di piazza o i conflitti nelle piazze virtuali dei social media.
Al netto dei toni più estremi, questo orientamento antimaschile ha il suo fondamento. Nella radicalizzazione del dibattito su alcuni temi controversi e sofferti nel femminismo, quali la prostituzione e l’utero in affitto, molti uomini vicini al femminismo rimangono su posizioni ambigue e opportunistiche, o persino ostili, come nel caso dei maschi gay, che fanno della gpa un cavallo di battaglia e pretendono il sostegno delle femministe. Questo avviene dopo che tanta parte del contributo maschile al movimento delle donne si è stabilizzato in una fase di eterno avvio.
In tal modo, gli amici delle donne invece che alleati, si fanno percepire come concorrenti nel dibattito pubblico, che si impossessano del pensiero femminile, senza riconoscere debiti, per soddisfare il proprio narcisismo, oppure peggio si appropriano dei principi di autodeterminazione e di libertà femminile, per giustificare l’asservimento volontario delle donne nella sessualità e nella riproduzione o per mantenere una posizione a rischio di connivenza con gli sfruttatori. D’altra parte, molti uomini antisessisti aderiscono alle vulgate sulle questioni di genere, per sedersi su una visione simmetrica del rapporto tra i sessi ed evitare di fare i conti con l’alterità.
Io stesso sono molto in difficoltà nel riuscire a dare un senso al mio essere uomo. Se provo a cercare qualcosa nei paraggi dello spirito cavalleresco, mi viene detto da più di una donna, che quella è un’altra faccia, forse la più subdola, del patriarcato. Se provo a riconoscere altri tratti che definiscono la mascolinità, come il primato del compito rispetto al legame, dubito che questo sia buono, per il sacrificio che comporta nelle relazioni affettive. Il mio modo di pensare ed esprimermi, logico e schematico, mi vien detto essere tipico degli uomini, distante dal partire da sé, dalla verità soggettiva, dunque artificioso e falso o poco credibile. Qualunque peculiarità maschile mi pare essere negativa e la differenza maschile, in sintesi, viene a coincidere con il passo di fuga del maschio descritto da Nadia Fusini e citato da Luisa Muraro tra i percorsi di lettura della serata: quella sua aggressività univoca, o sessuale o egoistica, che lo rende quell’essere imbecille cioè debole e cieco che è. La mia differenza quindi rimane vuota, con una esitante omologazione al femminile. Una posizione troppo comoda, secondo Giordana Masotto.
In effetti, è molto complicato e confuso, per me, immaginare un futuro nel quale i due sessi siano capaci di relazionarsi nella reciprocità e nel riconoscimento dell’altro, in un conflitto asimmetrico, senza però mai degenerare nella violenza e nella guerra. Preferisco pensare una prospettiva più semplice e ordinata. Forse, più adatta ad un uomo. Per tutto il tempo del patriarcato si è creduto fosse l’uomo l’essere umano principale, la donna una sua variazione. La scienza moderna ci ha confermato che uno dei due sessi è l’umano di base, ma non quello che abbiamo storicamente creduto tale. Nella realtà, noi siamo programmati per essere femmine, cioè per essere il corpo sessuale che genera la vita, poi nello sviluppo del feto accade qualcosa, per cui circa la metà di noi si modifica e diventa maschio. Questa inversione scientifica rispetto alla credenza storica, può suggerire a noi uomini di raddrizzare il senso della relazione tra i sessi, per considerare la donna, non solo come l’altra, ma come l’una, e l’uomo come la sua variazione.
Dunque, invece di un’alleanza tra i sessi nella relazione di differenza, un capovolgimento nella relazione tra i sessi? Ne riparleremo alla Libreria delle donne di Milano, un sabato, il 15 settembre, nella seconda puntata sul parlar bene degli uomini.
(www.libreriadelledonne.it, 13 luglio 2018)
di Libreria delle donne di Milano
Oggi, 5 luglio 2018, è morta, a Milano, nella sua casa, vicino a piazza Vetra, Bice Mauri, socia fondatrice della Libreria delle donne di Milano e sua Ragioniera fino a quando è stata in salute. Si era laureata nella allora giovane facoltà di sociologia di Trento e qui aveva fatto, come si dice, il suo Sessantotto, che ha prolungato con l’impegno femminista, mai abbandonato. Lunga vita a Bice, una vita che continuerà ad alimentarsi con l’affetto del figlio Andrea, della nuora e dei nipotini, da una parte e dall’altra con il ricordo riconoscente delle socie e collaboratrici della Libreria e del Circolo della rosa, fra le quali la sorella Enrica.
