di Alessandra De Perini, delle Vicine di casa


In tante abbiamo avuto il privilegio di conoscere Carla. In questi ultimi tre anni ci sono stati tra lei e tutte noi, alcune in particolare, scambi fecondi di idee, esperienze e progetti, circolarità di affetti. È la prima di noi ad andarsene. Con lei abbiamo passato dei momenti di felice conversazione, abbiamo condiviso il piacere del buon cibo, l’amore per l’arte, la passione per il pensiero e la pratica della differenza, la gioia delle relazioni, del riunirsi per fare festa, del dipingere ad acquerello, immaginando di essere immerse in paesaggi naturali dove respirare intensamente i profumi, i diversi odori delle stagioni. Questa era Carla: un’amante fedele della vita e dell’arte, dedita all’esercizio quotidiano delle relazioni, costantemente alla ricerca della verità soggettiva, lettrice appassionata di Carla Lonzi, Simone Weil, Etty Hillesum, grandi pensatrici del Novecento, una donna che aveva cieli infiniti e paesaggi immensi dentro di sé, una maestra di icone – ma lei preferiva definirsi semplicemente una “madonnara” – che era andata ben oltre la tecnica dell’icona e aveva colto il significato nascosto, imprevisto e profondo delle immagini sacre, una donna molto creativa, attenta e intelligente che riusciva con il poco che aveva a disposizione a realizzare opere straordinarie, un’amica preziosa e consapevole, una donna saggia, ma al tempo stesso pronta a lanciarsi in rischiose avventure dello spirito, una ricercatrice dell’assoluto. In tante abbiamo riconosciuto il suo valore umano, spirituale e artistico.

In un testo recente, pubblicato sul sito della Libreria delle donne di Milano, Carla si descrive come un soggetto “ad alto rischio”: andava in dialisi tre volte alla settimana e da alcuni anni era limitata dall’uso della carrozzina ma, grazie a una ginnastica da distesa che si era inventata e alcuni esercizi da seduta che faceva tutte le mattine, manteneva un minimo di autonomia. Condivideva il reparto della casa di riposo in cui si trovava con persone ben più anziane di lei, molte delle quali avevano gravi problemi di demenza. Non avrebbe dovuto trovarsi lì ma, colpita da una grave malattia e non avendo purtroppo relazioni familiari su cui fare affidamento né, in quel momento della sua vita, amiche fidate a cui chiedere consiglio, dovette accettare per realismo questa condizione. Nonostante questo, scrive: «Qui ogni piccola cosa è un godimento: il caffè del mattino, la pulizia degli occhiali, la colazione con le fette biscottate spalmate di marmellata di amarene». Ogni mattina si lavava con cura, si massaggiava con creme idratanti, si spruzzava in po’ di profumo e si sorrideva allo specchio, augurandosi una buona giornata, felice di essere viva. Sapeva che il sorriso fa bene, quindi sorrideva, anche se aveva dormito poco e male per il mal di schiena. Si alzava molto presto, all’alba, che per lei era il momento più bello perché poteva raccogliersi in preghiera nel silenzio. Poi si metteva al lavoro – carta, matite, colori, terre, oro – nella sua “postazione” (un tavolino, una scaffalatura, un armadio di metallo con la chiave) in veranda. Da qui poteva vedere e ammirare gli splendidi alberi del parco della casa di riposo. La difficile prova della pandemia che l’ha privata per mesi delle amiche carissime le ha fatto sentire ancora di più «il valore delle relazioni di vicinanza, dello scambio di pensiero e di parole scelte con intelligenza». Ha vissuto questo tempo – come lei stessa scrive – per leggere, quando non aveva più materiali per dipingere, un bel romanzo sulla storia delle Beghine o le poesie di Alda Merini o per studiare il Vangelo di Giovanni, che per lei era di una bellezza sfolgorante e in cui vedeva un filo conduttore tra luce e tenebre. «Questo tempo – scrive – è una porta stretta da attraversare. Nella mia vita ne ho attraversate molte e ogni volta ne sono uscita migliore, con più fiducia. È anche un esercizio di libero arbitrio: ci costringe a scegliere se uscirne con risentimento o con amore rinnovato. Questo è il momento di invocare lo Spirito Santo e i suoi doni. Tra i tanti doni che ho ricevuto nella vita, oltre alle relazioni privilegiate con alcune donne, c’è la pittura di icone che, pur con difficoltà, riesco ancora a praticare. Questo è il momento delle piccole cose che si fanno grandi e importanti come non mai. Auguriamoci di ricordarcelo poi, quando finalmente l’epidemia sarà finita, potremo riabbracciarci e festeggiare sedute a tavola nella nostra trattoria preferita!». Grazie Carla, di te parleremo, ti ricorderemo, ti citeremo, cercheremo di raccogliere le perle preziose che hai lasciato sparse qua e là lungo il tuo cammino.


Biografia di Carla Turola


Carla Turola è nata a Venezia il 21 febbraio 1948. Frequenta le elementari e le medie dalle suore Canossiane che, oltre a trasmetterle un’educazione religiosa, da lei in seguito contestata, le insegnano i primi elementi della pittura ad acquerello. Dopo la scuola media, frequenta Ragioneria controvoglia, sentendosi più portata per le materie letterarie e artistiche. Non consegue il diploma e molto giovane inizia il lavoro di contabile in una ditta di Marghera, ma continua a leggere e a studiare per conto proprio, formandosi da autodidatta una propria cultura. A ventisette anni si sposa, non ha figli, alcuni anni dopo lascia il marito e va a vivere per conto proprio in un appartamento a Mestre. In quel periodo frequenta corsi di disegno, di acquerello, di pittura ad olio e a tempera, intreccia relazioni amorose e si appassiona alla politica sindacale. Nel 1988 inizia a frequentare “La rete della differenza”, un gruppo di donne che si riunivano al Centro Donna di Mestre per leggere e mettere in pratica i testi più significativi del femminismo radicale. A quarant’anni, colpita improvvisamente da una grave malattia, si allontana dal gruppo e decide di dedicarsi alla lettura e all’approfondimento del pensiero di Simone Weil, collegandosi poi al filone d’oro del pensiero mistico femminile. Verso la seconda metà degli anni Novanta, si trasferisce a Mirano (Venezia) in un appartamento che condivide con la mamma e la sorella. Tramite un’amica, entra a far parte dell’associazione “Identità e differenza” di Spinea. Quelli per lei sono tempi ricchi di relazioni e di impegno politico e artistico. Dopo trentacinque anni di lavoro, va in pensione e per anni assiste con la sorella la mamma gravemente malata. Dopo la scomparsa della mamma, venduta la casa di Mirano, ritorna a vivere da sola in un appartamentino accanto a quello della sorella a Zianigo, un paese vicino a Mirano. Qui inizia una nuova fase della sua vita: coltiva l’amicizia come un bene raro e prezioso, partecipa a mostre collettive (nel 2009 con 25 artiste collabora alla mostra “Venezia salva. Omaggio a Simone Weil”, evento collaterale alla 53esima Biennale d’arte di Venezia) e si concentra sempre più sull’arte delle icone. Dopo pochi anni, colpita dalla stessa grave malattia della madre, perde progressivamente l’indipendenza a cui era abituata, deve sottoporsi a dialisi tre volte la settimana ed è costretta all’uso della carrozzina. Non potendo più vivere autonomamente a casa propria né avendo in quel momento amiche fidate a cui chiedere aiuto o un consiglio, dolorosamente accetta a soli sessantotto anni il ricovero in una casa di riposo di Mirano. Qui, dopo alcuni mesi drammatici di perdita di riferimenti e disorientamento, costruisce buone relazioni con le infermiere, le educatrici, il personale medico dell’istituto; ha la forza di riprendere a fare acquerello e dipingere icone; realizza tre libri d’artista, si impegna a tenere dei corsi di acquerello rivolti non solo al personale e alle/agli ospiti dell’istituto, ma anche al territorio ed è alla guida di incontri settimanali di attività creative. Trascorre gli ultimi anni della sua vita sostenuta, amata, riconosciuta da alcune amiche preziose con le quali ritrova la gioia di uno scambio sull’arte, sulla politica e la spiritualità che si era interrotto anni prima. Si spegne a settantadue anni nella rianimazione dell’ospedale di Mirano il 17 giugno 2020.


(www.libreriadelledonne.it, 24 giugno 2020)

di Luisa Muraro


Riprendo l’articolo di Ferrera e Stefanelli, Perché senza donne non ci sarà ripresa, articolo segnalato da Marina Terragni, apparso sul Corriere della sera 28 maggio 2020 e circolato nella rete inviolabilità subito prima della richiesta di sostegno da parte di Cristina Gramolini. Lei sul mio sostegno può contare, ci tengo a dirlo. Ma l’articolo è troppo importante per lasciarlo indietro. Marina dice: lo propongo “senza entusiasmo” e la capisco dal punto di vista delle proposte finali che Ferrera e Stefanelli suggeriscono. Ma il loro testo è molto importante perché mette a fuoco una contraddizione che rischia di farci tornare indietro. Noi, donne e uomini di oggi, abbiamo ereditato dal patriarcato la divisione del lavoro tra produzione e riproduzione, nella teoria del lavoro come in pratica. La divisione è sessuale e sessista, ma permane, oltre che come impostazione pratica di molte questioni, nel nostro linguaggio e nelle nostre teste, rivestita in caso da altre parole, come “lavoro di cura” ma al fondo resta. Ed è tornata a farsi sentire con prepotenza in occasione della pandemia. L’articolo Perché senza donne la analizza nelle sue giuste misure, che non è soltanto la causa femminista, ma uno snodo di civiltà, come si dice giustamente nel testo, in risposta al titolo: perché senza donne non ci sarà ripresa. Passo a spiegare la ragione principale del mio intervento: più di cinque anni fa è apparso presso la Libreria delle donne, un Sottosopra intitolato Immagina che il lavoro, il quale si propone esplicitamente e, secondo me, validamente, di far fuori la divisione del lavoro tra donne e uomini. Farla fuori alla radice, che è la concezione moderna del lavoro, subentrata al regime servile. Immagina che il lavoro prende la strada giusta, che è la concezione stessa del lavoro. La sua parola d’ordine è primum vivere, e il nome di lavoro va dato a tutto il lavoro necessario per vivere. Quelle e quelli che sono interessati a risolvere la contraddizione per cui con l’emergenza della pandemia si rischia di tornare indietro, li invito a rileggere il testo di Ferrera e Stefanelli, nella sua parte di analisi dei fatti e del problema. E invito il gruppo delle autrici di quel Sottosopra a intervenire selezionando i passi che illustrano la loro, secondo me, decisiva proposta. Saluti e coraggio: dicono che questa grande disgrazia può diventare una grande occasione. Facciamo il nostro possibile perché sia vero.


(www.libreriadelledonne.it, 1 giugno 2020)

di Antonio Loffredo


Gli uomini parlano tanto, hanno sempre avuto voce in capitolo, riempiono vuoti, detestano i silenzi… quel silenzio e quel vuoto necessari invece per ascoltare e guardare dentro di sé e farci capire da dove nasce e dove si annida ancora oggi la violenza contro le donne, la misoginia e l’incapacità di riconoscere autorità femminile. È da tempo che spingevo mio marito a pensarci e parlarci. Mi sono emozionata quando uno di questi giorni di confinamento – di silenzio – mi ha fatto leggere le prime parole sulla sua esperienza al riguardo. Parole che vorremmo servissero per iniziare a capirci tra donne e uomini, premessa fondamentale per la negoziazione di un nuovo e vero patto sessuale (Lola Santos Fernández)


Quando Lola, mia moglie, mi ha chiesto se avevo voglia di trasformare in parole scritte i miei pensieri sulla violenza maschile contro le donne era appena scoppiata la crisi per il Coronavirus e, quindi, mi sono detto che non era il momento giusto. L’alibi, dovete concedermelo, è di quelli buoni perché in questo periodo, tranne qualche voce che ci ha allertato sul rischio di aumento delle violenze sulle donne mentre sussiste questa convivenza obbligata per l’intera giornata, tutti gli altri sono (siamo) concentrati su una sola cosa: il virus, come se tutto il resto fosse scomparso e, forse, per la paura che tutto il resto possa davvero scomparire.

Tuttavia, con il passare dei giorni, l’anomalia della quarantena sta diventando normalità (anormale) e la tentazione autoassolutoria è stata la prima a risvegliarsi: ovvero, la voglia di gridare a tutti (soprattutto alle donne) che io con questa violenza non c’entro, che non mi appartiene perché mai ho esercitato un atto di violenza su un altro essere umano e sento che mai potrei farlo su una donna. Io ho amato profondamente mia madre e amo allo stesso (diverso) modo mia moglie e le mie due meravigliose figlie e il pensiero che possano subire (o possano avere subito) violenze per il solo fatto di essere nate donne mi fa rabbrividire, mi riempie di rabbia. E di violenza.

Insomma, in quanto diverso dal mostro non voglio essere con lui confuso, perché credo di essere un uomo pacifico e cortese e che quella violenza maschile mi è estranea. Ma non è vero.

Io, nonostante le premesse, un po’ di quella violenza legata al mio essere nato maschio, e che tanta repulsione mi creava da bambino, me la porto dentro. È da un po’ che mi interrogo sulle cause e le ricerco nella mia famiglia di origine, meravigliosa nei miei ricordi che svaniscono sempre più in fretta, nella straordinaria città dalla quale provengo (Napoli), nelle esperienze della mia vita felice e, anche se a fatica, pian piano sono riuscito a trovare qualche traccia di violenza, che ho voluto nascondere soprattutto a me stesso.

Eppure, nonostante sia nato e cresciuto in una famiglia di origini popolari in cui i miei genitori erano stati gli unici (nelle loro famiglie di origine) ad essere andati oltre le scuole medie, la mia infanzia non ha assomigliato per niente a quella (un po’ stereotipata) dell’Amica geniale, libri e serie che peraltro amo moltissimo e che hanno coinvolto e commosso Lola e me fin dalla prima pagina. Io ho avuto la sorte di non avere esperienza diretta di questo tipo di violenze, anche se ne ho percepito gli echi nella mia esistenza, nella triste storia di una zia, la cui sofferenza non poteva essere soltanto denunciata all’autorità giudiziaria ma doveva anche essere vendicata dai maschi della famiglia, per assicurarsi che quelle violenze non si sarebbero ripetute, anche perché lo Stato italiano ha abbandonato metà dei suoi cittadini all’autogoverno. Ma tutte queste cose le ho sapute da mamma quando ero adolescente e le ho capite meglio da adulto. Poi ci ha pensato il mio istinto di autotutela e la mia capacità di rimozione del negativo per non sporcare la memoria di un’infanzia felice a fare il resto. E il lavoro per riportare a galla il rimosso sta comportando una grande fatica e non poco dolore.

