di Mira Furlani
Sul sito della Libreria Luisa Muraro ha commentato l’incontro di sabato 26 ottobre cui ha partecipato su invito di Iniziativa Femminista per ragionare di politica delle donne nel presente-futuro. A un certo punto essa scrive: «[…] sono convinta, come altre, che bisogna accorciare le distanze tra la politica delle donne e quello che sta capitando nel mondo di donne e uomini, un mondo in pieno cambiamento, femministe comprese. E m’interessa ascoltare quelle che queste distanze non le accettano, l’accordo o il disaccordo verrà dopo.»
Sono rimasta molto perplessa, soprattutto leggendo la frase bisogna accorciare le distanze. Che cosa vuol dire in pratica, mi sono chiesta? Ho posto la domanda direttamente a Luisa che così ha risposto:
«[…] una bella domanda! Provo a rispondere: in pratica vuol dire far interagire persone, questioni e ambienti distanti e dare parola a quello che succede in queste interazioni. In teoria penso anche a fare degli spostamenti, per esempio: dico no al fare partito ma posso sostenere donne che vogliono candidarsi o interessarmi a persone impegnate in politica; promuovere prese di posizioni, fare dei confronti e far pesare di più nella vita pubblica il femminismo, come? Combattere la timidezza di molte, moltissime, nella vita pubblica e incoraggiare le più giovani a inventare…».
Il suo dire no al fare partito mi ha subito risollevata togliendomi di dosso un grande timore, una precisazione che ci voleva anche perché solo così il resto della sua risposta assume grande valore. Lo affermo e lo so per un’esperienza che ho fatto e che racconto.
Nel 1975, in occasione delle elezioni comunali di Firenze (dove abito), furono tenute per la prima volta anche le elezioni delle Circoscrizioni (Consigli di Quartiere) a suffragio diretto e io fui eletta a furor di popolo, per varie circostanze favorevoli che si possono dedurre leggendo il mio libro Le donne e il prete, ed. Gabrielli, 2016. Fui eletta come indipendente di sinistra nella lista del PCI.
Quel primo decentramento amministrativo coinvolse totalmente la base elettorale e nel mio quartiere, l’Isolotto, votarono quasi tutti. C’era tanta speranza di partecipazione dal basso che però, per me eletta, fu subito mortificata e delusa. Il motivo? Per una donna essere eletta come lo fui io era troppo e troppo presto. Nessuno se l’aspettava e io non feci nulla per essere eletta, né manifesti o altro tipo di pubblicità. Che cosa voglio dire? Il femminismo nasceva allora, dominavano ancora partiti forti come PC e DC. Presto mi accorsi che tutte le poche donne elette erano state appoggiate ed erano controllate da uomini dell’apparato dei partiti. Nessuna era libera. Io mi trovai subito malissimo. Sola e inesperta, che potevo fare? Fui nominata responsabile della sanità e dei servizi sociali. In Consiglio tutte le mie richieste, osservazioni e critiche cadevano nel nulla, figuriamoci inventare nuovi sistemi per amministrare bene e in modo onesto! Dopo mesi di combattimento fra esigenze della base e impossibilità a rispondervi in alcun modo detti le dimissioni deludendo la gente che mi aveva votata. In un convegno su donne e politica mi chiamarono la Giovanna d’Arco bruciata viva…
Che cosa mi ha insegnato quell’esperienza? Mi ha insegnato che una donna che intende fare politica seconda (quella istituzionale, per intenderci) non può stare da sola dentro istituzioni costruite e rette dalla cultura maschile dominante. Se vuole starci ha bisogno di essere sostenuta da altre donne, altrimenti viene subito schiacciata e omologata al maschile, a cominciare dal linguaggio.
I tempi sono cambiati e bisogna accorciare le distanze tra la politica delle donne e quello che sta capitando nel mondo di donne e uomini, un mondo in cambiamento, femministe comprese? Penso proprio di sì e come femminista concordo in pieno con la risposta che Luisa Muraro mi ha dato, specialmente quando dice no a fare partito… e far pesare di più nella vita pubblica il femminismo.
Firenze, 6 novembre 2019
(www.libreriadelledonne.it)
di Luisa Muraro
Sabato 26 ottobre, a Milano, nei locali di ELF teatro-scuola d’attore, dalle parti di Porta Romana, ci siamo incontrate su invito di Iniziativa femminista per ragionare insieme di politica delle donne nel presente-futuro. Il titolo dell’incontro era, cito a memoria, dall’utopia letteraria alla concretezza dell’agire politico. Qualcuna, ricevendo l’invito così concepito, aveva protestato per quel titolo, come se il femminismo finora fosse stato utopico e letterario. Ma non era questo il significato del titolo! Chi lo ha coniato, aveva in mente testi come Terra di lei, che è effettivamente un testo letterario utopico. Il significato era dunque questo: come possiamo passare, da quelle idee utopiche che condividiamo a un effettivo governo di lei che realizzi quelle idee.
All’incontro del 26 ottobre, la prima che ha parlato ha chiarito subito il vero significato del titolo, e io ne sono stata ben contenta, salvo dire dentro di me: attenzione ai titoli! (ho taciuto per non fare la noiosa). Aggiungo che all’incontro sarei andata comunque, per questo motivo: sono convinta, come altre, che bisogna accorciare le distanze tra la politica delle donne e quello che sta capitando nel mondo di donne e uomini, un mondo in pieno cambiamento, femministe comprese. E m’interessa ascoltare quelle che queste distanze non le accettano, l’accordo o il disaccordo verrà dopo.
Non c’era molta presenza, però me ne intendo abbastanza di ricerca per sapere che il numero non è essenziale. Tant’è che l’incontro per me è andato bene. Mi è piaciuto anche il posto, che non conoscevo, un posto centrale ma defilato, di cui entrando si sentiva la frequentazione affettuosa e civile (di più non so).
Tra le altre cose, forse la più significativa, era la presenza di due spagnole, Ana e Chelo (pronuncia Celo), socie di Iniziativa femminista internazionale (FI), una rete di “partiti femministi” presente in alcuni paesi europei, e impegnata a sostenere donne dichiaratamente femministe nelle elezioni politiche e amministrative. Finora con poco successo, va detto.
Chelo ha esposto la storia e il programma di FI in Spagna il cui nucleo è formato da cinque donne. Lo ha fatto che meglio non si poteva.
La mia idea e pratica di politica delle donne è diversa dalla sua in alcuni punti non secondari. Come ha detto Françoise Collin (http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/che-cose-il-femminismo/), il movimento femminista è poco o niente propenso a fare partito, e questo per ottime ragioni secondo me. Ma da una donna come l’amica spagnola che ha parlato al teatro ELF, vi assicuro che c’è molto da imparare in fatto di pensare, ragionare e, non ultimo, parlare di politica. È stata affascinante, non esagero.
Del suo discorso, senza fare qualche scolorito riassunto, riporto tre idee.
Ha detto, per cominciare: se una non sente la necessità interna di fare questo che vi sto proponendo, “meglio che metta su un albergo”, per dire: che lasci perdere e s’impegni in altro. Questa condizione l’avevo già ascoltata da Lia Cigarini a proposito della scelta politica di stare dalla parte delle donne, che è adeguata se viene sentita come internamente necessitante. Lia lo diceva criticando la doppia militanza e tutte quelle posizioni all’insegna del “et et”, questo e quello, che perdono il taglio femminista.
La seconda idea è collegata alla prima. Chelo ha detto: “che il vostro impegno politico non sia anecdótico ma storico”. Noi avremmo usato un’altra parola, ma s’intuisce quello che voleva dire; quanto a spiegarlo, un libro basterebbe appena. Bisogna pensarci e ripensarci. Attenzione che il suo non è un invito alla fissazione, è un invito a situarsi in prima persona nella realtà sapendo quello che si desidera e facendo dei conti realistici alla grande.
E questo ci porta alla terza idea, non meno importante delle altre, con la quale però io non sono d’accordo e spiegherò perché. Secondo Chelo nell’agire politico, una volta presa la decisione (per lei, di fare un partito femminista), si agisce per esserci, non per vincere, il risultato non conta, conta partecipare. Il “non per vincere” non mi trova d’accordo. È una questione sulla quale, parecchi anni fa, ho discusso con Chiara Zamboni di Diotima. Chiara si è espressa diversamente ma anche lei diceva “non per vincere”. Il nostro immaginario, di origine maschile, pensa il vincere come l’arrivare primo. Anche i partiti corrispondono a questo immaginario. Io non la penso così, anzi, ho sempre preferito “arrivare seconda” per dire: arrivare al traguardo più riposata. Ma: arrivarci!
