di Laura Colombo
Ho letto con attenzione e interesse l’intervista a Francesca Fialdini uscita su Digitalic dello scorso maggio. Digitalic, oltre a essere un sito e un magazine online, è una rivista cartacea molto bella e molto ben curata, che ha la tecnologia nel suo DNA e nella sua visione del mondo: passa dalla tecnologia il pensiero sull’innovazione, il design e il business. Francesco Marino, direttore della rivista, scrive che Digitalic è “nata con l’obiettivo di far capire nel profondo la centralità delle tecnologie digitali e delle persone che le producono, le distribuiscono, le personalizzano. È la rivista innovativa nata per gli innovatori”.
Riprendo l’intervista a Francesca Fialdini (@francifialdini su Instagram e Twitter), fatta da Ilaria Galateria, perché ci sono alcuni punti degni di interesse che sarebbe molto utile poter approfondire con lei e così le faccio alcune domande in questa sorta di lettera aperta che la rete può aiutarci a farle recapitare.
A proposito di Instagram, il social più seguito da lei, Francesca dice: “A volte mi capita di controllare i commenti che le persone lasciano sui miei profili ma so anche quando è il momento di staccare e riappropriarmi del mio tempo”. Come sai qual è il momento di staccare e perché oltrepassare la soglia significa alienarsi il tempo? Come spiegheresti a un marziano (non digital, naturalmente) la necessità di regolarsi e il bisogno di una misura? Qual è la tua misura salvifica?
Parlando dell’innovazione tecnologica Francesca dice che è “un’opportunità da saper governare”. Quali opportunità vedi nella tecnologia?
L’intervistatrice parla della trasformazione radicale nella vita professionale, personale, relazionale indotta dalla tecnologia e Francesca commenta accennando alla “necessità di gestire con consapevolezza queste profonde trasformazioni”. In che modo? Hai una tua strada verso la consapevolezza, una via che ci puoi raccontare?
Rispondi drasticamente alla domanda sul lato oscuro del web, dandoci una pillola di saggezza antica: il male non è nelle cose, è nel cuore degli esseri umani. In questo modo difendi la rete e fai intendere che la tua vera preoccupazione è a un altro livello. Invece l’opinione prevalente è che la potenza della rete induca in molti risposte scellerate. E però. La tua risposta è giusta. Troppo giusta. Puoi dirci qualcosa di più su questi tuoi crucci, che riguardano la dimensione umana ed esistenziale e sembrano riferirsi a una forma differente di convivenza?
(www.libreriadelledonne.it, 12/7/2019)
di Luisa Muraro
Rai Storia (canale 54) ha pensato di trasmettere un documentario sul femminismo, un’oretta scarsa in seconda serata. Né più né meno. Non sul femminismo di questi anni o delle origini, né di questo o quel paese, né per qualche motivo di novità o di svolta, in relazione a qualche tema o problema… no, nessuna precisa impostazione. Eppure, si tratta di un movimento che sta diventando globale e in Europa esiste, come nome, come realtà storica e come idea politica, da duecento anni e ha una lunga storia, sia pure intermittente, anche in Italia. E riguarda una dimensione dell’essere umano che è di prima grandezza: il fatto biologico della sessuazione, e il come si traduca nella storia e nelle culture.
Mah. Finalmente il documentario va in onda sabato 29 giugno 2019 alle ore 23, con questo titolo: “Femminismo!” E io sono ancora qui a chiedermi: che cosa vuol dire quel punto esclamativo? Piacevole sorpresa, spavento, oppure meraviglia, ma per che cosa? richiamo, grido di dolore, invocazione… Chi lo sa. La presentazione della guida TV non aiuta a trovare la risposta. Annuncia il racconto di una stagione lontana di conquiste che le ragazze di oggi considerano acquisite ma che si possono invece perdere, perché la storia va avanti e indietro. Come se la storia fosse un pendolo. Ad ogni buon conto le ragazze sono avvertite, anzi minacciate.
Su quell’oretta scarsa (nella quale compaio anch’io, mi hanno detto) ho ascoltato giudizi negativi; io non dico niente perché sabato 29 giugno ero occupata altrimenti, ero a Macerata per l’avvio della nuova stagione di un ciclo di conferenze, Non a voce sola, ideato da donne molto brave, femministe non della mia generazione né ragazze, donne dell’età di mezzo, nel pieno delle loro forze. Ci sono anche loro, anzi, ci sono soprattutto loro, lo dico per le più giovani: i guadagni del femminismo sono in buone mani, non giocate in difesa.
Quanto a Rai Storia, mi pare giusto aggiungere: si può fare meglio, ma avete una scusante, che raccontare il femminismo non è per niente facile.
(www.libreriadelledonne.it, 4 luglio 2019)
di Luisa Muraro
Introduzione al Convegno femminista CAMBIO DI CIVILTÀ, Milano, sabato 18 maggio 2019.
Ben arrivate alla Fabbrica del vapore, nella mostra Vetrine di libertà. Per chi ha viaggiato questo posto è un meraviglioso punto d’arrivo. E anche di partenza. Domani si riparte.
A volte, per ragionare sul femminismo, mi aiuto pensando a due altri grandi movimenti di cui conosco la storia, il comunismo e il cristianesimo.
È un confronto istruttivo, mi suggerisce parecchie idee ma per essere breve segnalo solo due punti in cui vedo una eccellenza del femminismo. Sono: – farsi mondo senza cancellare le differenze; – espandersi nel tempo e nello spazio senza farsi usare dal potere (o: senza diventare potere).
Il femminismo che ci ha portate fin qui, a questo incontro, è cominciato in tempi migliori di questi, gli anni Sessanta. “I meravigliosi anni Sessanta”, li chiamava Iris Murdoch, filosofa e romanziera di lingua inglese.
I tempi sono cambiati. Quanto? quanto basta perché si debba parlare di un cambio di civiltà, cioè molto. A viverlo da dentro (guardate che nessuno ne è fuori, nessuno) il cambiamento si vede e non si vede, ma fa paura. Eppure, ogni tanto io mi sento di poter dire che il cielo mi ha regalato una vecchiaia felice. L’impresa della mia vita fiorisce.
I fattori principali dei grandi cambiamenti in corso li conosciamo. C’è la rivoluzione tecnologica del digitale (la Rete, i social, la posta elettronica, la robotica…) e c’è il trionfo del capitalismo globale di tipo finanziario che ha unificato il mondo.
Queste cose sono venute dopo il Sessantotto e dopo gli inizi del femminismo. Non previste, non dico di colpo ma quasi.
Il Sessantotto è stato il penultimo tentativo di cambiare l’economia capitalistica. L’ultimo è stata la grande manifestazione No Global di Genova 2001. Entrambi falliti. Subito dopo sono cominciate le guerre imperialistiche ancora in corso, c’è stata una grave crisi economica e si sono intensificate le migrazioni di gente minacciata dalla guerra o dal bisogno.
È straordinario che il femminismo di quegli anni sia arrivato fino al presente e si sia rafforzato. È molto cambiato, ovviamente. E molto deve ancora cambiare. Porterò un esempio di prima grandezza. La rivoluzione del digitale ha modificato in profondità i modi di relazionarsi tra noi esseri umani e con il mondo, e questo fatto, esattamente questo fatto, incide sui rapporti tra grandi potenze (Usa, Cina, Russia…) e incide sui rapporti tra quelle che fanno o frequentano la Libreria delle donne – lo stesso fatto, ripeto. Le classiche mediazioni che facevano reale il reale, tempo e spazio, non contano più: evaporate. Il che crea problemi che sentiamo ma di cui non sappiamo misurare l’entità e neanche la vera natura. Nessuno lo sa.
È questa un’occasione favorevole? Se non lo è, bisogna che lo diventi. Se afferriamo questo senso di necessità, smetteremo di essere quelle che discutono pro o contro e diventeremo quelle che inventano nuove risposte politiche. Prendiamo il separatismo: abbiamo smesso di praticarlo quando si è costituita società femminile dotata di indipendenza simbolica. La pratica resta buona per alcune, il suo significato è buono per tutte, è l’indipendenza simbolica.
Con questo sentimento dentro, senza capricci né chiacchiere, io mi sento di dire, come mia esperienza vissuta e come sfida per il tempo presente, che la scommessa politica del femminismo resta aperta ed è guadagnante. Con parole mie, che molte altre condividono, ecco la scommessa: che ci sia libertà femminile a questo mondo e che ogni donna possa cercare liberamente la sua autorealizzazione umana (la sua felicità). La si cerca alle condizioni date e, se le condizioni date fanno ostacolo, si comincia o la lotta o la contrattazione.
La scommessa del femminismo non è mai stata né ovvia né pacifica. È stata subito interpretata, in buona o cattiva fede, come se la nostra fosse una richiesta di parità con gli uomini, cioè in modo riduttivo. Io lo trovo umiliante. Tutte quelle statistiche per vedere se le donne… Qui si combatte la battaglia decisiva dello stendardo. Scrivete sul vostro stendardo: Non è uguaglianza quella che fa dell’uomo la mia misura, non è libertà quella che confina il mio desiderio nel suo orizzonte.
Se parlo di differenza sessuale, non protestate in nome di sofisticate teorie. Intendiamoci, non le escludo: il fatto biologico e culturale della sessuazione che diventa genere sessuale, che diventa cultura (patriarcale o no), che diventa arte, che diventa politica, che diventa noi qui, è qualcosa di una affascinante complicatezza e servono anche le sofisticate teorie per cercare di capire. Ma, prima, diciamo le cose basiche che sono di aiuto alla presa di coscienza. Io sono una donna. Poi stiamo a vedere.
Dire “io sono una donna” è un atto performativo che si iscrive nella politica del simbolico. È una mossa in un campo di battaglia. Mi spiego: dicendolo metto in evidenza e do valore a questo corpo sessuato che è il mio, così come si presenta. E lo situo in un discorso che è anche un campo di battaglia dove la posta in gioco è generare valore non mercantile, sottrarre la vita e il vivente ai calcoli del profitto. Questo punto ci porta a contatto con le lotte per salvare il pianeta e i viventi che lo popolano. Non si va con questo alla coincidenza ma c’è indubbiamente una profonda risonanza tra questi due movimenti, una risonanza speciale.