Questo percorso però ha trovato un ostacolo (quasi) insormontabile in un’assenza, una mancanza insuperabile: la parola. Non sono mai riuscito a parlare di queste esperienze e di questo vissuto maschile con altri uomini, intrappolati come siamo in una “fase afasica”, come diceva una notte il telecronista di una partita di calcio che ho sognato (saranno gli effetti di un’altra mancanza: il mio amato Napoli). Questa sì è un’esperienza tutta maschile: difficilmente una donna potrà, da un lato, sognare una partita di calcio e, dall’altro, capire il muro di gomma contro il quale un uomo rimbalza ogniqualvolta prova ad affrontare questo tema, se non in circoli quasi segreti e “inaccessibili” all’uomo comune. Spinto dalle parole e dall’amore per mia moglie, ci ho provato con i miei amici più stretti, uomini comuni come me, pur immaginando le probabili reazioni, che si sono prontamente verificate: la maggior parte delle volte sono stato ignorato, qualche volta anche deriso. Con il tempo ho intuito le dolorose ragioni che hanno portato persone a cui voglio bene (e che credo me ne vogliano) a trattarmi in quel modo: il conflitto con le donne è indicibile, innominabile tra uomini di qualsiasi latitudine (a meno che non si tratti di lamentarsi delle vessazioni quotidiane subite dai maschi da parte delle donne in casa e fuori).

Eppure, la condanna della violenza sulle donne è entrata nello scenario pubblico in modo talmente prorompente (Me too…) da non ammettere posizioni opache; allo stesso tempo, però, raramente si prova ad affrontarne le origini più profonde perché pure gli uomini “buoni” continuano a trattare questo fenomeno come un problema delle donne e non come uno nostro. E, in effetti, soprattutto per questi maschi è davvero impossibile. accettare di avere qualcosa (fosse anche molto poco) in comune con quelli che possono arrivare a picchiare o a uccidere una donna. Ciononostante, mi sto convincendo che i mostri possiamo essere uno, nessuno e centomila; in qualche modo ne siamo complici proprio a causa di quel “silenzio degli innocenti”, che sembra voler dire che la questione non ci riguarda. «Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti», cantava De André.

Tuttavia, sento che le origini della violenza sono inconfessabili soprattutto perché ce ne vergogniamo, perché il denominatore comune è la nostra debolezza: noi uomini siamo apparsi a noi stessi in tutta la nostra nudità, davvero come il sesso debole quando la morte del patriarcato ci ha lasciato privi di un luogo nella società e ha fatto a pezzi la nostra identità maschile. Probabilmente, quella violenza cieca è una vendetta nei confronti di chi ha ucciso chi eravamo, un moderno delitto d’onore collettivo.

Gli uomini più coraggiosi stanno provando da soli (o in piccole e segrete congregazioni) a ricostruirsi al di fuori di quel comodo ma strettissimo (almeno per alcuni) abito che ci era stato cucito addosso dalla società patriarcale. Infatti, portare un corpo da uomo non ha sempre conseguenze positive, almeno per chi, come me, ci tiene a seguire i tempi naturali che mi ha dettato la vita quando ho voluto stare vicino a mio padre che si era ammalato, a mia moglie quando ha partorito o alle mie figlie durante la loro crescita. La società patriarcale ha messo da parte il legame degli uomini con la vita reale, quella dei corpi che nascono, crescono, si ammalano e muoiono, perché trae linfa da quel vincolo culturale, apparentemente inscindibile, esistente tra maschile e potere, la cui perdita è forse altra causa della nostra violenza.

Gli uomini più mansueti sono capaci di affrontare questa perdita senza violenza (e magari con un po’ di rassegnazione nei confronti di una trasformazione dell’altra metà del mondo, trasformazione inarrestabile) ma molti, moltissimi altri non trovano altra risposta. Il problema che ci accomuna tutti (tranne rarissime eccezioni) è però il silenzio, che alimenta e costituisce ormai una concausa di quella violenza. Parlare non è solamente utile, è necessario, non più rinviabile. Approfittiamo di questo silenzio eloquente per prendere la parola e per ripensare noi stessi, prima di provare a ripensare un mondo diverso


(www.libreriadelledonne.it, 28 maggio 2020)

di Silvia Baratella


Ho letto su il manifesto del 12 maggio 2020 un articolo che mi sarei aspettata di trovare su un quotidiano ultraliberista, di quelli disposti a tutto pur di fare Pil, di quelli che travestono precariato e caporalato da “libera iniziativa imprenditoriale” e considerano dannoso “statalismo” la previdenza sociale e il servizio sanitario universale.

L’articolo, a firma Shendi Veli, si intitola «L’emergenza umanitaria del lavoro sessuale». Con cinismo travestito da sollecitudine, propone come soluzione ai problemi di sussistenza che la pandemia causa alle donne prostituite la legalizzazione dell’accesso sessuale maschile ai corpi delle donne e del relativo “indotto” (leggi: “sfruttamento”, reato in Italia grazie alla legge Merlin), del cui “giro d’affari” (leggi: traffico) presenta le cifre miliardarie stimate dal Codacons, che forse considera come “consumatori” bisognosi di tutela anche i prostitutori, quelli cioè che il linguaggio comune fa passare per innocui “clienti” ma senza i quali la prostituzione non esisterebbe.

La legalizzazione, dice l’articolo, libererebbe le donne prostituite dallo stigma. Davvero? Nei paesi in cui la prostituzione è legalizzata, le donne che la esercitano usano spesso pseudonimi per non farsi identificare e i “clienti” intervistati nell’ambito di inchieste, perlopiù, affermano che non accetterebbero mai come loro compagna una donna che la esercitassei. Insomma, lo stigma sulle donne prostituite permane, ma prostitutori e sfruttatori sono riabilitati. Lo stigma infatti è parte dello stesso disprezzo che spinge gli uomini a imporre a una donna per mezzo dei soldi un rapporto sessuale da lei non cercato, in cui il suo piacere non ha spazio, e che risulta quasi sistematicamente violento e volutamente umiliante. È parte integrante e inscindibile del “pacchetto”, legalizzando la prostituzione lo stigma si legittima.

Ma, dice l’articolo, con la legalizzazione almeno offriremmo a chi esercita la prostituzione gli ammortizzatori sociali, che ci vorrebbero adesso nella pandemia. Come dire che agli schiavi sono stati negati i mezzi di sussistenza abolendo la schiavitù, e che va ripristinata, ma con “tutele legali”.

Nell’articolo troviamo le parole di Claudia, trans argentina cinquantenne (i grassetti sono miei): «Sono arrivata in Italia nel 2003 sognando una vita normale, ma non sono riuscita a evitare la strada sulla quale sono stata per più di trent’anni. Adesso mi sento vecchia, la malattia è arrivata [l’Hiv, Ndr] ma sto bene e sono in cura allo Spallanzani. Quando hai fame e arriva il cliente che ti offre il doppio per non usare il preservativo non riesci a pensare a te e alla tua salute, pensi solo alle cose che potresti fare con quei soldi. È difficile essere assunta per una donna trans e senza documenti. Mi piacerebbe fare i lavori per cui ho studiato. Sono sarta e parrucchiera. Ogni tanto chi mi conosce in zona mi chiede di fargli un orlo, o sistemare una cerniera. In questi giorni sto facendo anche mascherine, ma quelle le regalo».

Lei aspira a documenti in regola, a togliersi dalla strada, a lavorare come sarta. La risposta dell’articolo è proporre di legalizzare la sua situazione attuale, sancire che resti in balia di chi specula sul suo bisogno per pagarsi il “diritto” di infettarla a piacimento con l’Hiv. O crediamo davvero che dove la prostituzione è regolamentata questo non accada? Non c’è modo di controllare e imporre che il prostitutore usi il preservativo, a meno di non mettere un poliziotto in camera o schedare preventivamente l’aspirante “cliente”. Cosa che nessuno fa, nei paesi legalizzati, perché ovviamente il prostitutore non l’accetterebbe e il “mercato” crollerebbe.

L’articolo ha anche il torto di dare un’idea falsata della legge Merlin: «Formalmente non è illegale scambiare servizi sessuali per denaro, ma costituiscono reato tutte le attività collegate a questo. […] Questo quadro legislativo di fatto ci costringe a muoverci sempre nell’economia informale, con tutti i rischi annessi. Per questo il nostro obiettivo a livello mondiale è la decriminalizzazione», dice un’attivista del Collettivo Ombre Rosse (grassetto mio).

Così facendo, si contrappone la “decriminalizzazione” alla legge Merlin, dando l’impressione errata che questa criminalizzi le donne prostituite. È stata invece questa legge (n. 75 del 4/3/1958) a depenalizzare l’atto delle donne di prostituirsi. Era reato prima, se al di fuori della “regolamentazione” (cioè delle famigerate “case chiuse”), e le donne rinchiuse nelle case subivano gravissime restrizioni dei diritti civili e politici. La “decriminalizzazione” che si propone oggi, quindi, è in realtà quella dello sfruttamento della prostituzione, che la legge (il cui titolo è «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui») ha giustamente codificato come reato penale.

Ma – dice sempre l’attivista del Collettivo Ombre Rosse – la legge Merlin «lascia però indefinita la regolamentazione del lavoro sessuale». Certo che sì, perché la prostituzione non è né sesso né lavoro, è un abuso maschile contro le donne, che si basa implicitamente su un’idea di normalità dell’assoggettamento delle donne agli uomini, la riproduce e la tramanda. Un’idea da sconfiggere, anche abolendo la prostituzione come si è abolita la schiavitù.

Le difficili condizioni economiche delle donne prostituite in questi tempi di pandemia, in cui i contatti fisici sono impossibili, devono diventare l’occasione per costruire un’alternativa alla prostituzione per tutte coloro che lo desiderano: oltre al sostegno economico immediato, si tratta di far sì che tutte le Claudie che si trovano nel nostro paese possano sottrarsi a chi si sente in diritto di usarle, accedere ai documenti se straniere, e alla possibilità di lavorare da sarta o da qualsiasi cosa abbiano studiato, in libertà.


i Vd. a tal proposito le parti dedicate all’Olanda de «Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione» di Julie Bindel (VandA.epublishing, 2018), recensito anche da il manifesto l’anno scorso.


(www.libreriadelledonne.it, 16 maggio 2020)

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Vulnerabilità, relazione, interdipendenza, cura. Sono parole tratte dall’esperienza comune femminile, che il lessico politico e teorico femminista ha fatto proprie e elaborato per decenni. Parole che solo venti anni fa era avanguardistico e minoritario pronunciare e che oggi, nell’emergenza Coronavirus, sono diventate maggioritarie e di senso comune. Un virus che ha ben poco di naturale, essendo il prodotto sociale della scellerata politica (maschile) di sfruttamento e devastazione della natura, ci fa sentire oggi tutte, e tutti, vulnerabili. La misura, necessaria ma crudele, del distanziamento sociale fa scoprire anche agli individualisti più incalliti quanto siano preziose e irrinunciabili le relazioni affettive, sociali, politiche. La scoperta di essere, nel contagio, ciascuna/o pericolo e salvezza per l’altro/a ci rende finalmente consapevoli della nostra reciproca interdipendenza e del fatto che, per dirla con papa Francesco, nessuno si salva da solo. Il Covid-19 infine, come pure tutte le malattie sociali che il virus ha esacerbato (povertà, emarginazione degli anziani, disuguaglianze, discriminazioni), mette la questione della cura al centro della crisi in corso: la cura medica, ma anche le molteplici pratiche della cura dell’altro (congiunti e non) di cui più donne che uomini sono capaci.

Oggi al centro della scena, queste quattro parole fanno parte di un’antica ma sempre presente esperienza femminile. Non c’è bisogno di spiegare perché essere da sempre esposte alla violenza maschile ci fa sentire da sempre vulnerabili, o perché la relazione materna ci dice da sempre che da un’altra nasciamo e senza quella relazione primaria non esisteremmo, o perché la cura degli altri è per noi donne inseparabile dalla cura di sé e del mondo. C’è bisogno però di sottolineare che di queste quattro parole ci sentiamo fieramente titolari: non sentiamo risuonare in esse il peso di un destino, ma la scintilla di un domani migliore dell’oggi, per noi donne e per l’umanità intera. Esse racchiudono la necessità del salto di civiltà che la congiuntura presente impone.

Chiamiamo salto di civiltà un cambiamento soggettivo, economico, sociale e politico che antepone la relazione e l’interdipendenza alle pretese arroganti dell’individuo sovrano, la vulnerabilità e la cura all’onnipotenza necrofila, il bene comune all’interesse parcellizzato e al profitto, l’immaginazione e l’invenzione politica alla reiterazione delle mosse del potere. Questo salto ha un segno femminile, perché si nutre dell’esperienza storica femminile e vive da decenni nella politica messa al mondo dal femminismo. È un salto della specie, in cui le donne non rivendicano qualcosa per sé ma aprono una strada per tutti.

È per questo che nella congiuntura presente ci sentiamo centrali, necessarie e protagoniste, e nient’affatto discriminate, sconfitte, penalizzate, risospinte indietro come recita un martellante e fastidioso refrain intonato ogni giorno dai media mainstream, e purtroppo quasi sempre da donne che parlano senza autorizzazione a nome di tutte le donne. Un refrain che oggi vede nella scarsa presenza femminile nelle task force il segno della discriminazione e della sconfitta delle donne, e nel lavoro di cura femminile il segno di una maledizione. E chiede a gran voce cooptazione nei “luoghi della decisione”, e emancipazione dal lavoro riproduttivo in nome di un maggiore ingaggio, e di più luminose carriere, delle donne nel mercato del lavoro produttivo.