C’è del realismo nell’idea di Chelo: lei sa che i partiti femministi sono tra gli ultimissimi nella gara elettorale. Lo sa lei, lo sappiamo tutte. A me il realismo piace, e proprio per questo ho bisogno di pensare che il risultato, per quanto piccolo, mi porta nella direzione giusta. Ne ho bisogno anche per un altro motivo, più soggettivo: il risultato, per quanto piccolo ma meglio se è grande! mi restituisce in pieno le energie spese nell’impresa. Qui mi fermo. So che dovrei mettermi a discutere con Chelo sul fatto che per me e innumerevoli altre femministe il “fare partito” non è qualcosa che si trovi nella direzione giusta. Che è quella della libertà femminile, la mia e quella delle altre donne, libertà che, ripetiamolo ancora una volta, non ha mai escluso gli uomini. Mi fermo qui perché ho l’assoluta certezza che, su quest’ultimo punto, mi trovo d’accordo con le amiche d’Iniziativa femminista, Chelo compresa. A volte, anzi spesso, è meglio non schierarsi contro per ascoltarsi meglio.
(www.libreriadelledonne.it, 31 ottobre 2019)
Nel gennaio 2020 si apre una nuova edizione della Scuola di scrittura pensante di Luisa Muraro e Clara Jourdan, durata 11 anni dal 2007 al 2017. Ripartiamo da idee emerse in un incontro recente alla Libreria delle donne (video: https://www.youtube.com/watch?v=_HVwojo_CdI). È emerso che le distanze tra politica delle donne e politica in senso ordinario si sono accorciate. Ma che cosa vuol dire e che conseguenze ci sono? Da qui l’idea di una scrittura politica che ci aiuti a pensare la politica delle donne che interagisce con il mondo globale. Si tratta soprattutto di intrecciare il contingente con la lunga distanza.
Il corso comincerà sabato 18 gennaio 2020 e continuerà per tutti i sabati fino al 21 marzo compreso, dieci incontri dalle 10.30 alle 13.00, presso la Libreria delle donne in via Pietro Calvi, 29 – 20129 Milano (tel. 02 70006265). La prima mezz’ora sarà dedicata allo scambio informale, i lavori veri e propri dureranno fino alle 13.
Al primo incontro suggeriamo di portare almeno 5 titoli per un inizio dei lavori sul tema: che cosa funziona quando un titolo funziona e viceversa, che cosa non funziona quando un titolo non funziona. La Scuola è aperta a maschi e femmine.
Suggerimenti di lettura: Rachel Moran, Stupro a pagamento (Paid for, 2013, trad. it. Round Robin 2017); Cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda, Sottosopra 2018, con testi di Lia Cigarini, Giordana Masotto, Alessandra Bocchetti, Rachel Moran, Luisa Muraro; Silvia Niccolai, La legge Merlin e i suoi interpreti, in AaVv, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione (VandA.epublishing, 2019); Luisa Muraro, Introduzione alla trad. it. di Virginia Woolf, Le tre ghinee (1938, Feltrinelli 1979); Manifesto di Rivolta femminile (1970), in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel (Scritti di Rivolta Femminile 1974, et/al 2013); Antonella Cunico, Per un’Altra Città, in Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa (Liguori 2009); Cristina Gramolini, Frattura scomposta. Il dibattito sulla surrogazione di maternità nel movimento lgbt+ italiano, in Laura Corradi (cur.) Odissea embrionale (Mimesis 2019); Daniela Danna, La piccola principe(VandA.epublishing 2018); Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti delle Madres di Plaza de Mayo (2003); Laura Minguzzi, La storia respinta, storia come vita significante, in DWF. La pratica della storia vivente (2012); Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile (Vita e Pensiero 2019); la biografia di Valerie Solanas.Vita ribelle della donna che ha scritto SCUM, di Breanne Fahs (Il Dito e La Luna 2019); Lia Cigarini, Sopra la legge, “Via Dogana” n. 5 (giugno 1992); Massimo Lizzi, Gli amici delle donne, www.libreriadelledonne.it 13 luglio 2018; Luciana Tavernini, La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti, VD3, www.libreriadelledonne.it 16 ottobre 2019.
La bibliografia è aperta alle scelte personali e a nuove indicazioni delle partecipanti. I testi indicati sono in vendita presso la Libreria delle donne di Milano.
Luisa Muraro e Clara Jourdan
Per altre informazioni e per iscriversi, rivolgersi a Clara Jourdan: info@libreriadelledonne.it Potete contattarla di persona il venerdì pomeriggio (ore 16-19) dal 15 novembre 2019 presso la Libreria delle donne.
(www.libreriadelledonne.it, 31 ottobre 2019)
di Maria Arena
Care amiche della Libreria delle donne,
vi scrivo per parlarvi del mio nuovo progetto cinematografico dal titolo Il terribile inganno.
Il terribile inganno è il racconto in prima persona di un incontro che mi ha portata a fare una riflessione e che ha risvegliato in me delle domande che in fondo, forse, mi ponevo sin da bambina ma me n’ero dimenticata. Mi sono chiesta chissà a quante altre donne è successo di dimenticare.
Ecco in breve la trama: Maria incontra a Milano le donne del movimento femminista NonUnaDiMeno e fa un bilancio sull’esser donna oggi rileggendo alcuni fatti della sua vita. Segue le attività delle giovani femministe e incontra anche Olympe de Gouges.
Con il Il terribile inganno ho vinto il bando di InfinityLab, «Produzioni dal basso», che consiste nel portare avanti per due mesi un crowdfunding di € 20.000 “tutto o niente”, che significa che devo raggiungere il 50% della cifra (€ 10.000) per poter vincere e avere il restante 50% di € 10.000 da Infinity, se non dovessi arrivare a coprire il 50% perderei anche il resto e verrebbero restituiti i soldi ai sostenitori. Diciamo che ho considerato la coproduzione eventuale di Infinity un incentivo… Precedentemente avevo tentato altri bandi, Siae, Solinas e Banca Etica con lo stesso progetto ma con esito negativo.
Quindi eccomi qua a 30 giorni dalla chiusura di questa raccolta fondi che scadrà il 28 novembre… Al momento abbiamo raccolto € 5.000, contribuisce gente che in qualche modo si sente parte di questo progetto che non riguarda solo le donne.
Andando a questo link http://sostieni.link/23225 potete vedere il teaser, leggere il progetto scritto e sostenere, qualsiasi supporto è molto importante.
Giorni fa ho caricato un video ulteriore a sostegno della campagna, lo trovate qui: https://youtu.be/tLqrjaa8z74 Il terribile inganno è anche su: FB https://www.facebook.com/ilterribileinganno/ Instagram https://www.instagram.com/ilterribileinganno/?hl=it
La strada è più lunga ma faremo strada.
A presto
Maria Arena
(www.libreriadelledonne.it, 30 ottobre 2019)
di Silvia Baratella
Una ricerca recentemente pubblicata, e commentata da Clara Jourdan su questo sito il 9 ottobre 2019, ha richiamato la mia attenzione sulla parola “uxoricide”.
Diversi vocabolari danno come definizione di uxoricida “uccisore del coniuge”, ma uxor in latino vuol dire “moglie” e dunque quel femminile plurale vuol dire letteralmente “donne che hanno ucciso la moglie”, un’assurdità. Con un calco latino si sarebbe potuto creare sia “coniugicida” (in francese esiste), sia, per la moglie che uccide il marito, “viricida” o “mariticida”. Invece l’italiano ha esteso alle donne la definizione prevista per gli uomini. Perché? Che cosa fa ostacolo a creare una parola specifica per l’uccisore del coniuge maschio, come si fa nel caso di parenti maschi (parricidio, fratricidio)?
Certo, l’uccisione del marito da parte della moglie nella nostra società è un’eccezione che non fa che confermare la regola della violenza maschile, anche assassina, nei confronti delle donne. Ma non è per questo motivo che manca il termine.
La verità è che uxoricidio in senso letterale, parricidio, matricidio, fratricidio e sororicidio hanno idealmente un uomo come protagonista. È lui l’uccisore. Naturalmente, “anche” una donna può rendersi colpevole di uccidere madre, padre, fratello o sorella, ma è una possibilità accessoria.
Insomma, la lingua nega alla donna di essere unico soggetto possibile di un’azione, soprattutto di un’azione ostile di cui l’uomo è complemento oggetto. Piuttosto che concepirlo, si sceglie di convenire che in italiano corretto l’uccisora del marito si chiami “donna che ha ucciso la moglie”.
Questa omissione può ben esemplificare i limiti dell’ideologia della parità: “anche” le donne possono fare tutto ciò fanno gli uomini, imitandoli persino nell’odio contro loro stesse, ma non possono fare ciò che non emana dai maschi, che li giudica o che li danneggia.
In quest’ottica, limitarsi a reclamare una denominazione su misura non esaurisce la questione, bisogna ragionare sulle asimmetrie tra donne e uomini. Alcune sono irriducibili: gli uomini non possono procreare, le donne sì. Altre invece dipendono dalla posizione in cui la storia ci ha messe, ma possiamo scegliere liberamente di farne qualcosa. È di una di queste dissimmetrie storiche che si tratta? Per me, sì: è un’occasione per tener presente che non aspiro al “diritto” di diventare “viricida”. Aspiro a cercare nuove strade di conflitto e di relazione in un diverso ordine simbolico.