Forse il mio tempo è finito. Mi restano due cose da dire, che forse è una sola. Il femminismo non è uno scopo. Sottolineare la sua durata non dimostra la sua superiorità. Il femminismo (oserei dire: come tutte le cose umane), è efficace come agire politico, è valido come pensiero e può migliorare la tua vita, se lo vivi con il sentimento di una parzialità non escludente. C’è altro, Ci sono altri modi di essere, di pensare, di agire. Tu sii fedele a quello che desideri, a quella che sei, a quello che giudichi buono, ma non farne un assoluto. C’è altro… ma dove? Probabilmente dentro di te, sicuramente ci puoi arrivare da dentro di te. Lo chiamo in inglese the Inner Passage.
(www.libreriadelledonne.it, 3 luglio 2019)
di Laura Minguzzi
Dopo la visione del filmArrivederci Saigon, proposto da Silvana Ferrari dell’Associazione femminile Lucrezia Marinelli, mi sono interrogata sulla storia, oggi quasi surreale, che la regista Wilma Labate è riuscita a raccontare, anzi a far raccontare alle protagoniste.
Siamo nel pieno della guerra in Vietnam, autunno 1968, e la band italiana Le Stars, tutte minorenni, partono per una tournée con un contratto per l’Estremo Oriente. Atterrano invece a Saigon e apprendono lì, sul campo di battaglia, di avere firmato un contratto che le costringe a cantare e suonare per l’esercito americano che combatte i vietcong. Una manipolazione? Un tradimento? Un inganno dell’agente? Un’ingenuità? Non mi soffermo sull’assoluta stranezza del fatto in sé ma su ciò che mi ha profondamente spinta a riflettere e cioè che dopo il trauma che le giovani hanno subito si siano sentite costrette a tacere per cinquant’anni. La regista ha avuto il grande merito di averle convinte a raccontare. Non tutte. Una non ha accettato di rivangare l’accaduto. Troppo doloroso. Dopo avere rischiato la vita in mezzo ai bombardamenti, avere compreso dove si trovavano ed essere riuscite a tornare a casa non hanno potuto fare nessun accenno, nemmeno una parola su ciò che avevano vissuto. Erano delle sopravvissute ma tali sono state le pressioni del contesto in cui vivevano che hanno dovuto dimenticare. Il contesto è facile da immaginare. Siamo a Piombino, una città rossa, in cui sarebbe stata una vergogna e un disonore per le famiglie delle ragazze se fosse trapelato un fatto così grave. Il trauma si è incistato nella profondità delle viscere, per citare la filosofa María Zambrano, nell’invisibilità, ma non è stato dimenticato. Ha però condizionato per sempre le loro vite. Non sappiamo nulla per esempio della componente della band che non appare e si è rifiutata di dare voce alla sua esperienza. Resta un mistero. Non si fanno ipotesi, non si approfondisce. Io posso immaginare quello che può essere accaduto al loro ritorno essendo vissuta in un ambiente simile. In quegli anni soffiava il vento della libertà femminile e si era allentata la pressione familiare sulle vite delle giovani donne. Ma il controllo paternalistico sulle vite femminili poneva dei tabù: ideologici in primo luogo trattandosi di famiglie comuniste e in quel fatto specifico può avere pesato anche il fattore del bisogno di lavoro che ha portato con eccessiva leggerezza le famiglie ad affidare le figlie a un uomo e forse anche la vergogna di avere creduto al miraggio del successo. La regista non dà molto spazio allo scavo ma purtuttavia ha fatto emergere dal silenzio una pagina di storia italiana ed è riuscita a dare voce alle, oggi non più giovani, protagoniste della band, a fare loro raccontare una verità soggettiva che fa luce sulla loro crescita personale e relazionale, avvenuta malgrado la violenza del contesto, e sulla forza di verità che le loro parole possiedono ancora oggi dopo mezzo secolo; questo sentimento sgorga secondo me e contagia dallo sforzo che hanno fatto per capire l’esperienza vissuta, dandole finalmente un valore, in quanto nodo da sciogliere che merita un racconto al di là delle categorie classiche della storiografia… Un viaggio all’inferno che solo oggi ha trovato spazio, ascolto e credibilità in un tempo presente mutato in cui donne che disseppelliscono traumi, dolori, storie sepolte di violenza hanno cittadinanza nel discorso pubblico, nella storia della comunità in cui sono vissute.
(www.libreriadelledonne.it, 29 giugno 2019)
di Luisa Muraro
Ilaria è la sorella di quello Stefano che, dieci anni fa, caduto nelle mani delle forze dell’ordine (per questioni di droga), gravemente maltrattato dai suoi custodi, poco o niente curato dai medici, è morto solo come un cane, recluso nel reparto speciale di un ospedale pubblico. Tutto questo nell’arco di una settimana. I pochi che ebbero il permesso di vederlo morto, si trovarono davanti un cristo appena schiodato dalla croce: magrissimo, viso tumefatto, vertebre rotte, organi interni malandati.
Dopo di che sulla scena pubblica cominciò la commedia di una finta o vera (va a saperlo, con tutte quelle persone), ricerca delle responsabilità e per anni e anni, fra inchieste, carte, perizie, autopsie, processi, false piste e veri depistaggi, noi siamo stati sul punto di pensare che, in definitiva, la colpa era sua, di lui, Stefano Cucchi, o di nessuno, che era lo stesso. Noi chi? Tutti quelli che assistevano alla ricerca e forse anche una parte di quelli che vi partecipavano (per il racconto di tutta la storia, vedi Carlo Bonini, Il corpo del reato. Il caso Cucchi: 2009-2019. Una storia di violenza del Potere, ed. Feltrinelli/la Repubblica).
Ma Ilaria, la sorella, voleva la verità perché fosse fatta giustizia, e ha continuato a lottare. Per vincere la nostra indifferenza, portava in piazza la gigantografia del viso martoriato di Stefano: guardatelo. Tempo fa ha detto di sé: «Non so che donna sono diventata, non so come sarò quando il mio compito sarà terminato. Ma so che questo è il mio compito e, costi quel che costi, lo porterò a termine.» E così ha fatto.
Ilaria Cucchi non è mai stata sola: oltre ai genitori, ha sempre avuto al suo fianco donne e uomini di buona volontà che l’hanno aiutata. Lei, a sua volta, li ha guidati con la forza di un sentimento che le apparteneva in proprio, l’amore per il fratello. Hegel, il più grande filosofo dei tempi moderni, parlando della famiglia e dei suoi limiti, ha scritto: «Ma tra fratello e sorella ha luogo la relazione pura» e da qui tutta una meravigliosa descrizione di questo rapporto in cui «l’elemento femminile ha, come sorella, il più alto sentore dell’essenza etica», ossia un sentimento interiore di natura divina. Che però, proprio per questa sua natura, non ha efficacia politica, secondo il filosofo (Fenomenologia dello spirito, 2, vi A.a).
Hegel si ispira alla figura di Antigone che va contro la legge della città per seppellire degnamente il fratello morto, e sarà punita. La sfida di Ilaria è simile, anche lei, mossa dall’amore del fratello, vuole che non finisca sepolto sotto una finta ricerca della verità, nella crescente indifferenza del pubblico. E che abbia invece una degna sepoltura nel ricordo comune.
Ma Ilaria Cucchi ha seguito una diversa strategia, che si è dimostrata efficace. Lei ha sfidato la città (cioè noi, l’opinione pubblica, la magistratura, i mass media) ad applicarla, la legge. Ha sfidato l’indifferenza, il moralismo, la pigrizia, l’opportunismo, il cinismo… tutto quell’impasto di egoismo e sfiducia che ci pesa dentro e immiserisce la vita pubblica. Lei, con la sua fiducia nutrita di passione, ha trasformato quello che si stava riducendo a un ingarbugliato affare di mala sanità e mala giustizia, in una limpida questione di verità e di giustizia.
In ciò io vedo non solo un ammirevole esempio, ma anche una lezione di politica, questa: impariamo a nutrire le grandi pretese con la forza del voler bene, e viceversa.
Bene, e dopo? Ora che sappiamo come sono andate le cose, c’è da fare giustizia, ma come? Può sembrare strano, ma la risposta alla questione è rimasta negli stessi identici termini che troviamo in Hegel. La responsabilità del fare giustizia, una volta trovato il colpevole, è dello Stato che a questo scopo dispone di tutto il potere necessario e ha il monopolio della violenza. Stefano Cucchi è morto per la violenza di un Potere che adesso gli renderà giustizia negli stessi identici modi: qualcosa non quadra… La sorella ha detto: questo è il mio compito e lo porterò a termine. Lei ha fatto la sua parte e ci ha dato più che un esempio, anche una lezione, ora tocca a noi andare avanti, verso quel traguardo politico di cui conosciamo almeno la formula: il massimo di autorità con il minimo di potere.
Nota: su quest’ultima parte del testo, si può leggere Femminismo giuridico. Teorie e problemi, di Anna Simone, Ilaria Boiano, Angela Condello, ed. Mondadori; L’Europa di Simone Weil – Filosofia e nuove istituzioni, a cura di Rita Fulco e Tommaso Greco, ed. Quodibet (in uscita). Di quest’ultimo segnaliamo specialmente il testo di Wanda Tommasi.
(www.libreriadelledonne.it, 20 giugno 2019)
di Jasmine Anouna
Perché proprio una ‘mostra’?
Novembre, 2018. Ero all’aperitivo natalizio della Italian Society of Oxford, ‘La Società Italiana di Oxford’, nel Dipartimento di Fisica. Non ero mai stata in un edificio del settore scientifico, ma la prospettiva di panettone e spumante italiano era troppo seducente. Durante l’evento mi aggiunsi a vari gruppi di studenti, fra cui uno composto da due studenti post-laurea in robotica e matematica. Come spesso accade qui, la nostra conversazione si mosse immediatamente verso la classica domanda “Su che cosa si concentrano le tue ricerche?” Quando la domanda fu rivolta a me, spiegai del mio studio sulla Libreria delle donne di Milano e sulla sua assenza paradossale nella letteratura inglese sulla storia della seconda ondata femminista in Italia. Avevo scoperto che nonostante vari riferimenti alle idee che la Libreria diffuse per tutta l’Italia, la Libreria era raramente citata o accreditata con questa eredità. Volevo documentare e dimostrare perché era necessario riparare il distacco fra la Libreria e la sua eredità per poter costruire narrative più comprensive ed eque della storia italiana.