Non neghiamo che questi due fatti – la sottoutilizzazione delle competenze femminili e il sovrasfruttamento del doppio lavoro, domestico e produttivo, delle donne – esistano. Ma i fatti vanno interpretati. E noi non riusciamo a vedere nelle task force che oggi supportano l’azione di governo dei desiderabili “luoghi della decisione”: ci pare di assistere piuttosto al proliferare di luoghi della non-decisione, in cui il sovrapporsi di competenze specialistiche e competenze di governo non riesce a ridare vita a quella competenza politica autorevole e credibile che invece si eclissa sempre più nelle nostre democrazie in crisi. Quanto alla cura femminile della vita, sappiamo bene che essa è sempre a rischio di appropriazione e sfruttamento da parte di un sistema economico che dopo aver distrutto il welfare pretende di sostituirlo con l’erogazione gratuita di prestazioni femminili. Ma sappiamo altrettanto bene che alla cura della vita – della vita propria, dei propri cari, delle relazioni d’amicizia, dell’ambiente, del legame sociale – le donne non rinunciano, perché sanno quanto sia necessaria e perché è la loro impronta sull’esistenza collettiva. Quello che viene letto come doppio sfruttamento, nel lavoro produttivo e in quello riproduttivo, va letto piuttosto come la sacrosanta pretesa femminile di affermare l’inseparabilità della produzione dalla riproduzione e del lavoro dalla vita.

Non si risponde a questa doppia pretesa chiedendo per le donne solo un più alto tasso di occupazione e lasciando non si sa a chi il lavoro di cura, ma togliendo la sfera della riproduzione dal cono di invisibilità e sfruttamento in cui il primato della produzione l’ha confinata. Mai come oggi è evidente che questo primato va messo in discussione perché è un primato incurante, letteralmente, della vita. E mai come oggi le donne sono la prima linea di questo urgente ribaltamento delle priorità dell’agenda economica e sociale.

La politica delle donne non è mai stata una questione di numeri, né di competenze specialistiche. Il femminismo della differenza sessuale, che è il nostro femminismo, è stato spesso e ingiustamente accusato di essenzialismo: ma non c’è niente di più essenzialista di un femminismo paritario che invoca “più donne” in tutti campi della vita associata come se questa fosse la magica formula in grado di cambiare le cose e renderci felici. Le donne oggi sono già dappertutto, e che siano “di più” nei posti apicali significa poco o nulla, se questo di più non è accompagnato da pratiche politiche che rendano la loro presenza un punto di riferimento per altre donne e che facciano la differenza rispetto all’ordine dato.

Comprendiamo il desiderio di riconoscimento sociale che muove quell’invocazione, tanto più in un paese come l’Italia che di riconoscimento, e di riconoscenza, verso noi donne è particolarmente avaro. Tuttavia non possiamo non ricordare che la libertà femminile comincia, è cominciata storicamente, precisamente quando abbiamo imparato a fare a meno del riconoscimento delle istituzioni del patriarcato, e a cercarlo piuttosto nelle nostre simili. Così come non possiamo non ricordare alle amiche francesi promotrici dell’appello “dateci voce” che la voce, come la libertà, non ci è stata mai data: ce la siamo sempre presa, al prezzo di lotte e di conflitti.

La querula richiesta di cooptazione ci mortifica, perché abbiamo appreso da Virginia Woolf a non accodarci al “corteo degli uomini colti”, o competenti che siano. Il riconoscimento delle competenze individuali non può sostituirsi al senso e alla potenza di una soggettività politica che abbiamo acquisito e che rinnoviamo collettivamente. La pretesa di prescindere dal nostro sesso per approdare nel nuovo limbo dell’indifferenza di genere postmoderna, che somiglia tanto al vecchio limbo dell’individuo neutro moderno, ci fa sobbalzare: non è nonostante ma in quanto siamo donne che ci sentiamo attrici del cambiamento. Non abbiamo niente da rimproverare alle nostre antenate, dalle quali abbiamo imparato a ribellarci, e non abbiamo niente da rimproverarci di fronte alle nostre figlie, alle quali consegniamo un percorso di libertà, certe che non mancheranno di arricchirlo e di potenziarlo.


***Ida Dominijanni, Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch, Giuliana Giulietti, Chiara Zamboni, Diana Sartori, Manuela Fraire, Pat Carra, Bianca Pomeranzi, Fiorella Cagnoni, Vita Cosentino, Wanda Tommasi, Giannina Longobardi, Anna Maria Piussi, Traudel Sattler, Maria Rosa Cutrufelli, Elettra Deiana, Paola Mattioli, Grazia Zuffa.


Per adesioni, interlocuzioni, dissensihttps://www.centroriformastato.it/salto-della-specie-1/


(www.libreriadelledonne.it, 12 maggio 2020)

di Luisa Muraro


“Perché la Chiesa riesce meno a fare politica” s’intitola un articolo che comincia nella prima pagina del Corriere della sera di domenica 10 maggio. Letto l’articolo, la risposta è semplice: perché non fa la politica che piace all’autore dell’articolo, Ernesto Galli della Loggia, e ai suoi amici, che forse non sono tantissimi ma sono potenti.

Papa Francesco, secondo l’autore, non fa politica ma ideologia, che si può dire cristiana ma non è la giusta politica come i papi hanno saputo fare finora. Così dice e la spiega, questa politica fatta dai predecessori di Francesco, la spiega miscelando insieme Pio XII, Giovanni XXIII e via via fino a Benedetto XVI, suppongo, perché l’autore non fa nomi. Nella sua miscela infatti non ci sono differenze, tutti avrebbero fatto la stessa politica che piace a lui, una politica di centro molto moderato, in equilibrio tra i potenti del momento. Una politica “cerchiobottista”, la chiamerebbe la mia amica di Diotima, Diana Sartori.

Qualcuno di questi papi si sarà rivoltato nella tomba e penso non tanto a papa Roncalli, che avrà fatto un sorriso di indulgenza compassionevole per le furbate evidenti degli amici dei potenti. Penso piuttosto a papa Wojtyla, il quale voleva andare a Baghdad per fare da scudo umano contro l’imminente bombardamento Usa nella guerra contro l’Iraq, quella le cui conseguenze il Medio Oriente continua a pagare.

Ecco il secondo errore di quell’articolo, che non mette in conto quello che è capitato nel mondo dopo la caduta del muro di Berlino.

Il papa polacco vide e non si riconobbe nel capitalismo trionfante e tanto meno nella globalizzazione all’insegna del “libero” mercato, cioè del vinca il più forte nella competizione.

La Chiesa, prima della fine dei tempi, è anche un’istituzione storica e questo papa sta insegnando il vangelo alla luce del presente. Il suo insegnamento non è perfetto? Non lo è e lui stesso non lo pretende, fa del suo meglio, e siamo molti, moltissimi, donne e uomini, a sentire e pensare che il suo insegnamento è buono. Dire che non è politica ma ideologia somiglia a quelle critiche pretestuose che sembrano doppiamente riprovevoli in certi momenti storici. Doveva il Corriere della sera pubblicare Galli della Loggia per il doveroso rispetto della libertà di espressione? Io noto che il titolo dato dalla redazione del giornale al testo attenua il giudizio denigratorio, ma penso che il giornale non doveva pubblicarlo, non in questo momento storico. Però è un fatto che quelle parole di Galli della Loggia fanno chiarezza: i suoi amici vogliono tornare alla “normalità” di prima.


(www.libreriadelledonne.it, 11 maggio 2020)


Clara J. e Luisa M. suggeriscono per il tempo presente questo pensiero di Annarosa Buttarelli:


Se il nostro protagonismo si riducesse a un computo numerico e percentuale, faremmo un madornale errore. Avremmo promosso la vittoria della quantità e non della qualità, avremmo dimenticato l’insegnamento della sovranità femminile, che nella storia è sempre stata testimone della priorità della sostanza qualitativa di ciò che si fa e di ciò che si desidera essere. Dunque, bisogna riguadagnare sempre la differenza femminile, riascoltarla in ciò che sentiamo e in ciò che ci attraversa, ripensarla e riallacciarla alle vicende dei popoli tramite quella che si può chiamare scienza della vita quotidiana, conservata fino a oggi dalle donne


(Sovrane. L’autorità femminile al governo, 2° ed., il Saggiatore, 2017, pag. 14).


(www.libreriadelledonne.it, 9 maggio 2020)

di Luisa Pogliana


Le donne sono più interessate a coltivare la vita che a coltivare un’illusione di immortalità.


Alla mia età non ho problemi finanziari, ho una casa spaziosa, insomma, condizioni materiali più fortunate di altre per vivere questa reclusione. Però io ho sempre bisogno di lavorare, nel senso ampio di fare cose che sento utili, che hanno un senso per me. Per questo da anni sto portando avanti progetti su ciò che mi interessa di più: le donne nel management.

Il blocco mi ha fermata di colpo. Mi sono sentita abbattuta e disorientata.

Ma nella vita mi sono trovata più volte a ridefinire la mia identità, perché le condizioni erano cambiate. Come quando ho lasciato la militanza politica con il cuore a pezzi di delusione, ma poi sono stata più libera nel movimento delle donne. Come quando ho dovuto lasciare il lavoro di una vita come manager perché la situazione non era più accettabile, ma poi sono diventata consulente internazionale lavorando in quattro continenti. Come quando anche questo è finito per lo scoppio di una guerra dove stavo lavorando, ma così ho potuto dedicarmi totalmente alle attività che più mi coinvolgono. Lacrime e angosce ci sono state sempre, ma sempre è stato possibile costruirmi altre vite che mi andavano bene. I granchi cambiano il guscio perché è necessario per crescere.

Questa crisi non è certo un passaggio paragonabile, però mi sono trovata a dirmi: e adesso cosa faccio? Da molto volevo scrivere – senza trovare il tempo – sulla genealogia delle donne nel management, donne che il management lo hanno fondato e definito già da metà Ottocento fino ad oggi, con sorprendente continuità di pensiero: una diversa concezione del potere. Ora sto scrivendo di questo, studio e imparo, e sono contenta. Si, sono contenta perché è una mia scelta e una fortuna starmene in casa a fare un ‘lavoro’ che mi piace.

Ma ovviamente non è così per tutti. Intorno a me ci sono donne che devono lavorare con il cosiddetto smart-working. Cosiddetto perché quello che si fa in questo periodo è un telelavoro, che va bene se scelto o necessario, ma non è ‘lavoro agile’, cioè con una flessibilità di presenza fisica gestita soggettivamente. Le richieste delle donne di tempi e modi diversi di essere presenti sul posto lavoro si fondano sul desiderio di esserci, e anche con le altre persone con cui lavorano. La flessibilità non è un sottrarsi, è l’aspettativa di poter lavorare bene e poter vivere bene. La necessità forzata di oggi si traduce spesso per le donne con una famiglia, in doppio lavoro anche peggio del solito, perché non è cambiata la distribuzione di ruoli con i mariti. E per altre donne, per esempio se vivono da sole, è un sofferto isolamento sociale. Credo che bisognerà stare attente all’uso dello smart-working dopo questa fase. Sarà positivo se le aziende finalmente capiscono che un lavoro flessibile è possibile e vantaggioso. Ma occorre che questo modo di lavorare riguardi uomini e donne allo stesso modo. Che non sia riservato alle donne come lavoro di serie B (oggi molti lo vedono così, come già il part-time) subordinato alle incombenze famigliari ancora più cementate sulle loro spalle. Bisognerà curare che non diventi un modo di espellere le donne dal lavoro qualificato, dalle carriere già tanto limitate. Che non diventi un passo fuori.

Pur avendo io, invece, questa positiva situazione personale, ho però altre angosce (come molte persone) perché io non finisco con me. Penso, per esempio, a mia nipote e altri nipoti. Che futuro li aspetta, a breve, nel lavoro? E a lungo termine? perché eventi così si ripeteranno se non ci saranno cambiamenti drastici sul clima, sul modello di sviluppo.

Ma davanti a questo scenario vediamo uomini politici che di questo magari parlano, ma non hanno progetti, strategie. Sono occupati a badare al loro potere, alle scelte da fare in funzione del loro interesse individuale, limitato e contingente.

Questo mi ha fatto pensare che sarà ancora più necessario riprendere appena possibile uno dei miei progetti sospesi: Un passo in alto. Proposta politica alle donne – manager in particolare – di ambire ai ruoli decisionali alti, per cambiare il potere maschile e misogino che domina in quei luoghi. L’ho pensato perché nella gestione di questa pandemia da parte del potere abbiamo visto solo uomini che decidevano e pontificavano, e solo donne a capo dei governi che hanno gestito questa crisi straordinariamente bene. Certo non basta essere donne per avere una capacità di visione e azione realistica e lungimirante, ma le donne lo fanno di più. Perché?

Penso che la brama di potere che non lascia mai gli uomini (esemplari gli ultraottantenni che cercano ancora di essere ‘presidenti’ di qualcosa) sia un modo di tenere lontana la morte. Non concepiscono un mondo dove loro non ci sono più, vedono la fine del loro potere come se fosse la fine della vita. C’è una grande differenza nelle donne. Le donne vivono di più nella realtà, temono meno ciò che può accadere con lo svolgersi della vita, lavoro e ruoli compresi, e senza paura che ci sia una fine. Sono più interessate a coltivare la vita che a coltivare un’illusione di immortalità. Hanno prospettive più ampie. Immaginano il mondo come un posto dove non vivremo sempre noi: nascono dei figli, altre generazioni succederanno a noi. Per questo si occupano seriamente del futuro. È un concetto di ‘sostenibilità’, non a caso introdotto da due donne*.

Spesso mi sento impotente di fronte a queste pesanti prospettive: non so cosa posso fare. Poi mi dico che farò quello che riesco a fare, e che ci sono tante altre persone che ci pensano. Ho raccontato di me per questo, per dirmi che niente è determinato a priori, e forse riusciamo a fare qualcosa, insieme. Sperèmm, come si dice a Milano.

(*) Il concetto di sostenibilità è stato introdotto per la prima volta dalla scienziata, biologa e zoologa statunitense, Rachel Carson, nel suo testo più famoso, Silent Spring, Primavera silenziosa, del 1962, che lanciò il movimento ambientalista.

Successivamente, in politica, è stato utilizzato da Gro Harlem Brundtland, a capo del governo norvegese per complessivi 10 anni tra il 1981 e il 1996. Nominata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, presidente della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, redasse il Rapporto Brundtland, Our Common Future, Il Nostro Comune Futuro, 1987, che conteneva una definizione di sviluppo sostenibile che coniugava aspettative di benessere e di crescita economica con il rispetto dell’ambiente e la preservazione delle risorse naturali.


