di Antonella Nappi
L’animo di vedere chi ti sta davanti, un attimo, come dice Luisa Muraro (A proposito di gentilezza), uno sguardo di intesa: ti vedo! L’apertura a vedere che l’altra c’è è l’apertura al riconoscimento della sua esistenza, personalità, azione e pensiero. Sì, dice molto, moltissimo: invece che sole con se stesse ci si mette in apertura all’altra. Perché? Perché ci relazioniamo invece di restare sole. Relazionarci è il grande guadagno di sentire che l’altra c’è. Non ci vuole tanto tempo o ce ne vuole tantissimo, ma quell’attimo di vista è un ascolto, più ti disponi a vedere e sentire, ad interagire più ti piace conoscere un’altra persona. Qualcuna va avanti un’intera vita.
Il 13 novembre è il giorno della gentilezza (ndr)
Metro, 12 novembre 2010
L’eroismo dei gentili
di Luisa Muraro
Per chi vuole coltivare in sé e intorno a sé la gentilezza, questi sono tempi eroici. A formare una persona gentile contribuiscono il suo temperamento, l’educazione ricevuta e la cultura circostante: nella nostra società non mancano persone spontaneamente inclini alla gentilezza così come non manca l’educazione di base nelle famiglie e nelle scuole, ma è franata la cultura sociale. Le nemiche della gentilezza, villania e volgarità, trionfano sulla scena sociale. Non è colpa di nessuno, le cose sono andate così. Tutti invocano un po’ di gentilezza, pochi la offrono. D’altra parte, non si può comprarla (quella che si compra è finta). Si riceve in regalo e si ricambia. Si può anche cercare di produrla in proprio e offrirla a chi non la conosce. È contagiosa, ma meno delle sue nemiche. Come posso insegnare la gentilezza ai miei alunni, mi ha chiesto una prof. Come si insegna un’arte marziale, le ho risposto: le mosse giuste, il senso della misura, la nobiltà d’animo; alle alunne, insegna a non imitare i villani e a coltivare la differenza femminile insieme alla forza: nessuno si permetta di crederle deboli perché gentili, tutto al contrario.
Confesso che, personalmente, non sono sempre gentile con le persone che conosco: con queste esprimo a volte la violenza congenita che ho dentro, fidando nel nostro rapporto. In compenso, sono gentile con le persone sconosciute in cui ci si imbatte nel caotico mondo di oggi. Dicono che per essere gentili ci vorrebbe del tempo e noi non ne abbiamo, io mi sono specializzata in una gentilezza mordi e fuggi: un sorriso e uno sguardo d’intesa, a chi? A un essere umano. Quello che propongo non è certo un buon esempio, ma un’idea: concediamo alle nostre vite e alle nostre città il lusso di essere ogni tanto gentili per la pura gioia di esserlo.
(Metro, 12 novembre 2010)
(13 novembre 2024)
di Silvia Baratella
Le leggi hanno scarsa efficacia quando tentano di forzare dei cambiamenti nella società, e peraltro di solito registrano invece quelli già avvenuti. In questo caso hanno anche una valenza simbolica, perché la norma esprime la trasformazione di quello che è condiviso dalla comunità e quello che considera inaccettabile, diventando a sua volta orientante. Una parte del femminismo chiede una messa al bando mondiale della pratica che viene definita “gestazione per altri”, sia per sradicarla, sia per marcare a livello simbolico che in tutto il mondo è inaccettabile assoggettare corpi altrui alla realizzazione dei propri progetti, che è illegittimo imporre pratiche mediche potenzialmente nocive a donne sane, “prenotare” e pagare neonate e neonati come se fossero articoli di merce prodotti su misura. Per questo molte, all’estero e in Italia, hanno accolto con favore la recente legge italiana che stabilisce la perseguibilità in Italia della surrogazione di maternità, già reato da vent’anni, commessa da cittadini italiani anche se all’estero. Dall’estero, estranee al contesto in cui la legge è stata approvata e ignorandone i termini precisi, molte la vedono come un primo passo verso l’internazionalizzazione del divieto, come un’importante occasione da cogliere. Qui in Italia però dobbiamo trattare la questione in modo più approfondito.
La norma dovrebbe avere un taglio che sancisca il riconoscimento dell’inviolabilità del corpo femminile per avere l’impatto simbolico che desideriamo come femministe, ma non è affatto così. Il reato di cui si estende la punibilità è stato istituito dalla legge 40/2004. Va ricordato che questa legge non è ispirata all’autodeterminazione delle donne: mira a “tutelare” l’embrione a prescindere dalla madre, facendone un potenziale portatore di un conflitto di interessi con lei, come se potesse esistere e svilupparsi scisso dalla madre e quindi dalla sua volontà. La logica non è quella dell’inviolabilità del corpo femminile. Il punto oggetto dell’intervento legislativo è il comma 6 dell’articolo 12, che recita: «Chiunque, in qualsiasi forma,realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni ola surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». «Chiunque», «in qualsiasi forma», «realizza» è una formula che mette la gestante e la fornitrice di ovuli sullo stesso piano dei soggetti che dispongono dei loro corpi per i propri fini, vantaggi o profitti: agenzie di intermediazione, cliniche, committenti. Il torto non è ridurre a mezzi di produzione le donne coinvolte, ma l’uso dei gameti e degli embrioni. Questo taglio può essere davvero d’aiuto a una battaglia contro la gpa centrata sull’inalienabilità della libertà delle donne e sulla relazione tra madre e figlia o figlio come fondamento della nostra umanità?
La pratica della maternità surrogata va sradicata internazionalmente, certo, perché dove è legalizzata consiste nel legittimare contratti privati inaccettabili, che violano un sacco le convenzioni internazionali sui diritti umani ratificando il controllo totale di ogni aspetto della vita e del corpo della gestante, la sua perdita di libertà d’azione e d’espressione, la costrizione a subire trattamenti medici che ne mettono a repentaglio la salute, e si concludono di fatto con la compravendita di una neonata o un neonato, separato traumaticamente dalla madre. Non si può sradicarla però se non si considera uno dei due soggetti coinvolti, la madre, o forse nessuno dei due, dato che il comma 6 dell’art. 12 si preoccupa di gameti ed embrioni, ma della neonata o del neonato non fa menzione.
Quello di cui c’è bisogno è un nuovo patto di civiltà che rompa il “contratto sessuale” ereditato dal patriarcato e rifondi a partire dalle donne i principi di indisponibilità del corpo al mercato e l’inalienabilità della libertà umana, che attualmente in Italia e nel mondo sembrano essere compresi solo se attagliati sul corpo maschile, che ne è stato il modello fondante e il beneficiario intenzionale.
A rendere più opaco l’impatto di questo provvedimento contribuisce l’aura nefasta di due anni di leggi repressive con cui il governo in carica ha creato decine di nuovi reati e ha inasprito le pene di quelli esistenti, inquadrandolo in un disegno repressivo piuttosto che di riconoscimento di libertà femminile, aggravato dai commenti con cui la presidente del Consiglio ne ha accompagnato l’iter, per esempio che «non bisogna perdere la specificità del ruolo della madre e del padre», commenti che rimandano più a rigide divisioni di ruoli familiari e all’imposizione della presenza della figura paterna.
(www.libreriadelledonne.it, 7 novembre 2024)
di Daniela Santoro
La prima volta in cui ho sentito parlare di gestazione per altri (GPA) è stato all’incirca dieci anni fa, in concomitanza con la legge Cirinnà sulle unioni civili. Già allora bazzicavo ambienti più o meno politici, più o meno reali – direi più virtuali che altro. Già allora facevo dell’ora di religione in classe occasione di dar voce alle mie remore relative al sistema che allora chiamavo “eteropatriarcale” in cui mi vedevo calata. Così un giorno finimmo a parlare di questa famosa GPA. Ovviamente mi sembrava scontato definirmi pro alla pratica, anche in senso di bastian contrario con quanto comunicato dai miei compagni maschi e/o cattolici e/o omofobi.
Mi sono portata dietro questa posizione a lungo, un po’ sollevata dallo slogan l’utero è mio e lo gestisco io: mi sembrava una posizione di libertà, non sapevo fosse una posizione liberista. Il badge di “pro-GPA” si aggiungeva alla mia fascetta da brava femminista, attiva su ogni fronte, pronta a ripetere ogni serie di slogan appresi nei vari circoli cassa-di-risonanza.
