di Doranna Lupi


Ho seguito l’incontro di Via Dogana 3 del 9 febbraio 2020 e ho condiviso commenti e riflessioni con Mira Furlani e Carla Galetto delle Comunità cristiane di base italiane. Come Carla G. ha sottolineato, penso anch’io sia giusto conoscere e discutere le posizioni espresse in quell’incontro, ma anche confrontarsi apertamente a partire da questioni politiche importanti, come ha fatto Mira Furlani argomentando con me sia l’incontro VD3 come anche il documento scritto dal Gruppo del mercoledì di Roma, reso pubblico dallo stesso Gruppo su internet e altrove (https://www.donnealtri.it/2020/03/andare-e-tornare-dallio-al-noi-e-dal-noi-allio/).

Tra gli interventi avvenuti durante il dibattito di VD3 del 9 febbraio 2020 sul tema La differenza sessuale alla prova del presente,una donna ha esordito con queste parole: autorità non è lo scambio di pareri dove ognuna dice la sua, ma quando non si è d’accordo prendersi l’autorità di esprimersi.Soprattutto, aggiungo io, quando la posta in gioco è alta. E credo che gli argomenti trattati in Libreria e nel documento scritto dal Gruppo del mercoledì di Roma facciano parte di quest’ultima categoria.

Nel documento le femministe romane parlano di donne con le quali hanno condiviso un lungo tratto di strada dicendo che sembrano aver fatto del divieto sulla gestazione per altri e sulla prostituzione l’unica e ultima trincea, volendo così affermare un’essenza immutabile del sesso femminile. Sostengono di condividere le stesse preoccupazioni in merito ma, a loro parere, i rischi non si evitano con le proibizioni. E aggiungono che non c’è conflitto sul simbolico se il femminismo si ripiega unicamente in difesa del corpo femminile, chiudendosi nelle proprie certezze o in posizioni troppo schematiche, perché rischia di ridurre la complessità del problema. La stessa critica di schematismo vien fatta al femminismo che, nel leggere il disagio e lo sfruttamento capitalistico, s’inchioda all’interpretazione del marxismo.

Se, nel primo caso, le donne del Gruppo del mercoledì di Roma si riferiscono ad alcune femministe della Libreria e di Diotima impegnate sui temi della GPA e della prostituzione, è perlomeno riduttivo pensare che l’azione politica, loro personale e non, si esaurisca su questi temi. Se andiamo solo a rivedere gli argomenti da loro trattati tra il 2018 e il 2019, i temi della prostituzione e della GPA sono solo due tra i tanti argomenti di fondamentale importanza affrontati negli incontri di VD3, nei libri proposti e negli articoli postati. La maggior parte del lavoro è stato fatto per dar parole nuove, a partire da sé e dalle relazioni politiche tra donne, a molti altri argomenti scottanti del mondo in cui viviamo. Per fare alcuni esempi riporto qui solo alcuni titoli: 1) Emergenza climatica. Le donne sanno. 2) Il clima e l’inconscio. 3) Parole che creano realtà, una storia nella rete che continua. 4) Ripensare la cittadinanza. 5) Se i migranti sono più uomini che donne. 6) Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni. 7) La parola giusta ha in sé il potere della realtà – Alcuni riferimenti per continuare a pensare. 8) Per cambiare il lavoro ci vuole femminismo. Emolto altro ancora. C’è quindi tutto ciò di cui parlano le donne del Gruppo del mercoledì nei primi quattro punti del loro documento e non vedo, da parte della Libreria delle donne di Milano, Diotima e altre, un fare della prostituzione e della GPA l’ultima e unica trincea del femminismo.

Tuttavia non sono da sottovalutare tutte le implicazioni che queste battaglie comportano. Ponendo il simbolico come prima radicale azione politica da compiere, come afferma anche il Gruppo romano, è fondamentale e indispensabile il cambiamento di sguardo che vede la prostituzione come un problema degli uomini e apre la possibilità, da parte loro, di un’analisi su un dispositivo del contratto sessuale tra uomini attraverso il quale si sono assicurati l’accesso ai corpi delle donne, anche attraverso nuove forme, offerte dal capitalismo, come la GPA. Carole Pateman dice che: Un’analisi dei contratti riguardanti la proprietà della persona in cui una delle parti deve essere costituita da donne – il contratto di matrimonio, quello di prostituzione e quello di maternità surrogata – mostrano che ciò che è in gioco nel contratto è precisamente il corpo di una donna.

Questa contraddizione non può emergere finché non si smaschera la finzione politica del neutro universale frutto di un patto tra fratelli.

Il lavoro della Libreria delle donne di Milano e di Diotima sul linguaggio diventa quindi indispensabile. Dagli interventi di presentazione delle tematiche trattate in VD3 del 9 febbraio 2020, fatti da Chiara Zamboni, Stefania Ferrando, Traudel Sattler, ho capito che il linguaggio non è disincarnato e non è possibile manipolarlo o operare rimozioni se non a discapito della verità soggettiva e, di conseguenza, della verità collettiva. La coscienza del limite, necessaria per nominare e modificare la realtà, sulla quale tanto insistono negli ultimi tre punti del loro documento le donne del Gruppo del Mercoledì, passa proprio dall’elaborazione del simbolico attraverso il faticoso lavoro della differenza. Chiara Zamboni nel suo intervento crede che: la tentazione del neutro nasca dalla fatica della differenza, e in primo luogo dalla fatica dello stare in rapporto alla differenza dell’altra e poi dell’altro. Nasca dal desiderio di una libertà senza vincoli e senza attraversamenti di parzialità. Le manipolazioni del linguaggio, il ritorno al neutro che disconosce e rimuove il grosso lavoro del pensiero della differenza sessuale, sono inoltre funzionali a un capitalismo che attraverso la biopolitica sfrutta i corpi di donne e uomini nel lavoro e, soprattutto quello delle donne, in altri ambiti molto fruttuosi come la prostituzione o la GPA. Queste ultime “professioni” ovviamente sono da combattere in ogni modo, soprattutto attraverso una rivoluzione simbolica, come fanno i movimenti internazionali delle sopravvissute al mercato del sesso che lottano per il modello nordico andando a toccare nodi cruciali inerenti il contratto sessuale, il rapporto tra i sessi, lo sfruttamento neocapitalista dei corpi e il modo in cui le donne raccontano le proprie vite dentro una storia rivista alla luce di queste consapevolezze, una storia che diventa così storia vivente. Inoltre ai giorni nostri si aggiunge anche la minaccia di un nuovo capitalismo della sorveglianza (vedi il volume del 2019 di Shoshana Zuboff: Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri) che manipola sentimenti, bisogni, sogni, ideali rubati dalla rete come dati da usare nel mercato per il profitto e nella politica per il controllo, da parte di pochi, sui corpi e sulle menti di molti/e. Il privato diventa pubblico ma solo per aprire possibilità illimitate al mercato e ai poteri forti e il pubblico perde la forza politica dell’azione efficace perché il potere si gioca in una ristrettissima cerchia che agisce protetta dal completo anonimato.

Io penso che le destre con il loro linguaggio retrivo e autoritario possono non essere vincenti, suscitando reazioni di protesta e di opposizione (vedi Sardine). È quindi molto improbabile una restaurazione del vecchio ordine naturale che, secondo il documento del Gruppo del mercoledì di Roma sembra essere “lo spirito del tempo”, attraverso la violenza o la forza.

Ciò che mi preoccupa di più è l’assenza di media liberi, i balbettamenti della sinistra su temi importanti come la giustizia e il lavoro che nascondono un adeguamento a politiche economiche neoliberiste come il Jobs act (riforma atta a flessibilizzare il mercato del lavoro e ad aumentare la possibilità del controllo a distanza attraverso i nuovi dispositivi geolocalizzanti) e il loro silenzio o assenso sui Decreti Sicurezza. Inoltre mi preoccupa l’appropriazione da parte della CGIL, sindacato in cui opero come RSU, di un linguaggio del contrattualismo radicale che eleva la proprietà della persona a massimo valore facendo della prostituzione e della GPA un lavoro come un altro.