Quando finii di spiegare le mie ricerche, le facce di entrambi gli studenti si contorsero in un’espressione confusa. Con un tono assai paternalistico, lo studente di matematica mi disse:
«Perché dovremmo avere delle librerie ‘per le donne’? Non è discriminatorio verso gli uomini avere uno spazio ‘per donne’? La persona più brava nella mia classe di matematica dell’università era una donna, e lei ha avuto tanto successo anche senza far parte di uno spazio ‘per donne’.»
Cercai di spiegare la mia prospettiva, ma le mie parole parevano raggiungere orecchie disinteressate, probabilmente a causa dei pregiudizi sul mio carattere dovuti ai miei interessi ‘femministi.’ Delusa dall’atmosfera ostile, mi incamminai a casa, stranamente animata. Nonostante l’esperienza sgradevole che avevo vissuto, l’interazione aveva suscitato in me un forte stimolo a fare qualcosa. A quel tempo, non sapevo esattamente in che cosa consistesse quel ‘qualcosa,’ ma sapevo che volevo creare un’opportunità educativa per studenti italiani come quelli che avevo conosciuto quella sera, i quali non avevano espresso alcun interesse a capire l’importanza storica di un gruppo come la Libreria. Dopo varie settimane di riflessioni, nacque l’idea di organizzare una mostra, una materializzazione fisica della Libreria qui ad Oxford che avrebbe potuto comunicare ad individui di tutti i campi di studio e professione la ragione per cui la Libreria è fondamentale nella storia italiana.
E così fu l’inizio della mostra Più che una Libreria: esplorando l’eredità storica della prima libreria femminista in Italia (Beyond a Bookshop: Exploring the Historical Legacy of the Milan Women’s Bookshop) che si è svolta il 28 maggio nel centro per studenti post-laurea del mio College di Oxford, Wadham College.
Per trasmettere l’eredità e la rilevanza internazionale della Libreria, avevo diviso l’evento in tre parti nell’ordine seguente: un’esposizione di copie di documenti d’archivio della Fondazione Elvira Badaracco, uno screening di una compilazione originale di video-testimonianze di varie donne che spiegano come sono state influenzate dalla loro relazione con la Libreria, e finalmente una tavola rotonda informale per dare vita (letteralmente!) alla Libreria grazie alla partecipazione di Laura Minguzzi e Renata Sarfati, due colonne della Libreria. Oltre a Laura e Renata, era presente una meravigliosa interprete, Valeria Taddei, candidata per un dottorato in Lingue Medievali e Moderne a Oxford, e Teresa Franco, professoressa d’italiano a Oxford e giornalista per Il Sole 24 Ore specializzata nell’uso della traduzione come strumento per l’empowerment femminile.
Durante la tavola rotonda sono emersi una varietà di temi fra cui le origini della teoria e pratica della differenza sessuale, e la relazione contemporanea della Libreria con la dimensione online tramite il sito web. I contributi dei partecipanti hanno rispecchiato questa diversità di temi. Mentre le generazioni più giovani erano interessate alla relazione della Libreria con movimenti contemporanei come NonUnadiMeno, altre di generazioni precedenti hanno condiviso la loro solidarietà con la storia della Libreria, come Judith Okely, la prima donna ad essere ammessa alla famosa società-dibattito di Oxford (The Oxford Union). Okely ha espresso la sua solidarietà tramite un aneddoto personale della sua esperienza di autocoscienza in Inghilterra negli anni ’70: «Un capo militare pensava che fossimo sovversive politiche per il fatto che avevamo un gruppo di autocoscienza.»
In sole due ore, il centro per studenti post-laurea di Wadham College ha dato vita a una conversazione che le scuole italiane raramente promuovono; questa parte della storia era di grande interesse per i tanti italiani che sono venuti quella sera, nonostante la maggior parte non avesse avuto l’opportunità di approfondire il tema nei curriculum tradizionali italiani. In tanti eravamo uniti dalla curiosità, ma soprattutto da un’apertura di mente, pronta ad essere “rieducata” nella storia italiana e a costruire una narrativa nuova, più comprensiva e consapevole di una parte della storia fondamentale non solo per le donne ma per tutti gli italiani.
Vorrei ringraziare profondamente a Laura Minguzzi, Teresa Franco, Valeria Taddei, Shawanda Corbett (che con la sua arte femminista ha generosamente contribuito a riprodurre la vetrina dell’arte in Libreria), Jane Garnett, Steffan Pedersen, Francesco Moiraghi, l’Università di Oxford, Wadham College e tutti gli ospiti che hanno aiutato a dar vita a quest’idea.
Link alla pagina della mostra sul sito di Wadham College: https://www.wadham.ox.ac.uk/news/2019/june/beyond-a-bookshop
(www.libreriadelledonne.it, 17/6/2019)
di Paola Mammani
Un commento a Scelta di classe di Claudio Rossi Marcelli, Internazionale n. 1310, rubrica Dear daddy.
Scelta di classe. Un titolo azzeccato forse più di quanto l’autore del pezzullo pubblicato su Internazionale dello scorso 7 giugno, non immagini. È Claudio Rossi Marcelli, genitore omosessuale, beneficato assieme al suo compagno, attraverso la gpa, del “dono” di tre pargoli da una madre “surrogata”. Erano in due, l’altra ci ha messo gli ovuli, entrambe rese meno povere dagli introiti che hanno fruttato i loro “doni”. Una prima scelta di classe Rossi Marcelli l’ha fatta. Diverse centinaia di migliaia di euro lui li aveva e loro no.
Nello scritto in questione la scelta di classe è riferita a quella della scuola media che le sue due prime figlie, due gemelle, cominceranno a frequentare. Parla di sé come di un genitore modello che non asfissia preside o vicepreside con la richiesta di questa o quell’altra sezione, ma chiede udienza solo per una questione di grande civiltà, per informare i professori che le sue due figlie hanno due papà. “Se ritiene che qualche professore possa avere un grosso problema al riguardo” ha spiegato alla vicepreside “allora le chiederei di non metterle in quella sezione”.
Et voilà, il capovolgimento è bello che fatto. Non è lui ad avere un grosso problema, e purtroppo lo sappiamo che non ne ha e non se ne fa, sono gli altri, arretrati, sessuofobici, disinformati, chissà come li definisce tra sé e sé. Non rivendica alcunché, comprende gli umani limiti, ma chiede che le bambine ne siano protette. Faccia da schiaffi, mi verrebbe da dirgli, se fossi sua madre. E se fossi la preside, come fui, lo rassicurerei. Nella scuola la vocazione stra-maggioritaria è quella dell’accoglienza, di chiunque si tratti. Le cronache dell’istituzione più aperta e trasparente del paese stanno a dimostrarlo. Di papà, anche se un’amica mi dice uno basta e qualche volta anche avanza, a nessuno per principio dispiace ve ne siano due o anche tre, crepi l’avarizia! Per procreare, propriamente, è necessario e sufficiente averne solo uno, neanche proprio un papà, per la precisione, solo uno spermatozoo, ma la lingua ci aiuta, è stato per me un secondo padre si dice. E anche una seconda madre. Ma lei, la prima, quella necessaria dall’inizio alla fine, dov’è? Quella certa e vera, dov’è? Le sue bambine sanno, stando a quel che dice, e lo sappiamo anche noi che dalla stampa l’epopea abbiamo potuto seguirla tutta. Come si chiama la “gestante”, come si chiama l’altra, quella degli ovuli, dove vivono, con tutta la storia del “dono” a seguire. Le bambine lo sanno, la madre è stata smembrata, una è solo gestante, gli ovuli sono di un’altra. Così non sarebbe più né una, né certa, a malapena surrogata…
Che cosa c’è di implicito, di non detto e nel fondo richiesto alla scuola? Che tutto ciò venga trattato come ovvio? auspicabile? Stia sereno, genitore 1 o 2 non so, nessuno, in nessuna scuola, andrà ad inquietare le sue bambine, cui si augura ogni bene, ma che dire alle altre, agli altri, se e quando chiederanno? Che questa è civiltà? Due uomini incapaci di vivere la loro parzialità rispetto alla procreazione, che vanno alla ricerca di una, due donne, che per soldi vendono ovociti e fanno da gestanti? E che tutto questo non assomiglia, neanche tanto in filigrana, al divieto oggi assoluto alla compravendita di bambini? Non glielo diciamo a scuola a chi è giovane che la cosiddetta gpa nel nostro paese è un reato? Che la recente sentenza della Consulta cancella finalmente la ridicolaggine di due papà e nessuna mamma? Insomma, Rossi Marcelli, si rende conto che lei sta chiedendo l’impossibile e, più sommessamente, anche l’illegale?
(www.libreriadelledonne.it, 12/6/2019)
di Marina Santini e Luciana Tavernini
Quando, invitate a parlare del nostro libro Mia madre femministai soprattutto a giovani, presentiamo come scoperta del femminismo il fatto che nella vita di ogni essere umano il due precede l’uno, avvertiamo la densità del silenzio, quello in cui chi è lì all’unisono trattiene il respiro per lo stupore una verità tanto evidente da essere stata fino ad allora ignorata. Chiediamo poi di indicarne nel corpo il segno visibile e sempre c’è chi lo riconosce nell’ombelico, memoria dell’origine duale della vita. Ricordiamo che l’esistenza umana inizia con il sì della madre alla possibilità della crescita di altro da sé in sé. Questo vuol dire per lei accettare la modifica del corpo che è (non che ha) con l’imprevedibilità e la necessità dello stare a ciò che accade perché la creatura, pur nella sua totale dipendenza, reagisce alla vita della madre. Dunque la nascita è il risultato di una relazione duale non paritaria.
Che accade se facciamo di questa verità un punto di partenza nella rappresentazione del mondo e nel situarci in esso?
