di Massimo Lizzi

 

Sul Foglio del 5 marzo 2019, Luigi Manconi prende spunto dal controllo di legittimità costituzionale sulla legge Merlin, per proporre una «parziale e prudente legalizzazione» della prostituzione allo scopo, «non di abolire il male, ma di circoscriverlo», secondo una «concezione profondamente laica dello stato» e la «dottrina cattolica del male minore»; all’opposto «dell’ispirazione pedagogica e disciplinare» della senatrice Lina Merlin che, per liberare le donne prostitute ed educare la coscienza sessuale del cittadino, volle abolire le case chiuse e introdurre reati contro lo sfruttamento della prostituzione, senza però vietarne l’esercizio. Una legge contraddittoria, per l’ex senatore democratico, persuaso che la trasformazione della prostituzione in tanti sotto mercati (donne libere, schiave, minori, trans) richieda ormai politiche differenti: repressive contro la tratta e la prostituzione minorile; di emersione dalla clandestinità, con prelievo fiscale e controlli igienico sanitari nei confronti della prostituzione libera; un principio di riduzione del danno già applicato ad altri fenomeni sociali molto diffusi e oggetto di riprovazione morale: il gioco d’azzardo, il consumo di droghe e alcol.

Fin qui, il testo di Manconi.

In merito alla sua proposta, va detto che se la prostituzione non è vietata dalla legge Merlin, il suo carattere clandestino non dipende dalle limitazioni della legge, ma dalla riprovazione morale. Una norma legittimante non risolverebbe una tale questione come non l’ha risolta nei paesi regolamentaristi; se la norma si proponesse di incoraggiare una morale più liberale assumerebbe proprio quella funzione pedagogica che il senatore attribuisce alla Legge Merlin; solo di segno contrario. Peraltro, la legalizzazione ha tra le sue motivazioni di fondo, non quella di rendere la prostituzione più visibile, bensì quella di toglierla dalla strada, dallo sguardo pubblico, per confinarla nelle case chiuse e in zone rosse. Più che una emersione, una regolamentazione della clandestinità.

Il contenimento del male nell’articolo del Foglio è indefinito e soltanto teorico. L’autore non dice in cosa consiste per lui il male della prostituzione. Quando il male è inequivocabile, nel caso dello sfruttamento minorile o della tratta, egli chiede la repressione, come se volesse abolire e non contenere. Quando la questione è controversa, nel caso del rapporto sessuale retribuito tra adulti consenzienti, egli chiede la legalizzazione. Ma per contenere cosa, visto che dal punto di vista laico-liberale in un simile rapporto non c’è alcun male? Forse egli intende, che legalizzare la prostituzione libera può arginare quella coatta, ma non spiega come e perché possa accadere, nel momento in cui le rappresenta separate.

Rappresentare la prostituzione distinta in sotto mercati può avere senso nell’analisi sociologica, ma non ha riscontro nella realtà, perché i veri beneficiari della legalizzazione (protettori, favoreggiatori, reclutatori, clienti) non fanno distinzioni: tutte le offerte possono trovarsi nello stesso bordello, dove la prostituzione libera e legalizzata finisce per fare da copertina e copertura a tutto il resto. D’altra parte, ipotizzare una prostituzione regolata, riconosciuta, legittimata, vuol dire immaginarsela il più possibile civile, dignitosa, rispettata, tutelata e ben remunerata. In che modo ciò metterebbe un argine alla domanda maschile di prostituzione minorile, esotica, a basso costo, disponibile al sesso non protetto e a pratiche degradanti?

Dal mio punto di vista, la prostituzione è un male perché è violenza: infligge sesso indesiderato, quindi una forma di tortura, in cambio di denaro. È l’uso e il consumo di un essere umano, di una donna, al modo di una sostanza stupefacente, una bevanda alcolica, un giocattolo. Un trattamento deplorato, ma pure considerato normale, tanto che persino nei ragionamenti di una personalità democratica e progressista, che predica politiche differenti per fronteggiare una prostituzione frammentata, poiché puntare su una sola strategia sarebbe un gravissimo errore, ad un certo punto salta fuori il principio della riduzione del danno considerato sempre valido per tutte le situazioni: prostituzione, droga, alcol, gioco d’azzardo. Nonostante le smentite dei paesi che la legalizzazione della prostituzione l’hanno già sperimentata.

Nella prostituzione, il cliente non è una vittima, non è dipendente, e non si fa del male, lo fa lui alla donna prostituita. Ma se una persona, una donna è disposta a sottoporsi a violenza in cambio di un compenso, la sua soggettività non conta? La legge Merlin non glielo vieta, mentre persegue i suoi sfruttatori, e già in questo realizza un equilibrio, il migliore possibile tra il rispetto dell’autodeterminazione e la lotta allo sfruttamento. La situazione invece si sbilancia, se il mancato divieto diventa un’autorizzazione, con l’inevitabile corollario di autorizzare anche coloro che le fanno del male o vogliono aiutarla a farselo fare. Perché lo stato, la società dovrebbero dare una tale autorizzazione? Perché i difensori intellettuali e progressisti di una libera scelta già non vietata, indifferenti alle condizioni e le circostanze in cui matura, insistono nel voler ricevere dalla pubblica autorità una benedizione laica?

 

(www.libreriadelledonne.it, 7 marzo 2019)

di Redazione

L’8 marzo prossimo sarà di lotta o di festa? si chiede Letizia Paolozzi su DeA. Non una di meno, per il terzo anno consecutivo, lancia lo sciopero femminista per l’8 marzo invitando a “interrompere ogni attività lavorativa e di cura, formale o informale, gratuita o retribuita”: una lotta che diventa festa in molte piazze di tutto il mondo.

Informazioni sullo sciopero dell’8 marzo sul sito NUDM.


Comunicato stampa dell’appuntamento milanese.

di Katia Ricci

 

Report dell’incontro nazionale delle Città Vicine alla Libreria delle donne, Milano 17 febbraio 2019

Nella lettera di invito, si dice che prende «l’avvio dalle esperienze e riflessioni pubblicate nel recente numero speciale della rivista “A&P Autogestione e Politica Prima” della MAG di Verona dal titolo Le Città all’opera, dedicato all’omonimo convegno promosso dalle Città Vicine e da Ada teoria femminista lo scorso febbraio a Napoli nei locali di Santa Fede liberata-Bene Comune e della Casa delle donne per la Restituzione-Bene Comune».

L’incontro molto partecipato ha focalizzato la discussione su alcuni temi in particolare: cambiare lo stile di vita verso una maggiore sobrietà e “povertà”; l’importanza di parlare con e ascoltare per innescare trasformazioni e suscitare empatia anche in chi si mostra intollerante verso i migranti; modificare il linguaggio e cercare parole nuove per uscire da forme di odio e di chiusura, usando anche i linguaggi dell’arte; non enfatizzare il tema dei migranti per non prestare il fianco a paure e intolleranze; ripensare la cittadinanza alla luce della differenza sessuale, dei movimenti dei popoli e dell’invecchiamento della popolazione; necessità di fare politica per accorciare le disuguaglianze e lo squilibrio economico, temi abbandonati dalla sinistra. E se il capitalismo ha vinto, imponendosi anche con la dittatura e gli eserciti, bisogna continuare con la buona politica delle donne con piccoli passi, ma grandi vedute.


Gli interventi

Nella sua introduzione, dopo i saluti di apertura di Laura Minguzzi, Maria Castiglioni mette l’accento sulla necessità di aprire varchi fisici e relazionali all’interno delle città perché fondamentale è la fiducia. Nel convegno di Napoli di febbraio del 2018 ha individuato alcuni varchi aperti in città: i beni comuni, le pratiche artistiche e l’attenzione ai nuovi linguaggi, i legami tra donne che creano cambiamento nelle città e conclude con una citazione di Maria Concetta Sala: «Ho accettato di essere sola davanti al mio destino e non riesco ad aprire varchi se non mi adopero per avere relazioni sensate».

Franca Fortunato nella sua introduzione ha ripercorso la storia delle Città Vicine, nate nel 2000, in un incontro stanziale ad Adelfia (Scoglitti-Ragusa), per iniziativa di Città Felice di Catania. Le Città Vicine – il cui logo è dell’artista Donatella Franchi – sono partite dal Sud e, in questi quasi vent’anni, si sono estese al nord fino all’Europa e oltre, mantenendo una delle caratteristiche fondamentali, quella di tenere insieme donne che fanno lavoro di relazione nella città e donne che lavorano direttamente sulla città, stando in prossimità di vicinanza a tutto quello che accade e si muove nelle città, per capirne e coglierne i mutamenti e interrogarne le pratiche. Lungo il percorso si è guardato a città lontane, divenute vicine per affinità di linguaggi, pratiche e progetti politici, come la città di Barcellona e la sua sindaca Ada Colau che parla di città e femminismo, di rifondare l’Europa a partire dalle città; si è guardato a come la presenza delle e dei migranti stava cambiando il volto delle città e alle buone pratiche di convivenza come a Riace. Le Città Vicine hanno creato spazi di riflessione, di scambi di esperienze di donne e di alcuni uomini che nel quotidiano esprimono cura e amore per i contesti, per i territori, per le città e si mettono in gioco e tessono il volto di un’altra Europa da quella dei muri, delle frontiere, dell’austerità e della finanza. Hanno sempre tenuto insieme i binomi città e femminismo, arte e politica, si sono avventurate a ripensare l’economia, a riflettere sul rapporto tra “politica prima” e “politica seconda”, tra “politica della partecipazione” e “politica dell’esserci in prima persona”, sull’autorità femminile al governo delle città. Il lungo percorso delle Città Vicine è testimoniato dai documenti e dagli scritti contenuti sul blog e all’interno del sito “Donne e conoscenza storica” curato da Donatella Massara, e nelle numerose pubblicazioni, libri e atti dei convegni, pubblicati nella rivista della Mag “Autogestione e Politica prima”. Si è deciso di realizzare un Almanacco che raccolga tutta le storia delle Città Vicine, in occasione del ventesimo dalla loro nascita. Il progetto sarà discusso in un incontro di vacanza politica da programmare per questa estate in Calabria o altrove.

Bianca Bottero rileva come anche Milano, città indubbiamente tra i primi posti della vivibilità, presenta delle criticità avendo basato le sue fortune sullo sfruttamento del suolo e sull’autocentramento, impoverendo l’interland. Legge, poi, un documento inviato dagli urbanisti Giorgio Pizziolo e Rita Micarelli.