Che tipa era? Era nata nel 1937 e cresciuta in Brianza, aveva studiato al Cattaneo, l’Istituto di ragioneria per antonomasia a Milano. Lei ha frequentato le serali perché di giorno faceva le paghe in un’impresa manifatturiera, unica impiegata e unica ragazza con cento operai, come ci raccontava. Aveva le qualità e forse il desiderio di continuare a studiare dopo la laurea. Ma, per senso di responsabilità, passò al mondo del lavoro diventando una stimata libera professionista con uno studio che ha dato lavoro anche ad altre. Alcune di noi la ricordano come una fiscalista affidabile, e molte come un’interlocutrice non accomodante nelle discussioni di politica. Regaliamo un’immagine a chi non l’ha conosciuta di persona: Bice che balla felice e canta “L’uva folgarina” in uno dei primi convegni femministi, a Pinarella di Cervia.
(www.libreriadelledonne.it, 5 luglio 2018)
di Massimo Lizzi
Da iscritto alla CGIL sono deluso dalla posizione favorevole a legalizzare prostituzione e utero in affitto, espressa dall’ufficio nuovi diritti del mio sindacato, per legittimare e tutelare la prima come lavoro sessuale e il secondo come progresso laico e civile a cui tutti devono poter accedere nel proprio paese. Secondo tale ufficio della CGIL, finora non smentito dalla direzione nazionale, prostituzione e gravidanza per altri costituiscono dunque nuovi diritti, mediante i quali, il sindacato, che difende il lavoro dalla logica del profitto e del mercato, accetta di esporre a questa logica niente di meno che la sessualità e la riproduzione umana. Una posizione del genere, potrei comprenderla, senza condividerla, in un’ottica di riduzione del danno o di scelta del male minore, ma i danni e i mali non sono nuovi diritti.
Diritti di chi e a che cosa? Dato un astratto e formale principio di autodeterminazione, pare sia il diritto delle donne a vendere volontariamente servizi sessuali o riproduttivi, definiti servizi proprio per poter essere venduti. Tuttavia, in un mondo egemonizzato dal neoliberismo e condizionato dai retaggi patriarcali, una tale libera scelta diventa facilmente indotta dalle circostanze avverse o dalle aspettative altrui, secondo vari gradi di coercizione. Se molti lavoratori sono oppressi e mercificati, questa è una ragione in più per rifiutare lo sconfinamento definitivo dell’oppressione e della mercificazione, persino oltre i limiti del proprio corpo. Secondo la morale del lavoro come un altro, i centri per l’impiego potrebbero paradossalmente offrire prostituzione o maternità surrogata come opportunità di lavoro e l’eventuale rifiuto delle ragazze essere soggetto a penalizzazioni.
Senza che sia un diritto, la libertà di prostituirsi già esiste. In Italia, non è vietato ad una donna fare sesso in cambio di un compenso. Esiste anche la possibilità di fare un figlio per altri; basta un patto privato tra un uomo e una donna: lei partorisce sotto anonimato e lascia il figlio in ospedale; lui dichiara di essere il padre, lo riconosce, ottiene l’affidamento. Il tutto è già al riparo della legislazione vigente.
Perché allora l’improbabile libertà di vendersi dovrebbe tradursi in un diritto? Si dice, per tutelare la donna dallo stigma, dallo sfruttamento e dalla violenza. Eppure le donne sono già tutelate in quanto persone e cittadine. In questo caso, semmai, il diritto riduce i margini di libertà e di tutela. La donna che vende i cosiddetti servizi sessuali o riproduttivi dovrebbe, nel diritto, sottostare a regole, condizioni, limiti dettati da un contratto o dalla legge. Per esempio dovrebbe essere registrata in quanto venditrice di quei servizi. Questo marchio sarebbe il contrario del superamento dello stigma, che deriva, non da un mancato riconoscimento giuridico, ma dalla funzione servile. Dunque, perché rivendicare nuovi diritti (e relativi obblighi), quando si è già libere di fare senza doveri?
Probabilmente perché tradurre certe libertà in diritti è necessario, non alle donne coinvolte, ma ai loro clienti, committenti, intermediari, imprenditori, assistenti medici e legali, per essere e sentirsi legittimati nel proprio ruolo, veder superato il proprio stigma, ed avere garanzie certe sul rendimento dei servizi gestiti o acquistati. Già l’uso di tali definizioni, asettiche e rispettabili è un effetto della traduzione in diritto.