Innanzi tutto finisce l’individualismo autonomo e indipendente come orizzonte di vera realizzazione umana. Infatti la possibilità di ciascuna donna di farsi due, pur rimanendo una, ci abitua ad accogliere l’esistenza di altro da sé come sperimentata possibilità di trasformazione di sé, di apertura all’inconosciuto; a lasciare che altre e altri costruiscano, secondo il loro bisogno, una memoria vivente della relazione che c’è e c’è stata.
La generatività rende evidente la disparità tra donne e uomini. Le donne hanno possibilità di dire di sì o di no all’esistenza della creatura e hanno la certezza di partorire creature proprie (mater semper certa). Inoltre con questa consapevolezza, scaturita dall’autocoscienza e da altre pratiche, riescono ad agire una sessualità libera, legata al piacere reciproco e alla procreazione, se la desiderano.
Infine possono percepirsi come anello della catena che di figlia in madre si proietta nell’infinito passato, e di madre in figlia nell’infinito futuro (il continuum materno). Non a caso molte sanno stare alle relazioni in presenza, anche quando si ritrovano dopo anni di lontananza; amano lavorare in due, rinnovando la gioia dell’origine duale della creazione, e sperimentano forme di riconoscimento per non rubare il contributo altrui e segnare la dismisura insita in ogni rapporto.
Per gli uomini non accettare fiduciosamente la disparità con lei, come avveniva e avviene nelle società matriarcali, ha prodotto, attraverso il contratto sessuale tra uomini, forme di condizionamento e controllo della sessualità femminile (Carole Pateman). Se in passato la garanzia della propria ascendenza e discendenza avveniva attraverso la santificazione delle madri e la reclusione delle mogli, la verginità prematrimoniale, la legittimità della nascita derivante dal riconoscimento paterno, la rappresentazione dello spermatozoo come homunculus e dell’utero come vaso o come forno, oggi la scienza ne offre una versione aggiornata con il riconoscimento della paternità attraverso il DNA e con l’utero in affitto.
La possibilità femminile di dire di sì o di no all’esistenza della creatura, vissuta come potere di vita o di morte, ha portato molti uomini a invidiarla, e dunque a legiferare per proibire l’aborto e a organizzare con gli eserciti strutture legalizzate di distruzione del vivente come forma di affermazione di un contropotere nei confronti della madre (i più antiabortisti non sono forse i più guerrafondai?).
Il desiderio di infinito, senza riconoscimento del continuum materno, ha prodotto la costruzione di genealogie paterne (non per niente ‘bastardo’ e ‘figlio di puttana’ sono epiteti offensivi); la rincorsa della fama a tutti i costi, facendosi innalzare monumenti come segni imperituri del proprio individuale passaggio; la creazione di gerarchie maschili che fanno del ‘capo’, dell’uno, l’origine e dunque il controllo e la repressione dell’alterità.
Ha spinto a forme di accumulo senza limiti di denaro, rese ancor più smisurate e deresponsabilizzanti dalla sua apparente smaterializzazione, creata dall’economia finanziaria, che fa dimenticare come e quali esseri umani sono coinvolti nella produzione di ricchezza e quali tragedie ne provoca la penuria.
Agli uomini rimangono solo queste strade per non restare nella contingenza dell’individuo, nella finitezza della propria esistenza, nell’affermazione di sé attraverso la riduzione a strumento e cosa morta del vivente?
(www.libreriadelledonne.it, 11/6/2019)
di Cristiana Fischer
Care tutte,
ho ascoltato su youtube la vostra riunione del 2 giugno “Com’è andata con le elezioni europee?” e vi invio le riflessioni conseguenti.
Il 26 maggio non ho votato Lega, ho esitato, ma un anno fa avevo votato un economista che la Lega candidava. Avevo letto nel suo blog l’opzione sovranista per favorire l’economia dei territori appenninici, dove vivo ormai da vent’anni.
Non ero però sicura che un equilibrio tra le grandi città e aree collegate, con un’economia agricola turistica e mercantile delle zone interne, fosse effettivamente la linea economico-politica della Lega.
Mi attrae comunque un programma generale della Lega di ripresa economica, nel senso del lavoro produttivo e non guidato da finanza e rendita. Il voto alla Lega si presentava comunque orientato a lavoro e stipendio, e questo grazie anche ai 5S; quanto alla politica dei diritti si può credere che siano estesi e che si tratti piuttosto di applicarli.
È un programma, questo, che si oppone alla politica economica europea che ha governato da vent’anni, e che da tempo rifiuto.
Le
elezioni europee hanno però fatto vedere due fatti: che alcune
grandi città hanno votato in modo diverso dal resto del paese; che
esperienze politiche radicali e democratiche sono state sconfitte. Il
voto in controtendenza delle città mi ha fatto pensare ai Gilets
jaunes, si può credere che le idee
politiche più radicali sorgano solo in città? O invece il voto
diverso delle città era inteso a conservare privilegi? Certo la vita
in città è aspra, ha interessi propri e diversi da quelli del più
ampio territorio, quasi una diversa antropologia: come si è
trasferito questo nel voto?
La Lega
è un partito di maschi, gerarchico e retto da un piccolo gruppo
affiatato. Pensando alle donne politiche, che “perdono il corpo”
e spariscono, frammentate e scisse, trovo che è quasi un conforto
che la politica gli uomini la facciano tra loro (la ministra Trenta
ha fatto una caricatura del suo essere ministra della difesa. Tre
generali della riserva – dato che potevano esporsi – la hanno
fortemente criticata per il suo aver esaltato la partecipazione di
crocerossine e servizio civile alla sfilata. Intanto tagliava i
finanziamenti, ed è ciò che cercava di abbellire, ma è quello che
ha fatto imbestialire i militari in servizio).
Trovo miope dire che le donne hanno votato di meno la Lega perché sono più scolarizzate, e che le città non hanno votato Lega perché le donne, più colte, “hanno votato meglio degli uomini”. È proprio così? Non ho dati in proposito, ma il circa 50% di voti alla Lega nel nord, voti di donne dovrebbe comprenderne. Allora davvero quelle che hanno votato Lega diventano le nuove Simplicie di Voghera.
Il voto a destra che ha prevalso a Lampedusa, a Riace, in val di Susa, me lo spiego anche con un sentimento di delusione, di realismo – ribaltato in accuse di cinismo! – e rinuncia a idealizzare, se l’ideale contrasta la vita che si fa e quindi perde lo smalto. Sia la politica in quanto amministrazione a gestire i problemi: nell’amministrazione infatti ci sono tante e tanti che vogliono lavorare al meglio.
L’impoverimento generale, le scarse prospettive e le poche energie circolanti, i piatti dibattiti politici ufficiali sui media, pompati senza risparmio, fanno anche di me una spaventata?
Sul territorio dove vivo, ho incontrato donne e uomini attivi nell’agire e nel pensare. Molte donne sanno di avere una sapienza antica che amministra i rapporti. Alcune votano a destra, anche ultimamente.
Ciao.
(www.libreriadelledonne.it, 5 giugno 2019)
Sabato 18 maggio 2019, nell’ambito del Convegno femminista – Cambio di Civiltà: arte, lavoro, politica delle donne (madri comprese) è stato letto un testo dedicato a Imane Fadil, la giovane donna marocchina tra le testimoni del processo “Ruby Ter” avendo partecipato alle cene di Silvio Berlusconi, processo nel quale aveva chiesto di potersi costituire parte civile. Il convegno è stato idealmente dedicato a questa donna. L’impegno femminista sta proprio nel dare voce e nel ricordare quelle donne che parola e memoria non hanno (più): da quelle che abbiamo riconosciuto come nostra radice, “Madri di tutte noi”, a chi oggi vive al di fuori dalla scena illuminata e muore nell’oblio.
Della vita di Imane Fadil, giovane donna marocchina di 34 anni spirata in solitudine all’ospedale Humanitas di Rozzano dopo un mese di agonia, si sa ancora meno che della sua morte.
Se cercate qualche notizia biografica su di lei, nata a Fes il 1° gennaio 1985 e morta a sud di Milano il 1° marzo 2019, troverete solo Arcore, cene eleganti, Palazzo di Giustizia, come se non ci fosse stato nulla a prescindere da questo.
Dobbiamo lavorare di immaginazione e pensarla da ragazzina davanti alla tv via satellite che capta le immagini di un paese libero, felice e pieno di opportunità così vicino, a poche ore dalla sua casa sull’altra sponda del mare Mediterraneo.
Giovanissima quindi avrebbe lasciato casa e famiglia per arrivare qui a fare la modella per poi diventare giornalista sportiva, il desiderio era questo.
Oppure no, forse questa storia non è vera, secondo un’altra versione Imane viveva in Italia da quando aveva 4 anni: c’è stata una grande sciatteria nella raccolta di informazioni, come se quella vita contasse poco o niente.
Quello che è certo, Imane ha 25 anni quando qualcuno dei cortigiani di Silvio Berlusconi (Emilio Fede, Lele Mora o Nicole Minetti: poco importa) la invita a cena ad Arcore. Lei ha bisogno di lavorare, le cose non vanno come sperava, e accetta l’invito.
A quanto dicono ci andrà 8 volte in tutto, o forse meno, ma non otterrà niente di niente, a parte forse un gettone di 2 mila euro.
Niente lavoro, niente tv, anche perché lei non offre niente. Non partecipa ai festini, rifiuta lo scambio sesso-denaro. Ma vede tutto quello che capita in quella bella villa settecentesca che negli anni Settanta Berlusconi aveva acquistato a un prezzo davvero irrisorio, e a quanto pare con un mezzo imbroglio dagli eredi Casati. Un affarone.
Imane ricorda ragazze vestite da suore, balletti, barzellette e rituali onanistici. In particolare ricorda lo sguardo di una ragazza seminuda e quattro zampe di fronte agli uomini. I loro sguardi si sono incontrati, lei in piedi e la ragazza carponi.
Imane è ipersensibile alla verità e alla giustizia. Non sopporta di essere chiamata Olgettina, non ha fatto niente, non ha avuto niente, non vuole raccontare balle e dice quello che è stato. Rifiuta una cifra enorme, 250 mila euro, che le viene offerta per chiuderle la bocca, anche se con i soldi è messa molto male e ormai quei pochi vestiti buoni li usa solo per andare in Tribunale. Promette che quello che non le lasciano dire lo racconterà in un libro.