Katia Ricci ricorda che uno dei temi di cui le Città vicine si sono occupate fin dall’inizio è la creatività e l’arte. Da alcuni anni, insieme alla Merlettaia di Foggia sono state organizzate mostre itineranti di mail art su Immagina che il lavoro, Lampedusa porta della vita, Kintsugi (arte del riparare), Concepire l’infinito e l’ultima (in mostra durante il convegno), Ci deve essere un luogo in comune… tratto da un passo del libro di Antonietta Potente Come un pesce che sta nel mare (ed. Paoline, 2017). Tanti gli interrogativi, le immagini nelle cartoline: il mondo, il mare, il deserto, il ventre di donna, luogo della vita per antonomasia, luoghi nati da donne che elaborano pensieri e linguaggi, che tengono conto della differenza e della singolarità in relazione. Non ci sono luoghi lontani in cui occorre andare, non bisogna necessariamente spingersi lontano per essere se stesse/i e trovare il proprio posto, come ricordano Adele Longo, riproponendo poesie di Emily Dickinson, Vittoria Di Candia, Clelia Iuliani, Donatella Franchi che nella sua cartolina riporta la fotografia di una delle madri di Plaza de Mayo che cucina con addosso un grembiule con il volto del Che, perché la politica è vita vissuta ed è attenzione al quotidiano. Stessa idea della politica nelle cartoline di Cornelia Rosiello, Antonietta Lelario, che mette l’accento sulle pratiche politiche delle donne, come fanno anche Anna Di Salvo, Donata Glori, Clelia Mori e Pina Nuzzo che fa riferimento alla coraggiosa denuncia di Rachel Moran, autrice di Stupro a pagamento. Opere che contengono una posizione politica netta e radicale di un femminismo militante. Per molte e molti il luogo in comune è nella nascita che è l’origine comune, nel legame con la natura, nell’attenzione all’ambiente e nella necessità dell’incontro e di stare nelle relazioni.

Per Stefania Tarantino la situazione del mondo è cambiata dal convegno di Napoli e si è imposta la lingua della forza e della chiusura. Nota che le Città Vicine mettono al centro la fragilità che non è una debolezza, anzi è una forza perché è importante il legame di fiducia anche con chi è lontano per sconfiggere l’attuale narrazione “tossica” degli eventi. È necessario riprendere il discorso di Virginia Woolf nelle Tre ghinee e modificare il modo di vivere, basandolo sulla povertà, che non significa miseria, ma ciò che basta, ricerca dell’essenziale, anche nel pensiero che sia legato alla quotidianità. In un periodo in cui c’è una perdita dell’empatia vivere in povertà significa ricerca “del più profondo”.

All’origine delle città vicine, ricorda Clara Jourdan, c’è una proposta politica di vicinanza tra città a partire dalle relazioni tra donne che le abitano, una mediazione femminile che cambia lo sguardo sulle altre città oltre che sulla propria.

Sandra Bonfiglioli illustra le pratiche del LabMi, pratiche della vita quotidiana in città raccontata da 15 donne alle partecipanti al laboratorio che hanno riflettuto insieme su che cosa si mette in gioco in città nella vita quotidiana di ciascuna.

Pinuccia Barbieri, che abita in una zona pre-periferica, sottolinea la necessità dell’impegno anche individuale e racconta dell’azione che sta svolgendo per recuperare uno spazio degradato ma privato, un’ex tipografia, perché possa diventare una zona verde restituita alla città.

Sull’impegno individuale si è soffermata Marirì Martinengo che grazie alle Città Vicine ha capito che quello che ha fatto a Savona, sua città d’origine, vale a dire la creazione di una biblioteca, è un lavoro politico e non sentimentale.

Anna Di Salvo si dice d’accordo a nominare d’ora in poi “politica” delle Città Vicine, come aveva suggerito Clara Jourdan, invece che “rete”. Pensa sia venuto il tempo di lavorare insieme a tematiche comuni e progetti condivisi pur nel rispetto delle reciproche peculiarità, per esempio l’immigrazione perché attraversa molte/i delle Città Vicine, cercando mediazioni con gli uomini e le donne che rifiutano la presenza dei /delle migranti. È una questione spinosa e bisogna intensificare l’ascolto delle ragioni dell’altra/o e trovare soluzioni e parole che favoriscano la comunicazione e lo scambio per dare corso a una nuova visione di cittadinanza e a un nuovo senso del vivere la città legato alla differenza femminile.

Elisabetta Cibelli riflette sul clima di intolleranza e sullo scritto di Luisa Muraro su Simplicio. Come poter intercettare la sofferenza in chi sostiene certe posizioni intolleranti e come suscitare la loro comprensione? Gli uomini sono usciti dal patriarcato quando hanno capito che c’era una perdita di realtà e di soggettività, dunque è necessario lavorare su questo anche per avvicinare gli intolleranti alla realtà dei migranti. Riporta l’esempio di una donna rifugiata che ha accompagnato in ospedale, dove un medico si è mostrato in un primo momento saccente, non volendo riconoscere la violenza subita dalla donna, ma quando lei gli ha raccontato la condizione della donna, dentro di lui è avvenuto un cambiamento. Non riconoscere la violenza è un’ulteriore violenza fatta non solo a quella donna, ma a tutte. È opportuno lavorare su come innescare una trasformazione nell’altro anche quando è addirittura un nemico. E conclude: «O guadagniamo tutte o nessuna».

Mirella Clausi, riprendendo l’intervento di Elisabetta, osserva come solo i corpi riescono a parlare veramente. Riguardo agli stranieri in città che arrivano per turismo o migrazione, nota che si dà al turismo un’accezione positiva e alla migrazione una negativa, giudizio che si potrebbe capovolgere: ci sono, infatti, città diventate dei ghetti per turisti oltre che per i migranti. Il turismo ha degli aspetti sicuramente positivi, ma omologa le città e provoca una perdita delle relazioni. I migranti possono essere una risorsa, ma se li si ghettizza, si provoca un aumento della delinquenza, come si vede a Catania che è cambiata per quanto riguarda l’accoglienza. Di qui la necessità di collegarsi con altre e altri delle varie associazioni, ma c’è difficoltà a mantenersi integre nella politica delle donne. Nota, però, che avviene qualche cambiamento positivo grazie alle pratiche dell’ascolto, del manifestare affettività e dell’appoggiare il desiderio altrui.

Ada Maria Rossano lamenta la mancanza delle e dei giovani e fa riferimento a quanto sta accadendo in Belgio, in Svizzera e in altre parti dell’Europa del Nord, dove stanno scioperando per l’ambiente, cosa di cui si parla poco.

Per Luisa Muraro il tema dell’emigrazione ha subito un’enfasi e questo porta all’incitamento del razzismo. In realtà l’ostilità xenofoba è verso i poveri, atteggiamento che si può modificare. Suggerisce di non insistere sulla migrazione, ma di spostarsi su altri temi e questioni.

Adriana Sbrogiò racconta che il sindaco di Spinea, dopo aver ascoltato Anna Di Salvo sul tema della cura delle città, ha costituito un gruppo di donne e uomini sulla cura della città. Racconta della costituzione presso la biblioteca del Comune di una sezione riservata ai materiali dell’associazione Identità e differenza di Spinea.

Interviene Diana De Marchi del Comune di Milano, presentando il “modello Milano” che tiene insieme la crescita e l’accoglienza e informando che è stato istituito un registro per chi ha perso il permesso umanitario, in modo da dare loro legalità. Il clima di odio tuttavia esiste e chiede, perciò, di unirsi tra tutti coloro che vogliono reagire al linguaggio di odio e all’indifferenza.

Rahel, che lavora nell’associazione “Cambio passo” che si occupa dei rifugiati, dice che per il colore della sua pelle viene sempre presentata come rappresentante della comunità straniera, lei che è romana di nascita. C’è un problema che riguarda il linguaggio, infatti lei, per esempio, viene classificata come esponente della seconda generazione, pur non essendo immigrata. C’è una povertà di linguaggio che rende difficile l’accoglienza. Invita a individuare ciò che è essenziale, perché ci sono troppe parole sul fenomeno della migrazione e c’è un eccesso di chiacchiere che provoca risposte reattive, a lavorare sul linguaggio, a mischiarci ad altri, e a condividere e convivere. Il termine “migrante” è sbagliato perché serve a indicare una condizione eterna, mentre molti sono residenti e soprattutto non si può parlare in assenza dei protagonisti. Rispetto alla proposta di usare le caserme dismesse per ospitare temporaneamente i migranti, dice di essere contraria perché la temporaneità aggiunge senso di precarietà, invece c’è necessità di una risposta di stabilità.

Giusi Milazzo di Catania ringrazia la MAG per aver pubblicato gli atti del convegno di Napoli di cui riprende due temi. Ridiscutere l’idea di appartenenza alla città e al luogo, sforzandosi di evitare il senso di appartenenza e l’idea di cittadinanza. Ciò che è fondamentale è la relazione e la politica delle donne. Altro tema è quello dei beni comuni: a Catania il progetto di predisporre un luogo per le donne maltrattate e sfrattate si sta concretizzando insieme con altre associazioni secondo l’esempio dei beni comuni. Il progetto è di riutilizzare la zona di un ospedale dismesso per accogliere attività sociali per donne, ma anche per sanità rivolta al sociale e laboratori vari.

Anna Potito racconta che Foggia nelle cronache nazionali è una città terribile per il ghetto di Rignano, dove i lavoratori stranieri vogliono stare anche se viene smantellato periodicamente e ricorda che anche a Saluzzo accadono episodi affini, come testimoniato da GianPiero Bernard. Nel nostro territorio avvengono anche cose buone che non vengono menzionate, per esempio in paesi dell’Appennino come Bovino, Monteleone si sono create situazioni simili a Riace. Quasi di fronte al ghetto di Rignano c’è Casa Sankara, sorto su un terreno pubblico dove famiglie senegalesi hanno costruito un villaggio, cambiando anche coltivazione dal pomodoro alla canapa. Nel centro di accoglienza di Emmaus per sole donne alcune ragazze che vi erano ospitate hanno cominciato a lavorare presso famiglie della città, creando integrazione e scambio. Ci sono medici che hanno costituito una rete di sostegno e di aiuto a persone in difficoltà economiche oltre che ai migranti. Il problema è la povertà. Anche a Foggia c’è il progetto di fare un registro per quanti non hanno il permesso umanitario.