(www.libreriadelledonne.it, 24 ottobre 2019)
Così s’intitola il numero di Internazionale in vendita questa settimana (1329) che dedica molte pagine e foto alla vicenda di questa civilissimo popolo che ha molto lottato per essere libero e ha bisogno di essere aiutato. Cominciamo a conoscerlo, informiamoci su quello che sta capitando e prendiamo le sue parti. (L.M.)
(www.libreriadelledonne.it, 18 ottobre 2019)
di Lorena Fornasir
Buonasera. Sono Lorena Fornasir, vi ho conosciute, frequentate, vi seguo. Mi permetto di inoltrarvi questo mio appello.
Ritorno dal nostro viaggio solidale in Bosnia, dopo aver incrociato un migrante di 21 anni torturato a cui la polizia croata aveva tolto anche le scarpe, non mi sono più potuta fermare all’indignazione.
Di fronte alle immagini di tortura ho sempre chiuso gli occhi. Ora che ho incontrato in carne ed ossa questo ragazzo scorticato con una sbarra di ferro rovente solo per aver varcato i confini della Croazia, ho dovuto guardare in faccia il trauma di questo corpo di dolore. Vorrei segnalarvi ad alta voce questo crimine impunito, complice l’Europa. Ho lanciato una petizione che ha raccolto già molte firme. Vi pregherei, se potete e se ritenete, di sostenermi. Non possiamo rimanere inermi di fronte a questi corpi di dolore che a causa della tortura soccombono ad uno stato traumatico irrisolvibile. Noi siamo i testimoni di quello che accade. Cerchiamo di far conoscere quello che avviene a pochi chilometri dai confini di terra. La petizione è rivolta alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo e al Tribunale permanente dei Popoli.
Grazie per la vostra attenzione.
Lorena Fornasir
Testo della petizione e modulo per firmare
(www.libreriadelledonne.it, 10 ottobre 2019)
di Giuliana Giulietti
Sono vecchi, per lo più filosofi, politici, giornalisti gli uomini che si sono scatenati contro Greta Thunberg. E la attaccano con delle armi spuntate. Senza nessuna argomentazione, ma solo con il loro livore, la loro rabbia, il loro odio, la loro invidia. Alcuni di essi le augurano la morte. Feltri si augura che Greta “si disintegri”. Arron Banks, ricco sostenitore della Brexit, ha auspicato che un incidente distruggesse la barca su cui Greta viaggiava verso gli Stati Uniti.
Altri la deridono. David Dance, attivista britannico di estrema destra, se l’è presa con “la petulanza di questa arrogante ragazzina”, e Massimo Cacciari, dall’alto della sua filosofia, invita Greta a tornarsene a scuola a studiare e ad ascoltare gli scienziati (!) che loro sanno le cose e lei no.
Suzanne Moore in un articolo pubblicato su The Guardian (1° ottobre 2019), «La sfida di Greta sconvolge il patriarcato. Ed è meraviglioso», arriva al nocciolo della questione. I vecchi parrucconi sono spiazzati e sconvolti dal fatto che una giovane donna rifiuti di essere sessualizzata. Greta butta all’aria tutti i loro schemi o stereotipi della “femminilità”. Questa ragazzina che si rifiuta di sorridere, di agghindarsi, di compiacerli e di far loro da specchio, li terrorizza. Non sanno come afferrarla, imbrigliarla, catalogarla. Così André Pivot, filosofo 84enne, si chiede che cosa abbia a che fare Greta con le sexy ragazze svedesi della sua giovinezza. Pascal Bruckner, 70 anni, ha detto che il viso di Greta «è spaventoso e che ostenta il suo autismo». Michel Onfray, 60 anni e pure lui filosofo, sostiene che Greta «ha l’età e il corpo di un cyborg».
E mentre i vecchi parrucconi traballano incattiviti davanti a questa incantevole, tenera, risoluta e serissima adolescente, entra in circolo, dalla parte di Greta, l’autorità femminile. Rebecca Solnit, attivista e scrittrice statunitense (autrice del libro Gli uomini mi spiegano le cose. Saggio sulla sopraffazione maschile) le scrive su The Guardian una lettera: «Cara Greta, grazie per aver viaggiato attraverso l’Atlantico per venire negli Stati Uniti e aiutarci a fare il lavoro più importante del mondo […] siamo al tuo fianco, cerchiamo di realizzare gli obiettivi che la crisi climatica ci impone, di creare un mondo sostenibile per chi è oggi giovane e per chi ancora deve nascere e per la bellezza del mondo che è ancora qui con noi».
Anche Joan Baez le ha scritto una lettera aperta di ringraziamento e ammirazione che potete trovare su Facebook. Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane deputata degli Stati Uniti e che ha presentato al Congresso una proposta di legge che ha chiamato “new deal verde”, dialoga con Greta a distanza (su Internazionale, n. 1324).
Alexandria e Greta si scambiano le loro esperienze e le loro speranze. La giovane donna più grande dice alla giovane donna più piccola: «Quando ho ascoltato il tuo discorso mi sono emozionata, perché qui negli Stati Uniti, anche durante la mia campagna elettorale, la gente diceva che non c’era nessun bisogno di insistere tanto sul tema del clima, che era un atteggiamento troppo radicale […]. Sentirti sostenere convinzioni che sono anche le mie mi ha emozionata e confortata. Perciò volevo ringraziarti per il tuo lavoro e per il tuo impegno […] quando arriverai a New York sarai accolta come una regina».
Questi vecchi tremuli misogini non vogliono rendersi conto che contro l’autorità femminile, la libertà, il coraggio e la forza delle donne, piccole e grandi, non c’è partita. Greta, con il suo semplice esserci e agire, li rende per così dire superflui, li rimpiccolisce. Lei va avanti per la sua strada con le ragazze e i ragazzi della green generation.
(www.libreriadelledonne.it, 10 ottobre 2019)
di Clara Jourdan
«Aumentano le donne uxoricide», leggiamo su Metro, 4 ottobre 2019, che riferisce di uno studio coordinato da Isabella Merzagora, docente di Criminologia all’Università Statale di Milano: nelle province di Milano e di Monza, tra il 1990 e il 2017 si sono verificati 20 casi. «Un divario numerico enorme rispetto alle 172 vittime donne per mano di uomini negli stessi periodo e area geografica.» E si rileva «il raddoppio dei casi tra il primo e il secondo dei decenni considerati e un concentrarsi di più di un terzo negli ultimi 4 dei 28 anni esaminati». Notizia interessante: le mogli hanno cominciato a difendersi, allora! Sentite invece come hanno commentato le autrici e gli autori dello studio: «Sembrerebbe dunque iniziato un processo verso le pari opportunità uxoricide». Si direbbe solo una battuta di spirito, grottesca, se non fosse un’analisi universitaria e tutta improntata (da quello che emerge dalla notizia di Metro) al confronto con gli uomini in chiave di parità. Per esempio: «L’età media delle omicide è di 39 anni, in linea con la media per cui le donne diventano omicide in un’età più anziana rispetto ai maschi». Chissà come mai…
Se le studiose e gli studiosi accademici si togliessero il paraocchi della parità e guardassero i fenomeni almeno con il senso comune della differenza sessuale come la sperimentiamo nella vita di tutti i giorni, si renderebbero conto della realtà delle differenze di comportamento delle donne, e delle loro motivazioni. Invece di affermare che «uccidono spinte dalla malattia mentale da cui sono affette», capirebbero che forse per queste mogli uccidere il marito è sentita come l’ultima possibilità di sopravvivenza magari dopo anni e anni di violenze o persecuzioni, denunciate o meno.
Sono contenta che quello che fanno le donne susciti interesse anche di studio e ritengo importante che venga fatto conoscere dai mass media, ma smettetela con la fissa della parità, suona sempre più fuori dal mondo.
(www.libreriadelledonne.it, 9 ottobre 2019)
di Luisa Muraro
Sembrava amore e invece era un calesse. Spesso va così ma qualche volta no e qualche volta perfino va nell’altro senso: sembrava un calesse e invece era amore.
Con il femminismo nato negli anni del Sessantotto, è successo qualcosa di simile. Sembrava un’altra ondata femminista e invece era la fine del patriarcato. Un tale ha così commentato: a dirla sembra una enormità della serie “cose simili non possono capitare” e invece sì, stiamo assistendo alla fine del dominio maschile (Marcel Gauchet).
Molte tra noi, anch’io, anche le più giovani, preferiamo tenere il vecchio nome, femminismo, che non è sbagliato, è un’espressione di tipo metonimico. Così si presenta il linguaggio della parzialità che non ha rinunciato a significare il tutto, un tutto che non sai nella sua interezza e non puoi racchiudere in un nome. La rivista Via Dogana a suo tempo parlò di “cambio di civiltà”, una formula oggi corrente.