(www.libreriadelledonne.it, 3 maggio 2020)

di Francesca Graziani


Prima di entrare nel merito dell’app Immuni – che è la questione per cui scrivo – devo fare una parentesi personale: non sono certo una ‘smanettona’; non che io sia antitecnologica perlomeno per ciò che riguarda la musica (dai primi walkman all’Ipod). Il primo computer che mi è stato regalato negli anni Novanta l’ho usato come una meravigliosa macchina per scrivere non fidandomi di me stessa per andare oltre. Invece l’amica tedesca con cui allora vivevo, da autodidatta si è subito buttata a scoprirne le possibilità fino a interessarsi dei sistemi open source come Linux e derivati. Comunque è stata lei che mi ha parlato per prima della predazione dei dati di Google e company, discussione che finalmente è arrivata anche in Italia: il libro di Shoshana Zuboff poi mi ha illuminato sul capitalismo della sorveglianza, tema su cui io sono molto sensibile avendo vissuto per vent’anni in famiglia sotto stretto controllo. Recentemente infatti quando prendevo in mano il mio smartphone e lo stupido assistente di Google mi chiedeva: “Francesca, prova a dire qualcosa” – forse perché il mio dito inconsapevolmente era scivolato ad attivarlo; oppure trovavo pubblicità collegate al profilo che i predatori costruiscono su ognuno di noi, mi sentivo nuda e spiata: allora ho chiesto aiuto alla mia amica che ha installato sul mio nuovo smartphone –115 Euro – il sistema Sailfish OS che funziona senza Android e mi permette di schivare Google et similia e di usare motori di ricerca e messaggistica alternativa. Perché ognuno ha la libertà di usare il softwere che vuole – o no?

Non che così io mi sia sottratta del tutto alla predazione, ma almeno non hanno tutti i dati che vorrebbero.

E ora finalmente veniamo all’app Immuni.

Prima questione: l’usabilità, perché come afferma giustamente il professor Mario Rasetti, esperto di Big Data, intervistato da Martina Pennisi (Privacy e sicurezza – Come gestire i dati nell’app ‘antivirus’, Corriere del 7 aprile) l’app andrebbe pensata per tutti: e invece ne saranno escluse sia le persone che lo smartphone non ce l’hanno (o glielo regalerà lo Stato?) sia le persone anziane che in media sono le meno tecnologiche ma anche le più vulnerabili al virus. E dato che Immuni può funzionare solo su dispositivi Android, ne sarò esclusa anch’io, anche se non sono contraria a priori al tracciamento per motivi sanitari.

Dalle ultime informazioni sappiamo che l’app userà il bluetooth, escludendo la geolocalizzazione che altrimenti avrebbe tracciato anche la posizione degli utenti; e questa è una buona scelta come anche il fatto che non sarà centralizzata permettendo ai dati di restare nella memoria interna dei dispositivi coinvolti. Rimangono da chiarire altri dettagli che sono importanti per l’effettiva utilità dell’operazione, come segnala ancora Martina Pennisi: “Chi è a rischio riceverà solo indicazioni su come comportarsi dal Ministero della salute? Dovrà contattare le ASL? Avrà accesso al tampone? Ce ne saranno abbastanza?” (Così inizierà la sperimentazione, Corriere 30 aprile)

Per concludere avrei un’altra domanda: l’interfaccia di base per Immuni è stata elaborata da Google insieme ad Apple: siamo sicuri che non riusciranno a collegare i dati all’ID dei dispositivi, come ci hanno dichiarato? La solita amica tedesca mi dice che – sul sito di informatica heise.de – Fabian Scherschel pone proprio questa questione.

Visto che siamo di nuovo dipendenti da queste società private statunitensi, sarebbe ora che l’Europa facesse qualche passo decisivo a proposito di una questione così delicata come quella dei nostri dati e soprattutto di quelli sanitari: pensare a un sistema operativo europeo è così difficile?


(www.libreriadelledonne.it, 2 maggio 2020)

di Paola Mammani


Le donne del MeToo che hanno saputo darsi reciproca autorità, dicendo tutte assieme “io lo testimonio” “sì, anch’io”, hanno determinato un ineguagliabile smottamento in alcune delle più potenti strutture di potere maschile. Sono state credute e altri luoghi del potere più tradizionale, per esempio i tribunali, hanno riconosciuto la loro parola come autorevole.

Sempre meno donne pensano che il più alto obiettivo per le loro simili sia occupare posti di potere fino a raggiungere gli uomini, come fa Emma Bonino sul Corriere del 21 aprile, e sempre di più pensano invece che sia importante acquistare autorità per arrivare a quello che alcune hanno definito cambio di civiltà e qualcun’altra ha azzardato: rivoluzione.

A me pare che durante questa pandemia l’autorità delle donne sia grandemente accresciuta. Giovane donna, la dottoressa che ha diagnosticato il primo paziente di Codogno, donne le ricercatrici che per prime in Italia hanno isolato il virus, donne le tante scienziate che ci hanno tenute informate. Le infermiere sono il 78% della categoria, le mediche negli ospedali sono la maggioranza. E Paola Severino, ex ministra della giustizia e avvocata, ancora dalle pagine del Corriere, quello del 24 aprile, aggiunge che il 53% della magistratura è donna e si interroga, come Bonino qualche giorno prima, su come sia possibile che a tanta capacità femminile corrisponda una così grande assenza di donne nei luoghi in cui si prendono le decisioni. Salta agli occhi, a lei come a Bonino e a tutte noi, la miseria di una classe politica che a fronte di tali meriti femminili, visibili sulla scena pubblica, nomina pletore di comitati e task force composte del tutto o quasi da uomini.

Bonino adotta un armamentario politico a metà tra la rivendicazione e l’attacco. Quindi sì – conclude – bisogna combattere di più per prendersi i posti di comando.

Severino analizza il comportamento degli uomini: […] ogni volta che per la mia esperienza universitaria un uomo mi chiede qualche nome di donne capaci, e io ne dico una, sento sempre la frase: ah, è vero, non ci avevo pensato. Perché non ci pensano? È questo il problema. Così lei abbozza questa politica per le donne: [] il nostro primo problema è di creare più occasioni per il riconoscimento del merito femminile e ridurre così il gap tra merito e potere. Credo anche che le donne che ce l’hanno fatta… dovrebbero aiutare le altre donne a mostrarlo (sottinteso il loro merito).

Fin dall’inizio Paola Severino sembra alla ricerca di una chiave di lettura più vicina alla sensibilità e al desiderio femminile. Ipotizza che abbiamo anche noi la nostra parte di responsabilità. Le donne separano merito e potere; gli uomini misurano il merito con il potere. E più sotto: Troppo spesso ci accontentiamo di essere brave. Gli uomini invece si accontentano solo con il potere, e si nominano l’un l’altro.

Chissà che la nostra ex ministra della giustizia, prima donna della Repubblica a ricoprire quel ruolo, non sospetti, in fondo, che le donne non si accontentano con il potere, che non stia lì il loro piacere, il loro desiderio. Che una volta provata, sperimentata nelle sue tante facce, faticose ed esaltanti, una donna, forse, non si accontenta di niente di meno che dell’autorità.

Ricordo una bellissima foto sulla copertina di Via Dogana, la rivista della Libreria, del giugno 2005 in cui si vede una studiosa dell’islam che impartisce una lezione, seduta in posizione elevata, un poco al di sotto la ascoltano il re del Marocco, dignitari, autorità religiose e politiche, e mi chiedo se la tensione tra i due termini, autorità e potere, non possa anche sistemarsi così, se le donne lo preferiranno. Insomma, se non sia più semplice, o gradito alle donne, dare indicazioni, suggerire traiettorie che poi la classe politica, i comitati, le task force si impegneranno a realizzare.


(www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2020)

di Manuela Ulivi*


Nella metafora nominata dalla prof. Elvira Valleri, appartenente alla Società italiana delle storiche, su questo sito, tra il rinoceronte grigio, considerato come un evento critico molto probabile e nonostante ciò ignorato, e il cigno nero, immaginato come catastrofe rara e imprevedibile, ritrovo la modalità di affrontare la discussione sulla violenza maschile contro le donne, che in questi giorni si sta riproponendo.

Non condivido, più di tanto, gli appelli fatti alle donne di fuggire dal violento, perché chi lo dice forse non ha presente cosa significhi abbandonare da un giorno all’altro il proprio contesto, senza avere preparato la strada per una nuova vita. Noi aiutiamo, a volte spingiamo, le donne ad andarsene, anche velocemente, soprattutto se sono in serio pericolo, ma le affianchiamo prima e dopo la loro scelta, che non può che essere maturata dalla donna.

Vorrei dire alla ministra Bonetti e a tutte le parlamentari che tanto si danno da fare in questi giorni con appelli alle donne per invitarle a chiamare il numero unico nazionale antiviolenza (1522), e alla giustizia perché sia allontanato il violento, che va bene farlo, ma ricordo a tutti che c’è una legge che lo prevede già dal 2001, la legge n. 154 del 9.4.2001. Domandiamoci perché questa legge è stata troppo spesso sotto utilizzata e inapplicata nei casi di violenza psicologica ed economica. Quando si fa una denuncia senza l’aiuto di donne, femministe e competenti, è più difficile raggiungere questo obiettivo e arrivare integre alla fine del percorso di uscita dalla violenza. Sono decenni che affronto discussioni con la magistratura civile, penale e minorile affinché si ordini l’allontanamento del violento, non della donna e dei figli minori, dalla casa familiare. A volte inascoltata quando la scelta è davvero necessaria e urgente. Altre volte questa, però, non è la scelta migliore per la donna, perché magari l’abitazione domestica non è più un luogo sicuro, neppure quando il violento è stato allontanato. Può essere situata in un contesto insicuro o ancora pericoloso. Da sempre ho anche fatto presente che la denuncia e le decisioni giudiziarie non risolvono da sole il problema. La relazione con altre donne e la valorizzazione della storia vissuta e delle risorse che si possono rimettere in movimento, fanno la differenza.

Non è un caso che proprio oggi, sempre e solo quando si accendono i riflettori (così come accade quando avvengono femminicidi), tutti si affannano a discutere su cosa devono fare le donne e come vanno colpiti gli uomini. C’è chi dice che la donna dovrebbe chiamare subito la Polizia, e poi? C’è chi dice che la donna deve fuggire di casa, e poi? Dove va la donna, dopo questa fuga? Come si gestiscono eventuali figli della coppia?

Pochi sono coloro che sanno quanto è facile fare il primo passo e quanto è difficile arrivare fino alla fine della strada, tra questi sicuramente le più competenti sono le attiviste e operatrici dei Centri antiviolenza. Queste donne sanno quanto il percorso sia pieno di trappole e quante, troppe, volte le porte si chiudono in faccia alle donne, anziché aprirsi.

Pochi di quelli che danno consigli generici sanno quanti ostacoli deve superare la donna che non prepara la sua uscita dalla relazione violenta! E anche quando la prepara, quante volte si sentirà ripetere che doveva andare via prima, che doveva farlo meglio, che doveva questo, che doveva quello? Se non ha un’altra donna vicina, che sa e che sostiene, a volte torna indietro.

Ho registrato attenzioni spasmodiche, nell’emergenza COVID19, al tempo delle donne in casa con il violento, senza considerare che le donne vivono questa condizione durante tutto l’anno. Stanno a fianco di una persona che non le stima, o che comunque non ha in sé alcun senso del valore della persona con cui convive.

La prof. Elvira Valleri analizza cosa è questo tempo per le donne, affermando in conclusione che “La posizione delle donne – rispetto agli uomini – non dipende tanto da quello che fanno ma dal valore che socialmente si attribuisce alla loro attività.”.

VERO?

Alla Casa di Accoglienza delle donne maltrattate di Milano, in più di 30 anni di lavoro, abbiamo messo in pratica la relazione che attribuisce valore all’altra, riconoscendo valore anche al tempo trascorso dalle donne nella vita privata con un uomo violento. Abbiamo imparato dalle donne che dentro a un rapporto di dominio permane la loro capacità di mettere in atto strategie per salvaguardare piccoli (o meno piccoli) spazi di libertà di pensiero e financo di azione.

Troppi associano il maltrattamento alle botte, e troppi ancora pensano che questa sia la condizione perenne delle donne nel tempo che vivono con un uomo violento. Le informazioni giornalistiche e le trasmissioni televisive non ci hanno aiutate negli anni a far capire che le donne subiscono violenza anche se lavorano e sono economicamente indipendenti e socialmente gratificate, anche se sono in posizioni sociali elevate, anche se all’apparenza il loro rapporto non fa trapelare tutte le brutture che si sviluppano in una relazione dove l’uomo agisce, in mille modi diversi, un pensiero arcaico e patriarcale di superiorità maschile.

Ed è così che si toglie valore alle donne che vengono rappresentate solo come vittime.

Il percorso di uscita dalla violenza, affiancato da nostre operatrici di accoglienza, aiuta queste donne a non sentirsi ottuse, giudicate come incapaci, a doversi vergognare per la vita che hanno vissuto fino a quel momento, come se parte delle responsabilità sia addossabile anche a loro.

Diamo, quindi, valore al vissuto, discutiamo le ragioni di quanto accaduto, di come è possibile non farlo accadere più, affrontiamo un lavoro di rivalorizzazione della vita della donna, perché lei possa arrivare, come vuole e con i suoi tempi, a conquistare una totale libertà di movimento e di vita, non più stretta tra paura e vergogna.

Almeno un anno fa Lia Cigarini esortava a ritenere questo nostro tempo “un tempo buono per le donne”.

Io non so dire se buono lo sia veramente anche il tempo di questi giorni particolari, che stiamo passando chiuse in casa, soprattutto per le donne costrette ad accettare la costante presenza di un uomo violento, ma vorrei forzare la mano e dire che si, pure questo potrebbe essere un buon tempo anche per queste donne.

È ovvio, ma spero non sia più di tanto necessario precisarlo, che non è positivo il tempo trascorso nella condizione di paura, sottomissione, attenzione a qualsiasi gesto o frase, o semplice rumore, che l’uomo violento può prendere a spunto per far esplodere la sua rabbia sulla donna che pretende di dominare. Ma questo tempo consente alle donne di vedere (come in un film) la loro vita condensata in pochi fotogrammi: i giorni della quarantena.