E’ stanca, provata, si sente abbandonata da tutti. Dimagrisce e perde i capelli a ciocche per l’ingiustizia che sente di patire.
Finché un giorno, poco dopo il suo 34esimo compleanno, dopo essere stata a cena con un uomo di cui gli inquirenti conoscerebbero le generalità, Imane comincia a sentirsi poco bene.
Dal 16 gennaio il male peggiora, ha dolori lancinanti alle gambe e all’addome. In principio non vuole andare in ospedale, dice di avere paura che lì possa capitarle qualcosa. Poi il 29 gennaio la ricoverano perché sta malissimo.
Uno dei pochi amici che le sono rimasti è un uomo anziano e gentile con un forte accento milanese conosciuto nell’abbazia di Chiaravalle. Lei andava spesso all’abbazia, abitava in una cascina non lontana da lì da dove poi sarà sfrattata. Lui aveva carezzato la sua cagnolina e avevano fatto amicizia.
L’uomo dice che Imane era una brava ragazza. Una volta le aveva prestato 100 euro perché lei era veramente nei guai, una volta sola in due anni.
Va due o tre volte a trovarla in ospedale e la vede sempre più debole e piena di lividi. Nessuno capisce cosa diavolo abbia. L’ultima volta che ci va non gliela fanno vedere. E’ in isolamento, non ha più difese, basterebbe un raffreddore a ucciderla.
Non la vedrà più, né viva né morta.
In un mese tutti gli organi di Imane collassano uno dopo l’altro. Esami e controesami, ma i medici non riescono a dare un nome al suo male e a fermarlo.
A un certo punto si parla di veleno, non si sa chi ne abbia parlato per primo, se la stessa Imane o i medici.
Si teme perfino che Imane sia radioattiva. Il suo corpo viene rinchiuso in una stanza piombata dell’obitorio. Nessuno può vederla.
L’autopsia sembra un’impresa spaziale, pompieri e medici con tute protettive come per sezionare un’aliena.
Saputo della morte di Imane, Marysthelle Polanco, una delle ragazze delle cene eleganti, avrebbe detto ai giudici: “No, il polonio!”.
Il polonio è un elemento radioattivo. Con il polonio è stato ucciso Aleksandr Livtinenko, spia russa che aveva accusato agenti dell’ex-KGB di aver costruito l’ascesa di Vladimir Putin con una strategia bombarola che nel 1999 a Mosca fece 300 vittime.
Che cosa ne sa una ragazza come Marysthelle di polonio, di servizi segreti e di tutte queste storie?
Marysthelle avrebbe anche detto che qualcuno degli “utilizzatori finali” aveva minacciato le ragazze: “Basta una punturina”.
Pur non confermando alla stampa queste dichiarazioni, Marysthelle ha detto: “Può darsi che la mia versione davanti ai giudici sarà diversa rispetto a quella del processo Ruby bis, ho deciso di dire le cose come stanno, adesso mi sento una donna con dei figli e voglio dire la verità…”.
A quanto pare la voglia di dire la verità è contagiosa. Noi donne abbiamo sempre più desiderio di dire la verità sugli uomini e sul loro potere.
Ancora non si sa come sia morta Imane Fadil. Si sa solo che il suo sangue era pieno di metalli pesanti, cadmio, antimonio, cromo e molibdeno. E che i test per un gran numero di malattie sono risultati negativi.
Gli esiti dell’autopsia, attesi per aprile, arriveranno forse a fine luglio, è stata richiesta una proroga.
C’è un giovane uomo, Giulio Regeni, sulla cui morte, come è giusto, da anni si sta chiedendo verità. Su Imane si deve volere verità allo stesso modo, che sia verità sulla sua vita tanto quanto sulla sua morte.
Attaccamento alla verità e alla giustizia hanno dato senso alla vita di Imane, ci tocca raccogliere questo senso e continuare nel lavoro di dire la verità, di dire di quante falsità e menzogne e ingiustizie abbia bisogno chi esercita il dominio.
Parlando d’altro, Luisa Muraro ha scritto di recente: “Com’è difficile dire la verità quando c’entrano le donne!”. Vale anche per Imane, che non dimentichiamo.
Marina Terragni
(www.libreriadelledonne.it, 25 maggio 2015)
di Mira Furlani
Sabato 11 maggio 2019 alle ore 18.00 mi sono sintonizzata sulla pagina facebook di Dialogo-Libreria delle donne di Milano, e ho ascoltato in streaming l’incontro intitolato Prostituzione: né sesso, né lavoro. L’incontro si basava sul testo Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, pubblicato da VandA.epublishing.
L’incontro, che si svolgeva nella sede della Libreria delle donne, era condotto dalla giornalista Mariangela Mianiti che ha animato la discussione con due delle autrici: la curatrice e sociologa Daniela Danna e la costituzionalista Silvia Niccolai.
Sia gli interventi delle due autrici che il dibattito che ne è seguito sono stati estremamente interessanti. Mi ricordo che a un certo punto Luisa Muraro ha affrontato la questione della libertà di prostituirsi e nel rispondere all’intervento di una giovane donna presente all’incontro, Luisa ha detto che sì, la giovane interlocutrice era libera di prostituirsi, ma in privato. Non ricordo bene tutto il resto. Ho cercato di riascoltare lo streaming in differita, ma fra i video pubblicati su you tube nella pagina della Libreria, purtroppo ancora non è comparso.
Di questi tempi mi sono trovata spesso in difficoltà nel discutere con donne, giovani e meno giovani, del desiderio e della libertà di poter usare il proprio corpo a piacimento nella prostituzione. Una discussione del genere è stata difficile perfino con una mia parente che difendeva la libertà delle donne di prostituirsi secondo il proprio desiderio. Una posizione difficile da contrastare perché frutto dell’ideologia neoliberista della nostra epoca e che resta incomprensibile per quelle che, come me, hanno letto il libro di Rachel Moran (Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Ed. Round Robin). Così, non soddisfatta della risposta ascoltata nello streaming, ho deciso di scrivere a Luisa Muraro una mail facendole la seguente domanda: «Cara Luisa, mi puoi dire, in breve, in che senso una si può prostituire in privato? Mi pare che Rachel Moran abbia scritto che farlo in privato o pubblicamente è sempre stupro a pagamento».
Ecco la pronta risposta di Luisa Muraro:
«Cominciamo con l’impostazione del problema, che è sempre la cosa trascurata, essendo secondo me la prima se non la più importante mossa da fare per ragionare bene. Ci troviamo sulla scena politica di oggi, nessuna di noi si trova nella posizione di Rachel Moran, alla quale riconosciamo per altro una grande autorità in questo tema. Noi siamo in Italia, ci interessa (a me e altre) impedire la manomissione della legge Merlin (una eventualità che incombe) e ci sono giovani donne (incoraggiate da uomini politicamente impegnati, di sinistra) che reclamano pubblicamente la libertà di prostituirsi. Questione n. 1: che cosa reclamano queste giovani donne (esclusi ovviamente quelli/e che le citano strumentalmente), che cosa reclamano da me e dal femminismo critico verso la pratica sociale della prostituzione?
Cerco di capirlo e rispondo alla giovane donna con cui mi sto idealmente confrontando (è successo anche realmente): se tu vuoi mettere il tuo corpo a disposizione di qualcuno desideroso di fare sesso e disposto a pagarti, guarda che la legge non te lo impedisce. Non solo: se è questo che desideri, io ti dico di farlo. Sono una femminista che ha sempre difeso il desiderio femminile. La legge, d’altra parte, non te lo proibisce. Per parte mia aggiungo una sola cosa: ti chiedo di farlo con riservatezza, penso a te (fare sesso è qualcosa che non si esibisce, che sia gratis o a pagamento, come la masturbazione o altre attività erotiche) e penso a un altro aspetto della faccenda: se tu pretendi che la prostituzione sia riconosciuta dalla legge come un tuo diritto, cioè come un’attività commerciale al pari di tante altre, tu apri le porte al commercio dei corpi femminili, non solo, le apri anche al dovere che la legge ha di tutelare tutte le attività lecite. Apri cioè le porte ai bordelli, ai quartieri a luci rosse, alla pubblicità e a tutto quello che fa sentire a posto un uomo che mette le mani sul corpo di una donna qualsiasi, sentendosi autorizzato dal fatto che la paga. E faciliti così enormemente la tratta di donne costrette a prostituirsi. Tu puoi dire in buona fede: non è questo che voglio, ma è questo che capita. Perciò ti dico: realizza quello che desideri senza chiedere autorizzazioni (dalla legge o dall’autorità femminile) che non sono necessarie. A questo cambiamento di natura simbolica che, dietro alla finzione neoliberista della libertà, ci riporterebbe alla civiltà patriarcale, io mi oppongo. E ti chiedo di realizzare il tuo desiderio o il tuo bisogno con tutta la riservatezza possibile: lo chiede la pratica della sessualità non pornografica, lo chiede la politica delle donne. Ciao, Luisa.»
Ho avuto l’autorizzazione da Luisa Muraro di pubblicare questa sua risposta che io ho trovato chiara e realista e penso sia necessario e urgente farla conoscere. Bisogna che, in qualche modo, venga pubblicata e divulgata, fatta leggere a donne e uomini, giovani e meno giovani, a madri e a nubili e anche a uomini di buona volontà (ne esistono, per fortuna). È cosa urgente. Grazie a Luisa.
(www.libreriadelledonne.it,15 maggio 2019)
di Antonella Nappi
Sono assillata, nei convegni universitari, da un “femminismo” che scavalca la differenza di genere e quella sessuale, afferma l’autodeterminazione regalata dalla tecnologia, in testa maschi giovani e donne che non intendono discutere con nessun’altra idea. Obbligano tutte le generazioni a scrivere con la stellina, perché così mi scrivono anche i Baroni. Come rispondere con le email e concordare un poco di libertà alle relazioni? Perché mi trovo frasi come: «Al di fuori di qualsiasi essenzializzazione del concetto di “donna” quanto di quello di “natura”», e invece che diradarsi, dopo vent’anni sono divenute legge.