In questi giorni alcune femministe stanno discutendo in vista di un grande convegno. L’iniziativa è di Ilaria Baldini e altre; il tema proposto si avvicina a quello di cui abbiamo ragionato nei locali della Libreria delle donne il 15 settembre 2019 (https://youtu.be/_HVwojo_CdI).
La loro discussione fa nascere una domanda: ma che cos’è il femminismo? Non ho una risposta mia o, meglio, la mia risposta è quella che ha dato una femminista di prim’ordine, Françoise Collin. Due parole per chi non la conosce: emigrata da Lovanio (Belgio) a Parigi, pensatrice indipendente dall’università, si è impegnata con il movimento delle donne, ha fondato e diretto la rivista Cahiers du Grif, è stata più volte ospite della Scuola estiva della differenza, promossa a Lecce da Marisa Forcina.
Rispondo dunque alla domanda con le parole di lei, ma senza chiuderle tra virgolette, le condivido una per una e ogni volta che le leggo mi ispirano.
Il femminismo è intraducibile in termini politici tradizionali, benché non possa farne a meno. Articolato punto per punto in obiettivi determinati, il femminismo si traduce e si tradisce al tempo stesso. Non c’è conquista politica che non comporti il rischio di ritorcersi contro le donne, da una parte; non c’è progetto politico, dall’altra, che possa assumere l’esigenza femminista. Per questo, non c’è dubbio, il femminismo si è costituito in movimento e ha sempre molto resistito ad assumere la forma di un partito. Radicale, deve venire a patti con le riforme; postmoderno, deve utilizzare le risorse dell’organizzazione sociale moderna. In questo momento di crisi del moderno, il femminismo corre dei rischi affidandosi alla politica non meno di quelli che corre se resiste ad attraversarla.
Scomoda e magnifica definizione.
(www.libreriadelledonne.it, 3 ottobre 2019)
di Clara Jourdan
È una notizia da pubblicare? Se lo è, allora è una bella notizia: anche L’Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano fatto per informare i cattolici di mezzo mondo, si è messo a fare i femminili (almeno nell’edizione italiana); lo mostra un insolito femminile, a pagina 25 del 21 settembre scorso: Intervista con la moderatora della Tavola valdese. Un cambiamento che si fa notare, rispetto all’uso sistematico del maschile per tutte le cariche anche se rivestite da donne che fino a ieri lo caratterizzava («il cancelliere Angela Merkel», 7 settembre 2019). Perfino il suo mensile Donna Chiesa Mondo, fondato e diretto fino a non molto tempo fa da Lucetta Scaraffia, non ne era esentato del tutto («Saveriana, consultore…» leggiamo sul numero di luglio 2019). Un esempio di considerazione per l’autorità, quella linguistica, che è in un momento di passaggio? E di quale passaggio? Per combinazione in questi giorni è uscito in italiano presso Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica di Milano, il libro di Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile. Poche pagine di grande interesse, anche perché il punto di vista dell’autore non coincide con quelli delle femministe ma porta alla stessa constatazione, espressa dal titolo. Una fine per la quale egli afferma esserci «un sollievo generale» (p. 7). Senza entrare nei dettagli, richiamo qui un punto della sua analisi: «Il dominio maschile era l’ingranaggio di un modo di istituzione […] la cui chiave di volta era la religione» (p. 19). Viene da pensare allora che se «tale dominio ha perso la sua ragion d’essere» (p. 24), anche la religione viene svincolata da quella sua funzione. È questo il significato, la possibile liberazione della religione cattolica dal patriarcato, del nuovo corso linguistico dell’Osservatore Romano?
(www.libreriadelledonne.it, 27 settembre 2019)
di Massimo Lizzi
Il cambio di governo è stato senza dubbio un colpo di scena: fortunato, per chi avversa la Lega; sfortunato per chi la preferisce al partito democratico. Per me, oltre la preferenza, il sentimento è dato dal modo di valutare l’affidabilità costituzionale di questi partiti. Così, nell’avvertire il colpo di fortuna, sento soprattutto di poter tirare un gran sospiro di sollievo.
Su un punto sono d’accordo con l’intervento di Cristiana Fischer su questo sito: il nuovo governo non lo reputo di sinistra. Tuttavia lo considero pacifico e democratico quanto basta per garantire una civile convivenza. Che sia filo-europeo è un suo punto di forza, perché fuori dalla UE, l’Italia sarebbe sola nella globalizzazione o subalterna ad una superpotenza; invece dentro la UE, insieme con gli altri paesi mediterranei, può tentare di ottenere riforme o adattamenti dell’indirizzo economico o di quello sull’immigrazione, come lascia sperare l’accordo di Malta, per la redistribuzione dei naufraghi, appena conseguito dalla nuova ministra dell’Interno Luciana Lamorgese.
Sull’immigrazione, i governi democratici europei oscillano da molti anni, per effetto di esigenze contraddittorie. Da un lato vogliono accogliere, per compensare il declino demografico o per ragioni umanitarie; dall’altro vogliono respingere, per calmare le paure popolari e per contenere i movimenti xenofobi. Questa incoerenza ostacola il governo ordinato dell’immigrazione, porta a stabilire flussi d’ingresso e corridoi umanitari insufficienti o del tutto assenti, quindi a concedere molto spazio al traffico delle organizzazioni criminali o persino ad accordarsi con loro per trattenere i migranti sulle coste nordafricane: lo stesso accordo maltese continua ad affidarsi alla guardia costiera libica, per inibire le partenze ed eseguire i soccorsi, con il divieto alle ONG di interferire, pur sapendo che in Libia, guardacoste, miliziani e trafficanti sono spesso le stesse persone. Il rifiuto dell’accoglienza e la denuncia dei trafficanti sono allora in conflitto, salvo usare i trafficanti come pretesto, per nobilitare i respingimenti. E’ quanto accade nella retorica della Lega, un partito che dal governo ha praticato e rivendicato in modo aperto la criminalizzazione del soccorso in mare, l’abllizione della protezione umanitaria e lo smantellamento del sistema di integrazione SPRAR dei richiedenti asilo.
Cristiana Fischer vede la Lega populisticamente poggiarsi sugli esclusi. Eppure lo slogan “Prima gli italiani” è molto esclusivo oltre a porsi in contrapposizione tanto rispetto agli altri paesi, quanto agli stranieri residenti in Italia. La proposta fiscale leghista, l’aliquota unica, è una sostanziale riduzione delle tasse per i ricchi e una redistribuzione del reddito alla rovescia. Riguardo, la maggioranza delle donne, le più escluse, dice Cristiana, cosa si può pensare? Non sappiamo cosa farà l’attuale governo su gpa e prostituzione e più in generale per le donne, forse niente e almeno non farà danno, ma sappiamo cosa voleva fare il governo precedente. Più volte l’ex ministro dell’interno ha evocato la legalizzazione della prostituzione ed un suo senatore ha presentato un disegno di legge, per aprire la strada alla controriforma del diritto di famiglia: il cosiddetto ddl Pillon, che voleva intervenire nelle cause di separazione con l’obiettivo di abolire l’assegno di mantenimento, imporre la mediazione famigliare, l’obbligo di affido alternato, e l’introduzione della sindrome di alienazione parentale (Pas) come fattispecie di reato. Un progetto che «resterà nel cassetto» dice la nuova ministra della Famiglia, Elena Bonetti.
Nel valutare il cambio di governo, metto quindi al centro il giudizio sulla Lega. Come devo considerare questo partito? Come una forza sostanzialmente democratica e popolare, con il solo difetto della demagogia e della violenza verbale oppure come una minaccia per la democrazia, perchè contenente nelle sue parole e nei suoi atti le potenzialità del ducismo, del nazionalismo, del razzismo? Tendo a vederla nel secondo modo e mi chiedo fino a che punto tra i due modi ci sia una vera differenza: uno sconsiderato che gioca e scherza con il fuoco può essere pericoloso quanto un piromane intenzionale. Questo partito è stato ora confinato all’opposizione, grazie alla sua stessa iniziativa che, con un linguaggio simbolico evocativo, ha chiesto i pieni poteri e si è ritrovato escluso dal potere. Davvero un bel colpo di fortuna e un gran sospiro di sollievo.
(www.libreriadelledonne.it, 26 settembre 2019)
Il 22 giugno 2019 è stato presentato a Milano in Libreria delle donne il libro Femminismo giuridico, edito da Mondadori Università, 2019, a cura di Anna Simone, Ilaria Boiano e Angela Condello, anche autrici del testo con altre. La discussione si è svolta guidata da Lia Cigarini, che ha coinvolto le altre giuriste e il pubblico presenti al circolo.