E magari le loro scelte, appena libere di muoversi, le faranno andare lontano da quell’uomo. Ma tutto secondo modalità e tempi adatti allo specifico contesto di ciascuna, non decisi da protocolli e spinti da chi non conosce e non sa cosa succede dopo la denuncia, la richiesta di separazione o di allontanamento.

I consigli e gli aiuti che si danno alle donne in stato di temporaneo disagio per la violenza in atto, finiscono troppo spesso per farle sentire incapaci, persone da mettere sotto tutela o, peggio ancora, per far prendere a quelle donne delle strade sbagliate per la loro vita.

Un’ultima questione che non trattiamo mai è quella di porre delle questioni serie agli uomini: perché ancora oggi ci sono rapporti segnati dalla violenza, dal dominio, dalla paura? Perché diminuiscono gli omicidi verso gli uomini e non quelli contro le donne? Per quanto ancora possiamo accettare di mettere in conto che ci siano uomini violenti, domandandoci scioccamente se si possono curare?

Abbiamo iniziato il 2020 sotto il segno di numerosi femminicidi, 12 solamente in gennaio, 21 fino ad oggi, se vogliamo la quarantena forse li ha ridotti (sono più di 100 tutti gli anni, da almeno 20 anni a questa parte, cioè da quando si contano gli ammazzamenti delle donne segnati dalla reazione maschile contro la loro scelta di libertà).

La situazione è grave oggi, come tutti gli altri giorni in cui non saremo in quarantena.

Voglio credere che, dopo questo tempo, aumenteranno le donne che decidono di lasciare un uomo violento, perché proprio ora, più e meglio di prima, stanno realizzando il valore del tempo e di sé.

Non sarà un caso che abbiamo più che raddoppiato proprio i nostri contatti (dalla media mensile di 77 donne alle 179 sentite tra il 5 marzo e il 3 aprile 2020) con le donne che ci hanno già conosciute e si sono rivolte a noi prima del c.d. “lockdown”, ora in fase di preparare la soluzione giusta per interrompere il ciclo della violenza.

Ecco, alla fine anche questo è un tempo buono in cui tante donne si stanno rendendo conto, probabilmente più di prima, che non vale la pena stare vicine ad un uomo che impone condizioni penose di vita.

Da questo tempo tutte, donne che subiscono violenza e donne che non la subiscono direttamente, possiamo ripartire dal VALORE di una donna, in relazione con un uomo o con un’altra donna, o anche in relazione con sé stessa, in un contesto in cui sia possibile esprimersi per ciò che si è e che si vale, valorizzando e non demotivando la differenza.

Non aspettiamo che il rinoceronte grigio ci schiacci.


*Manuela Ulivi è presidente della Casa di Accoglienza delle donne maltrattate di Milano (CADMI)


(www.libreriadelledonne.it, 26 aprile 2020)

di Elvira Valleri*


Non so se la pandemia può essere vista come il modo in cui la natura cerca di impossessarsi nuovamente di uno spazio che l’uomo ha progressivamente eroso, ma certamente segnala alcuni aspetti che dovremo tenere presenti. La scienza ci spinge ad approfondire il legame tra gli esseri umani e la natura e sicuramente Ilaria Capua fa bene a sottolinearlo attraverso diverse iniziative volte a precisare e valorizzare il ruolo della ricerca scientifica per la nostra sopravvivenza.

Non vi è dubbio che i ripetuti richiami della comunità scientifica internazionale sullo stato di salute del nostro pianeta siano rimasti senza risposta come pure le ricerche svolte negli anni passati sulla Preparedness for a High Impact Respiratory Pathogen Pandemic della John Hopkins University (2019). In questo report si legge in modo chiaro ed esplicito come tra le cause di diffusione e di morte, vi potrebbe essere il ricovero massivo ed eccedente, rispetto alle capacità delle strutture sanitarie non adeguatamente attrezzate, per questa emergenza. Dobbiamo allora domandarci come mai vi sia stata una così scarsa considerazione per i richiami, gli appelli e gli studi del mondo scientifico, se si tratti di un’eccezione o sia invece la regola; che valore infine abbia l’enfasi posta sulla fatica e l’eroismo degli operatori sanitari costretti ad affrontare la pericolosità del coronavirus senza adeguati sistemi di protezione.

Non si è trattato di un destino o della sorte malevola, ma di una macchina organizzativa che non ha saputo o potuto lavorare in modo adeguato rispetto alla gravità dei tempi e della situazione, pur con tutte le differenze del caso. La giornalista americana Michele Wucker ci incoraggia a sostituire il mito del “cigno nero”, metafora della catastrofe rara e imprevedibile, con l’immagine del rinoceronte grigio che abbiamo davanti ma che scegliamo di ignorare.

Lo stesso discorso vale per un’altra emergenza che al momento non sembra essere tale e riguarda il mondo della scuola su quale è calato una spessa coltre oltre la quale la didattica a distanza (DAD) nasconde le forme più diverse di comunicazione e lascia alla buona volontà d’insegnanti e dirigenti un settore così delicato in un momento di particolare gravità.

Un silenzio assordante copre il mondo dell’istruzione dove lavorano per lo più donne che svolgono la funzione insegnante, i ruoli amministrativi e di pulizia. Orari incerti, modalità di lavoro non omogenee, alcune virtuose, altre inesistenti. Sicuramente molti sarebbero i temi da affrontare non a settembre, ma adesso quando si va delineando la riapertura delle attività produttive.

Mentre i portoni delle scuole rimangono chiusi il mondo dell’istruzione con i suoi operatori non riesce a trovare alcuna visibilità nel dibattito politico. Il tema della formazione/istruzione non ha appeal nel nostro paese; si tratta di un errore capitale che favorisce a cascata comportamenti, pregiudizi e stereotipi che sembrano avere largo seguito, come le fake news, che non si eliminano per decreto o con prestigiose commissioni, ma attraverso un lavoro serio nelle scuole di ogni ordine e grado attraverso insegnanti motivati e partecipi del discorso nazionale.

A tal proposito vorrei sottolineare, con una punta di amarezza, come invece la prospettiva non solo sia rovesciata ma portatrice di un ulteriore e pericoloso deficit di competenza. Nella task force sulle/contro fake news troviamo un drappello di giornalisti, studiosi della comunicazione e divulgatori scientifici, nemmeno uno storico/storica, che invece sarebbero stati guide preziose per capire come e perché nascono le false notizie

Per coloro che studiano e insegnano storia il problema delle fake news non è nuovo. Vale forse la pena richiamare, a titolo esemplificativo, quanto il grande storico francese Marc Bloch aveva scritto commentando le false notizie che erano circolate durante la prima guerra mondiale (Riflessioni di uno storico intorno alle false notizie della guerra). Le false notizie – scriveva Bloch – sono spesso lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti perché una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua origine e dunque solo ad una lettura superficiale può apparire come fortuita. Si chiamano strutture profonde e le storiche e gli storici lavorano attraverso queste categorie interpretative.

La prospettiva storica permetterebbe un’altra interessante riflessione, che appare in questo momento di “ripartenza” essenziale: tutte le crisi che l’umanità ha conosciuto e attraversato hanno ridefinito gli spazi e forse anche il tempo, ma soprattutto le relazioni di genere così come è possibile verificare nel secolo che abbiamo alle spalle.

Il mutato contesto che stiamo sperimentando impone un ripensamento di molti aspetti della nostra vita, fra questi la rilettura delle relazioni di genere appare fondamentale nel momento in cui si disegna una prossima riapertura delle attività produttive che sembra composta, nella mainstream narrative, di una forza lavoro fatta per lo più di uomini, senza responsabilità familiari o che possono delegare alla moglie o compagna la cura dei figli, mentre la presenza e l’aiuto dei nonni non è più disponibile o ipotizzabile. Un balzo all’indietro di almeno mezzo secolo come se fossimo ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso. Chiara Saraceno ha fatto notare recentemente come da tempo le famiglie italiane siano mutate anche se l’occupazione femminile continua a rimanere comparativamente bassa.

Mi auguro che la commissione predisposta dalla ministra Bonetti s’interroghi su questi temi in una prospettiva di lungo periodo e con un’ottica attenta a cogliere come storicamente i grandi mutamenti economici e sociali, oltre che politici, hanno ridefinito ruoli e relazioni tra uomini e donne: dalla più volte evocata peste del XIV secolo, alla rivoluzione francese, alla prima guerra mondiale solo per fare gli esempi più noti.

La posizione delle donne – rispetto agli uomini – non dipende tanto da quello che fanno ma dal valore che socialmente si attribuisce alla loro attività; penso al rapporto pubblico-privato che in queste settimane è stato così forzatamente ridefinito.

Mutare il nostro sguardo sulla storia, incrociarlo con nuove domande e nuovi soggetti, può forse aiutare a comprendere meglio i cambiamenti che stiamo vivendo; metamorfosi complesse e per molti aspetti ancora da interpretare, che tuttavia sembrano assegnare alla presenza delle donne, nel farsi del tempo domestico che stiamo vivendo, una centralità che sarà necessario non dimenticare per coglierne le strutture profonde dalle quali ripartire.


* Elvira Valleri fa parte della Società italiana delle storiche


(www.libreriadelledonne.it, 24 aprile 2020)

di Umberto Varischio


Da quando la pandemia ha raggiunto la sua fase critica e si è cominciato a narrare e commentare il suo decorso, si è insinuata, tra i miei molti pensieri dedicati alla gestione di questa quotidianità alterata, una domanda ricorrente e insistente: perché per descrivere e raccontare la pandemia si è scelto di utilizzare la metafora della guerra e perché non si è utilizzato invece un linguaggio più vicino alla realtà della stessa, quindi un linguaggio della cura?

Ho letto in queste settimane diversi commenti, in particolare quello di Annamaria Testa, “Smettiamo di dire che è una guerra”, per Internazionale. Ma sono stato particolarmente colpito da due interventi di Guido Dotti, monaco della Comunità di Bose, il primo apparso sul suo blog e sul sito delle Acli di Bergamo con il titolo “Siamo in cura, non in guerra”, l’altro la lunga conversazione avuta dallo stesso autore nel corso della puntata di sabato 11 aprile di “Uomini e profeti” di Rai Radio Tre.

È innegabile che il linguaggio di diversi operatori della sanità, che sono a stretto contatto con questa malattia – e almeno per quanto viene raccontato da gran parte dei mezzi d’informazione – parla la lingua della guerra. Ma siamo sicuri che la maggioranza di loro usi questo linguaggio? Sono solo una minoranza coloro che, quando si occupano di una malata di Covid-19, pensano a come farla respirare e non a sconfiggere il virus? Dotti (e altre/i), riferendosi a conoscenze dirette, pongono dei dubbi, criticando anche la retorica bellica che questa impostazione porta con sé.

Riflettendo su questi interventi critici, mi chiedo cosa ci sia di male a descrivere la malattia con il linguaggio della cura, che cosa ci si perda a non utilizzarlo. Non penso che gli operatori della sanità possano sentirsi offesi o sminuiti a sentir usare per il loro lavoro termini come generosità, abnegazione, attenzione, sguardi, sorrisi, gesti, solidarietà, empatia, vicinanza emotiva, tutte cose che il personale sanitario che opera sul Covid-19 ha in abbondanza. Perché non usare il linguaggio delle relazioni e della cura in una situazione in cui la relazione è fondamentale?

Chi conosce la vera guerra e opera nell’ambito della cura, come gli operatori sanitari di Emergency, fa molta attenzione a usare metafore di guerra, perché sa, per esperienza, che la guerra causa quello che poi debbono curare tutti i giorni.

La metafora della guerra mi fa venire in mente, oltre ai morti, ai feriti e ai traumatizzati, disciplinamento di corpi e di menti, irreggimentazione, unione nazionale (talvolta anche sacra), militarizzazione di ogni ambito sociale; quello che sta succedendo in queste lunghe settimane.

La metafora porta a vedere come un nemico (di guerra, un traditore, un vigliacco) chi fa una passeggiata pur mantenendo le distanze, o chi si fa una corsa, mentre si tende a sorvolare sulle centinaia di migliaia di donne e di uomini che sono obbligate a recarsi al lavoro, in parte non piccola per produrre per settori che non sono essenziali per la riproduzione. Disciplinati, irreggimentati anche dalla paura di perdere il posto di lavoro. E senza che sia valutato il contributo, involontario, che chi è obbligato ad andare al lavoro – per esempio per produrre armi o anche solo per “non perdere il treno della ripresa” –   da alla diffusione del contagio.

Siamo qui nella stessa logica economica che governa il funzionamento delle RSA e delle case di cura, dove migliaia di anziane/i e di disabili sono morti o malati gravemente, trattati da residuali perché non più produttivi e quindi “sacrificabili” (al di là di scelte di superficialità e incapacità).

C’era chi diceva che la politica è la continuazione della guerra con altre armi, ma forse lo è anche l’economia.

La rete è indubbiamente veloce nel mutare impostazione, e lo è anche la macchina delle informazioni. La metafora della guerra, in questi ultimi giorni, sta perdendo terreno in favore di un linguaggio pervasivo che ha il suo baricentro nell’economia ma, purtroppo, con le stesse logiche di quella della guerra.


(www.libreriadelledonne.it, 22 aprile 2020)

di Paola Mammani


Il calo di denunce, di segnalazioni a carabinieri e polizia, sms di donne che comunicano di essere nell’impossibilità di telefonare a motivo del controllo ininterrotto dei partner, fanno ipotizzare il peggio quanto a violenza degli uomini chiusi in casa con donne e bambini.

Viene da battere le mani alla fine della lettura dell’articolo di Annarosa Buttarelli pubblicato sulla 27esima ora del 6 aprile e reperibile su questo sito (v. anche l’articolo di Teresa Manente Non ne sarei uscita viva). Si festeggia l’allontanamento d’urgenza degli uomini violenti, i maltrattanti, dalle case dove hanno perseguitato donne, figlie e figli, che possono invece rimanere lì e tornare a vivere e a respirare liberamente.

Battiamo le mani al giudice che ha fatto uso di strumenti legislativi spesso ignorati, per allontanare di casa l’aspirante assassino, le battiamo a tutte quelle che hanno chiesto con forza che siano reperiti alloggi dove confinare i maltrattanti, ora che decine di alberghi sono vuoti.