La mia sopportazione e ricerca di mediazione è sfociata in una spontaneità che mi è uscita da sola ed è stata spedita. Ora mi sono resa conta della liberazione e mi fa tanto ridere, ho scritto: «Care, cari e car*…»
Penso sia la peggiore offesa, ma mi è scappata una grande verità! Che ne dite?
(www.libreriadelledonne.it, 15 maggio 2019)
di Luisa Muraro
Mercoledì 8 maggio 2019 i giornali hanno dato la notizia della sentenza della Cassazione che risponde no alla richiesta di riconoscimento della paternità congiunta da parte di una coppia maschile. No, in pratica, a registrare anagraficamente dei bambini come se fossero nati da due padri. La sentenza è ben motivata ma è scritta nel linguaggio del diritto con riferimenti che non sono tutti di immediata comprensione. Richiede quindi una qualche spiegazione. Ma la richiede ben più anche per un altro motivo, che viviamo in un tempo di passaggio dal patriarcato a una civiltà capace di accordare uguaglianza e differenza, problema niente facile di lettura e applicazione delle leggi.
La richiesta del riconoscimento veniva da una coppia maschile unita civilmente in Italia, che quel riconoscimento aveva già ottenuto da un giudice straniero, nel paese dov’era nato il bambino (più precisamente, i bambini che sono infatti due). La coppia voleva che il riconoscimento della paternità fosse congiunto anche in Italia. Il che, per noi, equivale al misconoscimento della donna che, nella nostra civiltà e nello spirito della legge, è la madre. Lo voleva inoltre con un procedimento irregolare rispetto alla legge dell’adozione.
Il telegiornale di Raitre ore 14.20 ha dato un riassunto molto, troppo breve, della notizia lasciando lo spazio del commento unicamente all’avvocato della coppia. L’avvocato ha fatto il suo lavoro e nel telegiornale ha parlato schierandosi contro la sentenza della Cassazione, dalla parte dei suoi clienti.
Ma, chiedo alla redazione del telegiornale di Raitre, se voi non parlate, se non invitate altri a parlare, chi parla per gli ascoltatori nel senso di informarli meglio che si può sulla legge e sul problema?
L’avvocato, tra l’altro, ha invocato il bene del minore, lasciando credere che i bambini nati all’estero, in Italia restano senza genitori. Falso! Essi avranno un padre, quello biologico, che è uno dei due adulti della coppia maschile. Nel telegiornale nessuno lo precisa e nessuno dice che la sentenza della Cassazione indica la strada giusta per venire incontro al desiderio di paternità dell’altro uomo della coppia.
Devo ammettere che c’è stato un progresso nell’informazione, e mi rallegro. In passato, al telegiornale di Raitre la comparsa di bambini “nati” da due padri in assenza di madre pareva cosa possibile, una notizia fra le altre. Era finzione e il telegiornale non era il posto giusto per offrirla al pubblico. Questa volta una donna c’è, anzi sono due, quella che ha dato gli ovuli e quella che ha portato al mondo la creatura. Non si dice però che lo sdoppiamento del ruolo femminile non era in sé necessario (la gestante a pagamento è per definizione una donna giovane e sana) ma lo esige il buon funzionamento della gpa, che è un affare complesso in cui c’entrano medicina, legge, mercato, bisogni e desideri… E qualità dell’informazione.
Sono molte le cose sottaciute in questa faccenda, quella dei soldi per prima: la visione ideale è molto importante per propagandare la surrogazione, che tocca un’esperienza umana tra le più delicate, quella della relazione materna. E per tenerla ben distaccata dalla prostituzione. Perciò, le donne che in questo nuovo mercato mettono corpo, tempo e salute, in sostanza la loro vita, dovrebbero farlo gratis e così si è cercato di far credere al grande pubblico: tutte donatrici! Lo hanno detto per anni. Molte e molti, specialmente in Italia, ci hanno creduto.
Nella notizia di Raitre c’era ancora un resto importante della falsa visione del gratuito (la parte per il tutto?), infatti si è parlato di “donatrici” di ovuli. Peccato che sia falso anche questo. Il 23 dicembre scorso il Corriere della sera, dopo aver dato il suo contributo alla visione ideale, dà anche una notizia ben diversa, ma la dà come fosse una piccola notizia di cronaca: mancano le donatrici di ovuli, bisogna pagarle… Ah, com’è difficile dire la verità, quando c’entrano le donne!
(www.libreriadelledonne.it, 9 maggio 2019)
di Clara Jourdan
Ringrazio Laura Colombo e Laura Milani per l’articolo La rete toglie, la rete dà… (29 marzo 2019), che ha aperto sul sito della Libreria delle donne la riflessione su una questione molto importante e ormai urgente, la rete e noi, a cui vorrei contribuire analizzando alcuni problemi a partire dalla mia esperienza, perché anch’io non rinuncio alla rete, e cerco di agirvi la mia scommessa politica.
Premetto che sono d’accordo con l’affermazione di Laura Colombo e Laura Milani che anche quando c’è di mezzo la rete, “non è sensato dare tutta la colpa alla rete per singoli comportamenti umani violenti”: trovo giusto e opportuno sottolinearlo in questo sito, perché quando si tratta di relazioni tra donne, tra sé e sé e con le altre, ci sono millenni di patriarcato alle spalle, cioè di separazione dalla madre e assenza di società femminile, che ancora pesano nel nostro inconscio, adesso che il patriarcato è finito e abbiamo creato società femminile: ci sono ferite storiche profonde che non conosciamo abbastanza e che influenzano le nostre reazioni, agganciandosi ai meccanismi della rete e ampliandone gli effetti in maniera spesso distruttiva. Tanto che diversi episodi di questi ultimi anni mi fanno dubitare che sia realmente possibile praticare conflitti tra donne: non ne abbiamo esempi, né d’altra parte possiamo imparare dagli uomini, che come sappiamo si picchiano, si uccidono e addirittura sterminano intere popolazioni quando non vanno d’accordo. Tenerlo presente è necessario per cercare di non sottostare a quelle sollecitazioni delle nostre emozioni che ci tolgono libertà. Se possibile.
Il primo problema della rete per me è stato ed è tuttora l’evitamento a guardare sul serio i problemi della rete. Me ne sono accorta parecchi anni fa quando il nipote quindicenne di una mia cara amica perse la vita gettandosi da una finestra di casa in un “gioco” (non credo fosse davvero un gioco ma non so come chiamarlo) in internet e io ne parlai con una amica più addentro di me nella rete. Invece dell’aiuto a capire come avesse potuto succedere ebbi una risposta irritata, che quelle cose succedono anche senza la rete. Sbalordita da tale reazione, ho pensato che ci fosse qualche impedimento forte a ragionare sulla rete per chi la frequenta intensamente, tipo “non sputare nel piatto in cui mangi”. Adesso mi torna in mente una frase di Sara Gandini che ho ascoltato a un seminario di Diotima alcuni anni fa (cito a memoria): che riguardo alla rete ci sono gli entusiasti e i critici. Io mi sentivo di essere entrambi e continuo a pensare occorra tenere insieme entusiasmo e critica, ma mi rendo conto che la separazione è ancora vera. Oggi si leggono e sentono sempre di più analisi critiche su vari aspetti della rete, ne abbiamo parlato anche in Via Dogana 3, ma sotto sotto è come se restasse un aut aut, essere pro o essere contro. Un sospetto continuo che non aiuta. Perciò quando si vuole criticare la rete bisogna sottolinearne ogni volta la positività. In fondo sono solo una ventina d’anni che la usiamo correntemente. Non è come per i coltelli, che se vuoi dire che il coltello di ceramica può essere pericoloso non c’è bisogno di aggiungere che i coltelli sono utilissimi anzi indispensabili.
Il problema che più mi tocca in questo momento è l’influenza della rete nelle nostre relazioni. È difficile se non impossibile valutarne l’entità, siamo solo agli inizi dell’epoca digitale con la sua mutazione antropologica, ma penso che possiamo e dobbiamo fare uno sforzo di osservazione in noi stesse, nelle nostre relazioni, per vedere almeno il come accade. Nella posta elettronica in molte abbiamo notato come le cose negative vengano amplificate, a volte basta una sfumatura poco gentile a scatenare una reazione emotiva, quanto meno un fastidio, che a sua volta se espresso magari involontariamente nella risposta innesca un circolo vizioso. Mi è capitato un piccolo episodio del genere che si è risolto perché l’altra ha preso il telefono e ci siamo chiarite: è stata una fortuna, e le sono grata, perché io invece ero rimasta intrappolata nel diverbio email. Questo per dire che essere consapevoli dei rischi non impedisce di caderci. E ci sono stati raffreddamenti, perfino rotture di rapporti, anche tra donne a me vicine, che certamente hanno motivi importanti e pregressi ma che io sento legate a questo modo di comunicare che è scrittura ma nell’intenzione è parlare, e sostituisce il parlarsi, quel parlarsi che è all’origine del movimento delle donne e la sua grande risorsa. In rete si scrive come se si parlasse, ma senza la mediazione del corpo, della voce, della presenza fisica, l’effetto è quello della scrittura, e di una scrittura priva della presa di distanza caratteristica dello scrivere per farsi leggere: quindi risulta una comunicazione senza alcuna mediazione, incivile. Che resta: scripta manent. Può anche andare bene se si dicono cose belle, ma è assolutamente pericoloso per le critiche. Su questo problema so che si può intervenire, facendo attenzione innanzitutto al proprio modo di starci e tenendo presente la delicatezza delle relazioni tra donne. Io ho tre principi per usare al meglio le grandi opportunità della rete: 1) curare con precisione l’elaborazione dei messaggi, in particolare rinunciando alle tiritere e leggendo l’effetto che fa prima di spedire; 2) le critiche importanti farle a voce se possibile, se no metterle in positivo (la scrittura lo consente); 3) mai rispondere subito alle email (a meno che si tratti di informazioni brevissime e urgenti), questo evita la reattività e consente di dare una risposta più soddisfacente anche per me. Ne ho la conferma quando mi lascio scappare una risposta immediata, sia pure curata: poi me ne pento e mi viene in mente quello che avrei dovuto invece dire. Ed è un’occasione perduta, se non peggio, un danno. Proprio perché in rete agiamo politicamente. Questo di agire sempre politicamente e non reattivamente va tenuto come un punto fermo, in presenza del fatto che la rete favorisce al contrario come sappiamo l’usarla come sfogatoio immediato e pubblico delle frustrazioni, una rinuncia a pensare per le difficoltà a fare politica in questo mondo tanto ingiusto. Nella rete viaggia di tutto, ci sono personalità che si divertono con le provocazioni, gli insulti, e come ricordavo prima vengono fuori con crudezza i problemi delle relazioni tra donne ereditati dal patriarcato. Ma è possibile non farci intrappolare da quelle e da questi, ne sono convinta, perciò spero con fiducia che le donne che hanno praticato rotture in rete ci ripensino; abbiamo tutte tanti difetti, e facciamo sbagli anche gravi, ma sono molti anni che scommettiamo sulla tenuta delle nostre relazioni. Sarebbe davvero il colmo che quello che non ha potuto il patriarcato contro di noi lo possa la rete! Non sappiamo come è cominciato il dominio patriarcale ma sappiamo come è finito: non ha avuto più il credito femminile. Non diamo credito ai meccanismi distruttivi del neutro universale tecnologico, non lasciamo che la rete diventi questo per noi.