Introduzione di Chiara Calori
Ringrazio per l’opportunità che mi è stata data di addentrarmi in questa lettura: da laureanda in giurisprudenza, nello specifico in filosofia del diritto, ho avuto come principale difficoltà nei miei studi quella di dovermi confrontare con concettualizzazioni del diritto molto astratte, sia nel caso di quelle più tradizionali e più o meno superate, sia nel caso delle nuove elaborazioni, presentate come sovversive di quelle precedenti ma poi in fondo molto simili alle prime. Questo libro si pone anch’esso come radicale riflessione sul e tentativo di ripensamento del diritto ma, come vedremo, non finirà per tradire le sue intenzioni.
Da queste prime note emerge che è sentita un po’ ovunque l’urgenza di ripensare il diritto, ma ciò che forse permetterà a questa strada di funzionare al contrario delle altre è l’aver ben chiaro il contesto nel quale ciò deve avvenire. Qui in questo luogo – la Libreria delle donne di Milano – lo si è detto e ripetuto più volte nell’anno passato, e lo si continua a dire: è in corso un cambio di civiltà, e il paradigma ‘diritto’ non può restare invariato ma anzi va “rivoltato come un calzino”, come dicono le autrici nell’introduzione (p. 5). Parlare di “femminismo giuridico” significa precisamente questo, mettere totalmente in discussione il concetto e il modello giuridico, a partire da coordinate precise: come punto di partenza la differenza sessuale, il fatto di essere nata donna (o uomo), che è rilevante nel pensare il reale, diritto compreso, e permette di evitare di cadere nella trappola del pensiero unico o universale, presentato come neutro quando invece è sessuato ed ha come modello di riferimento l’“uomo, adulto, bianco, sano, etc …”[1]. Il punto di arrivo, inteso come méta verso cui si tende, è altrettanto preciso, ed è la libertà femminile.
Le autrici illustrano bene nel libro che tipo di diritto emerge da questo approccio, io mi limiterò qui ad esporre la struttura del testo, per esplicitarne poi quei passi chiave della loro riflessione che mi hanno molto colpito.
Il libro è strutturato nel modo seguente: nella prima parte i saggi riflettono sul rapporto tra diritto e femminismo a partire dall’interazione di alcuni concetti, come nei capitoli “Diritto/Diritti/Giustizia” o “Cittadinanza/Frontiere” (scritti rispettivamente da Anna Simone e da Ilaria Boiano), mentre la seconda parte è composta da saggi che riflettono su quel rapporto a partire dal pensiero di una specifica giurista e femminista contemporanea, come ad esempio Lia Cigarini e Silvia Niccolai, la prima fondatrice insieme ad altre della Libreria delle donne di Milano e grande pensatrice nell’ambito giuridico e in quello della politica delle donne; la seconda docente di diritto costituzionale presso l’Università di Cagliari e importantissimo e prezioso incontro per la Libreria, le cui frequentatrici (e frequentatori) sono state in più occasioni accompagnate da lei nella riflessione su questioni importanti, come la maternità surrogata e la prostituzione.
Passando ai contenuti del libro, ciò che colpisce è innanzitutto l’approccio al diritto, affrontato da quella ben definita dalle autrici come una prospettiva ‘ariosa’, che estende lo sguardo anche a ciò che non è tradizionalmente considerato inerente al diritto. Qui ho percepito come massima la divergenza rispetto allo stile accademico, che procede esattamente all’opposto: l’idea alla base è che il sistema giuridico sia un tutt’uno bastante a sé stesso, e che il ragionamento ad esso relativo da lì parta e lì finisca. Ci sono dei tentativi di apertura, per esempio ad opera di una corrente chiamata “neocostituzionalismo”, che prova a rendere il diritto permeabile alla realtà cercando un dialogo tra il mondo dei principi e delle regole giuridiche e quello dei valori morali. Ma questa apertura all’esterno è in realtà temuta e, in ultima analisi, falsa, traducendosi in un diritto che si camuffa da morale o viceversa. Insomma, non si esce dal seminato.
Diversamente, nel femminismo giuridico il diritto è collocato in una rete più ampia, che lo mette in comunicazione con elementi apparentemente molto lontani dal mondo giuridico, vale a dire altri saperi e altre pratiche, in primis quelli del corpo e quelle dell’esperienza reale. Così, è impensabile non partire dal corpo per ragionare in termini giuridici sui temi della sessualità femminile e dell’aborto[2], come è necessario restare sul piano concreto per pensare in termini di differenza (sessuale) ed uguaglianza (sostanziale)[3].
Questo è importante non solo perché mette in discussione il diritto in sé, ma anche perché problematizza un altro aspetto, che riguarda la sua materia prima: il linguaggio giuridico, e in particolare la sua recente tendenza ‘totalizzante’, che lo porta a voler intendere e spiegare tutto (o certamente vi aspira). Il diritto è uno dei linguaggi che ci sono a disposizione, le regole giuridiche sono alcune delle regole che guidano la realtà e i rapporti sociali, e nemmeno sono le principali[4]. Mi sono chiesta cosa venga prima, se la dimensione giuridica o l’esperienza concreta, e, mentre vorrei poter rispondere che è la seconda che guida e orienta la prima, mi dico anche che questa è solo una possibilità, e al momento serve di più avere consapevolezza del meccanismo inverso, ossia del portato simbolico del diritto nella realtà. Il simbolico, l’ho imparato qui, è un piano che è in grado di influire sulla realtà, di modellarla anche, per cui è bene indagare le costruzioni simboliche che filtrano dal diritto nella realtà attraverso il linguaggio. Nei saggi del libro si discute, tra le altre cose, del diritto antidiscriminatorio e delle pari opportunità (entrambi elaborazione del femminismo di stato e detti anche ‘cultura giuridica minima’), o della logica della prevenzione in ambito penale: queste sono tutte categorie giuridiche da cui discendono esplicite collocazioni simboliche della donna nella posizione di vittima o soggetto che va tutelato. A questo proposito, segnalo un interessantissimo documentario, a sua volta segnalatomi da Silvana Ferrari, della Libreria delle donne di Milano, su una giudice della Corte Suprema Statunitense, Ruth Bader Ginsburg[5], la quale svela la sottile comunicazione che c’è dietro legislazioni come quelle che regolamentano l’aborto: di fatto una implicita affermazione dell’incapacità della donna di decidere per sé e del bisogno che altri (più spesso che altre) lo facciano per lei. Svelare tali operazioni simboliche è uno degli obiettivi che si sono date le teorizzatrici del femminismo giuridico, in modo da mettere in guardia da ragionamenti suggestivi dotati di una logica apparentemente perfetta, che però non va nel senso della libertà femminile.
Ma è possibile o, prima ancora, desiderabile ricercare la libertà femminile attraverso il diritto? Lia Cigarini osserva come questa si sia realizzata al di fuori delle leggi e prima di queste, quindi suggerisce che è da valutare “di volta in volta l’opportunità o meno di fare ricorso al diritto”[6]. Ci si deve porre rispetto a questo con strategie che possono portare a fare un passo indietro, a chiedere che il diritto interagisca con certe problematiche con l’astensione piuttosto che con un intervento normativo, ed è quello che sempre Lia chiama “vuoto legislativo”. Perché il diritto non è né l’unica né la principale dimensione (e nemmeno, come abbiamo visto, l’unico o il principale linguaggio) dell’esperienza. Questa strategia si è resa[7] e si rende necessaria rispetto ad un diritto che è patriarcale e costruito a dimensione di ‘uomo’, come si diceva in apertura, ma è una necessità anche di fronte ad elementi che non sono definibili una volta per tutte, quali la differenza sessuale o la singolarità delle esperienze, a partire dalle quali si sviluppa la riflessione del femminismo giuridico.
Questa è una prima strategia, ce n’è un’altra, altrettanto se non più ambiziosa: si può cioè aspirare ad un diritto giusto. Come dice Anna Simone nel suo saggio su Silvia Niccolai, “persino la legge può divenire giusta”, e lo diventa per le donne “quando le libera” (p. 146). Qui si realizza la fusione tra libertà (femminile) e giustizia, due elementi che vanno insieme[8] e che rappresentano l’obiettivo ultimo, la méta verso cui tendere, nel pensiero di queste giuriste e studiose del diritto. E che ci riporta al punto di partenza, vale a dire alla necessità di ripensare completamente il diritto. Per concludere vorrei citare un importante esempio di rielaborazione del diritto, proprio a partire dalla giustizia. In Femminismo giuridico essa viene declinata con un taglio estremamente concreto, ricostruita a partire da Aristotele. Io la vorrei richiamare qui con una formulazione analoga nel contenuto, ma a me più vicina perché viene da uno dei miei primi incontri con il pensiero giuridico femminista, avvenuto sempre grazie alla Libreria delle donne di Milano. Elizabeth Wolgast, nel suo libro La grammatica della giustizia (1991), afferma: “(…) ritengo che la giustizia non si possa prescrivere, che non abbia una forma data; è una creatura dei nostri sforzi, della nostra immaginazione, della nostra esigenza. Noi ceselliamo faticosamente delle risposte al male, non per soddisfare qualche immagine preconcetta della giustizia, ma per affrontare le insidie dell’ingiustizia. (…) La giustizia entra nelle nostre parole quando un’ingiustizia o un torto ci portano a reclamarla. La giustizia appare allora come un correttivo indefinito all’ingiustizia, piuttosto che una cosa definibile di per sé”.