Ma, lo sa Annarosa e lo sappiamo tutte, le donne che se ne occupano ce l’hanno detto, il più delle volte questa non è una strada praticabile. Non solo perché lor signori ritornano – nel passato anche il braccialetto elettronico non è bastato, sono riusciti talvolta a rintracciare le donne perfino negli alloggi segreti – ma anche perché spesso hanno compari, padri, fratelli che abitano sopra, sotto, a fianco della loro famiglia e sono della loro stessa pasta: pronti a prenderne il posto, a vessare la donna che ha denunciato il congiunto. L’unica via d’uscita allora è la fuga delle donne.

È per questo che ho ascoltato con interesse le richieste che Laura Boldrini, Lucia Annibali e altre hanno rivolto, durante il question time alla Camera di mercoledì 8 aprile, alla ministra Bonetti che si è detta impegnata a realizzarle: reperire al più presto alloggi per donne e bambini, ponendo fine alla scarsità di luoghi sicuri in cui ospitare le donne che lasciano la casa coniugale. E poi far arrivare ai centri antiviolenza non solo i fondi in bilancio per il 2019 (è la solita, triste storia dei fondi statali che arrivano dopo anni) ma anche inviare direttamente ai centri, i fondi previsti per il 2020, superando il passaggio per le Regioni.

Se le donne non possono uscire facilmente di casa, se possono portare con sé solo un bambino, e magari ne hanno più d’uno, è improbabile che fuggano proprio ora, ma proprio ora è essenziale riaffermarlo: è necessario che vi siano alloggi a sufficienza per le donne e le loro creature – a Berlino in questi giorni hanno requisito due alberghi a questo fine – e che i soldi non incappino nella burocrazia regionale!

E già che ci siamo – chiedo a quelle che sanno e hanno già percorso queste strade – non si potrebbe approfittare della contingenza per pretendere che sia avviata una campagna di invito alle donne ad uscire dalla prostituzione, garantendo loro un alloggio sicuro e degna accoglienza, permesso di soggiorno compreso, se necessario?

È ora il dopo, è ora o non è. Annarosa lo dice bene, sempre sulla 27esima ora, nell’articolo precedente, quello del 27 marzo, dedicato allo stesso tema, in cui denuncia la retorica del nulla sarà più come prima. Le trasformazioni o si vedono ora o non ci saranno. Sono d’accordo. Sull’imprevisto nulla possiamo, ma su quel che sappiamo della realtà, è ora che bisogna intervenire. Questi tempi, così tristi per la malattia e la morte che colpisce, possono essere un’occasione – anche questo si ripete, spero non invano – perciò mi auguro che le donne che sanno, dicano ora il più possibile, invochino ora ipoteche sulle attività che stanno per riprendere, sui finanziamenti che stanno per arrivare e lo facciano a voce forte e chiara.


(www.libreriadelledonne.it, 14 aprile 2020)

di Emanuela Mariotto


Nel racconto dei Vangeli sono le donne che accompagnano Gesù al sepolcro, sostandovi fino a sera, non i discepoli che erano fuggiti. Alle donne l’arcivescovo di Milano, monsignor Delpini, nell’omelia del Venerdì Santo, chiede di aiutarci a capire «per quale via si possa entrare nel mistero, come si possa rimanere fedeli, come si possa morire senza morire. Dovrebbero esserci donne a parlare questa sera di fronte a questa croce. Dovrebbero esserci donne». Ma, nella chiesa gerarchica maschile, le donne non ci sono, non hanno il sacramento della predicazione. Allora l’arcivescovo presta loro la sua voce, che definisce “impropria” e porta sull’altare le parole di poetesse, filosofe, mistiche: Maria Luisa Spaziani, Vincenza Capitanio, Madeleine Delbrel, Etty Hillesum, Emily Dickinson, Alda Merini, Angela da Foligno, Anna Achmatova.

Non le conosco tutte. Le loro parole sono dense, dicono l’indicibilità del mistero, il cambiamento che la visione della croce impone e, una volta conosciuto il Crocifisso, si sa tutto.

Si salva il mondo non offrendogli la felicità, ma dando un senso alla sua sofferenza. Di questo sa Etty Hillesum che, nel campo di sterminio si rivolge a Dio «tu non puoi aiutare noi, ma siamo noi a dover aiutare te e, in questo modo, aiutiamo noi stessi».

La preghiera aiuta nell’angoscia? si chiede Emily Dickinson. Ad Angela da Foligno, in meditazione sulla Croce, Dio si rivela con queste parole «Io non ti ho amata per scherzo» e per Madeleine Delbrel percorrere con Gesù la via della passione è una vocazione.

Ognuno di noi attende la passione, dice l’arcivescovo e, in questi giorni angosciosi che stiamo vivendo, vengono, invece, “le pazienze”, tutte le piccole e grandi difficoltà da affrontare e superare in questo periodo di quarantena. È “la passione delle pazienze”. Io le chiamo “le piccole resurrezioni quotidiane”.

Per le donne del sepolcro arriva, infine, la sera. La notte le attende. È cupa Anna Achmatova «Sapevo che tutto è già perduto / la vita un tremendo inferno», ma non rinuncia alla speranza, l’alba di Emily Dickinson che non si sa quando possa venire, ma a cui lei lascia aperta ogni porta affinché «abbia ali come uccello / oppure onde, come spiaggia».

Leggetela per intero questa omelia, è magnifica.


(www.libreriadelledonne.it, 12 aprile 2020)

di Giorgia Antonelli


«Un giorno non avrai le ragazze, un giorno i ragazzi, e un altro giorno ancora quello che aveva fatto così bene la verifica di matematica è andato e non tornerà più.» (Valeria Parrella, Almarina)


Mauro, lo chiamerò così, ha diciotto anni e lavora in un piccolo supermercato vicino casa mia. Spazza i pavimenti, fa le consegne, si spacca la schiena nel magazzino. È un mio studente e prima della quarantena ci siamo incontrati qualche volta, quando andavo a fare la spesa, e ci fermavamo a chiacchierare. Ha smesso di venire a lezione da un po’, eppure è uno dei più bravi, almeno nelle mie materie. In più è un rapper bravissimo, un giorno gli ho fatto spiegare la musicalità del verso in classe facendogli cantare uno dei suoi pezzi, c’è stata una standing ovation. È sottile, Mauro, introverso e intelligente, ha scritto un testo rap ispirato a Cavalcanti perché come lui vede nell’amore qualcosa di doloroso e insostenibile per la propria sensibilità. Durante l’ultimo compito in classe di italiano che gli ho visto svolgere, un testo argomentativo, ha avuto un crollo e voleva consegnarmi il foglio dopo quaranta minuti, in bianco. Diceva che non ce la faceva, che non era in grado. Mi sono rifiutata di accettarlo, mi sono alzata, gli sono andata vicino e gli ho detto di respirare, che era un attacco di panico, che era capacissimo di svolgerlo, che poteva uscire a prendere una boccata d’aria e poi al suo ritorno mi auguravo che facesse un altro tentativo, che si ripulisse i pensieri e si mettesse a scrivere, o che almeno ci provasse. Quando è tornato dalla pausa si è messo a scrivere e ha scritto fino alla fine delle due ore a disposizione. A quel compito Mauro ha preso otto. 

Da quest’anno insegno al serale e Mauro non è l’unico a lavorare tra i miei studenti, lo fanno quasi tutti, ognuno con la sua storia. Quando sono arrivata qui non ero pronta. Avevo insegnato alle medie e in varie scuole superiori ma sempre a ragazzi di massimo diciotto anni, più o meno allenati a studiare, muniti di libri di testo e a cui si potevano assegnare dei compiti a casa per verificarne l’apprendimento. Al serale è tutto diverso: le classi sono miste, dai diciassette anni fino ai cinquanta, ho persino un alunno di settantaquattro anni, tornato sui banchi perché si annoiava e voleva nuovi stimoli. È gente, per buona parte, che ha ripreso a studiare dopo parecchi anni. Lavoriamo con appunti e fotocopie, i libri non possiamo farglieli comprare ed è giusto così, non tutti possono e bonus per loro non ce ne sono, così i materiali li creiamo noi, a casa o in classe, o mettiamo a loro disposizione le copie omaggio che riusciamo a trovare. 

C’è un’altissima percentuale di immigrati non integrati, e a differenza di quelli del diurno che sono immigrati di seconda generazione nati qui, questi sono immigrati arrivati adulti in Italia, che frequentano solo le loro comunità d’origine e che per questo quasi non parlano la nostra lingua. Spesso in classe cerco di aiutarli traducendogli le domande o le cose che non capiscono in quel po’ di inglese che condividiamo e mi dispiace perché non posso tradurre loro tutto, andrei troppo lenta e devo cercare di non lasciare indietro gli altri. Li guardo che annuiscono, che copiano quello che scrivo, e mi immagino il loro mondo come una bolla di sforzi sovrumani e silenzio in cui quel che dico non riesce a penetrare. Per la maggior parte sono già diplomati o laureati nel loro paese d’origine ma qui quello che hanno appreso non viene riconosciuto dal punto di vista legale e così ricominciano da zero, faticosamente, dalle medie e poi alle superiori, facendo intanto lavori che nulla hanno a che fare con le loro competenze, in questo forse molto simili a tanti lavoratori italiani.

Per il resto, sono quasi tutte situazioni complesse, persone a cui la svogliatezza in alcuni casi e la vita in molti altri non ha dato la possibilità di diplomarsi, e li vedi barcamenarsi tra orari flessibili e assenze ripetute, permessi di lavoro e tentativi di migliorare la loro posizione lavorativa grazie al diploma.

I primi tempi non sapevo come insegnare a una classe così, tutto quello che avevo fatto negli ultimi dieci anni e che aveva funzionato al diurno sembrava controproducente: non riuscivano a starmi dietro, ero troppo “difficile”, andavo veloce. Mi sono dovuta reinventare presto, dopo una brutta discussione con la mia quinta, a settembre, mi sono seduta con loro e gli ho chiesto di cosa avevano bisogno, gli ho promesso che ci avrei provato. Ho aggiustato il tiro, ho cambiato il mio modo di fare didattica e le cose hanno iniziato a funzionare, o almeno a funzionare meglio. Perché quando insegni è così: quello che sai non conta niente se non lo sai trasmettere, e quello che conta non sei tu o il tuo sapere, quello che conta sono loro e quello che imparano.

Non sono mai stata un’insegnante vocata, non ho mai desiderato insegnare, piuttosto scrivere, avere a che fare coi libri, fotografare, viaggiare, raccontare, studiare ma insegnare, non ci avevo mai pensato. La parola vocazione poi, in ambito didattico, mi ha sempre fatto venire i brividi: forse perché l’ho sentita pronunciare con una voce impastata di eroismo, suffragata dall’idea che non ci sia niente di più bello che plasmare delle menti. Plasmare? È esattamente quel che non vorrei mai fare. Non riesco a vedermi come un demiurgo, gli studenti per me non sono plastilina da modellare a mia immagine, in cui inculcare le mie idee e le mie passioni, sono quel che sono, e quello che non voglio è che diventino degli epigoni, merli indiani che ripetono le mie parole, vorrei invece che avessero il senso critico giusto per tenermi testa, per fare domande, per esporre e difendere le loro idee. Vorrei che emergesse il loro peculiare talento, non il mio.

Non sono un’insegnante vocata dunque, (orrore! Lascia il posto a chi morirebbe, per insegnare!), e quando finisco il mio lavoro – scolastico o domestico che sia – per la scuola, subito me ne dimentico e la mia mente si riempie di mille altre cose altrettanto desiderose di cure e attenzioni. Ho un’unica munizione: mi piace la letteratura, che è la materia che insegno, e mi piace parlarne e questa forse è l’unica cosa che so fare davvero oltre leggere. È la sola arma con cui posso, con un po’ di fortuna, centrare la mela sulla testa dei miei studenti. 

Il mondo prima della didattica a distanza era così: pomeriggi a scrivere appunti e mappe alla lavagna, organizzare interrogazioni programmate, accertarmi che capissero, che tutto fosse se non semplice, almeno chiaro, pomeriggi passati a spiegare e perdere le staffe, come può capitare in aula, o a sussurrare incoraggiamenti vicino ai banchi, a cercare di seguirli individualmente il più possibile, a tentare di recuperarli sapendo che in classe non saranno mai tutti ma che invece ne mancheranno sempre parecchi all’appello, o a volte tutti e in quei giorni portarsi sempre un libro dietro è stato fondamentale. Molti mollano lungo la strada, non ce la fanno con gli orari, sono stanchi, non riescono a organizzarsi. Ogni volta che uno di loro abbandona è una sconfitta, un piccolo dolore. Perché se non credo alla vocazione io credo alla scuola pubblica come un potentissimo strumento democratico di emancipazione sociale. Ha i suoi difetti la scuola, ne ha molti e va sicuramente ripensata, ammodernata, dall’organizzazione dei programmi e delle lezioni fino alla didattica e ai criteri docimologici, ma di buono c’è che è aperta a tutti, è obbligatoria e costa pochissimo, è un’opportunità che la vita ti dà anche se tutto il resto fa schifo, non lo controlli, ti sopraffà, è un treno che puoi perdere o prendere, ma di buono c’è che ci salgono tutti. E se lo perdi da ragazzo, quel treno, puoi sempre iscriverti alle scuole serali.

La quarantena ci ha sorpreso con i programmi avviati, le interrogazioni finalmente programmate classe per classe su base volontaria dopo un primo quadrimestre di rinvii per i motivi più disparati, le esercitazioni per gli esami di stato già fissate. È saltato tutto, per quello stesso capriccio della fortuna che per Machiavelli poteva sgretolare i piani anche del Principe che meglio avesse saputo conquistare, organizzare e difendere il proprio principato.

La mia scuola non ha perso tempo e immediatamente si è organizzata per avviare la didattica a distanza, e in pochi giorni siamo partiti. Partiti, almeno in via teorica: dalle nostre clausure domestiche abbiamo organizzato le classi, creato le mail per i singoli studenti con account ufficiali, ma per riuscire a raggiungerli tutti e farli connettere ci abbiamo messo una settimana piena. La didattica a distanza ha questo limite: non avendo la scuola pubblica i mezzi per fornire ipad a tutti, si appoggia come può ai device che si posseggono privatamente: telefoni, computer propri o prestati, tablet familiari per i più fortunati. E poi c’è il problema dei giga: la rete internet a casa non ce l’hanno tutti, molti devono fare affidamento sulle connessioni a tempo del proprio smartphone, non sempre si possono scaricare tutti i materiali – le memorie dei cellulari sono limitate – o leggerli su un display minuscolo senza affaticarsi. Abbiamo rimandato i ragazzi sul sito del Ministero, dove una serie di accordi con le compagnie telefoniche hanno elargito in solidarietà digitale giga gratis e supporto tecnico. Ma non basta. Molti di loro sono rimasti fuori, non possono connettersi anche volendo, come alcuni dei nostri ragazzi immigrati, e immagino come possa essere diventata ancora più silenziosa e ovattata la bolla della loro mente, visto che non possono contattare né noi né i compagni, non possiamo vederci, non sappiamo come comunicare.