Ho iniziato a pormi più domande in merito alla pratica solo avvicinandomi al pensiero della differenza, quando ho iniziato a leggere i testi delle cosiddette “femministe storiche”, quando ho iniziato a studiare, a leggere, tutto per i fatti miei, lontana dalla bolla del femminismo del terzo millennio. Ho iniziato a pormi più domande in merito quando ho trovato il modo di relazionarmi con altre donne alla ricerca di un nuovo pensiero critico, lontano dagli slogan, lontano dai settarismi, dai vari pro e contro. Ho incontrato voci di donne del passato e del presente che mi hanno tolto la spilla sulla fascia e mi hanno fatto riflettere sulle contraddizioni tra libertà e liberismo: come potevo io – che avevo passato l’estate a leggere Il Capitale – accettare passivamente queste nuove logiche del tardo capitalismo che mercifica ogni aspetto della vita? Così ho letto di molte donne e femministe che da anni studiano e scrivono per una presa di coscienza allargata.
Allo stesso tempo ho letto contro queste donne commenti abietti, carichi di prese di posizione e strumentalizzazione, figli della logica binaria che ora pervade e appiattisce il discorso politico, soprattutto sulla GPA. Così se sei “pro”, ecco la tua spilletta, sei con noi, fai parte di qualcosa di bello, sei progressista, sei aperto, sei giovane, sei bello. Se sei anche solo dubbioso, sei “contro” e se sei “contro” non sei solo contro la GPA, sei “contro” tutto, sei contro di noi, sei cattolico, sei bigotto, sei fascista, sei chiuso e devi stare zitto.
Ho avuto paura di esprimere la mia posizione insieme ai miei conoscenti. Ho avuto paura delle dita puntate, della strumentalizzazione delle mie opinioni, di sentirmi dare della fascista catto-bigotta solo perché ritengo che una transazione economica non sia il non-plus-ultra della libertà femminile. Mi sarebbe piaciuto dirlo ad alta voce, a una cena. Mi sarebbe piaciuto dire «Ritengo che questa legge sia l’ennesima strumentalizzazione del corpo delle donne, che vuole strizzare l’occhio al conservatorismo imperante nell’ambito di una serie infinita di provvedimenti repressivi e che non sarà mai la soluzione al problema; però dobbiamo ricordarci che la GPA è l’ennesima mercificazione del corpo delle donne al servizio del sistema capitalista, non è libertà, è l’ennesima prigione», ma non l’ho fatto. Sono stata zitta e ho continuato a mangiare. Ho pensato a quello che avrebbero potuto dire su di me, come avrebbero travisato la mia posizione, come sarebbe andata a finire e sono stata zitta.
Così il liberismo si appropria del corpo delle donne e del discorso politico che lo circonda. Annacqua le pratiche, scioglie le relazioni e strumentalizza la lotta. Con questo binarismo si annulla il dialogo, che viene sostituito con shitstorm e porte in faccia. Allora forse, quando sono contro, mi tengo tutto per me: così non perdo il mio badge.
(www.libreriadelledonne.it, 6 novembre 2024)
di Michela Spera
La discussione aperta dall’intervento di Laura Colombo e da quello di Paola Mammani e Tiziana Nasali mi riguarda e credo riguardi tutte noi.
Sono contraria alla maternità surrogata; non sottovaluto e provo rispetto per il desiderio di maternità e di paternità – di tante donne e tanti uomini – che per ragioni diverse non si può realizzare; nonostante questo non riesco a sopprimere in me il sentimento di rifiuto per la contrattualizzazione commerciale del corpo delle donne e della maternità, non riesco a non provare indignazione per la separazione programmata di una neonata o di un neonato dalla madre. Sono femminista ma sono sicura che non sia determinante essere femminista per condividere queste mie convinzioni profonde.
Io non riesco a esultare per la recente approvazione al Senato del provvedimento legislativo che interviene sulla legge 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che estende l’illiceità della procedura, già vietata in Italia, anche all’estero e mi ha colpito la denominazione di “reato universale” per perseguire accordi commerciali stipulati in altri luoghi del mondo – da alcune donne e alcuni uomini – per soddisfare il loro desiderio di maternità e di paternità.
In ogni famiglia c’è esperienza di creature cresciute da zie o zii o altre persone di famiglia senza figli; nei rapporti sociali è stata e, secondo me, resta la “risposta universale” al desiderio di maternità o paternità a chi non riesce, non riusciva, a realizzare il proprio desiderio e non può o non vuole ricorrere ad accordi commerciali per realizzarlo.
La legge del 2004 rispondeva al sentire di chi voleva opporsi all’introduzione in Italia della gestazione per altri (GPA), a quella commerciale e a quella cosiddetta solidale.
Quello che invece è avvenuto con il provvedimento legislativo del 16 ottobre ha, secondo me, un segno e una direzione diversa determinata dalla spinta dei movimenti pro-vita e dai partiti politici che vogliono riportare i rapporti sociali tra uomini e donne all’ordine simbolico e sociale del patriarcato. E a me poco importa che sia una donna a condurre o a intestarsi il gioco.
Ragioniamo dei rapporti di forza in campo, nel parlamento e nel paese; sostenere che in questa decisione il femminismo abbia orientato la politica è secondo me velleitario e un pericolo per l’autonomia della pratica e del pensiero politico del movimento delle donne.
Il femminismo ha modificato radicalmente i rapporti sociali, e dal pensiero politico della differenza sessuale sono nate le pratiche che hanno reso possibile questo cambiamento.
Tuttavia, persiste il rischio che parole e pratiche femministe vengano travisate dalla politica dei partiti. Dovremmo oggi interrogare il travisamento, il femminismo delle origini lo ha fatto a partire da Carla Lonzi.
Sicuramente «la presenza attiva di donne consapevoli e appassionate» ha impedito che si soffocasse il sentimento di rifiuto verso la gestazione per altri nonostante la “propaganda” di un pensiero che giustifica questa pratica con il desiderio di maternità e paternità e nega la differenza sessuale.
Ora serve esprimere la stessa autonomia – di pratica e di pensiero politico – nei confronti della “propaganda” di un pensiero che mette al centro la donna “madre” e la famiglia patriarcale e che in questo orizzonte interviene legislativamente anche sulla procreazione per altri.
In assenza di questa autonomia «ci sono tutte le premesse di una sconfitta» per il pensiero della differenza e non si troveranno parole nuove per le nostre pratiche politiche; la differenza sessuale sarà declinata nel ruolo assegnato da altri e inevitabilmente useremo le loro parole.
(www.libreriadelledonne.it, 5 novembre 2024)
di Clara Jourdan
La legge che estende la sanzione per la surrogazione di maternità prevista vent’anni fa (dalla l. 40/2004, art. 12 c. 6) «anche se il fatto è commesso all’estero», approvata dal Senato il 16 ottobre scorso, è opera della maggioranza parlamentare di destra ma l’impulso è venuto da gruppi femministi italiani e di altri paesi che da tempo si battono contro l’utero in affitto o gestazione per altri. Però non tutte le donne impegnate in questa lotta sono d’accordo con l’istituzione del cd “reato universale”, c’è discussione anche in questo sito. C’entra il fatto che la legge è stata proposta e approvata dalle destre e la sua strumentalizzazione fa problema, ma l’obiezione di fondo è che «la via non sia la criminalizzazione per legge» (Laura Colombo, Conquiste del femminismo?, 17 ottobre 2024). Sì, la via è agire per «una presa di coscienza allargata». Tuttavia proprio per questo considero questa legge un aiuto, perché il diritto ha una funzione simbolica prima che repressiva. Si tratta di un simbolico maschile di eredità patriarcale, certo, ma sulle grandi questioni di civiltà può sostenere la possibilità di un altro ordine di rapporti.
Penso alla prostituzione: come aveva capito e lottato Lina Merlin negli anni ’50 in Italia, per abolirla serve penalizzarne lo sfruttamento. Non è bastato e non basta, è evidente, a sradicare questa forma tenace della sessualità maschile, ma è un punto fermo che va nella direzione della presa di coscienza, continuata dalle donne fino a nominare la prostituzione “stupro a pagamento” (Rachel Moran) invece di chiamarla lavoro come fa chi vuole perpetuarla in tempi di libertà femminile. E penso alla schiavitù, che a volte esiste ancora in modi più o meno nascosti anche nel lavoro salariato, ma certamente è diventata impensabile: a chi mai verrebbe in mente oggi di proporre un dibattito pro o contro la schiavitù? La lotta degli abolizionisti è riuscita a sradicare una istituzione plurimillenaria, considerata normale in molte culture.