Laura Minguzzi sottolinea l’importanza di modificare il linguaggio e invita a dare voce a chi non ce l’ha. Anche lei ha un senso di perdita di realtà quando esce di casa a Rogoredo e si trova tra i senza tetto. Il nodo irrisolto è anche il nostro, dice, dobbiamo risolverlo. E si chiede: “Voglio la realtà o i soldi?” Questo il problema che si è posta quando è andata via di casa e a Bologna ha scelto la libertà, rifiutando l’agiatezza e affrontando il rischio di vivere.

Carla Maragliano dell’associazione delle Giardiniere parla di un conflitto sorto all’interno del gruppo, perché nonostante una lunga pratica di relazione, si reagisce a volte secondo schemi soliti. Il conflitto è nelle relazioni e non ci si deve scandalizzare perché può essere un arricchimento, quindi non va né evitato né applicato lo schema “io vinco e tu perdi” né va vissuto come un attacco personale, ma tematizzato.

Giordana Masotto sottolinea l’importanza della contrattazione, fondamentale dell’agire insieme come riconoscimento della differenza, per potersi riconoscere come soggetti e per poter agire in comune. Ripensare la cittadinanza è una chiave unificante dei rivolgimenti che stanno accadendo. Una cittadinanza attraversata dalla differenza sessuale, dai movimenti di popolazione, dalla crisi della democrazia rappresentativa. C’è un invecchiamento della popolazione che richiede l’esigenza di ripensare le vite che invecchiano e per questo è necessario impegnarsi nel cambio di civiltà.

Per Simonetta Patanè il tema fondamentale è la convivenza tra le differenze, per cui bisogna lavorare in quanto ci sono molti movimenti che hanno un linguaggio antagonista. Ritiene che seppure le pratiche delle donne stanno passando, quando si raccontano si cade nella povertà di linguaggio. È dunque necessario lavorare sul linguaggio, condividere, convivere e modificarsi, individuando ciò che è essenziale oggi.

Anna Di Salvo si dice d’accordo nel non mettere al centro la questione dei migranti e nel riflettere su come interviene la politica delle donne. Quando sorgono conflitti si deve andare alla contrattazione per una nuova convivenza nelle città. Considera importante il discorso sul linguaggio di Rachel che esorta a non usare la parola “migrante”. Parla di autocoscienza abitativa e che prima della cittadinanza c’è la cittadinanza interiore.

Laura Minguzzi sottolinea che prima della cittadinanza c’è la coscienza dell’abitare qui e ora, coscienza che ha attivato nel LabMi raccontando la sua vita quotidiana nei vari quartieri dove ha abitato a Milano. Qui ha conosciuto situazioni molto diverse, da un aspetto internazionale alla vita in un quartiere virtuale dove abita ora. E riporta esperienze molto interessanti di condivisione che sono alla base della nuova cittadinanza.

Per Stefania Tarantino il neoliberalismo non è solo economico, è un sistema vincente che investe anche le soggettività. Non riconosce più il volto di città accoglienti come Catania e Napoli, città che ha subito una mutazione antropologica fin dal 2006 perché il prestigio, il potere e il denaro costituiscono un modello vincente. Per raggiungerlo vengono usati anche mezzi cruenti, la mafia oggi è penetrata anche al nord. Tutti i mostri che S. Weil aveva individuati oggi sono imperanti. Anche il vicino di casa ha assunto un atteggiamento da camorrista. La politica delle città vicine deve agire su questo immaginario, mettendo in campo la fragilità, nel senso weiliano del termine, che riguarda tutti e la povertà. C’è una triade costituita da camorra, fascismo e neoliberalismo. La degradazione non riguarda solo i migranti ma anche noi, c’è uno sradicamento spirituale da parte di tutte, che comporta una perdita di realtà. Non bisogna lasciare la parola sulle donne né alla tecnologia né alle forme di bullismo e di odio.

Clelia Mori è stata colpita dai riferimenti al corpo e all’arte nel racconto del percorso delle Città vicine, per cui illustra il suo lavoro sulle tute bianche a cui sono state costrette le operaie di Melfi che si macchiavano di sangue mestruale e che sono diventate un’opera d’arte esposte prima a Mestre e poi a Foggia. Di qui una riflessione sul sangue mestruale che è sangue di vita.

Maria Castiglioni, riferendosi al mito di Didone, come racconta Elena Ferrante nella Frantumaglia, fondatrice di città, ricorda le mosse simboliche messe in atto da Didone per fondare la città. Didone prendeva dal culto di Era nel mondo greco il rito dell’immersione della statua per togliere la “lordura del coito”. Ancora oggi nel Kossovo c’è la tradizione di ritornare a casa della madre per tre notti per ripurificarsi. È un’interruzione del mondo patriarcale. Didone fugge da Tiro con la sorella e per costruire Cartagine secondo il mito riesce ad allargare lo spazio che le era stato dato, pari alla pelle di un bue, tagliandola a striscioline. Dilatare e inventare lo spazio è una pratica anche delle Giardiniere. Un’altra pratica delle Giardiniere è parlare con tutti, approfittando del fatto che l’istituzione ha delle porosità. Ricorrono anche ad azioni illegittime, ma lecite, come entrare in spazi vietati.

Per Emilia Costa la città non può vivere senza rapporti in entrata e in uscita con il territorio. Una delle donne che ha parlato nel LabMi ha raccontato della campagna e del rapporto che ha stabilito con l’agricoltura. Attraverso di lei ha capito la necessità di interessarsi della bioagricoltura e di diversificare le colture dei semi del pomodoro e del grano.

Maria Bottero parla della superiorità della donna che consiste nella gestazione e nel mettere al mondo la vita. Il senso mitico profondo della fecondità si lega alla natura. Femminismo ed ecologia sono nate insieme negli anni ’70, per cui è fondamentale riparlare della natura e dell’ambiente.

Marisa Guarneri sente incombente la variabile tempo, per cui se l’istituzione, con cui per la sua attività politica è entrata in relazione, non è porosa e non è disponibile, bisogna fare buchi, altrimenti nell’attesa vincono gli altri. Nei progetti con le istituzioni bisogna guadagnarci qualcosa non solo la relazione con le donne, non solo la soddisfazione personale. Lei ha guadagnato delle amiche. Nella politica si dice attaccata alla pratica delle relazioni e all’affidamento.

Luciana Tavernini si riallaccia al concetto di cittadinanza e parla della sua esperienza: quello che oggi succede con i migranti lei lo ha vissuto, perché è figlia di un profugo e lei stessa migrante, anche se non si è mai percepita così, perché si è sempre sentita cittadina del mondo senza barriere. Che cosa cambia pensarsi cittadina del mondo, che cos’è l’essenziale, la povertà? «Mio figlio, per esempio, dice, si veste al mercatino, ma ha comprato il biglietto di viaggio in Sudamerica alla suocera perché fosse vicina alla figlia che partoriva». In certi momenti è necessario spostarsi e oggi vietare alle persone di spostarsi crea un grande dolore. Non devono esserci barriere perché ne va la salute del mondo.

Loredana Aldegheri nota come il governo attuale ha atteggiamenti di chiusura, anche se lei non ha avuto atteggiamenti negativi nei confronti del governo perché i 5 S rappresentano la parte che è in difficoltà economica, la Lega rappresentava il pezzo di società del Nord più povera simbolicamente, anche se oggi è vicina alla borghesia, insomma gli elettori sono la parte più debole della società. E hanno scelto la via più sbrigativa per risolvere i loro problemi. Sappiamo però che le vie sbrigative non portano a niente. Se questo è vero, c’è una responsabilità di tutte di trovare parole semplici che possano arrivare a queste persone per salvarsi insieme. Altro punto importante è il dato economico: il liberismo ha fallito sulla promessa di benessere per tutti, perché i ricchi sono pochi e i poveri crescono sempre di più e ci sono su questo dati allarmanti. Si è prodotta una diseguaglianza impressionante che la sinistra non combatte più. Noi che apparteniamo alla classe media possiamo fare una scelta di sobrietà, ma dobbiamo ridiscutere i paradigmi del sistema economico.

Luisa Muraro interviene dicendo che il liberismo ha vinto, i movimenti operai sono stati sconfitti, perciò dobbiamo ragionare su altre politiche e sul senso della giustizia. Noi donne abbiamo la forza di non lasciarci sconfiggere.

Lia Cigarini sottolinea l’importanza di nominare le pratiche in modo chiaro, per esempio dire la pratica dell’ascolto anche di quelli che hanno paura e che non riescono ad uscire da soli dalle loro paure, ma possono farlo attraverso la pratica delle relazioni, non accusandoli di fascismo e razzismo, ma provando a parlare con loro. Il migrante è il capro espiatorio della disperazione dei più deboli e dei più poveri. È anche necessario insistere su una politica più efficace della democrazia rappresentativa e trovare parole semplici con cui continuare a “martellare”.

Luisa Muraro ricorda che gli economisti nella crisi del 2008 hanno detto di non essere in grado di concepire alternative perché tutto dipende dalla politica, ma la politica è debole. Il capitalismo ha impiegato secoli per creare il suo sistema, il comunismo è partito di slancio ma ha fallito, noi dobbiamo continuare a fare buona politica come stiamo facendo, ma il “mostro” non si distrugge, anzi noi lo nutriamo e lo sosteniamo altrimenti siamo rovinati e, comunque, quello che trasforma la storia non sono i progetti demiurgici che si sono rivelati avventure rischiose, l’importante è muoversi, perciò bisogna muovere piccoli passi e avere grandi vedute, come dice Teresa D’Avila.

Simonetta Patanè si dice in disaccordo perché come facciamo buona politica possiamo fare buona economia: la politica non deve essere separata dall’ecologia e dall’economia, ma tenere insieme tutti gli aspetti che stanno insieme nelle nostre vite. A Napoli si è parlato della città metropolitana che unifica tutti i territori che hanno percorsi interrotti da discariche, case abbandonate ecc. Occuparsi di migranti significa anche trovare posti di lavoro. L’orientamento verso una nuova civiltà è già politica, la risoluzione dei problemi sta insieme a un orientamento del mondo. Ci sono soluzioni alternative in tutto il mondo, sono magari granelli di sabbia, che però possono interrompere i grandi meccanismi quindi non siamo di fronte al mostro impotenti, ma dobbiamo sottrarre energia, intelligenza.

Filippa Di Marzo pensa che uno dei motori che trasforma è l’economia, le sembra che nelle parole di Luisa Muraro ci sia un senso di impotenza. O la politica delle donne è capace di indicare alternative, o non è possibile trasformare nulla.