Il documento del Gruppo del mercoledì di Roma mi sembra sia stato scritto soprattutto “contro” e non “in dialogo con” perché accusa altre donne più che affrontare un conflitto nato da posizioni diverse. Se l’obiettivo di cambiare l’ordine simbolico, spostare lo sguardo, dare un altro nome alle cose per trarre fuori dalla rappresentazione dominante la realtà che ci interessa modificare, come spiegano le donne del Gdm, è un obiettivo comune, allora è sicuramente più efficace farsi forza a partire dai punti di contatto.

Ieri volevo concludere questo testo riprendendo il discorso affrontato in VD3 Parlare bene delle donne. Oggi sono rimasta piacevolmente sorpresa dal titolo di un incontro programmato in Libreria (per quando sarà possibile): Parlare bene delle donne 2020. A due anni di distanza riprendiamo l’invito di Luisa Muraro. La scommessa non è la libertà delle donne – quella è in corso – ma il cambio di civiltà per donne e uomini. Una volta l’avremmo chiamata rivoluzione. Aprono la discussione Lia Cigarini e Giordana Masotto.

Solo in questa prospettiva è possibile procedere attraverso la politica delle relazioni tra donne.


(www.libreriadelledonne.it, 11 marzo 2020)

di Luisa Muraro


Il primo pensiero, alla notizia della condanna di Harvey Weinstein (New York, lunedì 24 febbraio 2020), è stato: Marilyn, sei vendicata! Secondo pensiero, un grazie rivolto alle donne del Me-too. Anche il procuratore di New York ha detto grazie, rivolgendosi specialmente alle due testimoni decisive per la condanna, con queste parole «Esse hanno cambiato il corso della storia nella lotta contro le violenze sessuali… Io e tutti abbiamo un debito immenso verso le vittime di Harvey Weinstein». Queste parole sono giuste perché mettono in chiaro il debito simbolico che l’intera società maschile ha nei confronti delle donne che si sono coraggiosamente prestate al rito della giustizia, che hanno cioè dato alla cultura maschile un’occasione per riscattarsi.

Aver concluso il processo con la condanna dell’imputato riempie di orgoglio Cyrus Vance, il procuratore di New York. Non creda però, il brav’uomo, di aver fatto giustizia. Ha fatto il suo dovere, ma i conti restano aperti. Da lui come dai suoi simili io chiedo e pretendo una restituzione. Che gli uomini di cultura facciano finalmente il loro possibile per spiegare a se stessi e a noi l’oscuro male maschile della sopraffazione, del disprezzo e dell’odio verso l’umanità femminile.


(www.libreriadelledonne.it, 26 febbraio 2020)

di Laura Colombo e Laura Milani


Ogni donna prende la parola per sé, secondo il proprio sentire e le proprie convinzioni, che nascono dallo scambio politico con altre – principalmente. È una pratica femminista radicale, che mette al centro la soggettività. Chi mette il proprio nome su documenti e iniziative può, se lo ritiene opportuno, nominare anche il luogo in cui svolge la sua riflessione e la sua azione politica, la Libreria delle donne di Milano nel nostro caso. Questo non significa l’adesione di tutta la “Libreria” (un noi – o voi, tutto da spiegare) a iniziative o dichiarazioni pensate e formulate da altre. Supporre che la firma di una o più donne comporti automaticamente l’assenso del soggetto collettivo “Libreria”, significa cancellare la presa di parola come pratica che dà forza alla singola e anima alla pluralità.

Ultimamente è comparsa una firma che vogliamo rettificare: riguarda la Declaration on Women’s Sex-Based Rights, in cui compare il nome collettivo della Libreria. Nel sito www.libreriadelledonne.it era stata segnalata l’adesione di una donna della Libreria, insieme alle motivazioni che l’avevano portata a firmarla. Altre donne della Libreria, singolarmente, hanno sottoscritto la Declaration, altre no, non condividendola nell’insieme. Noi che scriviamo, per esempio. 

Ci chiediamo perché e come mai sia stata usata la firma collettiva della Libreria, e chiediamo che venga tolta. Riteniamo che le singole firmatarie, così come le volontarie del gruppo Women’s Human Rights Campaign (WHRC), non abbiano intenzionalmente fatto questa mossa. Dobbiamo però tener conto che la campagna si svolge in rete, e il medium non è indifferente, di più, probabilmente il perché degli inciampi sulla rete sta proprio nelle sue regole, spiegate bene da Shoshana Zuboff nel libro Il capitalismo della sorveglianza. Sono regole predatorie, che legittimano appropriazioni indebite e fake news, termini inglesi che descrivono l’universo della falsità, della manipolazione, della guerra fatta a colpi di attacchi personali e della completa fiducia accordata da chi legge, che non ne mette in dubbio l’autenticità. Non facciamoci ingannare.  

Di autenticità ha vissuto Carla Lonzi e a noi l’ha consegnata come idea radicale, che necessariamente passa dal piano della teoria a quella dell’esistenza, del nostro “qui e ora”. È da questo punto di autenticità che vogliamo partire, per dare un taglio a imbrogli, imposture, malintesi e falsità, come è la vicenda della firma collettiva.


(www.libreriadelledonne.it, 21/02/2020)


Grazie, noi qui abbiamo letto la tua lettera* ma la Libreria delle donne è una pluralità senza confini netti (come tessera o organizzazione). Alcune non sono interessate alla tematica che poni, altre sì ma esitano ad affrontarla perché ha dato occasione a schieramenti estranei allo spirito e alle pratiche del femminismo. Facciamo il possibile perché ci siano condizioni migliori, ammesso che il medium che usiamo per comunicare, i social e cose simili, lo consentano.


La redazione del sito


(www.libreriadelledonne.it, 20 febbraio 2020)


*Lettera aperta alla Libreria delle Donne di Milano


Amiche e compagne,
tante sono le donne che, nell’ultimo anno, mi hanno chiesto spiegazioni sul perché l’incontro previsto per il gennaio dell’anno 2019 – una discussione che sarebbe partita dal libro di Porpora Marcasciano “L’aurora delle trans cattive” e dal mio libro “Gender (R)Evolution” per poi coinvolgere altre donne interessate alle tematiche che i libri affrontano e tutte le donne della Libreria in modo orizzontale, un evento pensato, desiderato e organizzato da alcune donne interne alla Libreria stessa – è stato annullato e rimandato a data da destinarsi.
Devo riportare la domanda a voi, confidando in una risposta pubblica.
Partendo da quella pratica di relazione che è presupposto irrinunciabile alla cultura delle donne, vi chiedo: perché quello spiraglio si è chiuso improvvisamente e da più di un anno non abbiamo più avuto vostre notizie?
Leggo sul sito della Libreria: «[…] la Libreria è un luogo di discussione, o meglio è essenzialmente un luogo politico, per come noi abbiamo inteso la politica.»
Partendo da me, ho sempre fatto mio l’insegnamento di Hannah Arendt, secondo il quale «verità e politica sono concetti che si autoescludono. La politica è il luogo labile, cangiante e contingente del cambiamento e delle opinioni, lo spazio di continua elaborazione di visioni della realtà sempre differenti, è azione, è cambiamento, è opinione e contingenza, è movimento.»
Da qui mi sarebbe piaciuto partire, se quell’incontro avesse mai avuto luogo. Avevo già iniziato a lavorare al mio intervento ed ero entusiasta all’idea di potermi confrontare in un luogo che è un’istituzione per le donne tutte, soprattutto a Milano.
Ripensandoci, provo una certa amarezza e continuo a sperare che quello spiraglio possa riaprirsi, perché è soltanto nel dialogo e nel viaggio fra le prospettive che il pensiero delle donne può svilupparsi.
Resto in attesa di un vostro riscontro.
Monica Romano

di Marisa Guarneri


Sette giorni, sette femminicidi la scorsa settimana e questa settimana va nello stesso modo.

Che cosa accade? Ci sono due aspetti a parere mio: l’inviolabilità del corpo femminile, è un principio basilare per poter affrontare la violenza maschile contro le donne e necessita di un percorso all’interno della consapevolezza di sé di ogni donna. Questo percorso e questa consapevolezza si stanno rafforzando e così la legittimazione che ogni donna si dà per sottrarsi alla violenza.

È questo il primo passo verso la libertà femminile. Molte donne stanno affrontando, pur correndo dei rischi, la scelta di rifiutarsi alla violenza. Quanto c’è intorno a loro è arretrato per stare al passo con queste scelte. Istituzioni, tribunali, questure e in generale i pacchetti di politiche contro la violenza sessista sono scomposti e poco coordinati. A cominciare dal Codice Rosso.