Ho ricordato prostituzione e schiavitù perché in tante vediamo nella gestazione per altri una somma delle due forme di disumanizzazione. Come la prostituzione, l’utero in affitto sfrutta il corpo femminile, come la schiavitù fa dell’essere umano un oggetto di scambio. Per fortuna non si è ancora radicato nella cultura, esiste da poche decine di anni ed è forse possibile che non occorrano millenni per abolirlo nel mondo. Tuttavia ha dalla sua la potenza della tecnologia e del capitalismo, ed essendo una realtà nuova non è facile capirne il senso (ricordo che vent’anni fa la credevo una forma di solidarietà fra donne). Anche per questo considerare la surrogazione di maternità “reato universale” può servire a prendere coscienza che è in pericolo qualcosa di irrinunciabile dell’umano. Se non riuscirà a impedire nei fatti la sua pratica, specie nelle forme surrettizie silenziosamente portate avanti da alcuni (la madre rinuncia alla creatura, il “padre” la riconosce e poi sua moglie l’adotta), il divieto assoluto è un segno inequivocabile della sua inaccettabilità.
Soprattutto per le creature, che sono al centro dei miei pensieri più delle loro madri. Creature progettate apposta per essere private della madre per soddisfare bisogni altrui, vendute o regalate non cambia, e per vivere con chi le ha commissionate. Una crudeltà di cui non possiamo sapere le conseguenze, anche nell’inconscio dei committenti e nella loro relazione di “genitori”. Ma so per esperienza personale che quello che succede nella relazione materna prima e dopo la nascita ha effetti per tutta la vita, anche se non si vede e nessuno se ne accorge. Le poche interviste pubblicate di creature diventate adulte dicono che stanno bene e sono felici, spero di cuore che a tutte vada così. Ma hanno comunque subito una violenza grave.
Il diritto di un paese civile non può tollerare questa barbarità, ovunque essa si compia.
(www.libreriadelledonne.it, 5 novembre 2024)
di Antonella Nappi
Quando ci trovammo tra donne in un movimento di riflessioni sulla nostra condizione, negli anni sessanta, ci dissero altre donne che eravamo borghesi, come oggi ci dicono che siamo di destra, perché avevamo l’agio del benessere di pensare a noi stesse.
Eravamo di destra per la pratica maschile che esponeva la sofferenza degli altri tacendo la propria.
La destra perseguiva i propri interessi e faceva tacere quelli di ogni altra persona, anche quelli propri che perseguiva nella cecità, nel silenzio, sempre indicandone altri.
Indicare la luna, fare ideologia invece di parlare di sé stesse/i in modo da poter elaborare la verità della condizione umana fu per le donne in movimento la discriminante del fare politica con sincerità. Mettendosi in discussione personalmente. Mostrandosi agli altri e a sé stesse in modo da poter elaborare la verità della condizione umana: nelle sue differenze e uguaglianze, nelle sue similarità e personalità.
Essere di destra, ce lo siamo tenute. Perché la sincerità del tenere a sé stesse ci serviva a districare le nostre vite dal sacrificio per gli altri e a trovare noi stesse, con il coraggio di mostrare la nostra misura parziale di verità. Così dobbiamo continuare a comunicare tra noi e con tutti, facendo parlare le persone che, spinte dai loro dolori, si comportano egoisticamente senza il criterio della luminosità della loro esperienza.
Illuminate dal ragionamento ogni esperienza ci insegna; la pratica del dire sé stesse, ascoltate e discusse, interloquite, è lunga, difficile, noiosa se senza una guida che scavi nelle esistenze per toccare quel trauma, quel desiderio, quella rivalsa, quel non detto che ci spinge ciecamente.
La psicoanalisi, subito, fu una indicazione di approfondimento del nostro lavoro. Ma la paura di affidarsi alla cultura maschile, così falsificante e astuta nel comando di sottomettersi a chi ha più potere e si nasconde meglio è ancora qui a farci esitare tra coraggio di rischiare e volontà di vincere affermando il proprio desiderio su quello degli altri. O meglio per la paura di perdere il proprio desiderio.
Si può solo avere coraggio, si può solo rischiare per vedere la verità, continuamente.
Per questo la cultura femminile è proseguita abbandonando il ciclostile che le donne di sinistra ruotavano per gli uomini e agendo il proprio egoismo quanto più sinceramente era possibile, lottando contro il desiderio di mentire per vincere sugli altri.
Non dobbiamo vincere gli altri ma soltanto dire noi stessi. Questa l’indicazione delle donne, contro la pratica politica di sinistra di indicare negli altri le proprie sofferenze.
Diciamo la nostra, ciascuna a e ciascuno, e ci intenderemo più facilmente che se ci nascondiamo dietro agli altri. Fingere generosità è l’inganno delle guerre. La pace è comunicazione sincera per rinunciare alla propria vittoria in virtù del concordare una misura di soddisfazione degli egoismi diversi e vedere allora che non siamo soli al mondo ma aiutati dagli altri a raggiungere beni comuni.
Beni comuni è l’unico obiettivo, realizzare beni comuni è l’unica via di soddisfare quello che desideriamo.
Davanti alla tecnica che sostituisce la fatica umana noi perseguiamo la strada opposta a quella di limitare i nostri guadagni per concordare la misura con altre esigenze umane, come la salute, la pace verso gli altri, altri che sono gli altri soggetti di cui tenere conto per salvare l’equilibrio tra molti. Molti equilibri diversi ci sono in natura e li abbiamo studiati e compresi.
La pace con la natura è proprio il contrario della vittoria sulla natura. La pace con gli altri è il contrario della vittoria di una fazione contro un’altra. La capacità politica è essere sinceri nonostante il desiderio di vincere l’altro, la capacità politica è non parteggiare per fazioni ma tendere alla verità.
Dunque la legge che indica come reato universale l’appropriarsi della capacità femminile di creare nel proprio organismo un altro essere vivente a cui si darà la luce e l’assistenza è una buona indicazione. Non ci si può approfittare delle donne! Non si può commerciare il figlio o la figlia di una donna, e neppure negare a quel figlio il padre. Responsabilizzarci rispetto alla nascita di un nuovo essere vivente è la grande qualità che le donne indicano deve essere raggiunta. Una pratica educativa fatta di tanti aspetti da mettere in luce. Per questo indicare il reato universale da non commettere è una grande operazione piena di promesse politiche per tutti.
Non dobbiamo avere paura delle conseguenze politiche connesse a questo coraggio di verità, siamo qui a collaborare ancora alla scoperta delle verità per tutti che il movimento delle donne, senza schieramenti inutili e dannosi, suggerisce.
(www.libreriadelledonne.it, 1° novembre 2024)
di Paola Mammani e Tiziana Nasali
Siamo contrarie alla gestazione per altri (GPA), sia a quella commerciale sia a quella cosiddetta solidale, per i tanti motivi che studiose e attiviste hanno analizzato approfonditamente (Danna, Gramolini, Izzo, Muraro, Niccolai, Pazé, Terragni, e la lista potrebbe continuare a lungo). Per questo accogliamo con favore il recente provvedimento legislativo che interviene sulla legge 40/2004 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che estende l’illiceità della procedura, già vietata in Italia, anche a quella praticata all’estero.
Qualcuna obietta che il governo attualmente in carica avrebbe dovuto promuovere un ampio confronto nelle sedi internazionali e non estendere il divieto anche alle italiane e agli italiani che praticano la gravidanza per altri all’estero. Non capiamo perché le due cose debbano essere poste in alternativa. Nel 2023 la costituzionalista Silvia Niccolai osservava, «[…] il divieto universale in Italia rafforzerebbe enormemente la capacità del nostro Paese di operare in modo influente nelle sedi internazionali» (1). Fosse anche solo per questo, la legge che rende la cosiddetta gestazione per altri “reato universale” non ci sembra mera propaganda.