Inoltre, nel caso della gpa, una parte della committenza, quella delle coppie gay, seppur minoritaria, fa della questione una bandiera, per ottenere dal diritto il riconoscimento di essere tali e quali alle coppie che i reazionari definiscono naturali: unite in matrimonio, obbligate alla fedeltà e geneticamente genitori dei propri figli.
I nuovi diritti della CGIL sanciscono perciò un principio di normalizzazione per le famiglie arcobaleno e una definizione della sessualità femminile e della maternità come servitù volontaria. E della libertà femminile come libertà di mettersi in vendita. Tutto ciò può davvero considerarsi un progresso? Può esserlo per coloro che intendono il progresso come un continuo superamento dei limiti dissociato da qualsiasi valore. Con la prostituzione legalizzata, gli uomini hanno un legittimo e illimitato accesso alla sessualità femminile. Con la legalizzazione della gpa, le persone sterili hanno un legittimo e illimitato accesso alla procreazione. Ma questo progresso si rovescia in un regresso per le persone che, a queste aspettative, devono corrispondere con lo sfruttamento dei propri corpi. E nell’insieme forma una società dove la relazione umana è impoverita, sempre più sostituita dalla mediazione del denaro e della tecnica; dove l’umanità perde la capacità di darsi un senso e tende ad affidarsi alle potenzialità dei soldi e delle macchine, per voler giungere fin dove è possibile e anche oltre, non perché sia giusto o sia un bene, ma solo perché è economicamente e tecnologicamente possibile. Il denaro e la tecnica, non come supporto, ma come bussola dell’umanità.
(www.libreriadelledonne.it, 5 luglio 2018)
Un tale, che si firma Carlo T., ha scritto al Corriere della sera per suggerire al governo di mettere nel suo programma la fine della legge Merlin. Non si risolverebbe la questione, dice, ma le “professioniste del lavoro più antico del mondo” (le virgolette sono di Carlo T.) sarebbero più tutelate… Segue un elenco in crescendo di benefici per le donne. Carlo T. sa in partenza che ciò non risolverebbe la questione, ma in che cosa questa consista, non lo dice. Un mio conoscente, parlando della giustizia dovuta alle donne, mi ha confidato: “il problema, professoressa, è che noi uomini abbiamo questa debolezza” e ha fatto un gesto allusivo della mano al basso-basso ventre. A questo pensava, sotto-sotto, Carlo T.?
Gli risponde Aldo Cazzullo. Detto per inciso, la risposta mi pare un segnale che ai nostri giorni la società maschile sta imparando a parlare bene delle donne, vale a dire: in favore, con cognizione di causa e con intelligenza. Due sono i punti notevoli. Primo: l’elogio di Lina Merlin cui segue un ben motivato no alla proposta del lettore. Secondo: il ricordo degli anarchici che, durante la guerra civile di Spagna, provarono ad abolire la prostituzione e si resero conto che, per riuscirci, “ci voleva una rivoluzione sessuale”.
Aldo Cazzullo commenta che la rivoluzione sessuale c’è stata davvero ma la prostituzione non è scomparsa. A che cosa si riferisce? Per quello che sappiamo, la rivoluzione sessuale è ancora in corso, basta pensare al recente scandalo di Hollywood, un macigno caduto in acque stagnanti con effetti di cui si è parlato e si continuerà a parlare molto. Tra gli effetti, si annuncia anche quello cercato a suo tempo dagli anarchici.
La legge Merlin, giustamente difesa da Aldo Cazzullo, ha una caratteristica ben nota a quelli che devono applicarla: su ciò che accade tra l’uomo che cerca servizi sessuali a pagamento e la donna disposta a questo scambio, non si pronuncia. Che cosa vuol dire questo silenzio? Chi coglie lo spirito della legge Merlin, lo intuisce; chi, in più, conosce la donna che le ha dato il suo nome, non può non saperlo: con il suo silenzio la legge guarda verso la fine della prostituzione.
In questo silenzio ora risuonano le parole di Rachel Moran che, dopo aver passato nella prostituzione la sua prima giovinezza, tra i quindici e i ventidue anni, aiutandosi con la cocaina, è uscita da entrambe le servitù e ha scritto Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione (Paid for. My Journey Through Prostitution, Dublino 2013). Leggendolo, ho pensato: più avanti della legge Merlin c’è solo questo libro. E dopo questo libro, c’è solo la fine della prostituzione. (Luisa Muraro)
Aldo Cazzullo, Perché non ha senso riaprire le case chiuse, Corriere della sera 24 giugno 2018, p. 27.
(www.libreriadelledonne.it, 29 giugno 2018)