Le donne sono convinte e coraggiose in tutto il mondo ormai e si raccordano in grandi avvenimenti di piazza ovunque. Cosa frena ancora un cambiamento radicale delle relazioni uomo-donna: il rifiuto conscio e inconscio degli uomini di accettare il procedere della libertà femminile.

A costo di uccidersi. Le prese di posizione di alte autorità dello stato di questi giorni ci dicono che lo scontro è al suo massimo. La violenza contro le donne non esce però dalle considerazioni sulla emergenza. Gli uomini hanno la possibilità e l’occasione di riflettere sulla questione dell’inviolabilità femminile e di pensarla come un proprio obiettivo. Costruendo intorno azioni e modi di far politica che la mettano al centro.

I patti del passato simbolici e politici sulla legittimità dell’uso dei corpi delle donne sono scaduti. Pensiamo al me-too, dobbiamo vegliare sulle tecnologie e le invenzioni dell’oggi che servono a mascherare il protrarsi di questo patto.


(www.libreriadelledonne.it, 6 febbraio 2020)

Una serata appassionante sulle vicende dell’Istria ieri e oggi

di Cristiana Fischer


Care tutte,

voglio aggiungere qualcosa riguardo la serata di sabato 25 in Libreria, l’incontro con Silvia Dai Prà autrice del libro Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria. Per aggiungere due osservazioni. Preciso che sono nata a Trieste e che la famiglia di mia madre era di Trieste, con la sorella, mia nonna e le sue tre sorelle; la bisnonna era di Muggia. Il nonno veniva invece da territori che oggi sono austriaci. A Trieste ho fatto il ginnasio e nella piazza davanti al liceo ancora nel ’59 sostavano i profughi, si continuava a fuggire dalla Jugoslavia. Venivano osservati con una punta di derisione da noi ragazzine, per la loro aria smarrita ma anche un po’ proterva, di persone che si sentivano tradite e non protette dalla nuova Italia. Opinione proclamata ad alta voce dalla suocera della zia (la sorella di mia madre) fuggita anni prima, ma si trattava di una famiglia benestante e si erano inseriti bene a Trieste. Il leggero scherno per “i profughi”, nome collettivo per gli stralunati che sostavano in attesa di destinazione ad altri luoghi e altre case, dipendeva anche dal fatto che molte mie compagne erano ebree, portatrici di storie familiari con ben altre perdite.

Ecco la prima osservazione che voglio fare dalla zona di confine in cui vivevo, la guerra come insensatezza: razze e confini, prima inesistenti e con-fuse, erano state divise e separate. La forza e la crudeltà umana erano lo strumento servito a realizzare quelle immonde separazioni e tagli.

Qualche anno prima vivevo a Jesolo e nel ’56 arrivarono i profughi dall’Ungheria. Accolti benissimo in paese. L’Italia aveva perso, e l’Urss era fra i vincitori. La Jugoslavia chiusa e vicina era come l’Ungheria. Il vissuto comune della popolazione era innestato sul recente passaggio da una larga comunità italiana spesso bilingue (con slavi e tedeschi – vale anche per i greci, gli albanesi e gli arabi ma non in questa ultima guerra) con legami parentali geograficamente estesi, ora ristretta in confini più limitati, chiusi. Ogni atto che mettesse in discussione quella chiusura era sostenuto con favore.


(www.libreriadelledonne.it, 30 gennaio 2020)

di Luisa Muraro


È uscito un nuovo numero di Donne Chiesa Mondo (gennaio 2020), titolo “Le donne e Francesco”. Il mensile dell’Osservatore Romano mi piaceva di più quando lo guidava Lucetta Scaraffia, ma il cambio di guardia non incide sui motivi del mio interesse per la rivista. È certo che il cambiamento si nota. Una Lucetta Scaraffia, nell’ipotesi poco probabile di una scelta del tema come quello di questo numero, non avrebbe messo in copertina l’immagine del papa che si lascia carezzare in viso da una giovane donna che ha gli occhi semichiusi, forse una ipovedente. L’immagine è dolce e intensa, quasi imbarazzante, poco adatta a comparire su una copertina, tanto meno per illustrare un simile argomento. Per contrasto, un salutare contrasto, ci viene in mente quella devota che il 1° gennaio si è impadronita della mano del Papa e non voleva mollarla, un fatto che trovo più istruttivo per riflettere criticamente sul tema in questione.

Più passa il tempo e più mi pare di capire e stimare quest’uomo che si fa chiamare Francesco. In Donne Chiesa Mondo c’è anche una mia breve intervista, firmata da Elisa Calessi, dove dico che, nell’istituzione Chiesa cattolica, tra quelli che la governano ad alto livello, lui fa eccezione perché non ha l’impronta dell’uomo di potere per cui, aggiungo qui, non deve mascherarsi da “santo uomo di chiesa”.

Lo spazio sulla rivista era limitato e mi sono trovata a dire una cosa che avrebbe richiesto una spiegazione. Questo ho detto: “non si è fatto ancora il passo in avanti di conferire autorità a donne”.

Il caso vuole che, in seguito, il 14 gennaio, il papa abbia fatto una predica sull’autorità dove, fra le altre cose, afferma che avere autorità non vuol dire comandare. È un punto di grande importanza che si accorda con quello che scrive Hannah Arendt, in un testo – Che cos’è l’autorità? – che è il mio riferimento principale sull’argomento, insieme a Lia Cigarini, L’autorità femminile.

Prendo questa occasione per precisare quello che non ho detto nell’intervista. Userò poche parole perché non ne servono molte: secondo me, l’organizzazione gerarchica della Chiesa sommata al fatto che si tratti di una gerarchia solo maschile, ostacola la libera circolazione dello spirito santo che è fonte di autorità, l’unica riconosciuta alle donne nella Chiesa cattolica e, al tempo stesso, la più pura e libera. L’ostacolo della gerarchia maschile ha degli effetti deteriori che si vedono bene e che il papa stesso nota con dispiacere quando, per esempio, critica un certo servilismo femminile dovuto al clericalismo.

Faccio un altro esempio, ben diverso, ma la causa è sempre la stessa. Durante il giubileo della misericordia, c’è qualcuno che abbia citato Giuliana di Norwich? Eppure, non conosco nessuno che abbia scritto cose altrettanto forti e commoventi sulla misericordia divina, di questa reclusa inglese il cui libro, A Book of Showings, da decenni è stato studiato, pubblicato e tradotto anche in italiano (Libro delle rivelazioni, Àncora 1984).

Il paradosso è che, nel fare la distinzione tra autorità e potere, Arendt nomina proprio la Chiesa per dire che questa ha saputo fare sua la distinzione dell’antica Roma fra autorità e potere, e cita un papa, che scriveva all’imperatore “Due sono le cose che regolano principalmente questo mondo: la sacra autorità dei papi e il potere dei re”. I tempi sono abissalmente cambiati ma quel principio del sentire e fare la differenza tra l’autorità e il potere di comandare rimane valido per la filosofa, pena il disordine simbolico per cui in cielo e in terra comanda chi ha più potere di soldi e di armi.

Perché allora la Chiesa non è di esempio agli altri nel mettere in luce l’autorità femminile? L’enfasi con cui i giornali hanno commentato la recente nomina di una donna a un posto di responsabilità nell’apparato vaticano, parla di un ritardo che si cerca di colmare, non di altro. E lo dice l’interessata stessa: essendo una donna, mi meraviglio della nomina, ma che io sia una donna, c’entra poco con il nuovo incarico.

Nel numero appena uscito di Donne Chiesa Mondo la teologa cattolica e femminista Marinella Perroni, pubblica una specie di lettera, Questo vorrei dire a Papa Francesco, in cui a un certo punto dice: l’esodo inarrestabile, tanto silenzioso quanto doloroso, delle molte donne che hanno lasciato le chiese in questi anni, è un grido che le donne per prime hanno lanciato perché non vogliono che si continui a parlare di loro ma vogliono essere ascoltate.

Ecco una possibile risposta al perché: il femminismo non è stato ascoltato o è stato capito male, come una rivendicazione di parità, e le donne nella Chiesa non hanno autorità: non se la danno, non la ricevono, e forse non circola più, non ce n’è per nessuno. E se ne vanno.