Conclude Anna Di Salvo, ringraziando la Libreria delle donne e il Circolo dalla rosa per l’organizzazione e l’ospitalità, saluta le/gli intervenute/i, suggerisce la sospensione momentanea di ogni giudizio e di voler permanere in una pausa di ascolto e di riflessione in merito a quanto è stato detto ed è avvenuto durante il convegno. Infine riferisce di un progetto in fieri condiviso con Elisa Varela Rodriguez dell’Università di Girona (Catalogna), riguardo a un convegno delle Città Vicine da tenersi all’Università di Girona, e di un invito della filosofa Maria Concetta Sala della Biblioteca UDI delle donne di Palermo a presentare in un incontro allargato, da tenersi alla Casa Mediterranea, il numero speciale della rivista A.P. della MAG di Verona Le Città all’opera.

Ringraziamo Stefania Giannotti, Nanni Di Salle e Blanca Jaime per l’ottimo buffet speciale studiato per la giornata, per amore della politica delle Città Vicine e per le donne tutte.

I video integrali del convegno sono pubblicati qui:

https://www.youtube.com/watch?v=9MFI0ue8D3k

https://www.youtube.com/watch?v=I8XH48kbrag


(www.libreriadelledonne.it, 26 febbraio 2019)

di María-Milagros Rivera Garretas

 

La Comunità di storia vivente della Libreria delle donne di Milano, che esiste dal 2006, ha pubblicato alla fine del 2018 il suo ultimo libro: La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, (Moretti & Vitali). “Storia vivente” è un’invenzione simbolica di Marirì Martinengo che ha liberato la narrazione storica dalle ideologie, siano di destra, di sinistra o di centro. Questo vuol dire che la narrazione storica si è liberata, finalmente, dal potere sociale e si è trasformata in ciò che sempre desiderava essere: l’espressione scritta del vissuto, senza l’intervento di teorie interpretative che sostituiscono il vissuto con l’interpretazione. Chi si ricorda della vecchia coppia “euristica/ermeneutica”? Quasi nessuna/o. Terminato il patriarcato, la Storia non può continuare ad essere la stessa.

La storia vivente è una pratica. Una pratica per esplorare il sentire dei vissuti profondi della storica, decifrarli e collegarli con la storia che scrive. Si è detto che “tutta la storia è storia contemporanea” perché fa storia ciò che interessa al presente. Si intendeva che ciò che interessava al presente era ciò che aveva potere sociale. La storia vivente fa la rivoluzione di dire e mostrare che ciò che interessa al presente, a ogni presente, è il sentire dei vissuti di donne e uomini che viviamo nel mondo e sono vissuti costitutivi dell’essere. La storica, esplorando e decifrando i suoi vissuti, discerne quelli che sono significativi per lei e comuni nel suo contesto relazionale, nel suo mondo e, forse, nel mondo. L’autenticità sta dentro di sé, non fuori di sé.
La pratica della storia vivente si fa in relazioni duali o in piccoli gruppi composti da relazioni duali. “Il mondo interiore,” – scrive Marina Santini, una delle autrici de La spirale del tempo – “ciò che altri e altre hanno depositato nelle nostre vite è quel sentire profondo non considerato nella narrazione storica, che invece per noi è il fondamento. Vogliamo che l’esperienza soggettiva, anche se non è documentabile secondo criteri storiografici tradizionali ma è parte della vita di ciascuna e ciascuno di noi, sia considerata storia. Si tratta di compiere un doppio movimento: un’immersione profonda in sé che faccia affiorare una verità soggettiva e la offra alle altre che, riconoscendola e aiutando a illuminarla, permettano di renderla pubblica” (p. 126).
La pratica in relazione impedisce che il vissuto sperimentato e sentito sia inghiottito o usurpato dall’interpretazione ideologica. Ne schiva il giudizio e il linguaggio. Come? Essendo, come è, l’esperienza inespugnabile (Joan Scott).
Vedo un nesso tra la pratica della storia vivente e l’autocoscienza così come la intese Carla Lonzi nel femminismo degli anni Settanta del secolo XX. Nel Secondo Manifesto di Rivolta Femminile. Io dico io, scrisse: “L’autocoscienza è l’altra”, idea difficile che si capisce meglio in contesto: “Perché l’autocoscienza è stata fraintesa e abbandonata in molti gruppi che dicono di averla fatta senza averla fatta? Perché si è considerato un passo avanti l’averla sostituita con la pratica dell’inconscio? Perché nella cultura maschile e nei suoi derivati al femminile nessuno capisce niente dell’espressione di sé in quanto tale. […] E questo chiamo autocoscienza: fare in modo che chi parla prenda coscienza che trovare se stesso è riconoscersi nell’espressione di sé, che non esiste verità al di fuori, nell’adesione o nell’uso di chiavi interpretative” (Carla Lonzi, “Mito della proposta culturale”, in M. Lonzi, A. Jaquinta, C. Lonzi, La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta femminile 9, 1978, p.146 e p.147).
Vedo un nesso tra la pratica della storia vivente e l’autenticità, che è per me il maggior lascito ricevuto da Carla Lonzi. C’è Storia senza autenticità?

 

(“La historia viviente: la autoconciencia es la otra”, in Textos políticos. Llenando el mundo de otras palabras. Duoda. Centro de Mujeres, Universidad de Barcelona, 6/2/2019, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/1/236/ Traduzione dallo spagnolo di Luciana Tavernini)

(www.libreriadelledonne.it, 14 febbraio 2019)

(9/3/1937-7/2/2019)

 

Ci siamo incontrate nel lontano 1977, facevamo insieme un turno in Libreria. Ci ha unito il disagio e l’estraneità che provavamo nel contesto intorno a noi, un contesto apparentemente privilegiato.
Giovanna diceva di sé, partiva dal suo vissuto personale per entrare in relazione, sapeva ascoltare con delicata partecipazione le tante donne che, a quel tempo, entravano in libreria per raccontare il loro malessere, le loro insofferenze ma anche i tanti progetti e iniziative. Con molte di loro ha intessuto relazioni profonde che sono durate nel tempo, donne con cui condivideva vari interessi provandosi in situazioni ed esperienze nuove.
Insieme frequentavamo il gruppo politico del giovedì, andavamo a convegni e iniziative politiche della Libreria anche in altre città, a mostre di amiche artiste, a trovare la nostra amica Bibi all’ospedale; insieme ci davamo forza per ritagliarci sempre più spazi di libertà. Stavamo bene e quando uscì il Sottosopra rosso “Un filo di felicità”, eh sì, ci siamo dette, è proprio così anche per noi!
Amava leggere romanzi, era interessata alla psicanalisi, alla filosofia, ma soprattutto alla politica delle donne. Sosteneva fortemente il progetto e l’impresa della Libreria, amava questo luogo di creatività femminile in cui si riconosceva profondamente. Non è mai mancata nel suo turno in libreria, spazio fisico ma anche interiore da cui attingeva energia e senso, da cui poteva allontanarsi e ritornare per agire nel mondo.
Ma quale mondo per lei se non quello dei suoi affetti più cari, della sua famiglia? Unire le due parti di sé, ricomporre la frattura, trovare il modo di stare e far stare bene era diventato un suo progetto di vita. Districare, modificare legami famigliari è una impresa lunga e ardua, bisogna volerlo fortemente con tanta pazienza amore e determinazione. È una scommessa alta.
Durante la cerimonia funebre, molto commovente e seguita con sentita partecipazione, la figlia, le due giovani nipoti e la nuora hanno parlato di Giovanna riconoscendola come perno e rifermento di tutta la famiglia, hanno detto dell’esempio di vita libera che ha saputo dare e che non andrà perduto, dei tanti rapporti con le amiche come parte di sé, del bene e dell’affetto che ha saputo trasmettere e ricevere.
Renata Dionigi

 

Giovanna, era anche poesia, nostalgia, mancanza
Parole che dicano di te, di noi
parole che sanno di vita, di tua presenza,
come il suono delle stelle.
Il tuo sguardo Giovanna, restituiva, in un lampo di luce
testa, cuore, stomaco, come lumi di esistenza
profonda.
Antonia Panico

 

Cara Giovanna,
sei nell’Altrove
nella Luce
nello Spazio Infinito
dove gli Angeli
cantano per Te
per consolarti
degli ultimi sconsolati
Anni.
Con affetto, nel ricordo,
LeoNilde

 

Ho conosciuto Giovanna all’inizio degli anni Ottanta. Il mio rapporto con la Libreria delle donne e con il pensiero della differenza è iniziato proprio grazie a lei, tanto che per me tornare in questo luogo senza poterla rivedere significa provare ogni volta il senso della perdita. Giovanna è stata, e nel mio ricordo rimarrà sempre, l’amica di tutta una vita, perché nel nostro legame c’era un’assoluta reciprocità di riconoscimento, di fiducia e di affetto, di grandissimo affetto. Era molto bella e naturalmente elegante, eppure mai altezzosa, invece sempre gentile e dolce con tutte noi e con ogni persona che le si rivolgesse per chiedere un libro o per qualunque altro motivo. Non erano di cielo solo i suoi occhi: tutto in lei lo era, pur nel dolore. E io non posso che pensarla in questo azzurro. Graziella B.

 

Di Giovanna mi porterò il suo sorriso e la sua capacità di ascolto. Anna Maria Di Ciommo

 

Giovanna,
amica dolce,
sorella.
Ci hai lasciate.
Ora puoi finalmente correre
serena e veloce fra le  nuvole
per raggiungere le tue adorate stelle.
Ciao Giovanna,
mandaci ogni giorno un sorriso
con i tuoi occhi di cielo.
Sarai sempre nel mio, nei nostri cuori Ciao…Vera B.

 

Conobbi Giovanna che ero una ragazza poco più che ventenne. Fu un incontro alchemico, trasformativo. Mi accolse nella sua vita e per suo tramite conobbi le donne della libreria: Lia, Luisa, Renata, Bibi e le altre. Fu per me la scoperta di un nuovo mondo fatto di libertà di pensiero e di azioni. Divenni socia della Libreria delle donne. Di Giovanna amai subito quella sua eleganza innata, riservata, forse timida, ma evocatrice di profondità e intelligenza, sempre gentile. Era anche capace di una fermezza al limite della rigidità quando si trattava di  proteggere se stessa o coloro ai quali teneva. Acuta, sempre curiosa e grande lettrice, mi parlò di scrittrici e poetesse. Iniziai ad appassionarmi alla lettura di Freud, Lacan e Jung – che lei amava – e, sostenuta dal suo affetto, mi laureai e mi specializzai in psicologia analitica. Amavamo viaggiare; insieme, una o due volte all’anno, visitavamo l’Europa. La nostra meta preferita era la Provenza. La lavanda, i campi di girasole, il mare in lontananza. Aveva una dignità e un’ironia perfettamente bilanciate: le risate accompagnavano sovente i nostri incontri così come il piacere della discussione e della parola. Cene, buon vino, serate al cinema, mostre. Il nostro era uno scambio di felicità possibili. Certo era anche una donna responsabile e molto attenta alla sua famiglia, con affetto e pazienza si mostrava presente, in particolare modo con i nipoti. Imparai anche la cura. Sono grata della sua presenza nella mia vita, il legame che sento è ineffabile e leggero eppure per sempre solido e indistruttibile.
Fabiola S.