Ringrazio
lei, le autrici di questo libro e le giuriste il cui pensiero è lì riportato
per aver fornito a me, come sicuramente forniranno ad altre e altri, nuovi
strumenti per orientarmi nella comprensione, nell’analisi e nella critica del
diritto e della realtà.
[1] Con le parole di Valeria Verdolini, autrice del saggio Devianza/Questione criminale/Sicurezza (p. 74). Anche la nostra stessa Costituzione ricalca la misura maschile: per Lia Cigarini, “il patto costituzionale non è stato sottoscritto dalle donne” (p. 157).
[2] È l’argomento del saggio di Angela Condello, Sesso/Sessualità/Riproduzione, pp. 39-54.
[3] Coppia analizzata nei saggi Differenza/Eguaglianza, di Chiara Giorgi, e Letizia Gianformaggio e l’eguaglianza giuridica, di Angela Condello.
[4] Riprendo qui una delle osservazioni finali del saggio di Ilaria Boiano su Tamar Pitch, la quale “ricorda che “viviamo in un universo di regole di vario tipo”, non solo e neanche principalmente giuridiche, che informano rapporti (anche di potere) e relazioni sociali”, in Tamar Pitch. Differenza, differenze e diritti fondamentali, p. 129. Al riguardo Anna Simone, a partire da Niccolai, ribadisce che il diritto “può diventare un modo [tra gli altri] attraverso cui l’esperienza soggettiva prende parola”, in Silvia Niccolai o dell’esperienza giuridica come esperienza, p. 133.
[5] Alla corte di Ruth (titolo originale in inglese RBG), 2018, regia di Julie Cohen e Betsy West, uscito in Italia a luglio 2019.
[6] Ilaria Boiano su Lia Cigarini, p. 155.
[7] Per esempio nel caso dell’aborto, per il quale alcune femministe italiane chiedevano la semplice depenalizzazione senza l’appesantimento di una sua regolamentazione, opzione che poi alla fine ha vinto.
[8] Anna Simone, sempre parlando di Silvia Niccolai, rileva questa “tensione continua verso un’idea di giustizia in grado di travalicare i confini della legge” (p. 131).
(www.libreriadelledonne.it, 20 settembre 2019)
Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 4 ottobre 2019 alle 17,20 per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 8 novembre.
Venerdì 4 ottobre, ore 17,20 aula Megalizzi (ex T4). Antonietta Potente, Il paradiso dipende da noi
Venerdì 11 ottobre, ore 17,20 aula 2.1. Stefania Ferrando, Sopra la legge
Venerdì 18 ottobre, ore 17,20 aula 2.1. Wanda Tommasi, Movimento delle donne e soprannaturale
Venerdì 25 ottobre, ore 17,20 aula Megalizzi (ex T4). Elisabetta Cibelli, L’Altrove che è presente
Venerdì 8 novembre, ore 17,20 aula 2.2. Margherita Morgantin, Parlare la lingua dei sogni
Gli incontri si terranno tutti nel palazzo dei dipartimenti umanistici, Università di Verona, via San Francesco 22. Per il seminario sono previsti 2 crediti F per le, gli studenti del corso di laurea di Filosofia.
Politica delle donne. Qui e ora
In cosa consiste, nella politica delle donne, quel centro che sentiamo essenziale? La sua radice sta nell’alimentare la fiducia in azioni sensate e in pensieri orientanti in un momento in cui gli scenari nazionali e internazionali tendono a restringere il mondo in binari obbligati, a soffocarlo in spazi senza alternative.
La saggezza di donne di altre culture e altri tempi ci può aiutare in questo. Maymuna, una donna sufi, scriveva: «Quando il cuore di qualcuno è stretto, il mondo e ciò che vi si trova è anche stretto».
Diciamo che la politica delle donne ha la capacità di allargare il cuore attraverso alcuni passaggi necessari. Ad esempio, pensare la relazione con la madre come origine di vita e di sapere è un passaggio politico, che, se lo continuiamo a interrogare, se non lo perdiamo, ma lo teniamo su un piano simbolico, cioè come orientamento dello sguardo, ci dà libertà e ci toglie dalla reattività nei confronti di un mondo sempre più soffocante. Allora non sentiamo più il mondo come ostile e chiuso, ma come quello che ci è dato – ora, in questo momento –, e che vediamo e viviamo a partire da un legame tra sapere ed esperienza infinitamente aperto.
Si potrebbe dire che la politica delle donne ha la capacità di creare fiducia attorno alla fiducia. Con tutta una serie di conseguenze che riguardano la cura e la qualità delle relazioni, la misura dei contesti, una curiosità e un’allegria di fondo, che pure non nega il dolore nostro e degli altri per le difficoltà, le incomprensioni, le sofferenze. È solo un respiro, che apre e che porta a guardare la realtà a partire da un’altra prospettiva. In questo modo la dischiude dal suo interno ad altro, che può accadere e che ancora nessuno di noi può prefigurare, ma che è già in cammino.
La politica delle donne non è soltanto la pratica del partire da sé, delle relazioni asimmetriche e non strumentali, del creare spazi di scambio e di pensiero. Non è soltanto modificare i contesti. È essere consapevoli che ciò che riguarda un’altra donna ci riguarda. Non si riduce neppure ai movimenti – così vitali in questi anni – come il metoo, il Non una di meno e l’ecofemminismo. Naturalmente è tutto questo, ma troviamo politica delle donne anche nelle azioni e nelle parole di quelle singole donne che sanno stare presso la differenza femminile. Sanno mettere in circolo vita e sapere, scommettere che c’è altro – qualcosa di vivente e imprevisto – nelle situazioni mediocri e apparentemente senza sbocco. Sanno provocarne l’esistenza.
Bibliografia:
Simone Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012.
Diotima, Femminismo fuori sesto. Un movimento che non può fermarsi, Liguori, Napoli 2017.
Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Paoline, Milano 2017.
Chiara Zamboni (a cura di), La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, Moretti&Vitali, Bergamo 2019.
di Luisa Muraro
L’Italia ha un Sud e un Nord e mai che ci ricordiamo di avere anche un Est e un Ovest. A Est c’è Trieste e da Trieste un giorno sono arrivate in via Pietro Calvi 29, Milano, alla Libreria delle donne, cinque donne: Valentina Botter, Marina Barnabà, Tiziana Giannotti, Elisabetta Paci e Silva Bon.
Era il 3 settembre scorso (2019), avevamo un appuntamento, fissato via mail con Marina B. Venivano per fare un’intervista ma quasi subito è iniziato tra noi un intenso scambio di notizie e idee intorno al loro impegno. Le cinque, spiccatamente differenti tra loro, sono liberamente associate e tutte fanno riferimento al Dipartimento di salute mentale di Trieste. Eredi di Franco Basaglia? Sì e ancor più di Franca Ongaro Basaglia, avendo scelto di dedicarsi, con le loro diverse competenze, alla popolazione femminile. La sintonia tra noi era grande, la mia meraviglia ancora di più. Mi pareva di avere scoperto Trieste… ma è vero, com’è vero che il femminismo ha camminato molto, che noi lo sappiamo o no.
Racconta qualcosa di voi per il nostro sito, ho chiesto a Silva Bon, autrice di Donne attraverso. Soglie, spazi, confini, libertà (Gorizia 2011), e di altri scritti. (L.M.)
Franca Ongaro Basaglia: felicità di un incontro
di Silva Bon
Ho attraversato per anni gli spazi gestiti dal Dipartimento di Salute Mentale di Trieste: Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura; Centri di Salute Mentale; luoghi altri e molteplici di aggregazione e di socializzazione per una crescita individuale con/nella Comunità.
Il percorso più lungo, verso la ricerca di un auspicato benessere psico-fisico, lo ho fatto in compagnia di donne, molte donne, che sono diventate amiche solidali, con cui condividere le proprie storie di vita, le esperienze di sofferenza, in un cammino che era, ed è ancorato a ciò che fa star bene, che dà felicità. Anche felicità intellettuale, frutto dell’approfondimento di conoscenze, di saperi, che riguardano salute e malattia mentali. E fondamentale è stato l’incontro diretto con il pensiero di Franca Ongaro Basaglia, moglie e compagna di vita di Franco Basaglia.