Ecco un’altra risposta possibile: i bravi cattolici credono nello spirito santo perché è un dogma, ma in pratica non ci credono e non gli credono quando parla… A pensarci bene, non sono due risposte ma una.


(www.libreriadelledonne.it, 17 gennaio 2020)


Le Città Vicine invitano al Convegno nazionale Le Città Vicine nell’era dell’emergenza climatica, il 1° marzo 2020 dalle 9.30 alle 17.00 a Verona presso la Casa Comune MAG, Via Adriano Cristofoli, 31/A (Zona Stadio, bus 11-12-13 da Stazione FS). Nei locali della MAG sarà esposta la mostra mail art “In cielo, in terra … in mare” della Merlettaia di Foggia e le Città Vicine, a cura di Katia Ricci.
Per qualsiasi indicazione rivolgersi a: Segreteria Casa Comune MAG – Giulia Pravato, tel. 0458100279; info@magverona.it
Uniamo un testo di riflessione che serve a prepararsi all’incontro.


Nell’ultimo anno la questione dell’emergenza climatica si è imposta nel dibattito pubblico sia per le sempre più evidenti conseguenze disastrose, sia per merito di Greta Thunberg che ha richiamato con vigore i potenti della terra a metterla al primo posto nell’agenda politica internazionale. Si sono intensificate le manifestazioni di protesta di donne e uomini, più e meno giovani, che in tutto il mondo agiscono creativamente per individuare soluzioni locali e contemporaneamente lottano contro il modello neoliberista che è alla base della crisi ambientale e delle enormi disuguaglianze di strumenti per fronteggiarne gli effetti.

Pur nella diversità delle esperienze vi è qualcosa che accomuna tutti questi movimenti: il protagonismo femminile. Se questo fatto da un lato non stupisce a causa di quel nodo storico che da sempre nell’immaginario lega insieme le donne e la natura, dall’altro è importante riconoscere che la massiccia presenza femminile sta oggi producendo una trasformazione politica attraverso la diffusione dei linguaggi e delle pratiche proprie del femminismo. Il linguaggio che circola in questi movimenti è, infatti, più attento alla restituzione dell’esperienza concreta e sempre più frutto di un lavoro mirato, nella consapevolezza che il simbolico ha un ruolo fondamentale nel comunicare la differenza di quello che si fa e si pensa rispetto alla narrazione dominante. Per quanto riguarda le pratiche, queste si fondano sul partire da sé per arrivare ad altre/altri e altro, accompagnato dalla parallela sfiducia nella delega e nella rappresentanza, e si caratterizzano per il muoversi in base a relazioni che confluiscono in organizzazioni fluide senza “capi” né leader ma con un senso vivo dell’autorità circolante e con una pratica decisionale aperta e dialogica. Relazioni che hanno la tendenza a creare comunità, a tenere insieme l’azione e il suo senso, ad agire in prossimità delle cose in aderenza a ciò che si incontra ma anche a legarsi a realtà lontane in base a convergenze di contenuti e pratiche. Vi è un ulteriore elemento che dovrebbe farci fare salti di gioia: mai nel passato il rifiuto del patriarcato è stato così esplicitamente e diffusamente espresso al di fuori dei movimenti delle donne. […] Il rifiuto generalizzato del patriarcato costantemente segnalato indica che la presenza femminile è portatrice di un di più non riconducibile all’interno delle disuguaglianze economiche o di classe ma è una differenza.

Dunque, come sostiene Luisa Muraro, dovremmo «fare leva sul crescente favore di cui gode, in questi ultimi decenni, l’umanità femminile … per prendere autorità nella vita pubblica e fare la differenza dal come finora sono andate le cose» (intervento a Via Dogana 3 del 10/12/2019). La vita pubblica è oggi favorevole alle donne e pronta al cambiamento proprio perché si è raggiunto/superato un limite. Allora, le Città Vicine hanno l’occasione di porsi nello scenario con una consapevolezza in più: le città sono i luoghi in cui si produce più inquinamento e dove tutti i problemi ambientali si amplificano e, per questo, come sostiene Ada Colau sindaca di Barcellona, sono anche il contesto per inventare e sperimentare soluzioni alternative, nuove politiche pubbliche, nuovi stili di vita e di consumo, nuove forme di auto-organizzazione. È nelle città e nei territori che le circondano che possono avvenire, e stanno avvenendo, i cambiamenti più significativi perché vanno a incidere nella vita reale delle persone che sono in relazione concreta fra loro, anche quando sconosciuti; è nelle città che si esprimono e devono essere soddisfatti i bisogni primari. È importante, allora, portare ciascuna la propria esperienza e le pratiche che sta agendo, il racconto di ciò che nella propria città sta avvenendo perché, come sostiene Chiara Zamboni (Cambia il clima, cambia la politica?, Via Dogana 3, 15 aprile 2019), «tutto serve per rendere più forte il movimento ecologista. Tutto rende l’alveo del fiume più grande».


Simonetta Patanè


(www.libreriadelledonne.it, 17 gennaio 2020)


Care tutte,

ho letto della riunione di mercoledì 14 gennaio sul principio di inviolabilità del corpo femminile, e invio ancora alcune righe per motivare meglio i miei dubbi.

Il termine inviolabilità ha il valore etimologico di forza che vince, da qui il passo a violenza è breve. Nella Costituzione invece l’articolo 2 si riferisce ai diritti inviolabili e anche nel linguaggio corrente inviolabili sono luoghi, memorie, giuramenti, per la loro potenza simbolica.

Invece inviolabilità del corpo femminile riguarda il corpo! Però molti corpi umani patiscono violenza, gli animalisti si battono per l’inviolabilità dei corpi animali, anche le piante sono da rispettare come organismi vitali. Cosa distingue allora l’inviolabilità del corpo femminile rispetto a quella dovuta agli altri corpi viventi?

Le donne in tutto il mondo denunciano e respingono la violenza maschile nei loro confronti. Il principio di inviolabilità del corpo femminile «fa parte di questo riscatto da un ordine sociale e simbolico, il patriarcato, il cui credito è finito, e che sopravvive solo in manifestazioni deteriori», è un principio che «orienta lo sguardo e lo rinnova» così mi ha scritto Luisa Muraro.

Voglio essere chiara: non metto in questione che il termine si riferisca, oggi, alla ribellione delle donne contro la storica violenza maschile, ma segnalo che al termine inviolabile si aggrappano anche altri significati da cui prendere guardia.

Inviolabilità del corpo femminile, se non univocamente legato alle lotte in corso, ci separa dagli altri corpi (tutti ontologicamente violabili perché generati, dagli scambi metabolici, dai mali). Un versante dello stesso isolamento è la immediata sublimazione della generatività materna.

In secondo luogo inviolabile figura anche una donna emancipata, consapevole, attiva… neoliberista.

In un altro senso il termine schiaccerebbe il corpo femminile tra i corpi deboli, da proteggere, tra i corpi bambini, invecchiati, malati.

Il termine è aperto su troppi lati. Solo una forte egemonia femminista ne può vincolare il senso: inviolabile dalla violenza maschile e patriarcale. Qui bisogna immaginare come «introdurre nell’ordinamento di base della convivenza umana [quel] principio nuovo» costituirebbe un atto di egemonia.

Altrimenti, proprio in relazione ai tre significati para-femministi che il termine aggrega, l’affermazione del principio è un atto debole ed equivoco.

Spero che farete lo streaming, così potrò seguirvi, ciao.


Cristiana Fischer


Cara Cristiana,

come avrai visto anche dallo streaming si tratta proprio di questo: di un atto di politica delle donne, un atto di egemonia simbolica.

La redazione


(www.libreriadelledonne.it, 13 gennaio 2020)

di Clara Jourdan


L’ultimo giorno del 2019 il quotidiano il manifesto è uscito con un ampio “speciale” dal titolo Parla con lei. Dedicato all’impegno femminile nelle lotte di donne e uomini che hanno caratterizzato l’anno. Numerosi i testi, a cominciare da R-evolution 2019. Nel segno delle donne: un articolo di Marco Boccitto che riflette su «un anno di mobilitazioni sociali tutt’altro che virtuali, con assenza di una leadership in senso tradizionale e forte protagonismo femminile in senso anti-patriarcale. Dal Sudan al Cile, dall’India contro gli stupri a Greta Thunberg a Almaas Elmany uccisa a Mogadiscio». Un protagonismo diffuso, come mostra la rassegna di dodici bellissime foto di anonime donne in azione in varie parti del mondo, Algeria, Iraq, Bolivia, Libano, Hong Kong, Russia

L’attenzione all’Italia si concentra su tre figure con quello che ci hanno trasmesso: La vittoria contro l’odio di Liliana Segre (Andrea Colombo); La libertà di Carola Rackete (Mariangela Mianiti), e Ilaria Cucchi: l’anno della giustizia e gli anni dell’amore, «regalo di Stefano» (Eleonora Martini).