A word is dead
When it is said
Some say.
I say it just
Begins to live
That day.
Emily Dickinson

(www.libreriadelledonne.it, 12 febbraio 2019)

di Sara Gandini

Laura Boldrini su Fanpage.it (Intervista a Laura Boldrini: “Condanna Camiciottoli è uno spartiacque per i diritti in rete”) ha commentato la recente sentenza del tribunale di Savona in cui il sindaco è stato condannato per la violenza espressa in rete nei suoi confronti. “È uno spartiacque, perché stabilisce che la rete non è più una zona franca. Quello che avviene sul web è paragonabile a quello che avviene nel mondo reale, non c’è distinzione” afferma la Boldrini.
In sostanza ribadisce che quello che accade in rete, sui social, è realtà. D’altronde il femminismo ci ha insegnato che attraverso le parole passa il simbolico e le donne sui social ci stanno perché amano stare in relazione soprattutto attraverso la parola.

Sappiamo che stare in rete non è la stessa cosa che stare in relazione in presenza, perché qui lo scambio ha una magia diversa: permette ai conflitti di trasformarsi meno facilmente in guerra, e alla politica di non diventare automaticamente schieramento. Per questo uomini e donne di potere, che hanno la necessità di attaccare e denigrare le figure di autorità, manipolano le parole altrui e si fanno forza dell’aggressività tipica di chi ha davanti un video e non l’interlocutore.

Mi colpiscono particolarmente le parole di Boldrini perché la sua esperienza è anche mia. Sono presente nel web da una ventina d’anni e anche a me è capitato che le mie parole siano state manipolate nello scambio con una donna, estratte dal contesto del mio articolo, a un fine puramente denigratorio e aggressivo, che usciva dai confini di un sano conflitto politico. In un commento sulla sua bacheca un uomo è arrivato, indisturbato, ad augurarmi di subire violenza.

Ringrazio quindi la Boldrini quando afferma: “Se augurare lo stupro a un’avversaria venisse considerato normale saremmo già oltre il punto di non ritorno. Io ho lavorato per tanti anni nei contesti di guerra. Ho visto l’utilizzo dello stupro come mezzo per sopraffare un’avversaria politica. L’ho visto in Ruanda e nei Balcani, ma lì c’era la guerra. Pensare che in Italia questo potesse essere considerato ‘libertà d’espressione’ in un’aula di tribunale sarebbe stato come uscire da un assetto democratico”.

Non credo nelle vie giudiziarie per risolvere i conflitti, ma se “la parola giusta ha in sé il potere della realtà” (VD3) è importante cominciare a dire la verità su quello che accade in rete, anche quando accade con donne che si dichiarano femministe. Anche perché la rete è un luogo in cui i conflitti possono degenerare ma allo stesso modo è un luogo che può potenziare la rabbia e l’agire delle donne, come è successo con il #metoo. Le donne stanno mostrando di saper stare in questi luoghi in modo efficace e le pratiche politiche violente vanno raccontate anche quando ci riguardano da vicino. Mi rendo conto solo ora che una sorta di senso di pudore (tipico delle vittime di violenza), di desiderio di protezione nei confronti della libreria delle donne (ero amministratrice e creatrice del gruppo della libreria delle donne su facebook), e del femminismo in generale, mi avevano trattenuto dal nominare in pubblico questa vicenda. Ma come ho imparato dalle femministe, prima delle prese di posizioni ciò che conta sono le pratiche politiche. E ringrazio Boldrini per avermi dato forza.

(www.libreriadelledonne.it, 18 gennaio 2019)


Buongiorno,

Dopo un periodo di pausa dalla ricerca per motivi familiari sto finalmente riprendendo la raccolta dati per la mia tesi di dottorato in sociologia, sul femminismo nella zona di Milano. Eravamo già state in contatto ormai un anno fa – non so se ricordate – in ogni caso, mi piacerebbe molto riprendere anche lo studio del vostro gruppo femminista. In particolare, sto cercando donne che sarebbero disponibili per farsi intervistare. Le interviste durano indicativamente da 2 a 3 ore massimo (suddivisibili anche in due o più incontri), e mirano a ricostruire il percorso di avvicinamento a, e di impegno nel femminismo dell’intervistata, quindi una sorta di storia della sua vita politica.

Sarebbe possibile in qualche modo diffondere la richiesta di partecipazione tra chi frequenta la Libreria delle Donne, in modo che chi fosse interessata a partecipare ad una intervista possa mettersi in contatto direttamente con me?

 

Vi ringrazio in anticipo per l’aiuto,

Cari saluti

Emma Eriksson Maggi

emma.e.maggi@gmail.com


Nota della redazione: la storia bisogna scriverla tutte, ciascuna impegnandosi a raccontare il proprio percorso
.

di Clara Jourdan

 

Sono preoccupata. Sempre di più compare, e anche in bocca a vecchie femministe che da decenni lottano per il senso libero della differenza sessuale, la parola “genere” dovunque si parli di questioni che riguardano i rapporti tra i sessi, ormai all’ordine del giorno in tutti i contesti: “pregiudizio di genere”, per esempio, e perfino “violenza di genere”. Eppure, nei “pregiudizi di genere” si tratta di pregiudizi di uomini e purtroppo anche di donne contro le donne. E nella “violenza di genere” si tratta di violenza maschile contro le donne. Dunque in questi casi (e non solo) “di genere” sta al posto di “contro le donne”, o di “maschile contro le donne”. Ma perché non parlare chiaro? Mi è stato detto che sono espressioni tradotte letteralmente da documenti internazionali, si sa come fa la burocrazia, prendiamole come formule per intenderci… Eh no! In realtà il “genere” usato così serve a nascondere le cose, sono vere e proprie politiche, anche linguistiche, volte a neutralizzare le questioni, a farne problemi di tipo solo culturale, insinuando che le differenze siano di per sé discriminatorie e vadano eliminate il più possibile. E più precisamente, “di genere” significa che è la differenza di essere donna a dover restare nascosta, a non doversi far notare, per il buon funzionamento del sistema liberista. Altro che libertà femminile! Perciò non possiamo prendere alla leggera queste espressioni e seguire la corrente: sono controproducenti per tutte e tutti, non solo per le femministe e per gli uomini di buona volontà. In tema di violenza e di pregiudizi, poi, queste formule ambigue inducono a sottovalutare i problemi, dato che anche le femministe hanno pregiudizi contro gli uomini e ci sono pure donne che picchiano gli uomini: così si svia l’attenzione dal grave problema messo in luce dicendo “contro le donne”.

Non è una parola proibita, “genere”, ci sono contesti in cui si può usare e va usata quando è necessario, innanzitutto nella grammatica. Il nuovo significato per cui è stato introdotto nella lingua inglese il “gender”, in italiano andrebbe tradotto con “genere sessuale” (*), che si potrebbe intendere come il nome della rappresentazione che l’identità sessuale riceve in una cultura e attribuisce rispettivamente a maschi e femmine. Ma essere creature sessuate non inchioda alle rappresentazioni e ai ruoli sociali, con il femminismo abbiamo scoperto che ci può essere una ricerca libera del senso della differenza sessuale. Per non tornare indietro bisogna evitare l’automatismo e il non pensare. Come ha detto un arcivescovo, siamo autorizzati a pensare.

 

*Nota: Lo ha segnalato Olivia Guaraldo (vedi Luisa Muraro, Un tentativo di fare chiarezza nelle confuse polemiche intorno alla cosiddetta teoria del cosiddetto genere, 26 settembre 2015, http://www.libreriadelledonne.it/un-tentativo-di-fare-chiarezza-nelle-confuse-polemiche-intorno-alla-cosiddetta-teoria-del-cosiddetto-genere/)

 

(www.libreriadelledonne.it, 21 dicembre 2018)

di Bianca Bottero

 

Se esistesse una rubrica con questo titolo su Via Dogana o sul sito scriverei: Ho sfortunatamente assistito ieri a una intervista di tale Formigli a Virginia Raggi: aggressiva, grossolana priva di un minimo di cavalleria (Luisa Muraro docet) come per es. chiederle: “come sta il suo bambino? Ha tempo per lui oltre che per i rifiuti di Roma?” Di contro lei, affilata, sempre comunque gentile e ferma e capace anche di ironia sulle sue grandi orecchie di cui la stampa così spesso la deride… veniva voglia di abbracciarla e di portarla via al più presto.