È vero che esponenti dell’attuale maggioranza politica hanno enfatizzato l’ovvio, e cioè che in presenza di un certificato di nascita rilasciato all’estero, che indica due uomini come genitori, è evidente il falso, non solo giuridico, della dichiarazione. Costoro sembrano dimenticare che la stragrande maggioranza di chi ricorre alla pratica della cosiddetta surrogazione di maternità, è fatta di coppie eterosessuali È probabile che vogliano assecondare sentimenti omofobi esistenti in una parte del loro elettorato. Se questo è, troviamo esecrabile l’intento, ma resta impregiudicata la verità del rilievo.
Il provvedimento è stato anche utilizzato da esponenti dell’attuale governo di destra per enfatizzare l’importanza della famiglia cosiddetta tradizionale, punto di vista opinabile e probabilmente gradito ad una parte dell’elettorato conservatore, ma fondato sul fatto incontrovertibile che una creatura, ancora oggi, nasce necessariamente da una donna, con il contributo di un uomo.
Pensiamo si debba resistere alla tentazione di valutare il singolo, concreto provvedimento e più in generale l’attività politica istituzionale, utilizzando forme del pensiero e del linguaggio che ci lasciano impigliate nel tradizionale scontro delle forze politiche di destra e di sinistra. Un esempio di questo pericolo sta proprio nell’assumere come nostra, una delle più frequenti e reciproche accuse che gli schieramenti politici rivolgono l’un l’altro, che è quella di fare propaganda.
Nel caso in questione si rischia di non vedere quanto il provvedimento sia stato assunto nella certezza di assecondare un sentimento profondo e forse anche “universale”, di repulsa per l’idea stessa di indurre una gravidanza con l’intento programmato di separare la creatura dalla madre.
Dell’esistenza diffusa di questo sentire siamo certe ma pensiamo anche che senza la presenza attiva di donne consapevoli e appassionate questo sentire avrebbe potuto, potrebbe, inabissarsi. Come abbiamo già detto, molte hanno analizzato le questioni sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata, in tante si sono espresse pubblicamente, hanno prodotto libri, articoli di stampa, hanno riferito nelle commissioni di Camera e Senato, hanno dato cioè un grande contributo per sostenere con la forza del sapere e della consapevolezza, il “sentimento universale” di rifiuto di questa pratica. Definire questa legge un fatto di propaganda, significa anche non vedere che questo femminismo, impegnato a difendere dall’avidità del mercato la relazione che è all’origine della vita, è riuscito ad orientare la politica (2), (3).
Infine, sul piano del diritto, non si può parlare di criminalizzazione, come pure si sente dire, poiché la legge non introduce alcun nuovo reato per azioni e comportamenti ritenuti leciti fino a ieri. Anzi, pur nella parzialità e limitatezza della mossa, quest’atto di legge amplia la possibilità di «[…] spostarsi altrove rispetto al diritto praticato come strumento di lotta all’interno di relazioni di potere» (4). Infatti può aiutare le donne, tutte le donne del mondo, a riflettere ulteriormente e a lottare per non finire schiacciate nell’ennesimo, ben oliato meccanismo, anche giuridico, pensato per garantire il potere di fare commercio della maternità e dei suoi frutti.
Quanto al dibattito internazionale, il giorno dopo l’approvazione della legge il New York Times riportava la notizia in prima pagina, con disappunto. Non sarà un’organizzazione internazionale il NYT, ma quasi. Non l’ha presa bene e non è un cattivo segnale.
- https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallarete/utero-in-affitto-reato-universale-intervista-a-silvia-niccolai/
- https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/gpa-non-confondiamo-liberta-con-subalternita/
- https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/un-femminismo-capace-di-guidare-le-forze-politiche/
- Stefania Ferrando nell’introduzione alla ripubblicazione de La politica del desiderio e altri scritti di Lia Cigarini, Orthotes 2022.
(www.libreriadelledonne.it, 30 ottobre 2024)
di Laura Colombo
Mercoledì 16 ottobre il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge per rendere la maternità surrogata “reato universale”. Sono femminista e sono contraria alla pratica della maternità surrogata (o utero in affitto) che rappresenta una mercificazione del corpo femminile, riducendo il corpo della donna a un mezzo di produzione, oggetto disponibile per il mercato. Vogliamo arrenderci alle logiche del biocapitalismo globale che mercifica ogni aspetto della vita, compresa la capacità di generare figli? Io no, e con me molte donne e femministe che da anni studiano, scrivono e lavorano perché ci sia una presa di coscienza allargata (penso per esempio al libro L’anima del corpo di Luisa Muraro, a Maternità surrogata. Le donne, il desiderio, il mercato di Silvia Guerini e al recente Libertà in vendita di Valentina Pazé, solo per fare qualche titolo).
Sono femminista e desidero un pensiero libero, non piegato a partiti politici né incatenato a schieramenti ideologici. Mi ribello a un mondo dominato da una logica binaria e asfissiante, dove ogni riflessione sulla GPA viene strumentalizzata, trascinata da una parte o dall’altra: o nelle fila del cosiddetto progressismo, o in quelle del conservatorismo più becero, oggi anche neofascista. Rifiuto questa trappola ideologica che soffoca ogni pensiero autentico.
Per questo credo, con la senatrice Luana Zanella, che la via non sia la criminalizzazione per legge, «perché criminalizzare chi ricorre a questa pratica all’estero non significa bloccare o scalfire il commercio globale della maternità surrogata sempre più florido e ricco: occorre invece quel che la destra non ha voluto fare cioè una grande iniziativa politica a livello internazionale per impedire lo sfruttamento dei corpi delle donne e il commercio delle creature che la GPA cosiddetta solidale non impedisce».
Non sarà la legge, strumento del potere istituzionale, a creare una vera barriera a questa pratica. Di più, la criminalizzazione è un’operazione di mera propaganda.
(www.libreriadelledonne.it, 17 ottobre 2024)
di Fosca Giovanelli
La Chiave di Sophia è un progetto che ha lo scopo di diffondere cultura utilizzando la filosofia come strumento privilegiato per leggere ogni ambito della vita e per sviluppare un pensiero critico. Infatti, per coloro che contribuiscono a questa realtà, la filosofia può e deve essere di tutti e non riservata ad una élite accademica. Perciò promuovono molteplici iniziative: circoli di filosofia, laboratori, incontri con autori e autrici, spettacoli teatrali e musicali, passeggiate letterarie, una rivista digitale e una cartacea.
Scrivo riguardo il 24° numero della rivista di filosofia pratica (giugno-settembre 2024), intitolato “LIBERTÀ e LIBERAZIONI”, dedicato alla riflessione intorno al tema della libertà sia essa intesa come esercizio effettivo sia come disposizione interiore di un soggetto libero. Questa indagine si snoda attraverso il pensiero di illustri intellettuali e tocca svariati ambiti quali le conquiste femminili, l’educazione, il carcere, la medicina, le migrazioni, la salute, l’antispecismo, l’intelligenza artificiale, la crisi climatica e molto altro. Gli autori e le autrici riescono a fornire spunti di riflessione da diverse angolazioni e differenti campi del sapere. Tale approccio permette ai lettori di porsi domande, di indagare sé stessi, di mettersi in discussione e ripensare, con maggior consapevolezza, il mondo che abitiamo.
Le prime diciotto pagine presentano quattro articoli “a tema libero”, il secondo dei quali, dal titolo “Il dominio della pornografia – Dall’invasione del porno alla sessualità come dono e mezzo di espressione tra esseri umani” di Alessandro Tonon, spiega come i contenuti pornografici, sempre più facilmente reperibili su internet, siano nocivi per gli adolescenti, i preadolescenti e i bambini. L’industria della pornografia si erge esclusivamente su logiche economiche e non prende in considerazione le conseguenze dal punto di vista psicologico e relazionale che queste rappresentazioni potrebbero avere. All’interno dei contenuti pornografici vengono normalizzate la violenza, il dominio e la sottomissione dei corpi nei rapporti sessuali. L’autore attraverso la critica alla pornografia non vuole quindi farsi portavoce di una morale sessuofobica, ma intende ribadire l’importanza di considerare l’altro con cui ci relazioniamo come un soggetto e non come un mezzo per soddisfare la nostra pulsione sessuale. Alessandro Tonon sottolinea la centralità dell’erotismo e dell’amore, elementi che permettono al desiderio di svilupparsi e radicarsi. L’industria del porno invece incentiva la gratificazione immediata che innesca la coazione a ripetere e distrugge il desiderio, desiderio che è il luogo dell’incontro autentico con l’altro.