Poi, sotto il titolo generale L’impronta audace di un pensiero che si fa tentacolare. L’almanacco delle sobillatrici che ci hanno accompagnato lungo quest’anno, leggiamo della Nobel Olga Tokarczuk impegnata per una letteratura «che veda sempre di più» (Valentina Parisi); di Dolores Reyes e i corpi senza voce dell’Argentina (Francesca Lazzarato); di Donna Haraway, la femminista ecologista autrice del Cyborg Manifesto che oggi «interpella lo smarrimento ma anche la resistenza» con il «generare parentele» (Alessandra Pigliaru); di Zhang Dongju, paleontologa sulle tracce dei denisoviani, una delle specie umane dal cui incrocio discendiamo (Andrea Capocci); e persino di Athena, la dea di cui nel 2019 sono venuti alla luce nuovi reperti a Pompei (Valentina Porcheddu).

Non mancano cinema, teatro e tv: Le «provocazioni» di Lucrecia Martel alla Mostra del cinema di Venezia sui rapporti di potere e le molestie (Cristina Piccino); Viaggio nell’altrove di Constanza Macras, la regista e coreografa argentino-berlinese esploratrice dell’universo «che sta dietro l’angolo delle nostre città» (Gianni Manzella); Una Jedi dentro l’immaginario pop, su Rey, la protagonista della trilogia sequel di «Guerre stellari», superamento dell’impostazione maschile di «eroi dal sangue blu» (Giovanna Branca).

Infine, lo sport, con Il corpo dell’atleta contro le norme di genere (Silvia Nugara) sul calvario e la tenacia di Caster Semenya, la mezzofondista sudafricana vincitrice di due ori olimpici e tre mondiali di cui viene messa in dubbio la femminilità.

Leggendo queste pagine vengono in mente altre donne note e combattive nell’anno trascorso che non vi compaiono: è stimolante, e segno non di un difetto della redazione del giornale, bensì della consapevolezza di una realtà talmente ricca di protagonismo politico femminile che si può cercare di mostrarlo e comprenderlo in alcuni suoi aspetti e figure, secondo le sensibilità e competenze che si hanno e senza pretendere di darne conto esaustivo in uno “speciale” di fine anno.

Il numero del manifesto del 31 dicembre 2019, insomma, conferma l’importanza di questo quotidiano, con il suo sforzo riuscito di parlare bene delle donne.


(www.libreriadelledonne.it, 9 gennaio 2020)

di Erika Zippilli e Luisa Muraro


Carissime,
raramente mi è capitato di trovarmi in disaccordo con Luisa Muraro. Tuttavia questa volta il suo articolo su Piazza Fontana qualche perplessità in me la suscita. Vi dico perché.
Luisa scrive che sostenere che la strage fu di Stato è una trappola nella quale siamo caduti, la strage fu in realtà opera dei fascisti veneti di Ordine nuovo.
Una trappola?
Io credo invece che fu proprio lo Stato intero, il suo Saragat, il suo Rumor, le sue questure, il suo PCI colpevolmente silente, la sua magistratura e le sue alleanze straniere e non “apparati deviati” a spostare il processo a Catanzaro, a spezzettarlo in tante inchieste diverse, a depistare per infine seppellirlo definitivamente a Bari dopo quarant’anni. Fu lo Stato a fabbricate i passaporti per consentire la fuga ai fascisti veneti. E oggi è ancora lo Stato ad equiparare la vedova dell’assassino alla vedova dell’assassinato per bocca di Mattarella (il quale, per la sua storia personale, non si sarebbe dovuto permettere tale ambiguità). Il dolore delle vedove sarà pure stato simile, ma i rispettivi mariti simili non lo furono davvero.
Se non fu lo Stato, allora dovremmo accettare che i fascisti veneti e Ordine Nuovo avevano un potere ben superiore allo Stato. Ergo, a partire dal 1969 l’Italia è da ritenersi uno stato fascista?

Un caro saluto e AUGURI di cose belle e buone per l’Anno 2020!
Erika Zippilli



Cara Erika Zippilli, tu cogli un punto importante della questione. Il libro del Corriere della sera, La strage di Piazza Fontana (che io critico per una certa reticenza) è accurato e così scrive nella Cronologia: giugno 1970 La casa editrice Samonà e Savelli pubblica La strage di Stato, autori Tizio Caio Sempronio, che sono dell’estrema sinistra, e altre persone mai identificate; il libro ottiene un grande successo di vendite (pp. 234-235). Alcuni hanno poi giustamente notato: ma quel libro svela cose che nel giugno 1970 nessuno poteva conoscere se non quelli che c’entravano in prima persona. Tizio Caio e Sempronio non hanno voluto dire la loro fonte. Chi poteva essere? Risposta: qualcuno che sapeva le cose e doveva offrire un bersaglio quasi vero e sicuramente attraente (cioè lo Stato) alla sinistra che non credeva nella versione ufficiale e poteva avvicinarsi troppo alla verità. Bisognava distrarci dalla ulteriore ricerca della verità e ci voleva qualcosa di convincente. Quale verità? A questo allude il titolo del mio articolo: si può dirla? potete dirla? Per quello che è sicuramente documentato, risulta a me che ci fu allora, all’interno dello Stato, un grave scontro la cui posta in gioco era l’ordinamento democratico costituzionale. Qui, secondo me (ma non sono certo la sola a pensarlo!) c’entrano gli Usa e la loro lotta accanita contro il comunismo e tutto quello che poteva portare in quella direzione, che non era per forza l’Unione Sovietica, ma era e rimane il superamento dell’economia sedicente liberale basata sul sedicente libero mercato (sul profitto). Possiamo dirlo? Solo così la strage di piazza Fontana diventerebbe parte di una ricostruzione sensata e convincente. Grazie di avermi dato l’occasione di tornare su quell’argomento,


Luisa Muraro


(www.libreriadelledonne.it, 9 gennaio 2020)


Scrive Manohla Dargis sul New York Times del 21-22 dicembre scorso: il movimento del Me-Too e la ripresa (or.: resurgence) del femminismo negli anni Duemila hanno toccato tutti gli ambiti della vita americana. Non soltanto negli Usa, s’intende, l’America è grande, comprende paesi come il Messico, il Brasile, il Cile, l’Argentina… Qui ha preso slancio il movimento Ni una menos (Non una di meno), arrivato anche in Italia. Sono movimenti diversi, con linguaggi diversi; in comune hanno la denuncia di una violenza che si era incorporata negli usi e costumi di una sedicente civiltà, tanto da essere vista come una questione minore e trascurabile. O non vista affatto. E invece è un avvelenamento globale.

La violenza che ha intossicato l’umanità ha trovato il suo alibi nella reciproca indulgenza maschile verso la prevaricazione sulle donne, quella istituzionale che spesso è anche psicologica e fisica, in una mescolanza che assolve tutti. Fino a ieri la complicità maschile è stata totale, ora non più. Con il femminismo che incalza in ondate successive le cose stanno cambiando. Per gli uomini il cambiamento in corso non dev’essere facile, scrive Manohla Dargis commentando una serie di film recenti che ci fanno vedere che men are in trouble (gli uomini sono incasinati). E meno male, aggiunge.

Anni fa, davanti alla gravità del male e all’inconsapevolezza maschile, un gruppo di avvocate e giudici hanno pensato d’introdurre nell’ordinamento di base della convivenza umana un principio nuovo, che hanno chiamato “di inviolabilità del corpo femminile”.

Noi proponiamo di riprendere questa idea per discuterla, approfondirla, metterla alla prova del presente. Inverarla, direbbero i filosofi (che però, così come i preti, non hanno mai combattuto questo male).