 

(www.libreriadelledonne.it, 14 dicembre 2018)

di Marina Terragni

 

Oggi si è tenuta a Palazzo Marino la prima seduta della Commissione consiliare sulla trascrizione dei “due padri”. La seconda seduta si terrà venerdì 14 dalle 13 alle 14.30.
L’aula commissioni era affollatissima, molto folta la rappresentanza di Famiglie Arcobaleno che ha battuto e ribattuto in un gran numero di interventi sul tasto dei diritti dei bambini.
Vale la pena di ricordare che un bambino registrato con il solo padre biologico non è affatto un “fantasma senza diritti”, argomento forte della retorica Rainbow. Un’altra balla grossolana, dopo quella del “dono”.
Così come i figli di donne sole, senza un padre al fianco, hanno sempre e pienamente goduto di tutti i diritti di cittadinanza – sanità, scuola e via dicendo – anche i figli registrati unicamente con il padre biologico non sono deprivati di alcun diritto.
Il compagno del padre biologico – o la compagna, nel caso di coppia eterosessuale – può accedere all’adozione del bambino o stepchild – lo ha fatto recentemente Nichi Vendola – senza pretendere di essere registrato in origine come l’“altro padre”. Due uomini non fanno figli.
Se una “ragazza madre” vuole che il suo compagno, che non è padre biologico del bambino, sia riconosciuto nella sua funzione paterna, può consentirgli di adottare.
Non vi è ragione alcuna perché ai “due padri” sia riservata una corsia preferenziale: si tratterebbe di una discriminazione positiva in base all’orientamento sessuale, in violazione dell’art. 3 della Costituzione che ci vuole uguali davanti alla legge.
Del resto in Francia, in Spagna, in Svezia, dove pure è riconosciuto il matrimonio omosessuale, i due padri non vengono registrati: si registra solo il padre biologico, l’altro può accedere ad adozione, rispettando il diritto del bambino alla verità sulle proprie origini.
Famiglie Arcobaleno contrasta fortemente questa soluzione, e chiede invece il riconoscimento all’anagrafe di una impossibile fantasia di omofecondità.
In quanto Rete contro l’utero in affitto abbiamo esposto molti argomenti, rappresentando peraltro l’opinione della maggioranza della popolazione italiana, come da sondaggio realizzato in crowdfunding un anno fa: trovate i nostri interventi nei filmati che abbiamo condiviso.
Aggiungiamo solo alcune notizie, anche piuttosto sconcertanti: l’Assessora ai Servizi civici Roberta Cocco ha comunicato che attualmente ci sono 4 coppie di “padri” che hanno fatto ricorso a utero in affitto e che chiedono di essere registrati.
Ha aggiunto che viste le recenti sentenze che ordinano la trascrizione, non si ritiene di “dover far perdere altro tempo ai Tribunali” e altri soldi a queste coppie, e si pensa quindi di passare a trascrivere tout court.
Ci ha altresì informato del fatto che gli atti di nascita registrati nei paesi dove questi “padri” hanno acquistato ovociti e affittato uteri non contengono l’indicazione di chi sia il padre biologico: basterebbe la richiesta da parte delle nostre anagrafi di un semplice test del Dna – così, come detto, si fa in Spagna, in Svezia, in Francia – e invece a questi bambini, commettendo uno straordinario sopruso e violando un diritto riconosciuto da ogni Convenzione internazionale sui diritti dei minori, non solo viene tolta la madre ma viene perfino negata la verità sulle proprie origini – verità che ha anche rilevanza dal punto di vista sanitario – per non disturbare la fantasiosa narrazione sull’omofecondità dei “due padri”.
Questo appare mostruoso perché almeno in linea teorica, come verificatosi nel caso dei coniugi Campanelli e in altri casi di Gpa realizzata in particolare in Ucraina, i bambini potrebbero non avere ALCUN legame genetico con i committenti, ed essere stati semplicemente acquistati da una donna povera messa incinta da chissà chi.
Noi non crediamo che il Comune di Milano possa intraprendere questa strada di profonda ingiustizia e continueremo a lottare per i diritti delle donne e dei bambini che il business del biomercato riduce a mezzi di produzione e a merce.

 

(www.libreriadelledonne.it, 12 dicembre 2018)

di Luisa Muraro

 

Da qualche anno, insieme ad altre e altri partecipo alla riflessione sul tema della maternità surrogata, detta anche gravidanza per altri (GPA) o, più polemicamente, utero in affitto. Infatti, c’è bisogno di riflessione e non si può sempre evitare che ci sia polemica. Ma facciamo il possibile perché la qualità dell’informazione sia salva: la richiesta di notizie chiare su questo tema sta crescendo.

La notizia data dal Corriere della sera del 28 novembre, già in prima pagina, con il titolo “Papà gay la battaglia vinta”, a mio giudizio non ha questa caratteristica. Io ritengo anzi che contribuisca a fare confusione e che in ciò il quotidiano abbia mancato a un suo preciso dovere.

In quest’articolo, per cominciare, si parla di procreazione medicalmente assistita (PMA), che è autorizzata e regolata, e non si parla invece mai di GPA, una pratica medica e un commercio che sono esplicitamente vietati dalla legge. Ma è proprio quest’ultima che si trova al centro della questione! Infatti, in che cosa consiste la battaglia vinta dai papà gay? Che il Comune di Milano ora deve fare quello che prima non voleva fare, registrare una nascita resa possibile dal ricorso alla GPA. La cosa viene detta nell’articolo, ma in termini tali per cui il lettore dovrebbe, primo essere già informato della questione di fondo e poi fare un’operazione mentale per concludere: ah, di questo si tratta!

In quest’articolo, inoltre, leggiamo che le gemelline (la cui registrazione anagrafica era stata sospesa), sono nate (in California) da due uomini, testuali parole. La cosa è ovviamente impossibile, ma il Tribunale di Milano, come sappiamo dall’articolo, ha ordinato al Comune di registrarla all’anagrafe. Io ho commentato dentro di me: battaglia vinta contro il buon senso comune e contro la verità scientifica. Purtroppo non è la prima volta che capita.

In quel medesimo articolo, però, troviamo la spiegazione del prodigio californiano. Consiste in una complicata operazione chirurgica su due corpi femminili, fatta per distruggere la relazione materna e ottenere la gestazione e il parto di creature di cui i due uomini possono immaginarsi esclusivi generatori e genitori.

Nell’articolo c’è anche una specie di spiegazione giuridica: il Tribunale di Milano dice di seguire (e impone al Comune di seguire) una sedicente “linea transnazionale” che, in questa materia, paesi come la Francia non seguono.

Lascio a chi mi legge di giudicare dalla lettura dell’articolo che sto contestando. E proprio per questo chiedo al sito della Libreria delle donne di pubblicarlo qui di seguito. Aggiungo un altro particolare di mala informazione. Nell’articolo, in un passaggio cruciale, si parla di “due ovuli donati da una donna anonima”. Qui si sfiora babbo natale: qualche volta capita, ma non si può passarci sopra come se niente fosse, gli ovuli femminili sono merce pregiata (mi scuso per la parola “merce”), e hanno un mercato.

E allora, adesso, le gemelline? Appunto, di loro si tratta alla fin fine. A loro e alle due donne anonime dobbiamo rispondere di quello che facciamo e diciamo.

 

(www.libreriadelledonne.it, 6 dicembre 2018)

 

Pubblichiamo di seguito l’articolo del Corriere della sera del 28 novembre 2018

 

Papà gay, la battaglia vinta

Nate negli Usa. I giudici: Milano trascriva l’atto, è la linea transnazionale

di Luigi Ferrarella

Per «contrarietà all’ordine pubblico» il Comune di Milano rifiuta la trascrizione di due gemelle nate negli Stati Uniti da due uomini, ma il Tribunale ordina di farlo alla luce «dei principi fondamentali comuni ai diversi ordinamenti».

Cosa è «contrario all’ordine pubblico»? In cosa consiste questo unico limite alla trascrizione o meno in Italia degli atti di nascita di bambini nati da persone dello stesso sesso in Paesi che ammettono forme di procreazione medicalmente assistita non contemplate in Italia dal legislatore? Sinora era un «limite di sbarramento alla circolazione in Italia di istituti giuridici stranieri». Ma ora l’ottava sezione civile del Tribunale di Milano sposa una lettura più transnazionale, parametrata sui «principi fondamentali» basati «su esigenze di tutela dei diritti dell’uomo e comuni ai diversi ordinamenti, nonché collocati a un livello superiore alla legislazione ordinaria». E su questa base ordina al Comune di Milano di fare ciò che come ufficiale di Stato civile aveva rifiutato: trascrivere l’atto di nascita di due gemelle nate meno di un anno fa in California da due uomini italiani ricorsi alla fecondazione di due ovuli donati da una donna anonima, e poi all’impianto e alla gestazione nell’utero di un’altra donna con la quale si erano accordati in base al diritto di famiglia californiano.

La coppia, insieme da 10 anni e unitasi civilmente in un Comune lombardo, aveva scelto gli Usa per la fecondazione di due ovuli, uno contenente il 50% del patrimonio genetico di uno dei due uomini e il 50% della donatrice anonima dell’ovulo, e l’altro contenente il 50% del patrimonio genetico dell’altro uomo e il 50% della donatrice.

Con l’impianto in un’altra donna gestante, nel 2017 nascono due gemelle: i genitori, che non avevano voluto sapere (tramite test) quale fosse biologicamente figlia dell’uno o dell’altro, al rientro in Italia chiedono al Comune di Milano la trascrizione dell’atto di nascita delle bimbe cittadine statunitensi, firmato in California con l’indicazione dei due uomini come genitori e senza menzione della gestante. Il Comune motiva però il rigetto con la necessità di attendere (tra pochi mesi) le Sezioni Unite della Cassazione proprio sulla nozione di «contrarietà all’ordine pubblico» in un caso simile.

Ma ora il Tribunale (relatore Enrica Manfredini, a latere Paola Corbetta e Maria Rita Cordova) da «una sorta di giudizio “preventivo e virtuale”» di compatibilità con la Costituzione desume che il fatto che i due uomini vengano «riconosciuti genitori delle piccole, nonostante abbiano ciascuno un legame biologico con una soltanto delle minori, non può ritenersi lesivo di principi superiori», visto che il quadro normativo e giurisprudenziale «internazionale, comunitario e interno tende a valorizzare sempre meno questo legame, in favore di altri aspetti della maternità/paternità correlati al consenso, alla volontarietà e all’assunzione della responsabilità genitoriale». In Italia il legislatore non ha previsto la stepchild adoption, ma per il Tribunale ciò non fa ritenere la genitorialità dello stesso sesso «contraria all’“ordine pubblico”, dal momento che non solo all’estero essa è pacificamente prevista e tutelata, ma anche in Italia ha ormai trovato riconoscimenti in recenti pronunce giurisprudenziali sulla base dell’interesse del minore», tra l’altro «non esistendo dati scientifici che attestino la rilevanza dell’orientamento sessuale dei genitori sul benessere dei figli».

(Corriere della sera, 28 novembre 2018)

di Silvana Ferrari

 

Il prossimo 10 dicembre si svolgerà a Stoccolma la cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Pace 2018 assegnato a Denis Mukwege e a Nadia Murad «per il loro impegno nel mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma sistematica in guerra e nei conflitti armati.»

Denis Mukwege, ha spiegato l’Accademia svedese nell’annunciare la premiazione, «è un medico che ha trascorso gran parte della sua vita aiutando le vittime delle violenze sessuali nella Repubblica Democratica del Congo.

Mukwege e il suo staff hanno curato migliaia di vittime. Il ginecologo ha ripetutamente condannato l’impunità per gli stupri di massa e ha criticato il governo congolese e quelli di altri Paesi per non aver fatto abbastanza per fermare l’uso della violenza sessuale contro le donne come arma di guerra.»