(www.libreriadelledonne.it, 5 aprile 2019)
Dopo Piazzapulita un’altra intervista a Nichi Vendola a La 7, Aria che Tira. Vendola si dice contento (sic) che le femministe siano preoccupate per la “deriva mercantile” della Gpa (gravidanza per altri). Dice che se ci fosse stata la possibilità di adottare, lui avrebbe adottato. Vero? In Italia non avrebbe potuto ma il suo compagno è canadese e in Canada avrebbero potuto. Non dice, al solito, quanto gli è costata l’operazione e parla del solito “rimborso”. Parla pure di “donatrice” di ovulo.
Il rimborso è un modo di dire (falso) ma la donatrice è semplicemente falsa. Quando la donazione è richiesta dalla legge, ecco che cosa capita: “Mancano donatrici per l’eterologa: l’ipotesi di rimborso fino a 600 euro” (Corriere della sera, 23 dicembre 2018).
Torniamo a Vendola. Non fa alcun riferimento alla salute delle due donne (la gestante, cioè la madre secondo noi, e la pseudodonatrice), che per condurre l’impresa sono state bombardate di ormoni. Invece trova violenta e rifiuta l’espressione “utero in affitto” e spiega: quelle donne vogliono bene a Tobia. Ci crediamo: è figlio loro.
Alla domanda di Myrta Merlino: “Ma perché l’hanno fatto?”, la risposta non è perché avevano bisogno di soldi, ma “perché Britney e Charlene avevano un desiderio di dono”. La “donatrice era curiosissima di fare questa esperienza” (ovvero sottoporsi a cicli di stimolazioni ovariche, molto pericolosi, e farsi prelevare gli ovociti in anestesia generale). Gli uomini hanno sempre avuto strane idee sulle donne e sulla loro curiosità.
Quanto alla gestante, secondo Vendola sarebbe una che “ama partorire, è un genio del partorire”. Non commentiamo.
La redazione
(www.libreriadelledonne.it, 5 aprile 2019)
di Luisa Muraro
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
di Laura Colombo e Laura Milani
In una lunga intervista sul quotidiano francese Le monde del 27 febbraio 2019, il regista Nanni Moretti dà ragione della crisi della democrazia e del ripiegamento identitario che vediamo accadere in molti paesi europei con queste parole: “Le propongo questo cocktail: una crisi oggettiva delle classi medie e popolari; la scomparsa della sinistra e degli ideali collettivi; la paura dell’altro sordamente alimentata nelle persone; la detestabile presa che ha la Rete sul nostro comportamento sociale e sulla nostra maniera di pensare”.
L’ultimo elemento ci ha particolarmente colpite: siamo donne che abitano la rete da tempo e che in rete, con il sito e i social della Libreria delle donne di Milano, hanno giocato una scommessa politica importante. Proprio per questo capiamo il senso delle parole di Moretti, che riecheggiano le nostre esperienze e le riflessioni maturate nel tempo su ciò che accade in rete e ciò che capita a noi quando siamo in rete. Con la rete si è operato uno spostamento: gli scambi personali e politici, quello che Moretti chiama socialità, si è in parte spostata dai luoghi reali ai luoghi virtuali. Pensiamo alla politica istituzionale: dall’Italia agli Stati Uniti, i messaggi Twitter sono il primo canale di esposizione dei politici, efficaci perché sintetici e contestuali a ciò che accade, ma necessariamente determinati dalla logica del pro e contro. È una pratica molto diffusa, che rivela un bisogno di esserci e comunicare ma toglie l’essenziale nei dibattiti e nella politica. Toglie lo scambio in presenza, fatto di corpi, di sguardi, di sfumature nell’espressione e nel linguaggio. La rete cambia anche la compagnia, quella virtuale si comporta diversamente da quella reale. Spesso attraverso i social ricreiamo una comfort zone virtuale, una comunità di simili cementata dal bisogno di “essere contro”. Ci sono molti esempi che riguardano la politica in senso lato. Purtroppo il femminismo non è esente da queste logiche e la questione non è banale, perché la situazione si può trasformare in “una contro tutti”, o “qualcuna contro altre”, senza la mediazione dei corpi. È precisamente l’assenza di una mediazione che modifica la maniera di pensare: la mediazione, fatta dal coinvolgimento di tutti i cinque sensi in una presenza empatica, permette un riposizionamento rispetto al già detto e al già pensato, allarga l’orizzonte della responsività immediata e sintetica spesso indotta dalla rete. Il modo di pensare può anche essere condizionato dalle notizie false, dalla capacità dialettica o dall’arroganza di chi è pro o contro un’idea, dal gusto dello scontro frontale, della provocazione, dello schieramento fra chi vince e chi perde, della violenza verbale. Pensiamo alle minacce di morte e di stupro verso Laura Boldrini, che nel 2017 ha reagito denunciandone gli autori, per dare un segno di reazione al bullismo in rete, per essere esempio verso chi, più indifesa, porta scritte sul corpo le offese e le violenze che la rete registra rendendole immodificabili.
Tuttavia non è sensato dare tutta la colpa alla rete per singoli comportamenti umani violenti. La violenza verbale e le scorrettezze hanno nomi e cognomi, le offese sono fatte su persone reali. E questo nella rete ha un suo spazio e talvolta il linguaggio offensivo è un suo linguaggio. Ma non sempre e non per tutti. La rete non solo toglie, la rete dà. Di più, è un ingrediente ineliminabile della nostra vita che permette vicinanza, connessione e contatto a distanza, personale visibilità, senso di partecipazione e di comunità, possibilità di esprimersi, senso di esserci e contare, informazione ampia, diretta, dal basso.
Come difenderci, allora, da quello che la rete toglie o usa di noi per altri fini? Ci toglie qualcos’altro oltre allo scambio in presenza, c’è un conto che la rete ci presenta e che, senza neanche saperlo, noi paghiamo. Ci riferiamo, qui, ai dati come moneta di scambio, a tutto quello che, navigando, sborsiamo nei termini del nostro privato – preferenze, scelte personali, politiche, sessuali, religiose – che, senza mediazioni, è reso pubblico o usato per fare profitto. Ci abbiamo pensato, arrivando a un punto che va approfondito. Alla rete non rinunciamo, non solo perché oggi non è possibile, ma perché ci interessa, il nostro desiderio e la nostra scommessa politica sta anche lì. Si tratta di esserci con una propria misura, data essenzialmente da quello che circola nei rapporti tra noi, in primis nelle relazioni in carne ed ossa di noi che facciamo il sito (l’abbiamo chiamata “redazione carnale”). Ma, in concreto, in cosa si traduce questa misura data dalle relazioni? In alcuni casi significherà preservarsi, valutando di volta in volta il conto da pagare. In altri, significherà spendersi per attivare il circolo virtuoso rete-mondo, alla maniera di Greta Thunberg, per citare l’esempio più recente di una politica che punta in alto.
(libreriadelledonne.it, 29/03/2019)
Aspirina la rivista acetilsatirica se ne va
a causa di un attacco di Bayer, produttore della nota pillola.
Nel novembre 2017, dopo trent’anni dalla nascita della rivista
e ventidue dalla registrazione di marchio per l’editoria,
Bayer ha dichiarato di non poter sopportare la nostra esistenza.
Nasce Erbacce. Forme di vita resistenti ai diserbanti
un blog per raccontare, riflettere e ridere.
L’archivio di Aspirina 1987-2018 si trasferisce su Erbacce la rivista.
Per
leggere la storia completa: www.erbacce.org
Per accedere all’archivio di Aspirina: www.erbaccelarivista.org
Mille erbacce fioriscano!
Questa è l’ultima newsletter di Aspirina, le
prossime arriveranno da Erbacce.
(www.erbacce.org, 11 marzo 2019)
di Luisa Muraro
Immagino i commenti desolati, a cominciare da: povera Italia, un’altra brutta figura all’estero! E adesso ci si mettono anche le donne! Con quella sentenza, non c’è dubbio, faremo il giro del mondo.
Parlo ovviamente della sentenza d’appello di Ancona che ha assolto due giovani uomini già condannati in primo grado a tre e cinque anni per violenza sessuale su una loro coetanea. La sentenza d’appello è stata annullata di corsa: vizio di forma, processo da rifare, ecc., subito dopo la lettura delle sue motivazioni. Fra le motivazioni, c’è (c’era, ormai è carta straccia) che la vittima non era abbastanza desiderabile, oltre a essere di origine peruviana. Non mi risulta che nessun giudice di sesso maschile si sia spinto a tanto nel disprezzo della legge e delle donne.
Come noto, la Corte d’appello era formata da tre donne. Nelle loro aberranti motivazioni, io trovo un tocco d’inconfondibile femminilità… Se pensate che in queste mie parole ci sia della misoginia, non lo escludo: esiste una misoginia femminile, l’ho imparato leggendo i Piccoli racconti di misoginia di Patricia Highsmith.