Forse serve che spieghiamo che cos’è un principio, perché era questa la proposta delle giuriste, non una legge ma qualcosa che viene prima e può orientare l’opera della civiltà. Pensate, per esempio, al principio di uguaglianza, in forza del quale giudichiamo ingiuste le discriminazioni e parliamo di ingiustizia sociale per le disuguaglianze economiche. È stato guadagnato storicamente ma, una volta guadagnato, lo consideriamo valido a priori.

Questo fa la politica del simbolico. Non è un mettersi d’accordo (che allora prevalgono i più forti o i compromessi) ma un trovarsi d’accordo. Non l’abbiamo inventata noi, c’è da quando gli esseri umani si parlano. Il femminismo ha costatato la sua efficacia. Gli slogan tipo “La nostra casa è in fiamme”, “Ni una menos”, sono efficaci nella misura in cui riassumono in poche parole dei percorsi politici convergenti che agiscono nella realtà e dentro di noi al tempo stesso. Il percorso dell’inviolabilità è cominciato con la separazione (le riunioni separate di donne) degli anni Settanta. E riprende, a distanza di decenni, nel momento in cui alcuni uomini mostrano di capire quello che le ragazze cantano in coro, El violador eres tu (sei tu quello che ci fa violenza): non accusano il singolo, pretendono una presa di coscienza e l’impegno del singolo e di tutti. E poi? Poi si vedrà.


Per cominciare, vediamoci tra noi in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, mercoledì 15 gennaio 2020 alle ore 18.30.


Alcune della Libreria delle donne di Milano


(www.libreriadelledonne.it, 30 dicembre 2019)


Nota del 2.1.2020 
C’è una correzione da fare: tra i preti Papa Francesco ha cominciato a combattere il male della violenza sulle donne il 1° gennaio 2020. 


«Il destino imprevisto del mondo sta nel ricominciare il cammino

per percorrerlo con la donna come soggetto»

(Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1970)


Il giorno sabato 18 gennaio 2020 si apre la Scuola di scrittura politica, nuova edizione della Scuola di scrittura pensante di Luisa Muraro e Clara Jourdan durata 11 anni dal 2007 al 2017. Il corso continuerà per tutti i sabati fino al 21 marzo compreso, dieci incontri dalle 10.30 alle 13.00, a Milano presso la Libreria delle donne in via Pietro Calvi, 29.

Come annunciato nella presentazione, ripartiamo con l’idea di una scrittura che ci aiuti a pensare la politica delle donne che interagisce con il mondo globale, per intrecciare il contingente con la lunga distanza.

Adesso siamo in condizione di dirvi di più su come lavoreremo.

– Questa è una scuola in cui ci eserciteremo con testi da scrivere e da leggere.

– Sarà una scuola attenta ai discorsi della politica delle donne così come si impongono a noi e all’opinione pubblica nell’attualità. Lavoriamo in stretta fedeltà con tutte quelle vicende che hanno portato all’unica rivoluzione politica che il terribile XX secolo è riuscito a portare nel XXI, oltre a un bel po’ di problemi. Per fortuna in questi ultimi anni qua e là la gente giovane si sta mobilitando. E per fortuna il femminismo, che ha una storia più lunga, è vivo, vivissimo. Dunque la nostra scuola si caratterizza per l’attenzione al presente senza dimenticare il passato.

– Un lavoro faticoso, paziente, duro: il nostro contributo alla politica per tre mesi sarà questo.


Luisa Muraro e Clara Jourdan


20 dicembre 2019


Per altre informazioni e per iscriversi, rivolgersi a Clara Jourdan: info@libreriadelledonne.it Potete contattarla di persona il venerdì pomeriggio (ore 16-19) presso la Libreria delle donne (tel. 02 70006265).


(www.libreriadelledonne.it, 20 dicembre 2019)

di Chiara Calori


La prima volta che ho sentito parlare di Marta Cartabia è stato all’università, quando al corso di diritto ecclesiastico ci è capitato di leggere una sentenza da lei redatta. Ricordo il commento del professore, fu la prima volta che ci fece notare i ragionamenti ‘suggestivi’, ossia quelli convincenti, ben argomentati giuridicamente, ma che nella loro fluidità trascurano di fare chiarezza su alcuni punti essenziali. Di fatto lui da quei ragionamenti ci stava mettendo in guardia.

Poi l’ho incontrata di nuovo più avanti, proponendo a un’amica di guardare il documentario Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri, che riprendeva la visita alle carceri italiane di alcuni giudici costituzionali, tra cui Marta Cartabia. In una scena lei si trovava in una stanza circolare, sul pulpito, e con emozione e sentimento parlava ai detenuti della Costituzione e delle sue norme, con l’auspicio che fossero lettera viva e non solo precetti giuridici.

Ho letto, abbiamo letto, in questi giorni la notizia della sua nomina a Presidente della Corte Costituzionale italiana, ma quel che ho captato dai giornali era solo un curriculum frammentato, dei pezzi di vita privata e professionale che cercavano forse di suggerire un ritratto della nuova presidente, ma che sembravano invece di più indicazioni ai lettori: dalla sua cultura cattolica alla maternità, dalla fulgida carriera alla Consulta – è tra i giudici costituzionali più giovani ed è la terza donna a ricoprire tale carica – fino ai suoi gusti musicali mentre si allena. Poi le sue parole: «Ho rotto un cristallo, spero di fare da apripista. Spero di poter dire in futuro, come ha fatto la neopremier finlandese, che anche da noi età e sesso non contano. Perché in Italia ancora un po’ contano».

Ma perché non dovrebbero contare? Se il pensiero della giudice va alle possibili discriminazioni basate su quei fattori, le do ragione. Ma se invece quelle differenze, quella sessuale in particolare, venissero valorizzate come ricchezza? In quel caso, cancellarne la presenza sarebbe un impoverimento. E tanti sono i modi per cancellare la differenza sessuale, anche considerarla una differenza tra le tante, anche considerarla un punto di vista da comporre con altri in cerca di un risultato imparziale e neutro. Un risultato da scongiurare, per questo auguro alla nuova Presidente di non sparire dentro il ruolo istituzionale che ricoprirà nei prossimi nove mesi e di approfittare dell’occasione di una donna – lei – alla presidenza della Corte costituzionale.


(www.libreriadelledonne.it, 18 dicembre 2019)

di Luisa Muraro


In piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, mentre scendeva la notte, c’ero anch’io nella folla che taceva o bisbigliava assistendo allo spettacolo che offriva la Banca dell’Agricoltura devastata dalla bomba e illuminata da grandi fari, un angoscioso teatro mai visto prima.

Il sindaco di Milano, invitandoci a non dimenticare, ha fatto il suo dovere. Ma anch’io vorrei fare il mio, che è di rendere dicibile e comunicabile la verità, per quanto ciò sia relativamente possibile.

Oggi ci sono studenti che, interrogati sugli autori della strage di piazza Fontana, non sanno e tirano a indovinare: “le Brigate Rosse?” Scrivo anche per giustificare pubblicamente la loro ignoranza.

Il racconto dei fatti documentati è una storia che fa acqua. Non voglio affatto dire che sarebbe una storia falsa, voglio dire che è piena di buchi, di ombre e di domande che vengono spontanee ma non trovano risposta o addirittura non vengono formulate. È molto difficile che un’insegnante possa esporla in maniera critica e memorabile, difficile se non impossibile che una persona giovane la memorizzi, tanto è lunga, complicata e lacunosa. Lo è perché quelli che hanno cercato di ricostruire i fatti nel loro insieme, si sono trovati e neanche lo sapevano! a remare contro uomini (politici e militari) impegnati a cancellare le tracce, a sviare le ricerche e ad allontanare (o eliminare) quelli che si trovavano vicini a sapere. 

Dopo aver letto il libro pubblicato dal Corriere della sera su La strage di piazza Fontana, non ho cambiato idea. Il libro, curato da Antonio Carioti, è ricco di voci diverse e di notizie attendibili; ci dà la cronologia dei principali fatti accertati fino all’archiviazione delle ultime indagini (sett. 2013); fa inoltre una cosa semplice e preziosa come dare l’elenco, nome e cognome, delle vittime della strage, alle quali si pensa troppo poco, lo riconosco. L’elenco comprende anche Vittorio Mocchi, imprenditore agricolo, che rimase gravemente ferito ed è morto dopo quattordici anni, passati nel patimento fisico e mentale causato da quell’evento traumatico.