Da pagina 19 inizia una rassegna di articoli riguardanti il tema della libertà. Personalmente trovo che siano tutti ugualmente interessanti perché favoriscono una riflessione su tematiche contemporanee di massima rilevanza politica.
In particolare, cito il testo scritto da Pamela Boldrin dal titolo “L’insostenibile leggerezza del libero consumo – È possibile liberarsi dai vincoli di un sistema opprimente?”, in cui l’autrice, prendendo spunto dalle idee dell’antropologo Jason Hickel e dal filosofo Hans Jonas, sottolinea le responsabilità che ogni essere umano ha nei confronti della natura. Scrive così Pamela Boldrin: «[…] la massima libertà che siamo disposti a concedere al capitale, finisce per comportare la restrizione della libertà degli esseri umani di sopravvivere dignitosamente su un pianeta in salute». Il pensiero filosofico occidentale ha allontanato l’uomo dalla natura. Ad esempio, Francis Bacon (1561-1626) identifica il progresso scientifico con il dominio dell’uomo sulla natura. Eppure non poteva sapere che la sua visione sarebbe stata strumentalizzata dalla società dei consumi. L’autrice invita i lettori a fare della politica una dimensione reale di ognuno e a ripensare un nuovo tipo di società, libera dal capitalismo e dallo sfruttamento delle risorse del pianeta.
Altro articolo su cui desidero soffermarmi è quello scritto da Hamdan Al-Zeqri, ministro di culto islamico nel carcere di Sollicciano, e Gherardo Gambelli, cappellano cattolico nel medesimo carcere, intitolato “Carcere e libertà – Come si vive la libertà nella realtà del carcere?”. I due autori spiegano come la possibilità di agire liberamente sia correlata indissolubilmente alla questione della dignità umana. Una persona ha dignità se è libera. Il compito che questi uomini religiosi hanno all’interno del carcere è quello di suscitare nei condannati il senso di libertà interiore, dal momento in cui il carcere toglie la libertà fattuale. Se privare un soggetto di libertà significa conseguentemente distruggerne la dignità, come è possibile che attraverso il carcere si venga rieducati? Infatti, non basta chiudere chi è colpevole dentro una prigione per farlo desistere dal male, ma è necessario credere nella sua possibilità di riscatto e aiutarlo a intraprendere un percorso rieducativo.
Ultimo contributo di cui parlerò è quello di Lia Cigarini intitolato “Ci siamo prese molte libertà! – Appunti di differenza femminile, di emancipazione e di relazionalità”. Lia Cigarini non vede nell’emancipazione femminile la massima espressione della libertà delle donne. La libertà infatti non è un’esperienza riducibile a diritti civili o costituzionali, ma si inscrive nella scelta di vivere liberamente la propria condizione di donna. Ed è da queste premesse che l’autrice arriva a parlare delle pratiche di relazione tra donne come modalità di affermazione della libertà, spiegando come la libertà femminile non può essere storicizzata. Le pratiche delle donne sembrano coincidere in luoghi diversi e lontani tra loro. Questo è possibile perché, ancor prima di attuare delle pratiche, le singole e i singoli sono mossi dal desiderio di mettersi in relazione e cambiare la realtà circostante.
(www.libreriadelledonne.it, 10 ottobre 2024)
di Ludovica Augugliaro
Il 27 settembre 2024 a Catania presso il salone Russo della Camera del Lavoro si è tenuta la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi. Nel corso della discussione si è molto parlato del contenuto di una locandina in difesa dell’aborto che è girata sui social. Ludovica Augugliaro, studentessa, ci ripropone sotto forma di contributo scritto l’intervento che ha fatto in quell’occasione.
«Il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco», così leggiamo su un manifesto il cui scopo era portare l’attenzione su una questione tanto importante quanto delicata come l’aborto. Benché molti vedano dietro questa grottesca scelta di termini un mero tentativo di inclusività, io vi leggo ben altra cosa. L’essere inclusivi dovrebbe essere pari all’aggiungere una sedia e non sgomitare per prenderne una già assegnata a qualcun altro giunto prima. Questo è il modus operandi dell’inclusività odierna, o di ciò che si spaccia per essa, e cancellare la parola DONNA anche all’interno di un discorso che la riguarda in prima persona, in favore di termini scioccamente considerati “neutri”, ne è la triste prova.
Se veramente lo scopo fosse stato quello della neutralità sarebbe bastato scrivere semplicemente “Il diritto all’aborto è a rischio”. Dunque perché optare per una costruzione degradante, riduttiva e, come scritto prima, grottesca come “persone con utero”?
Persone con utero serve a ricordare che, oltre alle donne, l’aborto va tutelato anche per gli uomini trans, che sono biologicamente esseri umani di sesso femminile, e le persone non-binary che, benché non si identifichino né nel genere femminile né in quello maschile, come qualsiasi altro essere umano vengono al mondo come maschi o femmine.
Quindi, la censura della parola DONNA nel manifesto sopracitato, ridurla a “persona con utero”, significa di fatto anteporre per rilevanza il genere al sesso, anche trattandosi di aborto, e voler mettere in primo piano persone che hanno un intero mese dell’anno dedicato alle loro battaglie e alle loro comunità e che, anche parlando di un tema che riguarda principalmente le donne, devono sgomitare per prenderne il posto in prima fila a partire da un manifesto.
L’essere efficacemente inclusivi prevede questo: chi include deve aggiungere uno spazio, un posto a sedere, senza però perdere il proprio, chi viene generosamente incluso in un dialogo deve invece comprendere quando è tempo di parlare e quando di ascoltare. Sgomitare per prender parola a tutti i costi, ricercare perpetuamente i riflettori, voler incessantemente essere i protagonisti di qualsiasi dialogo degenerandolo in un ridondante monologo, non solo è segno di mancata educazione ma è anche terribilmente inefficace in quanto gli interlocutori, annoiati e sfiniti, perderanno l’attenzione e il piacere di includere tali persone in futuri dibattiti.
Una definizione tanto elementare come donna: essere umano adulto di sesso femminile oggi, per qualcuno, è inaccettabile in quanto “poco inclusiva” o addirittura transfobica. Eppure proprio in queste definizioni elementari risiede l’identità delle persone transgender e ciò che le rende tali. Una donna trans è di fatto un uomo (essere umano adulto di sesso maschile) che, data la sua disforia di genere, necessita di essere percepita socialmente come una persona di sesso femminile, e quindi una donna.
Vorrei ricordare che il principio su cui si basa l’intera argomentazione gender è proprio la distinzione tra questo e sesso. Il primo, teoricamente, è determinato dall’esperienza dell’individuo nella società, il secondo è concreto, inequivocabile, a partire dal concepimento. La radice stessa di tale discorso oggi è pressoché dimenticata, in quanto, benché esistano numerose identità di genere, il sesso biologico resta duale: maschile e femminile. Ciononostante, in discorsi dove quest’ultimo dovrebbe avere la precedenza in quanto a rilevanza, come l’aborto, lo sport, la divisione degli ambienti negli spogliatoi e nei bagni pubblici e il criterio più opportuno sul quale andrebbero scelti, vince sempre il gender. La concretezza del sesso d’appartenenza è inesorabilmente in secondo piano rispetto a qualcosa di astratto anche nella sua definizione tutt’altro che univoca.
Mettere l’elementarità delle cose in discussione lede, in primis, le fondamenta della comunità LGBTQIA+. Se alla semplice domanda «Cos’è una donna?» non è più possibile rispondere in maniera semplice, logica e condivisa, allora lo stesso catalogo di etichette, ognuna con la sua bandierina, su cui si basa la comunità queer non ha ragione di esistere.
Il paradosso del panorama odierno è che, se da una parte è quasi impossibile fornire definizioni altrettanto elementari e sensate come quelle che si desidera surclassare, contestualmente la tendenza è quella di etichettare qualsiasi cosa, anche la più scontata. Ho scoperto infatti che, nel catalogo arcobaleno, sono in vendita anche un paio di etichette che mi riguardano. Sarei infatti demisessuale e sapiosessuale. Cosa descrivono queste due identità dotate del proprio merchandising di bandierine e spillette? La prima è una sfumatura dell’asessualità e identifica coloro che per fare l’amore con qualcuno necessitano di una connessione mentale e sentimentale che preceda l’atto. La seconda, invece, denota chi trova attraenti sessualmente persone intelligenti.