Ma il mio scopo, qui, è di difendere quelle tre. Ovviamente, anch’io sono, come voi, sbalordita dalla loro immaturità psicologica e dalla loro ignoranza del mondo. E, come molti, mi chiedo: ma dove hanno studiato legge? Chi le ha fatte entrare e avanzare nella magistratura? E come hanno potuto trovarsi in tre, tutte tre d’accordo fra loro a ragionare così storto, cioè fuori dal diritto? Bisogna sapere che, nelle motivazioni della sentenza che nega credito alla vittima e assolve gli stupratori, c’è allegata una foto di lei a riprova della sua non desiderabilità da parte maschile, e questa foto sarebbe un elemento di prova che prevale sul certificato medico che ammette la violenza sessuale.
Scrive il grande filosofo Montaigne (e così comincia la mia difesa): le donne che si rifiutano di seguire le regole del vivere che vengono via via fatte valere a questo mondo, non hanno del tutto torto: sono regole fatte dagli uomini senza loro, le donne stesse (sans elles). Il filosofo, che sta riflettendo sui rapporti fra i sessi e sul desiderio sessuale, afferma che c’è giustamente un conflitto e parla esplicitamente di pretese contradditorie degli uomini sulle donne.
Sono passati secoli ma queste notazioni restano vere, specialmente in un paese come l’Italia. È un paese innamorato della bellezza fisica delle persone, forse a causa della tanta bellezza artistica e (per quel che ne resta) paesaggistica. Ma è governato prevalentemente da marpioni che una cosa dicono e un’altra fanno, per cui la sua antica civiltà, che brilla anche nel diritto, si è trasformata in una vischiosa arretratezza patriarcale. Non c’è donna che non sappia, sulla sua pelle, giorno per giorno, anno dopo anno, a nord o a sud, al mare o in montagna, in città o in campagna che cosa vuol dire apparire desiderabile, o viceversa, non desiderabile agli occhi dei maschi, con le conseguenze che ciò ha, a seconda delle circostanze: se sei ricca o povera, sola o in compagnia, in casa o per strada, in discoteca o in chiesa, vestita così o vestita colà, giovane o vecchia, in carriera o sui campi a raccogliere verdure… Il principio di uguaglianza? È scritto nella Costituzione, era sulle bandiere della rivoluzione liberale, è messo in testa alla proclamazione dei diritti umani e sui trattati internazionali. Ciò nonostante, sono due anzi tre secoli che le donne nei paesi sedicenti liberi e democratici combattono per vederlo riconosciuto, questo famoso principio, e ancora non ci siamo.
Per parte mia mi sono stufata del femminismo dell’uguaglianza e, al seguito di Carla Lonzi, dico: pretendo l’uguaglianza ma alla libertà intendo arrivare con la differenza del mio essere donna.
E domando: c’è veramente da scandalizzarsi se le tre di Ancona hanno ragionato non in base al diritto scritto ma in base al principio dettato dalla loro esperienza di donne suppongo graziose che è di piacere (agli uomini)? Io questo non l’ho mai fatto, mia madre mi ha insegnato neanche a pensarci, lo stesso ho insegnato alle mie studentesse, ma riesco, non dico a giustificarle, a capire il moto profondo che le ha portate a far valere, sopra la cultura ufficiale, la legge non scritta di una condizione vissuta quotidianamente a causa della diffusa inciviltà maschile.
Morale della favola: non bastano i trenta e lode, non bastano la parità o i diritti o le manifestazioni, tutto bene ma prima di tutto ci vuole la presa di coscienza che dà occhi, sentimenti e pensieri per giudicare il mondo nell’indipendenza da quello che va bene agli uomini. Si chiama indipendenza simbolica.
(www.libreriadelledonne.it, 11 marzo 2019)
La Libreria delle donne di Milano, ieri, oggi
Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4, Milano, 1 aprile – 6 giugno 2019
a cura di Francesca Pasini
Catalogo Nottetempo, cm 27 x 27, euro 28
a cura di Francesca Pasini & Chitra Piloni
Opening 1 aprile ore 18.30
Conferenza stampa 1 aprile ore 13 – Fabbrica del Vapore
“L’arte non è universale perché supera la differenza tra uomini e donne, ma perché la rappresenta attraverso l’ineliminabile movimento tra chi crea e chi guarda”, scrive Francesca Pasini in catalogo. Le opere delle 30 artiste esposte dal 2015 in una delle vetrine della Libreria, nel programma “Quarta Vetrina”, insieme a quelle donate nel 1975, da un lato, restituiscono la storia che è parte integrante della mostra con una serie di incontri culturali e politici. Dall’altro, intrecciandosi con la pratica della Libreria, mostrano che la libertà delle donne è venuta al mondo. È in atto un cambio di civiltà di cui l’arte, a partire dalla preistoria, è figura reale, simbolica, metaforica.
Vandana Shiva, già ospite in Libreria durante Expo, torna appositamente per quest’occasione con una conferenza dedicata “all’ecofemminismo, una delle risposte chiave alla crisi ecologica e al caos climatico”. È presidente di Navdanya International – Onlus, che promuove un nuovo paradigma agricolo ed economico, una cultura del “cibo come salute”, in cui prevalgono la responsabilità ecologica e la giustizia economica.
Artiste
Carla Accardi, Paola Anziché, Marina Ballo Charmet, Mirella Bentivoglio, Valentina Berardinone, Tomaso Binga, Enrica Borghi, Alessandra Caccia, Chiara Camoni, Nilde Carabba, Alice Cattaneo, Vittoria Chierici, Gabriella Ciancimino, Dadamaino, Marta Dell’Angelo, Amalia Del Ponte, Paola Di Bello, Elisabetta Di Maggio, Elena El Asmar, Bruna Esposito, Stefania Galegati, Goldschmied e Chiari, Sophie Ko, Christiane Löhr, Loredana Longo, Claudia Losi e Sabrina Mezzaqui, Paola Mattioli, Marzia Migliora, Concetta Modica, Maria Morganti, Margherita Morgantin, Ina Otzko, Maria Papadimitriou, Angela Passarello, Annie Ratti, Caterina Saban, Elisa Sighicelli, Eugenia Vanni, Grazia Varisco, Nanda Vigo, Tori Wrånes.
La Libreria delle donne di Milano è nata nel 1975 con il sostegno economico di Carla Accardi, Valentina Berardinone, Nilde Carabba, Dadamaino, Lucia Pescador, che hanno donato le loro opere. In mostra ci sono quelle di Accardi e Berardinone, prestate da collezionisti che le avevano acquistate allora.A libreria aperta, con Lea Vergine, è stata ideata una cartella di grafiche di Carla Accardi, Mirella Bentivoglio, Valentina Berardinone, Nilde Carabba, Tomaso Binga, Dadamaino, Amalia Del Ponte, Grazia Varisco, Nanda Vigo. La cartella accompagnata dai testi di Lea Vergine e delle artiste è presente in mostra e in catalogo. Ieri e oggi la politica, l’arte, la filosofia, la letteratura continuano ad essere al centro dell’attività della Libreria.
La mostra alla Fabbrica del Vapore è un momento della travolgente apparizione di donne artiste in tutto il mondo. Quest’apparizione ha fatto nascere un più forte desiderio di vedere e conoscere le artiste della fine degli anni ’60, le cui opere, soprattutto negli Usa, hanno preceduto e accompagnato in tutto il mondo la presa di parola delle donne, che chiamiamo femminismo. E contemporaneamente “fa vedere nell’opera un soggetto messo al mondo da donne o uomini e non più da un artista neutro” (Pasini). Alla Fabbrica del Vapore, un book shop, gemello di quello di via Pietro Calvi 29, offrirà una selezione di titoli di ieri e oggi della Libreria.
Riprese/Montaggio degli opening di “Quarta Vetrina”: Egle Prati, Cristina Rossi e Chiara Mori, con la collaborazione di Alessandra Quaglia.
Ingresso libero: lunedì 15 – 19 / da martedì a domenica 11 – 19
Programma degli incontri
Orario 18,30-21
Lunedì 08 aprile 2019
Ricerca ed esperienza pubblica delle donne
Adriana Albini, scienziata
Chiara Bisconti, manager e assessora
Sandra Bonfiglioli, docente universitaria
Anna Catasta, politica e progettista europea
Chiara Zamboni, filosofa
Artiste: Enrica Borghi, Paola Di Bello, Claudia Losi, Eugenia Vanni
Lunedì 15 aprile 2019 ore 18
Me too, analisi di una svolta epocale
Lia Cigarini, Libreria delle donne di Milano
Marisa Guarneri, Casa delle donne maltrattate di Milano
Luisa Muraro, Libreria delle donne di Milano
Artiste: Elisabetta Di Maggio, Loredana Longo, Stefania Galegati, Marina Ballo Charmet
Giovedì 02 maggio 2019
Evento speciale con Vandana Shiva, presidente di Navdanya International – Onlus
Sabato/Domenica 18/19 maggio 2019 ore 10.30-21 e 10.30-13.30
Convegno femminista
Cambio di Civiltà. Arte, lavoro, politica delle donne (madri comprese)
Lunedì 27 maggio 2019
SIRKLING, video-Performance di Tori Wrånes
Opere d’arte, opere di critica
Filippo Del Corno, assessore alla Cultura di Milano
Emanuela De Cecco, critica e docente
Manuela Gandini, critica e docente
Francesca Pasini, critica e curatrice
Uliana Zanetti, curatrice MAMbo
Artiste: Marta Dell’Angelo, Concetta Modica, Margherita Morgantin, Elena El Asmar
Lunedì 3 giugno 2019 Finissage
I linguaggi delle donne
Anna Scavuzzo, vicesindaca di Milano
Maria Attanasio, poeta, scrittrice
Donatella Di Pietrantonio, scrittrice
Nadia Fusini, critica letteraria
Rosaria Guacci, Mirella Maifreda, Libreria delle donne di Milano
Artiste: Bruna Esposito, Maria Morganti, Sabrina Mezzaqui, Annie Ratti
Visite guidate durante tutto il periodo della Mostra.
Link Dropbox
Comunicato stampa
Press release
(www.libreriadelledonne.it, 8 marzo 2019)