Ciò nonostante, il libro lascia, in definitiva, una certa impressione di reticenza. Ci spiega, per esempio, che la magistratura poteva fare meglio, forse, ma non poteva fare di più perché il suo compito è di valutare e giudicare nei modi e limiti posti dalla legge, e non di scrivere la storia. Giusto, ma che cosa fa il libro stesso per aiutarci nella ulteriore ricerca della verità storica? Troppo poco, secondo me. Lo dico perché, nel capitolo finale, invece di illustrare le ragioni di un’ulteriore ricerca e aprire delle piste, esso ricorre all’espediente ben noto a quelli del mestiere: si conclude con un dibattito tra due posizioni opposte, una delle quali è debole ma serve a impedire che il ragionamento si sviluppi nella direzione più promettente. Per anni, in un altro ambito, questo si è fatto a proposito del riscaldamento globale. Va detto che il sostenitore della posizione debole se non pretestuosa parla in buona fede, c’è sempre qualcuno che non è d’accordo. E non si può dirgli, per esempio, “non fare il finto tonto” sebbene questa sia l’impressione di chi legge. E questo capita ogni volta che il suo interlocutore cerca di collocare le bombe nel contesto della politica internazionale. (Bombe al plurale: quella della Banca dell’Agricoltura fu la più micidiale di tante altre, prima, durante e dopo.) Io mi attengo ai fatti, dice il sostenitore della tesi debole. Ma è questo il punto. Troppi fatti mancano all’appello, per cui è giocoforza ragionare oltre quelli accertati se si vuole dare a questi un senso non sviante.

Se il dovere della memoria riguarda in primo luogo le vittime innocenti, subito inciampiamo nel corpo dell’anarchico Giuseppe Pinelli. E il ricordo va alla conferenza stampa dell’indomani: “Il suicidio di Pinelli equivale a una confessione di colpevolezza”. Parole doppiamente false nonché assurde perché dette dal questore: la questura, nella persona del commissario Calabresi che con Pinelli aveva un rapporto personale, non voleva fare di quest’ultimo il capro espiatorio. Che cosa voleva, allora, per trattenerlo oltre i limiti consentiti dalla legge e arrivare a causarne la morte? forse, la sua collaborazione nell’accreditare la pista che avrebbe fatto di Valpreda, anche lui un anarchico, il capro espiatorio. O forse Pinelli aveva capito qualcosa di troppo?

Probabilmente, la pista Valpreda era già pronta da prima, ma, se così fosse, era stata concepita per attribuirgli una bomba che esplode in un locale vuoto, non una strage come quella di piazza Fontana. Il libro del Corriere della sera giustamente parla, in ipotesi, di “un eccidio che non era preventivato”. Ma, stranamente, l’ipotesi di una strage preterintenzionale non ha molta presa, eppure servirebbe a delineare le responsabilità rispettive dei soggetti in campo, non esclusi i mandanti.

La strage non fu “di Stato”, d’accordo. Ma quel libro uscito nel 1970 che invece lo sosteneva, è risultato essere bene informato, troppo bene; chi lo ha scritto e con quale intento? Era una trappola e ci siamo caduti, perché a quelli come me piaceva credere alla tesi del titolo (il solito sbaglio).

Dopo cinquant’anni e molti processi, sappiamo che la strage fu messa in atto da fascisti veneti di Ordine nuovo, Freda e Ventura in testa. Ed ecco la domanda che uno o una studente di media intelligenza può fare a questo punto: come mai ci è voluto tanto tempo per stabilire con certezza quello che un testimone attendibile, Guido Lorenzon di Vittorio Veneto, aveva intuito subito dopo la strage, e aveva fatto conoscere all’autorità competente?

Una risposta esauriente a questa domanda farebbe di piazza Fontana una storia memorabile. E dell’Italia un paese decente.

Commentando l’intera vicenda, qualcuno tra quelli che parlano con cognizione di causa ha detto: nonostante tutto, dobbiamo essere contenti perché abbiamo salvato la nostra democrazia, e si capisce che parlava molto concretamente dell’Italia. A quelle e a quelli che afferrano l’intero significato di queste parole, tra cui metto il sindaco della città, dico: rendiamolo dicibile!


(www.libreriadelledonne.it, 16 dicembre 2019)

di Paola Mammani


«Le buone notizie sono femmine» è il bel titolo scelto dal sito globalist.it per dare la notizia, il 9 dicembre, della prossima nomina a premier della Finlandia, di Sanna Marin del partito socialdemocratico, 34 anni, che diventerà così la più giovane capo di un governo oggi al mondo, attorniata da altre quattro donne, di cui tre giovani quanto lei, tutte leader dei partiti della coalizione che la sostiene. Dichiara “Non ho mai pensato alla mia età o al mio genere, io penso al perché sono entrata in politica e alle cose che ci hanno fatto vincere tra gli elettori”. Bene essere concentrata sulle cose da fare per gli elettori, ma non è in contrasto con qualche riflessione sul proprio sesso ed eventualmente sulla propria età. Sanna è figlia di genitore 1 e genitore 2, e il linguaggio può averla indotta a pensare che non abbia troppa importanza che siano donne quelle che l’hanno allevata e che lei sia nata del loro stesso sesso. Per ora sembra tenere alta la bandiera dell’indifferenza sessuale.

Una giornalista finlandese richiesta di un parere riguardo al magnifico imprevisto, secondo la definizione dell’intervistatore, ha spiegato che non c’è da meravigliarsi che sia stata designata premier una donna, in una coalizione di cinque partiti, tutti governati da donne, perché nel paese l’uguaglianza tra uomini e donne trionfa da quasi due secoli. A sostegno, solide ragioni storiche e geografiche, immensità del territorio, donne indispensabili nel mondo del lavoro, eccetera.

La Finlandia, paese più esteso dell’Italia, con una popolazione di nemmeno 6 milioni di abitanti, con il reddito pro capite fra i più alti del mondo, nelle elezioni europee dell’aprile scorso ha visto affermarsi un partito xenofobo, i Veri finlandesi, che per pochissimi voti è rimasto dietro al partito socialdemocratico, il primo del paese. Per arginare la deriva xenofoba è nata la coalizione che ora appoggia anche la giovane premier.

Che cosa inquieta gli agiati finlandesi? Appare chiaro che sentimenti di inimicizia non sono (solo) radicati in ragioni di difficoltà economica. E’ nell’opulenza, nel desiderio individuale di ancora più denaro, che spesso cova l’ostilità per l’ospite inatteso, e non solo in Finlandia.

Allora sembra evidente che è di una pratica della differenza che i Finlandesi non hanno fatto ancora esperienza, e la differenza di cui sono portatrici Sanna Marin e le altre, è l’unica vera e possibile variante in campo. A giudicare dai titoli dei giornali, ormai lo sanno tutti, nel mondo.


(www.libreriadelledonne.it, 14 dicembre 2019)

di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia


Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.

Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)


Corriere della sera – Sette, 22 novembre 2019

Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi

di Lucetta Scaraffia


Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda – dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa – nascondevano un segreto imbarazzante.

Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.

Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo – finalmente qualcuno la prendeva sul serio! – le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».

Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?

Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.

Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee – ma anche molte più vicine a noi – che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.

La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante – troppe – donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.

C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza – Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? – e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.

Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale – sia sulle donne che sui minori – come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.

Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.

Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?


(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)

di Giuliana Buffo


Si è parlato molto qualche settimana fa del trattamento riservato dagli attivisti LGBT alla giornalista canadese Meghan Murphy, editrice del sito Feminist Current, in occasione di due conferenze aventi come tema l’influenza dell’informazione nel dibattito sull’identità di genere. Le immagini di Toronto in cui i partecipanti all’incontro hanno dovuto essere scortati dalla polizia sono diventate virali. A Vancouver invece gli organizzatori sono stati costretti a cercare una nuova sede il giorno stesso della conferenza, poiché l’università, che avrebbe dovuto ospitarla, l’ha cancellata all’ultimo momento in seguito alle numerose proteste degli attivisti LGBT.

Nel 2017 il Parlamento canadese ha approvato la legge C-16 che ha aggiunto «identità o espressione di genere» all’elenco delle discriminazioni perseguibili anche penalmente.