E quindi, per la mia riluttanza ad avere un rapporto sessuale con persone a caso ma con pene e l’aver scelto come compagno una persona capace di sollecitare anche il mio intelletto e di reggere conversazioni di lunga durata, ben lontane dai sottintesi volgari scambiati via chat tramite emoji del fuoco e della pesca, sono anch’io queer e appartengo a questa tribù. Adesso che ne sono a conoscenza, cosa della mia vita e della mia identità è cambiato? Assolutamente nulla.
Tuttavia, per alcune persone, i giovanissimi soprattutto, questo senso di appartenenza è vitale. Viviamo in una società di ragazzi iperconnessi e inesorabilmente soli e per sfuggire a tale solitudine necessitano di appartenere a un gruppo, e una comunità come l’LGBTQIA+ risulta piuttosto accattivante. Vuoi per i colori sgargianti della bandiera arcobaleno, in contrapposizione al grigio degli eterosessuali “basic”, per la crescita immediata del numero dei followers aggiungendo pronomi e bandierina nella descrizione del profilo, finanche per content creators che basano le loro intere piattaforme unicamente sulla loro identità di genere e/o il loro orientamento sessuale e che, in questo modo, raggiungono numerosa visibilità, notorietà: fama.
Per loro sfortuna si ritrovano da una parte educatori, dai genitori agli insegnanti, impreparati su queste tematiche che travisano o, peggio, ignorano, dall’altra abili oratori che vendono i loro stili di vita come uniche alternative e magiche soluzioni a profondi disagi interiori che meriterebbero altri tipi di supporto.
A questi ragazzi, ai miei coetanei, vorrei dire questo: un’etichetta, con tanto di bandierina, non decreta chi voi siate. Siamo molto più del nostro orientamento sessuale, dei nostri pronomi, delle spillette attaccate allo zaino. L’ identità si costruisce, pezzo dopo pezzo, tramite le relazioni sociali (reali, non virtuali) che si instaurano, attraverso lo stile personale e, soprattutto, grazie a ciò che si legge. Solo con la lettura è possibile sviluppare un pensiero critico, l’unico scudo contro un costante e subdolo indottrinamento che non accetta alcun confronto, che, a partire dal linguaggio, silenzia e censura chiunque la pensi diversamente.
(www.libreriadelledonne.it, 28 settembre 2024)
di Margherita Colombo (II E, Liceo classico Manzoni – Milano)
Sin da quando ero alle elementari, vedendo i miei compagni di classe musulmani uscire da scuola durante il pranzo, mi sono sempre domandata cosa fosse effettivamente questo Ramadan di cui loro parlavano e in seguito, quando mi fu spiegato, ho sempre ritenuto fosse una prova ardua. Così quando la mia compagna di classe il mese scorso, a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, mi ha proposto scherzando di fare un giorno di digiuno con lei, l’ho presa come una bella occasione per capire di più quella cultura che abita accanto a noi ma non è la mia.
Come mi aveva consigliato, mi sono svegliata alle quattro del mattino per fare colazione e poi sono tornata a letto, purtroppo per poco dovendo andare a scuola. Le prime ore di digiuno sono passate abbastanza in fretta, le lezioni mi tenevano impegnata, allo stesso modo i giri in corridoio. Non avevo fame né sete, mi mancava solo la mia pausa caffè, ma intorno alle quattordici la situazione si è fatta più critica, non tanto perché mangio intorno a quest’ora, ma soprattutto per il caldo e il lungo tragitto da scuola a casa della mia amica. Ho iniziato a sentire una gran fame e la mia pancia ha iniziato a contrarsi dolorosamente. Per di più la metro era bloccata e siamo state costrette a prendere un bus suppletivo pieno di persone che, strette strette, rendevano l’ambiente ancora più caldo e asfissiante ma finalmente siamo arrivate a casa dove abbiamo aiutato sua madre a finire di cucinare gli involtini per la cena. Per passare le ultime ore prima dell’iftar (fine del digiuno) abbiamo fatto un giro al parco vicino per poi tornare e scaldare la cena. Arrivati a casa la madre, il padre e il fratello della mia amica, abbiamo cenato; c’erano gli involtini, dei tacos, un po’ di insalata, ma soprattutto un delizioso tajine, piatto tipico marocchino di carne e spezie. Il tempo della cena è trascorso in fretta, a mia sorpresa non ero così affamata e sono rimasta incantata ad ascoltare i loro discorsi in marocchino, lingua che ritengo affascinante per la sua fluidità e anche con una strabiliante similarità, in certe cadenze e parole, con il dialetto lombardo.
Mi chiedo da dove venga questa mia grande curiosità verso religioni e tradizioni diverse che ormai da molto tempo convivono con il mondo occidentale. Io non ho ricevuto un’educazione cattolica, a differenza dei miei genitori, e i miei nonni sono religiosi. Ho chiesto loro informazioni su riti e tradizioni del cattolicesimo e so che ci sono tratti simili nelle grandi religioni monoteiste (per esempio durante la Quaresima). Ma credo che il mio desiderio di capire e conoscere sia spinto da un moto interiore di non limitarmi alla superficialità di leggere e studiare ciò che è diverso da me, al contrario, di viverlo in prima persona per renderlo davvero mio e vedere fatti e persone il più possibili rispondenti al vero e non attraverso le inevitabili lenti dei preconcetti. Quindi questo desiderio attiene più alla sfera esistenziale, che oltrepassa quella culturale, perché mi coinvolge in prima persona e chiama in causa le mie relazioni più strette. Riflettendo su questo punto, credo di essere arrivata al nocciolo della questione: sono convinta che la differenza sia innanzitutto ricchezza e non distanza. Voglio dire che vivere dall’interno un’esperienza che culturalmente non ci appartiene, mettersi nei panni di un’altra persona, è il primo passo verso una conoscenza autentica che può abbattere barriere che sembrano invalicabili e che può rendere le relazioni tra persone culturalmente diverse non solo limitate alla tolleranza una verso l’altra ma a una consapevolezza più profonda e completa l’una della cultura dell’altra. È così che un’esperienza che pare confinata nella sfera personale può assumere una valenza politica, nel senso più vero di questa parola: stare insieme, in una comunità solidale e variegata.
(www.libreriadelledonne.it, aprile 2024)
di AA.VV.
Rossella Bertolazzi non è più tra noi
di Laura Minguzzi
Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vincitrice nel 2020 del Compasso d’oro, il primo e prestigioso premio mondiale di design, negli anni ’80 caporedattrice del mensile SEScienza Esperienza fondato da Giovanni Cesareo, non è più tra di noi.
Per come l’ho conosciuta io più di trenta anni fa, al Circolo della rosa, una donna di straordinaria vitalità, intelligenza, generosità e ironia. Una presenza unica e insostituibile. Una forza della natura si direbbe con parole comuni. Possedeva una versatilità molteplice che ha espresso in campi differenti, nella scrittura, nella comunicazione mediatica, nella capacità direttiva di un’importante istituzione europea ecc.. Sono indimenticabili per me le sue qualità di chef al Circolo della rosa, dove in occasioni speciali, con passione e inventiva metteva a punto originali menù con il gruppo relazionale Estia. Una figura che comunicava forza e desiderio di stare insieme, fare insieme. Sapeva coniugare il femminismo con la progettualità e l’amore per le relazioni, valorizzando quelle e quelli con cui lavorava alla Scuola di Arti Visive IED di Milano che ha diretto dal 2001. Non amava le luci della ribalta ma la sostanza delle cose e con il suo approccio diretto e sincero, scevro da formalismi, metteva a proprio agio e trasmetteva il piacere della compagnia. «Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente, che le ha consentito di puntare sempre all’innovazione», così è scritto nelle motivazioni per cui le hanno conferito il premio oltre ai suoi titoli e meriti professionali. Cara Rossella, ci mancherai moltissimo, a me e a tutte le amiche e gli amici della Libreria e del Circolo della rosa.