Sono convinta che la possibilità di ripresa da momenti, da fasi di crisi, di malessere psichico, è sostenuta anche dalla costruzione di consapevolezza attraverso l’apprendimento: così, assieme ad un gruppo di donne ho, abbiamo deciso di affrontare la lettura e l’analisi di testi, capitoli, brani, passi, squarci più o meno ampi di scrittura, prodotti da chi aveva avuto la fortuna di condividere vita e pensiero con Franco Basaglia. Insieme a lui, insieme a un gruppo di altri giovani psichiatri, Franca Ongaro ha teorizzato e attuato la fine, la chiusura dei manicomi in Italia, diventando efficace divulgatrice della filosofia che sta alle radici, che sta dietro alla rivoluzione basagliana.
Ho scoperto che tutto questo mi/ci riguardava, soprattutto vivendo a Trieste e usufruendo delle cure della sanità psichiatrica pubblica locale che deriva, si attiene, implementa le teorie messe in atto da Franco Basaglia. Il tutto all’interno di un contesto medico-operativo improntato alla messa in atto di buone pratiche che partono dal rispetto della libertà e della dignità delle persone: porte aperte, no contenzione fisica e/o farmacologica, servizi aperti 24 ore per 365 giorni all’anno.
Ho risposto con un’azione concreta a un bisogno interiore: mi interessava capire l’azione politica di una grande donna, Franca Ongaro, sempre al fianco e in prima linea con Franco Basaglia. La domanda è scaturita dal desiderio di apprendere, di saperne di più, partendo appunto dalla lettura dei suoi scritti.
Così ho deciso di valorizzare il volume Salute e malattia, edito recentemente nella “Collana 180”, per i tipi di Alpha Beta Verlag di Merano. Il libro raccoglie il lavoro di Franca Ongaro, in parte già apparso nei lemmi molteplici dell’Enciclopedia Einaudi. Dunque, testi degli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Alcuni anche finora inediti.
Per tutti i mesi di una lunga estate assolata, due anni fa, ho raccolto attorno a me un gruppo di amiche interessate, che hanno aderito affluenti alla mia proposta di leggere Franca Ongaro Basaglia.
Ci siamo incontrate, con scadenza settimanale, negli spazi di Una Casa Tutta per Noi, aperta specificatamente alla frequentazione di donne afferenti ai Servizi psichiatrici del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste: si tratta di un ampio appartamento sito nel cuore storico della città; il living apre le sue finestre sulla Piazza del Ponte Rosso, lastricata di antichi masegni; nel mezzo sta una bella fontana ottocentesca, che vede un putto, il Giovannin, al centro degli spruzzi e dei giochi d’acqua; attiguo, il Canal Grande, che dal mare giunge fino alle falde della Chiesa neoclassica di Sant’Antonio Nuovo, che vi si specchia; tutto intorno, e oltre il Ponte Rosso, il Borgo teresiano di fattura settecentesca, ricco di importanti palazzi d’epoca, simboli decorati e austeri delle fortune della Trieste mercantile.
Anche la location vuole la sua parte!
La bellezza intorno, e la bellezza dentro la Casa, arredata con gusto moderno, e arricchita dai lavori delle donne, lavori che sono testimonianza del gusto, della creatività, della manualità, della produttività dell’immaginazione femminile: così disegni, quadri, composizioni floreali, gioielli, tessuti…
Il nostro gruppo di lettura, uno zoccolo duro di circa sei-sette amiche, aperto alle frequentazioni anche occasionali di altre donne incuriosite, si è dato delle regole: leggere a turno una pagina; analizzare e capire il testo; riflettere sul contenuto; partire dallo scritto per discutere, raccontare i propri vissuti, le proprie impressioni, le proprie emozioni; portare il tutto all’attualità, alle esperienze più recenti, alle conoscenze esperite in vario modo della società che sta attorno.
Niente compiti per casa, ma tutto frutto del discorso collettivo, qui e ora, di due ore di impegno culturale.
Così abbiamo scoperto la piena attualità del pensiero elaborato da Franca Ongaro, pensiero originale e al tempo stesso ortodosso rispetto alle discussioni infinite elaborate con Franco Basaglia e il gruppo di giovani psichiatri a lui affini e compagni dell’avventurosa rivoluzione in corso: la chiusura dei manicomi, come luoghi di costrizione, di ammalamento, di cronicizzazione, di deprivazione di libertà e di ogni diritto civile e umano.
Franca Ongaro parte dalla storia, dal processo diverso nei secoli, del concetto di follia; e di come la società si è rapportata, ha giudicato, i folli e la follia.
Lei sostiene che la società attuale, contemporanea, contiene in sé i germi che fanno cadere nelle diverse forme di sofferenza psichica: pertanto la salute mentale può passare soltanto attraverso un profondo cambiamento delle regole che vigono tra gli uomini, tra le donne nel mondo. Sono le profonde diseguaglianze di potere, di censo, le divaricazioni estreme della forbice tra il Nord e il Sud, di tutti i Sud del mondo, che devono cessare, essere superati per giungere a un equilibrio solidale, a una maggiore distribuzione egualitaria della ricchezza, a una frequentazione tra uomini e donne improntati al rispetto reciproco e alla collaborazione.
In una società più giusta, più responsabile, anche la malattia, la malattia psichica, può essere accolta, tutelata, inclusa, volta verso un recupero di salute, che significa, si incarna nella tutela delle persone con esperienza di sofferenza mentale, diventati cittadini con pari diritti, con pari dignità.
Oggi le regole che partono, che vengono indotte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e che sono messe in pratica, esperimentate, in diverse parti del mondo, parlano di qualità dei Servizi psichiatrici, di buone pratiche basate soprattutto su una rivoluzionaria tutela, implementazione, rafforzamento dei più fragili, dei più deboli, restituendo loro piena personalità.
L’analisi delle opere di Franca Ongaro Basaglia fa giungere all’affermazione della necessità di incidere profondamente nella società odierna attraverso una rivoluzione umanitaria che implica, comporta Salute e Bene-Essere nella/della Comunità.
(lunaelealtre@gmail.com)
(www.libreriadelledonne.it, 19 settembre 2019)
di Mira Furlani
Ho seguito lo streaming di domenica 15 settembre trasmesso dalla Libreria e ora visibile sul suo sito in You Tube col titolo: Strano e imprevisto cambio di Governo.
Innanzitutto tengo a dire che lo streaming ha rappresentato un fatto politico importante. Che io sappia è la prima volta che è stato fatto di domenica mattina, per un incontro su un tema aperto a tutte/tutti. Magari si facesse anche per i temi che riguardano Via Dogana3! Tuttavia riconosco che l’importanza politica del tema trattato domenica scorsa va oltre per la sua eccezionalità e perché la Libreria delle donne di Milano ha avuto il coraggio di aprire pubblicamente il dibattito affinché ciascuna/ciascuno potesse dire quello che pensa di questa (strana?) coalizione governativa.
Penso anch’io, come ha scritto Luisa Muraro, che noi femministe in questa storia ci entriamo più che in passato e più di quello che tendiamo a credere. Come è stato detto in streaming questo è il momento in cui dobbiamo far pesare nel nuovo governo il discorso sull’inviolabilità del corpo femminile, contro le posizioni di coloro che nella precedente coalizione giallo-verde hanno presentato e appoggiato il disegno di legge Pillon. Cosa dice questo d.d.l. (che per ora riposa in un cassetto dove la nuova ministra Elena Bonetti intende lasciarlo, ma che invece sarebbe bene archiviare)? Condivido il giudizio dell’avvocata Bernardini De Pace, specializzata in diritto di famiglia: «Il provvedimento si configura come rivoluzione rozza e inutilmente populista. Che fa affondare tutti, avvocati, genitori, uomini e donne, giudici, psicologi nel letame di un’assurda parità materiale e di contabilità, a favore solo del molesto pianto greco di un’obiettiva minoranza di papà separati e inadempienti».
A questo punto aggiungo che per quello che è il mio campo, cioè come femminista che ha alle spalle una lunga storia dentro le comunità cristiane di base, sono contentissima che la propaganda salviniana sulle coroncine del rosario e le statuette della madonna, propaganda durata 14 mesi di governo giallo-verde, sia finita. Purtroppo però non è finita quella più profonda e sottile di teologi, cardinali, preti e cattolici ultraconservatori che hanno nel mirino le posizioni di Bergoglio su aborto e omosessualità,posizioni contro cui, ricordiamocelo bene, tanti salviniani e tanti Pillon continueranno a sparare mostrandosi fedeli a una chiesa conservatrice, tanto cattolica quanto antievangelica.
(www.libreriadelledonne.it, Firenze, 18 settembre 2019)
di Cristiana Fischer
Care tutte, ho seguito su youtube la riunione di domenica e invio le mie riflessioni.
La riunione di domenica 15 settembre ha “messo i piedi nel piatto” della politica… seconda. Intendo esporre un certo dissenso rispetto alla definizione di colpo di fortuna per la crisi di governo. A meno che la “fortuna” della crisi non indichi solo che la crisi in quanto tale è sempre un di più, un meglio: infatti l’apertura arrischiata per carattere la condivido sempre, quanto al gesto, indipendentemente da cosa venga cambiato per cosa altro.