Già allora Murphy si era opposta a quella che riteneva essere una minaccia alla libertà di espressione e ai diritti delle donne e venne accusata di inutile allarmismo. A distanza di due anni è evidente come le sue preoccupazioni fossero più che fondate: non solo tutti gli spazi riservati alle donne devono obbligatoriamente includere chiunque dichiari di possedere «un’identità di genere femminile non concorde con il sesso assegnato alla nascita», ma è molto difficile riuscire a discutere pubblicamente di questi temi senza subire censure e accuse di violazione dei diritti umani.

Meno noto è il caso del gruppo danese Lesbike Feminister al quale è stato vietato di riunirsi presso la Casa delle donne di Copenaghen. Il gruppo è nato un anno fa per volontà di alcune lesbiche, molte delle quali attive nel movimento delle donne dagli anni Settanta e Ottanta, che desideravano creare uno spazio diverso per quante non condividessero le credenze adottate dal movimento LGBT su sesso e genere. In particolare queste lesbiche continuano a definirsi attratte dallo stesso sesso e non dallo stesso genere come la nuova dottrina impone.

Per questa ragione sono state espulse dalla Casa delle donne con l’accusa di transfobia.

Contrariamente a ciò che avviene in Canada, i media danesi hanno ritenuto ridicola la decisione. Le donne, comunque, nulla hanno potuto perché anche in Danimarca è stata approvata una legge sull’identità di genere che, dal 2014, prevede per qualunque danese maggiorenne la possibilità di cambiare sesso sui documenti con una semplice dichiarazione. Un uomo, quindi, che dichiari di essere donna, può pretendere di essere ammesso in luoghi di donne, denunciando quelle che volessero impedirglielo per discriminazione di genere.

Un provvedimento legislativo simile a quello danese era in programma anche per il Regno Unito: circa due anni fa il governo May aveva annunciato che il Gender Recognition Act (GRA) del 2004, che regolamenta la rettifica del sesso anagrafico per le persone transessuali, sarebbe stato modificato per permettere di ottenere il cambio dei documenti senza una diagnosi di disforia. Quello che i politici, i media e la principale associazione LGBT del Regno Unito, Stonewall, non avevano previsto è stata la reazione delle donne. Nonostante i ripetuti tentativi di censura, il mancato sostegno dei politici e dei giornalisti, le aggressioni e gli insulti, numerose donne britanniche non hanno subito passivamente la ventilata modifica del GRA ma hanno fatto sapere a gran voce che non sono d’accordo. Sono riuscite a liberarsi dalle etichette di “povere casalinghe annoiate” e “allarmiste bigotte” cucite loro addosso dagli avversari e, non senza fatica, sono riuscite a ritagliarsi un posto da protagoniste nel dibattito pubblico su sesso e genere.

Tra le associazioni che più hanno contribuito a questo cambio di rotta c’è Woman’s Place UK (WPUK), nata nel 2017 e costituita da «un gruppo di persone provenienti da esperienze molto diverse che includono sindacati, organizzazioni femminili, l’università e il Servizio Sanitario Nazionale». L’organizzazione intende difendere i diritti delle donne e in particolare mantenere il sesso biologico tra le caratteristiche tutelate dalla legge. Lavora, inoltre, perché vi sia un ampio dibattito e venga pubblicamente respinta la pretesa di associazioni come Stonewall di cancellare gli spazi riservati alle sole donne.

Da due anni WPUK organizza incontri in città diverse del Paese per discutere delle conseguenze che una modifica del GRA avrebbe sui diritti delle donne. L’associazione ha dovuto affrontare proteste e atti intimidatori simili a quelli visti in Canada, per questa ragione le organizzatrici rivelano l’indirizzo del posto in cui si terrà il dibattito solo mezz’ora prima. Nonostante questo, il numero di partecipanti è aumentato e gli incontri continuano a tenersi ogni mese.

L’ultimo, svoltosi a Oxford il 25 ottobre scorso, aveva come tema la libertà di espressione nelle università. È stata una sorpresa scoprire dalla mail arrivata a ridosso dell’incontro che l’indirizzo indicato corrispondeva a uno dei più importanti edifici dell’università, le Examination Schools: il segnale di un possibile cambio di rotta in un paese in cui, fino ad ora, le accademiche che hanno espresso pareri contrastanti la dottrina dell’identità di genere non sono state tutelate a sufficienza, rischiando addirittura di perdere incarichi accademici o borse di studio.

La difficile situazione di paesi come il Canada e la Danimarca e la durezza della lotta che le donne britanniche stanno conducendo ci dicono chiaramente che le leggi che pretendono di combattere la discriminazione cosiddetta di genere, si trasformano in un’arma contro le donne, in strumento di rinnovata caccia alle streghe.


(www.libreriadelledonne.it, 21 novembre 2019)

di Luisa Muraro


Forse per caso, forse invece no, un mercoledì sera sul canale 9 della tv ho visto una puntata del nuovo programma di Daria Bignardi, L’assedio. L’ospite protagonista, un uomo ancora giovane dal viso gradevole e pronto al sorriso, si faceva notare per la fascia tricolore che gli traversava il petto. Era un sindaco, dunque, di cui abbiamo saputo che è stato eletto al primo turno e con larga maggioranza in una lista civica di persone giovani.

Vi parlo di lui perché la sua vicenda, tutt’altro che conclusa, fa capire benissimo che cosa vuol dire saper fare le necessarie mediazioni e non pretendere di avere tutto in nome dei diritti.

Nato che era una bambina, così fu cresciuto da una madre contenta di avere una figlia e da un patrigno tutt’altro che scontento di vederla crescere come un “maschiaccio”. Arrivata all’adolescenza si trovò a disagio in un corpo di sesso femminile e, a vent’anni, si confidò con la madre. Ma lei gli rispose, ridetto con parole mie: ho messo al mondo una figlia e non voglio perderla. Il racconto continua che lui (tale ormai si sentiva di essere) tentò d’immaginarsi come un uomo che doveva travestirsi da donna. Ma gli restava e forse cresceva la sofferenza interiore. La sua compagna (agli occhi del paese formavano una coppia lesbica) lo spinse a decidersi e, arrivato ai trenta, si risolse a fare la transizione, ossia l’indispensabile per assumere a tutti gli effetti il genere sessuale cui si sentiva di appartenere. E così è andata. È andata bene anche perché, lo dice lui, a quel punto la madre lo sostenne in pieno e, insieme a suo marito, il patrigno, lo aiutò a farsi accettare nel paese, con il risultato che sappiamo.

Morale della favola, ha senso parlare di un ordine simbolico della madre che precede quello della legge. Quello della relazione materna è un ordine primario che non rende superfluo il secondo: la vicenda del sindaco ospite di Daria Bignardi non sarebbe stata possibile senza la fine della persecuzione legale della transessualità. Ma il punto fondamentale resta ed è che appellarsi ai diritti, per quanto sacrosanti, non sostituisce l’accettazione.


(www.libreriadelledonne.it, 8 novembre 2019)

di Diana Sartori


Leggendo l’ultima newsletter a cura di Laura Giordano, mi è venuto in mente un aneddoto che forse sembrerà stupido e dissonante sul rapporto con la prostituzione.

Per anni tornando a casa in bici dalla stazione tardi dovevo passare per una zona di strade buie, andavo veloce e sempre un po’ allarmata per gli uomini che ci giravano, specie quando erano in gruppo, che incontravo e che mi apostrofavano.

Poi finalmente la zona è diventata davvero malfamata perché si è riempita di prostitute, straniere in genere. Ma per me è stato un sollievo, da quando ci sono state loro io mi sono sentita al sicuro, e così le salutavo cordialmente, ricevendo sempre risposta, tanto più che le trovavo in treno e lamentavamo il gelo da affrontare, loro soprattutto.

Ora la zona si è islamizzata, e hanno cacciato le prostitute, lì vicino c’è anche la moschea. Anche così mi sento tranquilla, anche perché cliente della macelleria halal. Però prima era meglio, mai ho fatto chissà che discorsi con le donne che involontariamente mi davano difesa. Ma un po’ di intesa…

ecco, che scemenza, non ho una morale da tirare. Ma sì, quella parola “gratitudine”, che ho letto in un vostro titolo, mi risuona, e tanto di più a pensarci.


Leggerò.

Grazie a tutte, come da sempre.


(www.libreriadelledonne.it, 7 novembre 2019)