(www.libreriadelledonne.it, 17 giugno 2024)
Rossella e l’anello
di Silvia Baratella
Ho iniziato a frequentare la Libreria delle donne quindici anni fa e, dopo i primi tempi, a partecipare alle cene del sabato. In cucina c’erano le cuoche di Estia, tra cui Rossella Bertolazzi. La vedevo indaffarata insieme a Ida Faré, Stefania Giannotti e le altre quando passavo a prendere il vino, e man mano che mi sentivo più a casa, le stoviglie per apparecchiare i tavoli. Apprezzavo gli eccellenti risultati dei loro sforzi congiunti, i menù spiritosi delle cene speciali, scritti con rime, battute, giochi di parole, ma non avevamo molto tempo per conoscerci.
Una sera dopo una cena, quando quasi tutte erano andate via, Rossella e altre cuoche di Estia si sono sedute a chiacchierare. Mi sono seduta con loro e ho avuto la prima vera conversazione con lei. Rossella stava raccontando con brio la sua disavventura con un anello antico, un bellissimo gioiello di famiglia di una sua amica che lei aveva molto ammirato e che le aveva chiesto in prestito per far bella figura in un’occasione professionale importante. L’amica aveva acconsentito volentieri. Ma durante la giornata il dito si era gonfiato e l’anello non usciva più. Ricordo tutta una serie di peripezie: il sapone che non aveva funzionato, i tentativi inutili di farsi aiutare da gioiellieri, poi da medici. Aveva avvisato l’amica, che le aveva detto senza esitare di far tagliare l’anello perché il suo dito era più importante, ma lei non voleva sacrificare il cimelio di famiglia dell’amica. Alla fine, non mi ricordo più come, era riuscita a far sgonfiare il dito e a sfilare l’anello senza rovinarlo. Da quando qualche anno fa anche a me hanno iniziato a gonfiarsi le dita, controllo compulsivamente che gli anelli mi si sfilino, pensando sempre a Rossella: credo che mi abbia salvata da incidenti analoghi.
Gli anni sono passati. Ida non c’è più, la salute di Rossella è peggiorata gradualmente, colpendo anche la vista. Eppure per tanto tempo è venuta lo stesso a cucinare e mi stupisce ancora come fino a pochi anni fa ci sia riuscita lo stesso, al tatto, seduta a un angolo del tavolo di cucina con il necessario disposto intorno a sé. Poi c’è stato il Covid, il confinamento, tante cose sono cambiate, ma anche quando non cucinava più Rossella finché ha potuto è venuta in Libreria. E ora la sua compagnia ci mancherà terribilmente.
(www.libreriadelledonne.it, 17 luglio 2024)
di Fiorella Cagnoni
Oggi è morta a Milano Rossella Bertolazzi. Ha diretto per anni e anni la Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design, ha vinto il Compasso d’oro – il più antico e autorevole riconoscimento mondiale nel design. Ha anche ricevuto un Ambrogino d’oro.
Ma Rossella per me e per molte amiche milanesi, della Libreria e delle città, era la più grande cuoca del pianeta, la perfetta benché severa socia di scopone scientifico, la più sinuosa elegante e leggera ballerina malgrado la bella rotondità delle sue forme. La più attenta e affettuosa compagna di pensiero e di divertimenti, nella mai ridondante attenzione e amabilità lombarda.
Quante cene “pan e pachett” – quante nottate di poker con suo marito Giovanni Cesareo, il mio diletto Silvio, la Stefi, la Lipschitz… –
A sua figlia Magdalena Barile un abbraccio da qui a là.
(www.libreriadelledonne.it, 21 luglio 2024)
Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, è scomparsa il 17 luglio 2024.
Ciao Rossella.
di Giorgia Basch
Chissà se era una provocazione quella dello scrittore Walter Siti quando ha dichiarato a Rivista Studio, in questi giorni, in riferimento al Premio Strega, che «[…] vincerà una donna, e sarà così per ancora due o tre anni, e poi finito un ciclo si tornerà a un regime normale». Certo è che ha sentito la necessità di aggiustare il tiro dopo che si è alzato il vento della polemica. «Viviamo in una società che accetta ancora la disparità di genere e mi è evidente la necessità di riportare l’attenzione sui libri scritti da scrittrici» ha aggiunto. «Il mio augurio è che nella società del futuro si possa tornare a concentrarci sull’opera letteraria indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta». L’idea che lo spazio (conquistato) delle donne sia una tendenza, una moda del momento, mi appare un’affermazione pericolosa che però riesce a farmi sorridere: una forma di esorcismo maschile verso la rivoluzione femminista, oramai inesorabile persino ai loro occhi, al punto che c’è bisogno di minimizzare, o fare dell’ironia. La seconda idea invece, che per superare la disparità di genere sia necessario il ritorno al neutro, mi fa sorridere e basta. Poi a smorzare il sorriso subentra una rabbia pacata. Una rabbia che immagino condivisa dalle donne che come me sanno bene che nel mondo contemporaneo e anche in quello del futuro l’opera letteraria delle donne, come ogni altra opera intellettuale o pratica, non è neutra affatto, come non è neutro il trattamento che ai lavori delle donne è stato riservato ed è ancora riservato in molti campi della cultura. E se gli effetti dell’atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’opera creativa delle donne sono stati ampiamente denunciati, smontati, superati grazie all’impegno e all’ingegno del lavoro condiviso di donne di tutte le generazioni, e della cooperazione anche con gli uomini, rimane in buona parte ignorato nel dibattito odierno il peso del neutro (o per meglio dire del neutro-maschile) e dell’universale nelle generazione di opere creative, lo schiacciamento esercitato da questo costrutto moderno, figlio prediletto dell’Illuminismo, sulla soggettività femminile. Solo la creazione di un nuovo ordine simbolico, a partire da sé, ha permesso alle donne di pensare al di fuori dall’ordine patriarcale prestabilito, e di dare vita così a un linguaggio proprio, nuovo, vivo, vissuto, ardente, politico, sessuato. Prendendo in prestito un’espressione di Adriana Cavarero, «eliminando la parola donne si elimina il soggetto che ha davvero compiuto la rivoluzione»[1]. Anche parlare della vittoria delle donne come di un trend passeggero cancella la storia del femminismo, oltre che rinforzare la posizione neoliberista che il femminismo possa diventare l’ennesimo brand, operazione che sta sfociando in ideologia da più parti, consegnandoci sui media di ogni genere una versione semplificata, altamente digeribile oltre che politicizzata (per non dire strumentalizzata) del “femminismo” contemporaneo. Ma il punto non è solo la storia e la portata del femminismo, a cui dobbiamo riconoscere ed essere grate per il cambiamento sociale a cui assistiamo: è l’esistenza di una società femminile, a cui tutte le donne e tutti gli uomini partecipano attivamente. Nelle parole di Luisa Muraro, «prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo»[2]. Se a vincere lo Strega è una donna anche quest’anno (Donatella Di Pietrantonio con L’età fragile) lo dobbiamo anche, e soprattutto, all’esistenza di questa società, ed è questa la più grande rivoluzione. Se teniamo presente infatti che «la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse», come afferma sempre Muraro, è evidente che il futuro non sarà affatto riaffacciarci sul panorama uggioso del neutro, ma continuare a salpare verso rotte nuove e inesplorate, alla ricerca di parole che provengono da dentro di noi, che sono corpo e che in quanto corpo tracciano un cammino, lo segnano, lo animano. Sono parole che noi donne andiamo in giro scovando e che germogliano dall’interno quando incontriamo l’Altra e l’Altro, nella scintilla del dialogo, dello scontro, dello scambio, del corpo a corpo. Fare società femminile, e poi femminista, è anche questo, generare nella mediazione, saper confliggere, e imparare da questo processo. Inanellando parola dopo parola, corpo dopo corpo, ne sta giovando oggi anche il panorama letterario, che non sempre coincide però con quello intellettuale, e su questo dovremmo ancora lavorare facendo uno sforzo in più nel creare confronti e spazi di conversazione. Vedo nella possibilità di un confronto con autori come Siti, tuttavia, nella sopita città di Milano, un’opportunità di moltiplicazione del senso libero del partire da sé nell’incontro con l’alterità della soggettività altrui. Perché il contrasto, non inteso come ostacolo ma come componimento, è un qualcosa da tenere vivo, tantopiù in un mondo in cui espressioni come “disparità di genere”, grazie alla libertà femminile, si sono svuotate di senso. La logica della spartizione dei poteri edificata dalla cultura maschile deve essere finalmente superata con prospettive nuove, tra cui la possibilità proprio di rapporti diversificati e forti, «rapporti dove le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia»[3]. A questo proposito, come ha scritto la Libreria delle donne di Milano già negli anni Ottanta, la “disparità”, se vista dalla prospettiva relazionale tra donne, diventa un’attribuzione di valore e una vera e propria pratica femminista. Tolto il bisogno di sentirsi alla pari non solo con l’uomo ma con le altre donne, entra in gioco quel “di più” che ognuna di noi ha con sé, ed ecco che il nostro essere diverse ci appare come una risorsa e una leva nei nostri rapporti a fare di più, meglio e insieme. Ed è così che una parola logora assume un nuovo, scintillante significato.