Nadia Murad è una giovane donna yazida «vittima e testimone di crimini di guerra. Ha rifiutato di accettare i codici sociali che impongono alle donne di rimanere in silenzio e vergognarsi degli abusi a cui sono state sottoposte. Ha mostrato un coraggio raro nel raccontare le sue stesse sofferenze e nel parlare per conto di altre vittime.»

Nel 2014 i miliziani dell’Isis arrivarono a Kocho, il villaggio dove Murad abitava, nell’Iraq settentrionale, e la rapirono insieme ad altre ragazze e bambini. Nadia dopo torture indicibili riuscì a scappare, come racconta nella sua autobiografia L’ultima ragazza (Mondadori 2017).

Divenuta ambasciatrice di Buona Volontà delle Nazioni Unite, premiata dall’Unione Europea con il premio Sakharov, la giovane persegue con tenacia il duplice obiettivo di divulgare il più possibile lo sterminio di migliaia di yazidi e di veder processati i suoi aguzzini come Abu Omar, il famigerato Barba Bianca, affinché «nessuna più al mondo viva ciò che ha passato lei»

In coincidenza con il Nobel esce nelle sale, dal 6 al 12 dicembre, il documentario di Alexandria Bombach, Sulle sue spalle (On Her Shoulders), ritratto di Nadia Murad, una giovane donna coraggiosa che combatte affinché la memoria sulle atrocità di cui è stata vittima e testimone non siano dimenticate

 

(www.libreriadelledonne.it, 6 dicembre 2018)

Misoginia terminale e protagonismo politico femminile


 

La civiltà è nelle mani delle donne – pagina facebook


In un tempo come questo, in cui tante cose vanno male e alcune bene -in particolare per le donne- abbiamo pensato di chiamare un grande incontro.

Di vederci, noi donne, noi femministe, per ragionare nel modo più libero e ampio sulla miseria di una politica sempre più misogina.

La politica non può essere più a lungo la cosa scadente che vediamo, e della sapienza femminile il mondo ha sempre più bisogno: una corrispondenza che ci chiama a un passo avanti necessario e indifferibile.

Proprio in questo tempo abbiamo la formidabile opportunità di consolidare l’“altrove” politico che già vive nel fermento nella società femminile legata in una rete di relazioni e di scambi: la presa di coscienza globale nel MeToo; gruppi, aggregazioni e imprese di ogni tipo; collettivi di “resistenza” sui vari fronti: utero in affitto, prostituzione e tratta, ddl Pillon, violenza maschile e mascheramenti queer, invasività del biomercato.

Resistere non basta più.

Si tratta di giocare intensamente nel campo politico la differenza femminile, individuando e rivisitando forme, figure, dispositivi che lo rendano possibile.

Questo è un appello e un invito: incontriamoci per discutere insieme
1° dicembre 2018, a Roma
Casa Internazionale delle Donne
Sala Carla Lonzi, h 10.45-17.45

Ilaria Baldini, Paola Bassino Martinetto, Alessandra Bocchetti, Sandra Bonfiglioli, Zina Borgini, Annarosa Buttarelli, Giovanna Camertoni, Lia Cigarini, Laura Corradi, Valeria Damiani, Daniela Danna, Daniela Dioguardi, Lucia Giansiracusa, Cristina Gramolini, Marisa Guarneri, Luisa Muraro, Pina Nuzzo, Monica Ricci Sargentini, Sara Rinaudo, Marina Terragni, Vittoria Tola, Roberta Trucco, Stella Zaltieri Pirola

Per firmare scrivere a convocazioneprimodicembre@gmail.com 

precisando se è una semplice adesione o ci sarà partecipazione fisica.



(
www.libreriadelledonne.it, 15 ottobre 2018)

di Luisa Muraro

 

Care amiche e colleghe, condivido il vostro giudizio che questo è un momento della storia che chiede un accresciuto impegno. Voi lo chiamate impegno “civile” ma lo presentate in termini per cui io lo chiamo e lo considero un impegno politico.

Intendo fare la mia parte, anzi pretendo di essermi già impegnata da anni, da quando cioè ho assistito all’affermazione del leghismo nelle regioni del Veneto (di cui sono originaria) e della Lombardia, sull’onda di una diffusa ostilità popolare nei confronti degli immigrati in cerca di condizioni di vita migliori.

Sono d’accordo con voi che le ragioni d’impegnarsi stanno diventando gravi e pressanti. Sono convinta, come voi, che dalle donne emergano oggi stimoli e proposte importanti. Tuttavia non mi unisco a voi perché ho motivo di pensare che il mio impegno non corrisponda al vostro, senza essere in alcun modo contrario. Voi denunciate e vi opponete alle nuove forme di populismo, razzismo e fascismo: come potrei dissentire?

Il mio impegno è più circoscritto. È la difesa di Simplicio: sicuramente riconoscete l’origine di questo nome (si trova nel Dialogo dei massimi sistemi). Il nome è stato usato recentemente per etichettare le persone che si oppongono all’immigrazione perché ignorano le leggi dello sviluppo economico. Il mio impegno è cominciato dieci anni fa con la critica di quegli intellettuali di sinistra che denunciavano il razzismo invece di ascoltare i motivi della xenofobia e capire quello che stava succedendo. E che poi è successo. Oggi è diventato l’impegno di ascoltare quello che vogliono dire i molti che, senza essere leghisti, hanno votato per la Lega, e capire quello che sta succedendo in Italia e nel mondo. Ne ho parlato in occasione del grande seminario di Diotima, Università di Verona, il 5 ottobre 2018.

Per tornare al vostro messaggio: io penso che il populismo, il razzismo e il fascismo siano reazioni, indubbiamente temibili, alle conseguenze di un progresso mutilato nella sua razionalità, squilibrato nelle sue prospettive e iniquo nel suo funzionamento. C’è stato un tempo in cui il capitalismo aveva bisogno della democrazia, oggi purtroppo è la democrazia che ha bisogno del capitalismo. Ma voi, contro ogni tentazione di scoraggiamento, mi ricordate che possiamo contare sulla grande corrente positiva di un amore femminile della libertà, che cresce. Sì, e in questo io sono con voi.

 

(www.libreriadelledonne.it, 23 novembre 2018)


Ciao, la parte del sito in cui riportate articoli è una rassegna stampa o è una proposta di lettura di articoli che almeno in parte condividete? Perché se avete pubblicato «Transiberiana»* nella prima ottica, niente da dire (anche se mi aspetterei comunque un’aggiunta di criticità a una vostra rassegna stampa “dicono di noi”) mentre se vi piace forse vi sfuggono alcune cose: terf è un insulto, usato spesso in connessione con le parole “I kill terf” o altre simili ‘diversamente pacifiche’; vogliamo parlare di femministe contro transgender (e già si capisce da dove partirebbe l’attacco e quindi il torto, in questa ricostruzione quanto meno fantasiosa di fatti che la giornalista non descrive), dove sono allora le voci delle femministe così accusate? come si fa a continuare con la stupida accusa di transfobia a un’associazione che da decenni ammette le trans tra le sue socie? Vi è sfuggita l’iniziativa nell’ambito del pride 2018 «Quattro elementi» organizzata da Arcilesbica e con due trans invitati a parlare? Strano, perché alcune di voi c’erano. Che cosa esattamente condividete di questo articolo infamante verso arcilesbica e le femministe?

Saluti.

Daniela Danna

* http://www.libreriadelledonne.it/trans-siberiana-la-guerra-fredda-tra-femministe-e-mtf-e-scoppiata-davvero/



Cara Danna, abbiamo pubblicato nella sezione Dalla stampa l’articolo cui ti riferisci, apparso su Marie Claire,
Trans-siberiana, la guerra fredda tra femministe e mtf è scoppiata davvero?, dopo averlo letto e discusso in redazione. È vero che il pezzo contiene inesattezze e forzature nella prima parte ma lo abbiamo pubblicato perché le risposte di Monica Romano in poche righe chiariscono alcuni nodi importanti. Ad esempio ricollocano questa “guerra fredda” nei paesi anglosassoni dove è nata e ridimensionano il riflesso che è giunto in Europa. Inoltre la Romano si dice femminista e distingue tra femminismo e “frange terf” (femminismo radicale trans escludente), acronimo usato come insulto, che non si può attribuire alle femministe in generale e tanto meno in Italia. Significativo anche che lei rilevi la misoginia di molti gay nel movimento Lgbt e che sottolinei la necessità di un’unità contro il patriarcato tra donne e donne transgender. Punti importanti che di certo non si pretende esauriscano il dibattito in merito.

Quanto all’evento i “Quattro elementi” organizzati da AL, non ci è affatto sfuggito, anzi è stato plaudito come un segno politico importante e necessario, di sicuro da quelle di noi presenti.

Saluti, a presto.

Stefania per la redazione del sito

(www.libreriadelledonne.it, 9 novembre 2018)

di Cristiana Fischer

Perrault pubblica la fiaba di Barbablù allo scoccare del 1700. Mia nonna, veneziana di Corfù, instancabilmente mi raccontava infinite versioni della stessa fiaba: l’uomo potente, la giovane sposa, l’ordine di non indagare il suo segreto, la sposa-bambina salvata. Blu notte è la barba, un buio che affascina come l’inconscio e il sesso con lo sposo. Egli possiede un grande spazio aperto e organizzato, in cui la sposa si muove alla luce del sole, sempre al suo fianco. Ma c’è anche un piccolo spazio chiuso, e una piccola chiave di accesso, se lei la userà incontrerà la morte.
Desirée, come molte spose in famiglia o altre in diverse circostanze, è stata uccisa in una zona extraterritoriale nel centro di Roma. Ci sono diverse zone di extraterritorialità, dove gruppi criminali fanno la legge e regolano a loro modo i rapporti tra i maschi e le femmine. Mafia e ’ndrangheta governano famiglie e lavoro in larghe zone del nostro paese, dove lo stato è quasi ritirato. Su strade e strade la mafia nigeriana mette al lavoro le sue donne.
Nella fiaba di Perrault la giovane sposa è salvata da due suoi fratelli, e alla fine eredita e diventa ricca. Se la fiaba in generale parla del sesso con l’uomo quella di Perrault ne parla in modo contraddittorio: c’è il blu affascinante e pericoloso dell’incontro con la sessualità maschile, ma ci sono anche i fratelli biondi e arditi della sposa che uccidono con le spade (sublimate dal tabù dell’incesto), una sessualità di rapina e possesso, inaugurando il diritto della successione e dei beni.
Alcuni commenti maschili sui fatti che hanno condotto alla morte Desirée richiamano la consapevolezza della vicinanza tra sesso e morte e invitano a lavorare sull’inconscio. Mi ricordano i fratelli: anch’essi con spade di parola – sia pure troppo tardi – intendono non solo vincere Barbablù ma anche uccidere il Barbablù dentro di loro.