Il cambiamento è stato repentino anche per noi docenti, una riconversione della didattica e della scuola su uno strumento che era nato per integrare le lezioni in presenza anche se non era mai stato avviato, e che invece si è trovato a sostituirle. Succede spesso così, in casi di emergenza: si accelera un processo che ci avrebbe messo anni a realizzarsi pienamente, e lo si fa procedendo a tentoni, all’interno di un vuoto normativo e con connessioni che cadono per il troppo traffico, difficoltà a poter valutare e andare avanti con i programmi, riprovando di nuovo, sbagliando e poi ancora provandoci. Vedo ogni giorno i miei colleghi rimboccarsi le maniche e rimettersi a studiare, questa volta come funzionano le piattaforme di e-learning, e ci riescono bene, ci mettono una determinazione e una delicatezza che nulla hanno a che vedere con le maestre analfabete digitali che si limitano a caricare di compiti i ragazzi che vedo rappresentate in quasi tutti gli articoli e i post che leggo: una specie di Frankestein-docente creato per incanalare la rabbia e suscitare consensi, un mostro di categoria offerto in pasto alla pubblica frustrazione.

Come categoria, siamo incasellati in stereotipi da sempre: chi ti vuole insegnare come si insegna, anche se fa tutt’altro nella vita, chi invidia sospirando il tuo lavoro ma ne fa uno molto più remunerativo, chi ti rinfaccia le vacanze scolastiche, chi ti dà del parassita, perché ritiene che il nostro misero stipendio sia troppo alto per le 18 ore settimanali di contratto. Si sa che le ore non sono mai 18, ci sono i rientri e i collegi, c’è la formazione obbligatoria, i p.o.n. (programmi operativi nazionali, ndr) e i corsi a titolo gratuito, i progetti i recuperi e le correzioni dei compiti a casa, la preparazione delle lezioni e del materiale. Ormai li lasciamo parlare, soprattutto adesso che, reclusi in casa, siamo effettivamente dei privilegiati, ma solo perché continuiamo a lavorare e a percepire uno stipendio, un lusso di cui molti italiani in questi giorni non beneficiano.

L’accanimento di questi giorni, però, è ingiusto e fuorviante: abbiamo da anni a che fare con registri elettronici, seguiamo corsi on line, carichiamo domande di mobilità e aggiorniamo curriculum sul sito del Miur solo in formato digitale e persino i concorsi scolastici ormai sono per metà al computer. Tutti usiamo i social, internet e whatsapp, le lim (lavagne interattive multimediali, ndr) e i pc sono il modo in cui anche in tempi normali effettuiamo la didattica, io ho addirittura insegnato in classi totalmente digitali. Non tutti sono tecnologici allo stesso modo, è ovvio, ma questo è vero per qualsiasi professione, il resto si impara. 

Stiamo facendo del nostro meglio con quello che abbiamo e sì, ogni mattina ci svegliamo pensando agli studenti che non sappiamo come raggiungere, a chi resterà indietro, a chi non ha i mezzi e gli strumenti per poter partecipare, proviamo a richiamarli di nuovo, a vedere cosa possiamo fare, magari usiamo le chat invece che i pc pur di raggiungerli perché un telefono, almeno quello, più o meno l’hanno tutti.

Le nostre lezioni le registriamo, e le lasciamo disponibili in drive, così che si possano recuperare, e i materiali finalmente – penso ai miei studenti senza libri di testo – sono più facili da reperire e utilizzare. 

Ai miei studenti ho detto che questo modo di fare didattica non è male, che mi piace e che continueremo a utilizzare queste piattaforme anche dopo, quando torneremo in classe, perché non posso non pensare a quante opportunità di inclusione ci siano nella didattica a distanza proprio per i soggetti più deboli e fragili, per quelli malati, o disabili o con disturbi dell’apprendimento, per quelli che, per mille motivi, non riescono sempre a venire a scuola. Speriamo che la scuola non dimentichi, quando tutto sarà passato, che sappia farne tesoro.

Continuano a tornarmi in mente le parole di Mariangela Gualtieri in Nove marzo duemilaventi:

“E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.

Forse ci sono doni.

Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.”

Forse dobbiamo iniziare a cercare l’oro tra la sabbia, dobbiamo scavare per far emergere filoni di bellezza, e pazienza per il terreno sotto le unghie e per le volte che luccica ma non è oro, l’oro arriverà. Forse a questo sono chiamati, con i loro limiti di esseri umani in difficoltà, gli insegnanti e gli studenti tutti.

Quando ho iniziato le video lezioni temevo non ci sarebbe stato nessuno dall’altra parte: se non venivano a scuola in tempi di pace, figuriamoci in tempi di quarantena.

Partecipano tutti, anzi, molti di loro sono tornati a seguire, tanti di quelli che avevano mollato, li vedi apparire stesi sul letto o sullo sfondo bianco delle camere con i poster attaccati alle pareti o delle cucine illuminate dalla luce elettrica nel pomeriggio, ma in questa versione informale seguono meglio, si zittiscono l’uno con l’altro per ascoltarti, quando gli dici «mi fermo o spiego ancora?» li senti dire «vada prof, vada», consegnano i compiti, non tutti e qualcuno copia, come sempre, ma sono lì, in un modo nuovo in un mondo nuovo, dove è sparita la valutazione e c’è solo l’apprendimento puro, la condivisione di un momento, la vista di facce amiche e familiari e la voglia, forse, di apprezzare quello che si disprezza quando lo si ritiene un dovere, quando lo si dà per scontato. Un luogo dove ci sono meno interrogazioni e più condivisioni, dove ci sono prima di tutto le persone e il segno grigio dell’obbligo sbiadisce tra i pixel.

Non so ancora dire se questo insolito, miracoloso equilibrio si protrarrà fino alla fine della quarantena, ma sono fiduciosa che, se saremo tenaci, se ci aiutiamo, potremo commutarlo in qualcosa di buono per noi e per i nostri studenti, e so anche che non ci arrenderemo e continueremo a cercarli, strenuamente, in rete o di persona, per tentare di riportarli a scuola, per farli salire ancora su questo treno che potrebbe migliorare il loro futuro.

Qualche giorno fa sono tornata al supermercato vicino casa, dovevo fare un po’ di spesa ma in realtà speravo di incontrare Mauro. Ed era lì, che preparava una consegna a domicilio. Quasi non ci riconoscevamo bardati come eravamo dietro guanti di lattice e mascherine. Ci siamo parlati a distanza di sicurezza.

«Torna a scuola», gli ho detto, «prova a connetterti, ti prego».

«Finisco tardi prof, finisco stanco.»

«Non fa niente, tu prova, guarda che le lezioni e i materiali rimangono lì, puoi recuperarli quando vuoi, anche se non puoi fare le videolezioni non importa, basta che le vedi anche in un secondo momento ma dacci un cenno, fatti vedere, non perdere questa opportunità di rimetterti al passo, dai che sei bravo. Non ti vogliamo perdere, non vogliamo che tu ti perda.»

«Va bene prof, ci proverò.»

Non si è ancora connesso, Mauro, controllo ogni giorno e ogni giorno lo aspetto. 

È questo il mio lavoro. E se Mauro non torna il mio compito, prima di insegnare, è continuare a cercarlo.


(doppiozero.com, 7 aprile 2020)

di Tiziana Nasali


Dopo il movimento MeToo e le elezioni di medio termine del 2018 che avevano visto molte elette al Congresso, sembrava arrivato il momento per la candidatura di una donna alla presidenza degli Usa. Il New York Times, il più importante quotidiano statunitense, in vista delle primarie, aveva deciso di sostenere due candidate, Elizabeth Warren e Amy Klobuchar, spiegando che erano “le migliori scelte per i democratici” e dichiarando che era giunto il tempo che fosse una donna a diventare presidente degli Stati uniti.

Ma l’appello basato sull’appartenenza a ungenerenon ha dato i risultati sperati: un mese dopo l’avvio delle primarie nel campo democratico, che all’inizio contava diverse donne, restano in corsa due uomini, bianchi e di età avanzata e allora il New York Times riferisce che molte femministe sono deluse che la competizione per la scelta del candidato democratico alla presidenza degli Usa sia fra due uomini.

Cosa ha fatto ostacolo alla candidatura di una donna?

Il quadro è abbastanza complesso.

1. Innanzitutto le candidate non hanno avuto l’appoggio di tutte le femministe: alcune avevano dichiarato di votare per Sanders, che si qualifica come socialista democratico, proprio perché femministe, sostenendo che, anche se sarebbero state contente di vedere una donna candidata alla presidenza, solo Sanders avrebbe offerto l’opportunità di costruire un movimento che potesse davvero migliorare la vita della stragrande maggioranza delle donne.

2. Poi ci sono le donne -e gli uomini- per lo più appartenenti alla Sinistra socialista che non hanno sostenuto le candidate che si richiamano alla differenza sessuale: le accusano di difendere il sesso biologico e di opporsi alla ideologia gender e transgender. È cronaca recente che i Laburisti britannici e la Sinistra spagnola stanno discutendo l’espulsione delle proprie componenti femministe dal momento che queste si ostinano a contrastare l’ideologia gender e a difendere, invece, la differenza sessuale.

3. Altra obiezione alla candidatura di una donna, proveniente da donne e da uomini, è stata quella fondata sul presupposto che un macho come Trump possa essere sconfitto solo da un altro macho, come dimostrerebbe il precedente di Hillary Clinton. Il precedente, ovviamente, non dimostra questo, ma solo, forse, che c’è un elettorato che difficilmente voterebbe una donna perché ancora prigioniero di una cultura sessista, ai limiti del machismo, che attribuisce più valore agli uomini…

Ci sono, dunque, donne -e uomini- che mettono l’appartenenza al sesso femminile in secondo piano rispetto a questioni di classe, di razza etc. E ci sono donne, a mio parere, che per paura che la sottolineatura dell’appartenenza al sesso femminile comporti la discriminazione di altri soggetti, si negano la libertà di riferirsi esplicitamente alla categoria di donna. Ci sono donne -e uomini- che si fanno catturare da una cultura machista e sessista. Ci sono poi uomini -e anche donne- che usano le candidature femminili come segno di modernità, dei tempi che cambiano, del politically correct e non per vera convinzione. Spero che Joe Biden, che i risultati danno come probabile candidato per i democratici, quando ha dichiarato “Se diventerò presidente formerò un’amministrazione che somigli di più al Paese. E fin d’ora m’impegno a scegliere un vice di sesso femminile” l’abbia fatto per reale interesse a misurarsi con la ricchezza che le donne possono portare nella vita politica.

Nello scenario odierno le contraddizioni sono tante. Malgrado la forza dei movimenti femministi, negli Usa come in Europa, la sinistra sembra confidare poco nelle donne, che fanno più carriera a destra: la maggioranza di quelle che occupano posti ai vertici, istituzionali o di partito, sono le donne che scelgono di stare con la destra, dai conservatori fino alla destra estrema. Destra che, nello stesso tempo, sta attuando una controffensiva, complici le donne, che ha come primi bersagli proprio le donne e i diritti civili. Insomma c’è un grande disordine simbolico in cui è difficile orientarsi se non si ha come primo obiettivo quello della modifica dell’ordine simbolico stesso…

Dal momento che non conosco dettagliatamente le ragioni della delusione delle femministe americane per il risultato delle primarie, cercherò di interrogare la mia. Con coloro che difendono il gender contro la differenza sessuale e con coloro che si ritrovano in una cultura sessista non sono, per il momento e per ragioni diverse, interessata a confrontarmi.

Sono invece più interessata a confrontarmi con le donne che in qualche modo si richiamano al socialismo. Ho sempre pensato anch’io che la rappresentanza parlamentare sia rappresentanza di interessi e non di sesso. La carriera che le donne fanno a destra lo dimostra: spesso prendono posizioni che non vanno nella direzione di iscrivere nell’ordine simbolico la libertà femminile, e talvolta votano provvedimenti che addirittura peggiorano la vita quotidiana delle donne. Quando sono brave e determinate, come o più dei loro compagni uomini, nulla osta alla loro elezione e sono votate anche dagli uomini dal momento che aderiscono a una visione del mondo che non scalfisce l’ordine simbolico dato: le vediamo stare sulla scena pubblica con la baldanza di chi ce la fa nonostante donna. È invece più complicato per una donna che ha a cuore la giustizia sociale e soprattutto la libera espressione della sua differenza femminile. La libera espressione della differenza sessuale richiede un continuo e difficile lavoro simbolico che incontra resistenze tradizionali e resistenze nuove come quelle del gender.

Sono molto contenta che il MeToo sia riuscito a far crollare un sistema di potere che sembrava inattaccabile. Esso ha segnato una rottura: finalmente le donne che hanno denunciato le violenze sessuali sono state credute e sempre più uomini si stanno dissociando dai loro simili, tanto da poter dire che è in atto un cambio di civiltà. Non posso, tuttavia, nascondere il rammarico che una donna come Warren, che a detta di esperti, aveva un programma decisamente buono, non abbia goduto, da parte di donne e uomini, del credito necessario per governare il Paese.


(www.libreriadelledonne.it, 30 marzo 2020)

di Silvia Baratella


Il coronavirus ha rovesciato molte cose e molte delle rappresentazioni che ne facciamo. Ha prodotto effetti spiazzanti in molti campi, e credo che sarebbe sbagliato giudicare questi effetti secondo schemi tradizionali e più utile invece provare a vederli in una luce nuova, cercando di cogliere le possibilità di cambiamento che offrono o i cambiamenti già avvenuti che rendono visibili. Per esempio, l’effetto della pandemia sulla vita delle donne, di cui parla anche Silvia Motta su questo stesso sito (Di diverso e di più,26 marzo 2020).