Invece alcuni interventi sostenevano la fortuna che un governo “di sinistra” abbia sostituito quello populista e sovranista. Metto di sinistra tra virgolette perché da parte mia non credo affatto che l’attuale governo filo-Ue, a indirizzo economico mercantilista, a favore di un’immigrazione gestita da diversi gruppi criminali, per diritti individuali neutrificanti, abbia collegamenti al socialismo o al cattolicesimo sociale.
Bene dice Marisa Guarneri che valuterà la qualità della presenza delle donne nel governo rispetto a come si comporteranno su gpa e prostituzione.
Giusta l’apertura di Lia Cigarini sul fatto che l’unica cultura separata rimasta è quella viva e in movimento delle donne, conflittuale ma senza distruggere l’altro perché relazionale e non antagonista.
Sono meno d’accordo con Luisa Muraro quando, per valorizzare l’esercizio di autorità, cita il discorso di Conte al Senato – però deve riconoscere che ha esagerato; e la guida di Mattarella – però sorvola sui vincoli cui il Presidente della Repubblica si è voluto legare. Ambedue partigiani, hanno parteggiato, l’autorità è venuta loro da poteri esterni. Quindi ha ragione Luisa quando dice che occorre rinforzare da parte nostra la critica ai politici.
Complessivamente condivido la leggerezza scettica di Marina Terragni, mi pare salutare mantenere uno sguardo distante (e da “sopra”) non solo sulla politica che i maschi fanno ma anche sulle trappole in cui si cade schierandosi sulle loro posizioni.
Sia Marina Terragni che Luisa Muraro hanno portato l’attenzione sulle donne che votano Lega, un partito maschilmente organizzato e quasi leninista, che populisticamente si poggia sugli esclusi, e chi più escluse (della maggioranza) delle donne?
Teniamo presenti le opposizioni in cui viviamo: città vs campagna; colti vs analfabeti funzionali; 99% vs 1%; territorio inselvatichito vs urbanesimo malvivibile; disoccupati o gig economy vs schiavi immigrati. Le divisioni sociali sono mondiali e il femminismo vi è coinvolto. Non schieriamoci solo con i salvati.
Massimo Lizzi della redazione del sito commenterà questo intervento (Ndr).
(www.libreriadelledonne.it, 18 settembre 2019)
di Luisa Muraro
La crisi di governo non è risolta perché non era una crisi di governo. Una svolta? Questa è solo una delle tante parole in uso nella retorica maschile. È stato un colpo di fortuna. Fortuna così imprevista che gli interessati quasi se la lasciavano scappare. Per finire è andata bene e io dico che c’è da essere riconoscenti. Verso il cielo ma anche verso Salvini che ha fatto quello che le opposizioni non sapevano lontanamente fare, e poi verso Grillo che ha agguantato Di Maio e lo ha voltato dalla parte giusta, anche Renzi aveva capito subito, ma chi si fida di lui? Pare che qualcuno, dicono Prodi, abbia parlato al segretario del PD, neanche lui un’aquila. Nella lista metterei anche Conte, la cui fiamma abbiamo visto guizzare in Senato, il giorno delle dimissioni. E finalmente, come molte e molti, sono riconoscente a Mattarella per la composta aura di autorità con cui ha aiutato il travaglio. Ci voleva, perché i Cinquestelle pretendono di essere un movimento che agisce liberamente fuori dalle istituzioni, a loro piace pensare di avere autorizzato il nuovo governo, per esempio, e in qualche modo bisogna che possano crederlo.
Adesso però il tempo delle parole è scaduto e viene… quello dei fatti? Sì, ma insieme ai conti da fare con le parole, se sono dette per finta o davvero. Machiavelli ha insegnato che metà è fortuna, metà è virtù, così la chiama lui e io traduco: bravura e misura. E mi riferisco, per cominciare, a noi, le cosiddette femministe, perché in questa storia ci entriamo più che in passato e più di quello che tendiamo a credere.
(www.libreriadelledonne.it, 5 settembre 2019)
di Massimo Lizzi
Un grande dubbio ha accolto il nuovo manifesto etico del capitalismo americano: è una svolta reale o solo retorica?
I dirigenti delle più grandi società multinazionali americane, riunite nel business roundtable, hanno firmato un manifesto, che dichiara di voler parificare gli interessi dei lavoratori, dei consumatori, dei fornitori, dei clienti, e la tutela dell’ambiente agli interessi degli azionisti. In sostanza: il bene della società come condizione per ottenere profitti a lungo termine.
In teoria, lo scopo aziendale così ridefinito rovescia il neoliberismo di Milton Friedman, egemone ormai dagli anni ‘80, secondo il quale unica responsabilità sociale dell’azienda è realizzare profitti per gli azionisti; parte della loro ricchezza poi sgocciolerà verso il basso della scala sociale. Una teoria oggi ritenuta responsabile delle gravi diseguaglianze che sono all’origine della crisi economica globale e dell’insorgere dei populismi. Così, molti commentatori vedono nella svolta etica delle multinazionali il tentativo di riconciliare il capitalismo con la società. Io, nel mio piccolo, da lavoratore dipendente e militante della sinistra italiana, ho sperato di vedere il ritorno della borghesia illuminata, capace di assumere un ruolo progressivo.
Ma poi, mi sono meglio istruito con la reazione di Paul Stiglitz (premio Nobel per l’economia 2001), secondo il quale la prima responsabilità sociale di un’azienda è pagare le tasse e tra le grandi imprese firmatarie del manifesto etico molte sono residenti nei paradisi fiscali. A suo giudizio, se un’azienda volesse assumere finalità sociali si troverebbe a subire la concorrenza sleale delle aziende che perseguono solo il profitto, quindi finirebbe per adattarsi al gioco della concorrenza. Perciò, le buone intenzioni dichiarate sono insufficienti; occorre che siano tradotte in obblighi di legge, come è successo con i principi neoliberisti: sono diventati un ordinamento giuridico. Ma nel manifesto dei grandi capitalisti americani non si fa menzione del ruolo dello stato.
In effetti, sul piano dei principi, il nuovo manifesto degli amministratori delegati somiglia molto al disegno di legge sul capitalismo responsabile, presentato un anno fa dalla senatrice democratica Elizabeth Warren. La sua proposta di legge mira a invertire la tendenza degli ultimi trent’anni. All’inizio degli anni ’80, le più grandi società americane dedicavano agli azionisti meno della metà dei loro profitti per reinvestire tutto il resto. Ma nell’ultimo decennio, le grandi aziende americane hanno dedicato il 93% degli utili agli azionisti, reindirizzando a questo fine trilioni di dollari che avrebbero potuto essere destinati ai lavoratori o agli investimenti a lungo termine. Il risultato è che il boom dei profitti aziendali e l’aumento della produttività dei lavoratori non hanno portato a un aumento dei salari.
Nello specifico, la proposta di legge di Elizabeth Warren:
- impone alle aziende miliardarie, mediante la concessione di una licenza pubblica revocabile in caso di comportamento illegale, l’obbligo di considerare tutte le parti interessate, inclusi dipendenti, clienti, azionisti e le comunità in cui la società opera;
- autorizza i lavoratori delle società americane a eleggere almeno il 40% dei membri del consiglio d’amministrazione;
- vincola i finanziamenti politici delle aziende all’approvazione del 75% dei suoi amministratori e azionisti.
- proibisce a direttori e funzionari di società statunitensi di vendere azioni societarie entro cinque anni dal loro ricevimento o entro tre anni dal riacquisto.
Questa proposta di legge potrà essere approvata in tutto o in parte se i democratici vinceranno le prossime elezioni. Elizabeth Warren è candidata alle primarie del Partito democratico per le presidenziali USA del 2020 ed è in ascesa nei sondaggi. Potrebbe essere la futura presidente o avere un ruolo molto importante nella coalizione dell’eventuale e probabile presidente democratico. Quindi, sorge una domanda: la business roundtable vuole aderire alla proposta di legge democratica o mostrare l’intenzione di riformarsi da sola, per scongiurarla?
(www.libreriadelledonne.it, 5 settembre 2019)
Caro Dario Di Vico,
nel corsivo La forza del #metoo: un’influenza positiva sul mondo del lavoro (Corriere della sera, 19 luglio 2019), lei riprende la sociologa Beverly Silver che sostiene che il #metoo alla fine ha cambiato i rapporti di forza in materia di molestie sessuali in tutto il mondo del lavoro non solo tra le celebrità, realizzando nei fatti un’ibridazione tra femminismo e sindacalismo. La tesi della studiosa è giusta e sacrosanta, grazie di averla citata. Tuttavia nel seguito del suo testo lei interpreta il #metoo come una battaglia per la parità. Sbagliato! La parità è una fissazione degli uomini. Le battaglie femministe sono per la libertà e la dignità delle donne. È così difficile da capire? È così difficile dirlo?
La redazione del sito della Libreria delle donne
(www.libreriadelledonne.it, 22 luglio 2019)