Nella nostra cultura individuale dell’uguaglianza si farebbe quindi luce – non sul sesso ma sul rapporto tra uomini e donne. In questi rapporti le donne entrano come singole, mentre gli uomini stuprano in gruppo, o a volte uccidono lei e poi si denunciano e si consegnano, tanto si sentono in compagnia della legge! D’altra parte i fratelli che vorrebbero garantire le donne e chiamarle ad allearsi non riescono a rendere libero il territorio, non a sciogliere i modelli familiari mafiosi – perché con le mafie fanno affari, anche con quella nigeriana dato che usano i servizi delle loro donne. I fratelli illuminati e illuministi non riescono a regolare il mercato liberista, in cui tutto si vende all’impronta, perché non possiedono misure certe di valore. Tocca ancora al femminismo indicare terreni comuni da fertilizzare.

(www.libreriadelledonne.it, 9 novembre 2018)

di María-Milagros Rivera Garretas

 

In un notiziario molto seguito, diceva stamattina una sindacalista che i permessi di maternità “penalizzano sempre la stessa, la madre”; e che per questo bisogna darli della medesima durata anche al padre. Gli errori di pensiero di questo calibro, Simone Weil li ha chiamati quasi un secolo fa “errori di epistemologia”. E ha scritto: la capacità civilizzatrice di una civiltà si misura con gli errori di epistemologia in cui tale civiltà non mette la gente. Che una donna dica che i permessi di maternità bisogna darli anche – e uguali e, in caso, intrasferibili – al padre, è un errore di epistemologia. Un errore che fa spavento perché mette a nudo ancora una volta la poca capacità civilizzatrice della nostra cultura occidentale alla fine del patriarcato. Alcune donne, per paura e per alienazione, tentano di puntellare ciò che resta del patriarcato, invece di dire la propria verità, la verità delle donne.

È una penalizzazione per una madre stare con la sua bambina o il suo bambino, baciarla, allattarla, mettere via la sveglia e crescerla a suo gusto e ritmo? È la sua liberazione uscire di corsa a lavorare, lasciandola in mano a chiunque, un soldato, un padre…? È liberatorio per una madre ripetere gli errori della feroce competitività maschile nel mercato del lavoro? No. Mi dispiace. La competenza, in particolare quella femminile, è civilizzatrice perché è competenza simbolica, di senso; la competitività, no.

Nel libro L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto (2016) Luisa Muraro ha scritto che il “permesso” di maternità è degradante per una donna. Fermati un istante prima di pensare che è pazza. È una verità come un tempio, di quelle che, come i templi, danno un taglio nel terreno e improvvisamente aprono a qualcosa di sacro, adesso a una nuova civiltà, occidentale o non che sia. Non abbiamo bisogno, né le madri né le donne, di permessi maschili, né di maternità né di niente. Abbiamo bisogno di essere in pace quello che siamo: le signore del gioco della civiltà. È il mercato del lavoro che deve adattarsi alla maternità e all’essere donna, ai nostri gusti e modi, non la maternità né la libertà femminile al mercato del lavoro. Ancor meno quando la natalità è come è, coerentemente.

Noi donne vogliamo e necessitiamo il doppio sì: sì al lavoro pagato, sì alla maternità, ciascuno dei sì tutto intero, ciascuno dei due sì un tutto. Assurdo? No, non per una donna, che ha la capacità di essere due. Risulta assurdo solo alla testa razionale di un piccolo razionalista, di un piccolo patriarca, o di una donna deportata in tale sgradevole posto. Il lavoro non è più Dio.

Le donne hanno una propria produttività. È produttività di vita e di relazioni. Fa mondo e sostiene il mondo già fatto, rinnovandolo continuamente con la nascita e riaggiustandolo seppellendo i suoi morti. Ha la propria misura di valore del tempo e della ricchezza, una misura a cui il denaro, la ripetizione e la fretta stanno stretti.

Ha il proprio eccedente e il proprio plusvalore, che è l’autorità femminile, quel “di più” generato dalle relazioni, paradigmaticamente la relazione tra madre e figlia e tra madre e figlio, relazioni diverse, ciascuna con il proprio andare e la propria trascendenza. È un delitto e una stupidità perseguitarla o considerarla una condanna.

(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan. Testo originale: El permiso de maternidad ¿es degradante para una mujer?, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/1/229/, 30 ottobre 2018.)

di Luisa Muraro

 

Cari giudici, andate a leggervi il commento fatto da Miryam Camilleri, presidente della Rete Lenford, in appoggio al vostro decreto che ordina di attribuire due padri a una bambina nata negli Usa con la maternità surrogata. Dice la Camilleri: “Non conta come si diventa genitori”. Secondo questa signora, che sicuramente non parla a vanvera, sarebbe questo il vostro messaggio: non conta come si diventa genitori. Con i soldi? Con la violenza? Con l’inganno?

Non è questo che dice la legge, ma questo è il messaggio che si ricava dalla vostra sentenza. Cari giudici, imparate a non seguire gli interessi di parte né gli umori viscerali di un’opinione pubblica informata a metà. Non usate il bene del minore come un pretesto. Imparate a interpretare la legge e ad applicarla come si deve, senza creare conflitti che non fanno giustizia ma disordine.

 

(www.libreriadelledonne.it, 26 ottobre 2018)

di Renata Sarfati

 

Nel maggio del 2017 ho fatto un viaggio in Iran. Per una felice coincidenza, nello stesso periodo si svolgeva a Teheran la Fiera Internazionale del Libro dove l’Italia partecipava come “paese ospite d’onore”. Cosa che abbiamo appreso solo sull’aereo, dove abbiamo incontrato alcuni della delegazione italiana. Chiacchierando con loro, abbiamo notato che erano un po’ preoccupati per la delicatezza della loro posizione. L’Italia era il primo paese occidentale ad essere stato invitato come ospite d’onore e questo fatto aveva una valenza simbolica, culturale e politica.

Il tema della manifestazione era suggestivo: Bellezza senza tempo, tema che ben si adatta all’Italia non meno che all’Iran.

Nel corso del viaggio ho scoperto un paese dove la bellezza e l’armonia sono presenti ovunque: nei grandi monumenti preislamici e islamici o nei siti archeologici quali Persepoli, dove la storia ti viene addosso e ti lascia a bocca aperta.

Questa grande civiltà si può intuire nella grazia e la gentilezza delle persone che si incontrano nei bazar, per la strada, nel loro desiderio di comunicare con lo straniero, di aprirci al senso di quello che vediamo. In particolare sono le donne di questo paese ad essere sorprendenti: è evidente anche al turista che hanno messo in atto una rivoluzione silenziosa. Si vedono in giro baldanzose e sempre eleganti, in gruppo nei caffè e nei ristoranti con grande allegria. Nonostante i vari divieti nei loro confronti, hanno imposto in molti ambiti la loro libertà di disattenderli. Il loro livello culturale è alto e, come ci diceva la nostra guida, molte convivono senza sposarsi o vivono da sole. Lei stessa ne era un esempio.

Vorrei qui dire perché la presenza dell’Iran al salone del libro di Torino sarebbe secondo me una straordinaria opportunità.

Opportunità di conoscere una grande cultura e occasione per dare una risposta a una politica che con la demonizzazione e l’umiliazione ha saputo solo seminare distruzione.

Infine, mi ha commosso l’amore degli iraniani per la poesia, così diffuso a livello popolare che quando devono festeggiare un qualche evento felice è loro consuetudine fare un pellegrinaggio alla tomba del più grande e amato poeta, portando fiori alla sua tomba e soffermandovisi a lungo con allegria.

(www.libreriadelledonne.it, 26 ottobre 2018)

di Giancarla Dapporto

Pensando al coraggio e alla determinazione e alla forza di Ilaria Cucchi nel portare avanti la sua battaglia per ottenere la verità sulla morte del fratello Stefano, mi appare un’immagine antica, coscienza dell’umana stirpe: Antigone, personaggio intramontabile del mito greco. Nel pamphlet «Sputiamo su Hegel» Carla Lonzi critica l’interpretazione che il filosofo dà alla figura di Antigone, che assurgerebbe al “sentore” dello Spirito, in quanto custode dell’istanza della Famiglia, contrapposta all’istanza della Comunità.

Per me la luminosa figura etica, da molti anni cara al mio cuore*, agisce per istanze interiori, principi culturali, appresi nei millenni.

Antigone piange il fratello ucciso e gli dà sepoltura disobbedendo al decreto del re Creonte che vuole lasciarne il cadavere sulla nuda terra in pasto a cani ed uccelli.

Antigone si ribella al potere del tiranno in nome della Pietas, di leggi eterne non scritte, che non si sa quando apparvero, ma che diedero inizio alla civiltà come seppellire i morti, accogliere gli stranieri, salvare i naufraghi, rispettare i prigionieri, non infierire sui vinti, accudire gli orfani, nutrire gli affamati, curare gli ammalati che attualmente sono i principi delle Carte Costituzionali di molti paesi democratici.

Mentre le leggi degli umani sono effimere e possono cambiare da un giorno all’altro secondo le ideologie dei governi in carica e sovvertire diritti fondamentali acquisiti nel corso della storia da cittadine e cittadini con sudore e sangue.

Trascinato in carcere in custodia cautelare, il giovane Stefano Cucchi (accusato di spaccio di droga), sofferente di epilessia e fisicamente prostrato, subisce sevizie così gravi da perdere la vita.

Ilaria Cucchi da nove anni si appella alla Legge accusandola di non avere onorato il codice che prevede il rispetto, la cura e la rieducazione del detenuto. Si batte per ottenere chiarezza e verità sull’assassinio di suo fratello, perché venga riconosciuta da tutti la ferocia primordiale dell’abuso di potere. In questo modo scardina il sistema di silenzi, di omertà, di falsità inique annidate nelle gerarchie di Istituzioni che dovrebbero difenderci.

Come Antigone, Ilaria Cucchi non si batte solo per amore del fratello, ma per tutti noi. Combatte per noi una battaglia esemplare di civiltà.

Grazie Ilaria!

(www.libreriadelledonne.it, 26 ottobre 2018)