Tra le cose da esaminare c’è il modo in cui uomini e donne si muovono sulla scena, quella pubblica e quella privata. Su quella pubblica gli uomini come sempre non mancano, ma a ben vedere neanche le donne: ci sono le tre ricercatrici che hanno isolato il virus; ci sono infettivologhe e virologhe che spesso danno ai media spiegazioni più chiare e articolate dei loro colleghi maschi; c’è l’infermiera sfinita alla fine del turno di lavoro che è diventata il simbolo della strenua lotta di uomini e donne negli ospedali italiani. In politica, oltre ai soliti Conte, Speranza, Zaia e Fontana, ci sono donne che agiscono in alti ruoli istituzionali: la sottosegretaria alla salute Zampa, la ministra Lamorgese, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde. Insomma, il virus illumina un’umanità fatta di due sessi, che non si esaurisce nell’uomo con la U maiuscola dei vecchi libri di scuola. Lamentare un’invisibilità femminile mi sembra che ci ricacci tutte indietro, anche se convengo che i media non farebbero male a prestarci più attenzione.

E sulla scena privata? Se ne sa meno, essendo appunto privata, e ha anche dei gravi punti oscuri, per esempio la sorte delle donne che già convivevano con uomini violenti e che ora sono chiuse dentro insieme a loro a tempo indeterminato. Lo ricorda anche Silvia Motta, raccontando un bell’esempio di via fuga allestito per loro dalla giunta regionale delle Canarie.

Ma le donne che vivono con gli altri uomini, quelli non maltrattanti? Sulla vita delle famiglie “normali” il nostro immaginario si è già fatto un’idea, espressa dalle frequenti rimostranze perché, con le scuole e i servizi chiusi, il peso di tutti i compiti di cura grava sulle donne. Ma dev’essere per forza così? Gli uomini, come le donne, in questo momento sono a casa. Anche loro devono condividere il “lavoro agile” con la presenza di figlie e figli, pasti da preparare, bucati da fare. Chi ha detto che dobbiamo far finta che non possano occuparsene? Stavolta non hanno vie di scampo: né lavoro, né bar, né sport, né attività politica. Non ci sono più scuse da accampare, evitiamo di offrirgliele noi dando per scontato che sarà come sempre: nulla è come sempre, in tempo di coronavirus. Se le donne sono diventate visibili nella vita pubblica, adesso è il momento di rendere visibili gli uomini nel privato. Quelli che commettono abusi, da neutralizzare prima possibile, quelli che non hanno più alibi per non rimboccarsi le maniche e quelli, sono sicura che ci sono, che già se le sono rimboccate.


(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2020)

di Silvia Motta


Cosa faremmo noi donne di diverso e/o di più di quello che tante e tanti stanno già facendo da quando il coronavirus ha fatto irruzione nel mondo degli umani?

Questa domanda si insinua continuamente nella mia mente ed è quasi un pensiero molesto perché mi sembra di fare torto a quella grande quantità di donne e uomini che oggi sono in prima linea nella sanità, nella politica, nell’economia, nei servizi indispensabili.

La foto che ha fatto il giro dei giornali e del web, quella di Elena Pagliarini, l’infermiera dell’ospedale di Cremona che alla fine del turno si addormenta stremata sulla scrivania, mi si para di fronte quasi come un rimprovero. Sembra dirmi: cosa ne sai tu? Ti permetti di criticare?

Poi però mi viene in mente la scienziata Ilaria Capua che in un’intervista video per La Repubblica.it dice: «Le donne che già hanno vita difficile senza la pandemia, durante la pandemia hanno vita ancora più difficile».

Sì, per molte donne la vita diventa ancora più difficile. E penso subito alle tante “mancanze” che una visione prevalentemente maschile perpetua anche in questa situazione indubbiamente nuova.

Eccone (solo) alcune:

– Non basta dire “state a casa”. Bisogna, in contemporanea, fornire una via d’uscita per quelle donne che nella coabitazione forzata si troverebbero a tu per tu con uomini violenti o privi di capacità di sopportazione dei disagi. Per esempio– lo apprendo da La Repubblica di domenica 22 marzo – il governo regionale delle Canarie ha preso un provvedimento che tiene conto di questo. Con il nome in codice “Mascarilla 19” (“mascherina 19”) ci si può recare in farmacia e il farmacista sa di dover avviare immediatamente un protocollo di emergenza. Bisogna escogitare qualcosa di simile anche qui da noi.

Si sta ignorando il surplus di lavoro a cui le donne chiuse in casa sono sottoposte: bambini da accudire, anziano da curare, spesso mariti da assistere o da sopportare. Andrebbe prevista la babysitter o un’assistente domestica o a scelta un congruo contributo in denaro per tutte, non solo per le donne che abitualmente lavorano furi casa (le uniche riconosciute anche dai sindacati come “lavoratrici”).

– Andrebbero preparate delle linee guida per uomini disorientati dall’inedita convivenza con la famiglia e con i suoi bisogni. A questo proposito è illuminante la gag che gira tra i numerosissimi (e benvenuti) messaggi sdrammatizzanti di questi giorni. Lui dice: “Io è da ieri che sto in casa con la mia famiglia… sembrano brave persone!”

– Non è bello che le informazioni importanti in TV siano date tutte da maschi, quando si sa che le donne sono centrali nella gestione del contagio. Non dico che ci vorrebbero delle quote, dico che ci vorrebbero le donne. Non mancano certo le donne con esperienza, competenza e speciale intelligenza, ma l’apparizione pubblica rispecchia le gerarchie e occupare i piani alti nelle agenzie, nelle aziende e nei servizi è molto difficile. Difficile in tutto il mondo e in Italia di più.

– È ridicolo che nell’ambito della scienza e si interpellino quasi solo i maschi, quando le scoperte notevoli sul coronavirus sono state fatte da donne (le ricercatrici del Sacco, le scienziate dello Spallanzani, l’anestesista Annalisa Malara che da vera creativa ha pensato “l’impossibile” e ha scoperto la prima persona italiana con il coronavirus). Senza trascurare che nei laboratori dove si fanno queste scoperte ci sono tante giovani donne, preparatissime, precarie, malpagate e sottovalutate.

Insomma, anche all’epoca del coronavirus, più o meno consapevolmente, si rischia di rendere invisibili le donne. Oggi però siamo dappertutto, in una certa misura anche in ruoli influenti. E abbiamo cose importanti da dire.

Tra le cose importanti da dire ecco alcuni stralci di una bella intervista di Felice Cimatti a Manuela Fraire, nota psicoanalista e femminista, nella trasmissione “Uomini e profeti. Il tempo del perturbante” andata in onda su RAI 3 domenica 22 marzo.*

L’intervistatore le chiede: In Italia la parola “casa” fa pensare a qualcosa di caldo, femminile, materno, ad aspetti belli. C’è qualcosa di bello in questo appello del ritorno a casa, qualcosa che risuona in questo luogo?

Manuela Fraire: «Ho letto una notizia… non si capisce perché è così più bassa la percentuale di donne che non contraggono il virus. Non si sa il perché. Ma quando lei dice “casa” io penso che casa è una prima roulotte, il mezzo di trasporto che noi sperimentiamo nella vita ed è il corpo pregno, il corpo della donna incinta. Quella è la casa. La prima immagine che abbiamo è di un luogo che ci fornisce ciò che serve per la sopravvivenza e che resta in vita esso stesso, un luogo che vive la propria vita tanto da poter alloggiare la nostra vita. […] Questo cosa vuol dire, che dobbiamo dedicare tutto alla maternità? No, ma al modo come la nostra specie digita per la prima volta l’interno di un altro e come viene digitato dall’altro. Forse che non possiamo dire che la nostra è una specie che vive attraverso uno dei soggetti della specie che è abitato da un altro? Allora la donna dice ‘io sono l’altro’ che fa l’esperienza di avere dentro un altro che per di più cresce e si sviluppa a prescindere dalla mia volontà. È l’altro. Molte fantasie di donne incinte sono di avere un bambino desiderato che può diventare un alieno dentro… la gravidanza potrebbe non andare bene. Quell’oggetto desiderato diventa un virus, un mostro. […] Questa è un’esperienza che facciamo continuamente.

Ci rendiamo conto di che opportunità è questa per chiederci qualcosa? Lo possiamo dire perché siamo in un momento in cui la scienza e la tecnica sono dalla nostra parte, finalmente le possiamo utilizzare non per alienarci».


* L’intervista integrale dura quasi un’ora, tocca altri temi interessanti come il silenzio delle città, l’esperienza di non potere avere contatti, il virus come l’altro invisibile tra noi e l’altro, la novità di poter entrare nelle case degli altri a distanza, come avviene per molti tipi di lavoro (insegnanti, analisti, impiegati ecc.).


https://www.raiplayradio.it/audio/2020/03/UOMINI-E-PROFETI–Il-tempo-del-perturbante–d46b792d-9eb7-4b44-87df-0475c9dc524a.html


(www.libreriadelledonne.it, 25 marzo 2020)

di Massimo Lizzi


Se donne e uomini sono in prima linea nella lotta al coronavirus, possiamo immaginare che, negli ospedali, il peso più grande nel soccorso e nella cura dei contagiati sia retto dalle donne. Mediche e infermiere. Le immagini simbolo di questo sacrificio sono infatti raffigurate da donne. Come la foto di Elena Pagliarini, l’infermiera stremata che si addormenta per cinque minuti sulla tastiera del computer con addosso cuffia, mascherina e guanti di lattice. O il disegno dell’infermiera che prende in braccio l’Italia, divulgato dall’associazione dei carabinieri di Chiaravalle.

Benché siano ancora prevalenti gli uomini nella comunicazione pubblica, abbiamo visto affermarsi molto bene come esperte alcune donne spesso consultate dai media. Ilaria Capua, virologa ed ex deputata italiana, nota per i suoi studi sui virus influenzali, in particolare, sull’influenza aviaria. Maria Rita Gismondo direttrice del reparto microbiologia e virologia all’Ospedale Luigi Sacco di Milano. Roberta Villa, giornalista scientifica, a lungo collaboratrice del Corriere della Sera.

La prevalenza maschile nella comunicazione pubblica ha i suoi soliti e noti motivi. Il retaggio patriarcale. Le posizioni di potere occupate soprattutto dagli uomini. Il superiore narcisismo dei maschi.

Detto ciò, credo ci sia una ragione particolare che giustifica il prevalere della parola pubblica degli uomini. Una parola allarmata, aggressiva e impositiva. La parola maschile sembra più adatta alla situazione di emergenza. In effetti, le donne intervenute nel dibattito pubblico, si sono affermate come punto di riferimento proprio nei giorni in cui sembrava importante contenere il panico. Il loro messaggio era rassicurante, riflessivo, persuasivo. A rischio però di favorire la sottovalutazione.

Comunicare sul coronavirus è complicato. Per evitare il panico, occorre dire che possiamo preoccuparci poco come singoli individui. Giovani, adulti, sani, anche se infettati, rimangono quasi sempre asintomatici o con sintomi lievi. Sono l’80 per cento dei contagiati. E potenziali vettori di contagio. Per evitare la sottovalutazione, occorre dire che dobbiamo preoccuparci molto come società. Perché, la minoranza percentuale dei contagiati, per lo più anziani o già affetti da altre patologie, forma in cifra assoluta un numero sempre più grande. Che diventa superiore ai posti disponibili in terapia intensiva negli ospedali. Superato questo limite, i medici dovranno decidere chi salvare. È vero che il servizio sanitario nazionale è stato colpevolmente indebolito dalle politiche neoliberiste di austerità e privatizzazione, tuttavia, se anche i posti in rianimazione fossero di più, persino infiniti, sarebbe impensabile lasciarli occupare a oltranza.

Questo doppio messaggio, preoccuparsi poco per sé e molto per la collettività, è assai difficile da far passare in una società individualista. Tra una popolazione con un debole senso civico, poco disposta all’osservanza delle regole, alle rinunce e ai sacrifici. Refrattaria a fare o non fare qualcosa per il bene pubblico, senza sentirsi motivata dal timore di un danno personale immediato. A volte, neppure questo è sufficiente. Basti pensare al comportamento autodistruttivo individuale dei fumatori, degli alcolisti, dei tossici, degli obesi. O degli automobilisti che non rispettano il codice della strada. Più o meno consapevoli dei rischi individuali, ma individualmente affidati alla speranza di farla franca. Anche questi, in genere, più uomini che donne.

La gestione di una situazione d’emergenza, che è pure una lotta contro il tempo, richiede un messaggio d’autorità molto forte. Se la politica e la scienza medica sono in crisi d’autorità, devono fare lo stesso la cosa giusta e necessaria, anche assumendosi la responsabilità dell’autoritarismo. Questa parte, ad oggi, è meglio interpretata dagli uomini.

Va detto, a disonore degli uomini, che i più riluttanti nel reagire all’emergenza sanitaria sono stati proprio i leader maschi più autoritari e conservatori in Occidente. E che sono spesso maschi quelli che fanno opposizione contro le necessarie misure di emergenza. O per il riflesso di un ideologismo demenziale, che vede in ogni emergenza un’invenzione del potere per giustificare i suoi dispositivi autoritari. O per far prevalere le ragioni dell’economia. Sono uomini i tanti imprenditori che costringono ancora centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori ad andare al lavoro per svolgere mansioni e servizi non essenziali. Così, come sono uomini i responsabili di un modello di sviluppo globalizzato che ha creato le condizioni ideali per l’espansione di una pandemia virale, mai così rapida e travolgente.

Che le donne sembrino meno adeguate a comandare nell’emergenza, non vuol dire che non siano efficaci con il loro stile. Molto efficace, per esempio, è stata la dottoressa Barbara Balanzoni. Ex tenente medica dell’esercito italiano in Kosovo, accusata di disobbedienza continuata e aggravata, ma poi assolta, per aver salvato una gatta che stava morendo di parto. Anestesista, medica forense plurititolata, con base nel veronese, è laureata anche in Giurisprudenza Il 4 marzo, prima dei decreti del governo, si è ripresa in video, con un contegno severo, per lanciare un appello diretto e accorato, condiviso migliaia di volte e ripreso dai principali giornali. Ha detto: Vedo troppa gente in giro. C’è un grave pericolo di contagio. I respiratori stanno per finire e di anestesisti non ce ne saranno più. Perciò dovete stare a casa.


(www.libreriadelledonne.it, 23 marzo 2020)