(www.libreriadelledonne.it, 6 luglio 2024)
[1] A. Cavarero, Mai dire donna, intervista di P. Tavella, in Il Foglio, 16 agosto 2023, https://www.ilfoglio.it/societa/2023/08/16/news/mai-dire-donna-la-filosofa-femminista-adriana-cavarero-contro-la-neolingua-che-parla-di-persone-con-utero–5590326/
[2] L. Muraro, Imparare a parlare bene delle donne, in Via Dogana 3, maggio 2018, https://puntodivista.libreriadelledonne.it/imparare-a-parlare-bene-delle-donne/
[3] Sottosopra. Più donne che uomini, Libreria delle donne, gennaio 1983.
di Antonella Nappi
L’apertura della legislatura in cui la guerra è costituente di un presunto “arco costituzionale” europeo
Interpreto il comunicato di Disarmisti esigenti a cui partecipo con altre donne.
Il nostro presidio, di Disarmisti esigenti e altri, dal 16 al 19 luglio davanti alla sede del Parlamento europeo rimarca un impegno preciso: contrastare l’uso della retorica della pace di chi poi vota a presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen.E l’abitudine di votare solo per motivi di schieramento partitico, andando poi ad appoggiare con il voto gli aiuti militari a Zelensky.
Lo illustriamo in una conferenza stampa a Roma, il 9 luglio 2024, alle ore 11:00, presso la Libreria D’Amico, via Silvio D’Amico 1.
Ci chiediamo se sia utile che buona parte della sinistra cosiddetta radicale del gruppo Left sostenga la posizione che sia giusto che l’“aggredito” resista militarmente all’“aggressore”. Molti, tra cui molti elettori del PD che pure è un pilastro della maggioranza per la guerra, si proclamano e si credono pacifisti. Ma dimostrano di non avere alcuna strategia, alcuna vertenzialità contro i governi che fomentano la violenza della guerra, sono assenti e in silenzio assoluto nei momenti in cui viene deciso di accettare solo una “pace giusta”, cioè di andare avanti fino alla completa sconfitta militare dell’avversario, legittimando così concretamente la corsa agli armamenti e ai massacri. Lo abbiamo visto quando, in Italia, si sono approvati gli aiuti militari all’Ucraina.
Noi siamo molto sospettose anche rispetto a certe “unità contro la destra” che considerano l’opposizione contro la guerra addirittura divisiva. Non è forse il clima bellico, con la militarizzazione dell’intera società, il più fertile incubatore dei fascismi?
Noi donne e uomini di Disarmisti Esigenti saremo a Strasburgo appunto per vigilare e documentare, per mettere in evidenza che ci vuole coerenza tra parole e opere! Vogliamo cercare eurodeputate ed eurodeputati onesti, disposte/i a lavorare per i popoli che non vogliono essere massacrati, a prendere seriamente l’impegno di opporsi alle guerre, perché facciano da sponda istituzionale ai movimenti di base che si danno da fare con le azioni dirette, le obiezioni, la disobbedienza civile nonviolenta!
Non sarà affatto facile, perché l’atlantismo e la guerra contro la Russia sono il perimetro dell’“arco costituzionale” che, a livello europeo, andrà a formare la nuova versione della “maggioranza Ursula”. Ma è probabile che anche chi voterà contro la Commissione UE sarà a favore della sua politica di sostegno all’“autodifesa armata” dell’Ucraina in forma di guerra ad alta intensità.
Quello che invece noi sosteniamo è che, nelle condizioni tecnologiche e sociali contemporanee, da “villaggio globale” di fatto, non si può più immaginare una “guerra giusta”, come ha capito, tra i leader mondiali, Papa Francesco.
Ad esempio in Africa, dove sono del tutto estranei alle dispute territoriali in Ucraina, come conseguenza del conflitto che ha ostacolato le esportazioni di grano, la fame ha già fatto più morti delle centinaia di migliaia dei soldati periti sul campo di battaglia.
Non esiste nessuna causa territoriale che oggi valga la pena di difendere con le armi. Perché esse provocano problemi sempre peggiori di quelli che si ripromettono di risolvere, comportano il rischio di escalation incontrollabili, fino alla guerra atomica. E perché ogni rivendicazione tribale ci distoglie dal compito principale che oggi compete a tutte e tutti ai quattro angoli del Pianeta, alla comune umanità che siamo: la pace con la Natura, una nuova civilizzazione che riduca gli inquinanti, con tutto ciò che comporta in cambiamento degli stili di vita troppo lussuosi per la sostenibilità. La guerra costa e inquina più di ogni altra cosa, dev’essere evitata. L’essere a Strasburgo di pochi pacifisti che attivano il rapporto tra i popoli e gli eletti mi sembra uno sforzo da sostenere.
(www.libreriadelledonne.it, 4 luglio 2024)
di Umberto Varischio
Per dare un respiro storico alla questione dell’astensione femminile al voto può essere utile leggere la ricerca di Dario Tuorto e Laura Sartori, Quale genere di astensionismo? La partecipazione elettorale delle donne in Italia nel periodo 1948-2018, (in “SocietàMutamentoPolitica”, 11, 2020, pp. 11-22).
Dopo una prima fase di storia repubblicana in cui la partecipazione femminile al voto era simile a quella maschile, negli anni Settanta emergono dinamiche contrastanti. Nonostante l’aumento della presenza femminile nel lavoro, nella società e nella politica, sostenuto dal femminismo e dalle lotte per l’autodeterminazione e la parità, questa maggiore visibilità non si traduce in una maggiore partecipazione elettorale delle donne.
A partire dalle elezioni del 1976 emerge un divario di genere nella partecipazione elettorale, con un aumento dell’astensionismo femminile e una maggiore mobilitazione maschile. Questo crea un divario negativo per le donne, stabilizzandosi su 1-2 punti percentuali in meno rispetto agli uomini fino alla fine della Prima Repubblica. Ciò indica una disconnessione tra la loro crescente presenza in vari ambiti della società e la partecipazione politica attiva attraverso il voto.
Negli anni Settanta le donne non solo sono state influenzate dalla sinistra e dalla critica femminista alle istituzioni escludenti, ma hanno anche iniziato a spostare il loro voto verso formazioni nuove e trasversali. Tuttavia l’emancipazione femminile si è manifestata anche attraverso l’astensione dal voto.
Dal 1976 al 1992, lo scarto medio di partecipazione elettorale tra uomini e donne è aumentato a circa 2 punti percentuali. Questo divario è cresciuto ulteriormente tra il 1994 e il 2018, arrivando a quasi 4 punti percentuali, con una differenza di 5 punti percentuali nelle elezioni del 2013 e 2018, mentre nelle elezioni del 2022 l’astensionismo delle donne è stato maggiore di quello degli uomini del 3,5%, molto probabilmente per la novità rappresentata da una donna che si candidava al ruolo di Presidente del Consiglio.
Durante la stabilizzazione degli orientamenti politici, la maggiore propensione delle donne a votare può riflettere un civismo più pronunciato rispetto agli uomini, legato alla trasmissione di valori civici e alla consapevolezza del ruolo della partecipazione nell’identità pubblica. Invece l’astensione può rappresentare una forma di contestazione, disaffezione e radicalismo, e un rifiuto degli obblighi tradizionali.
Secondo i due ricercatori il femminismo può essere una chiave per spiegare la diminuzione della partecipazione elettorale femminile. Il rifiuto di una politica percepita come maschile e patriarcale (gli autori richiamano un libro di Adriana Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità) prevalentemente incarnata nei partiti politici tradizionali può aver allontanato le donne dalle urne. Questo rifiuto ha sancito una distanza dalla sfera istituzionale e ha legittimato la scelta di altre forme di attivazione, non convenzionali, come l’impegno in attività sociali e di volontariato. Queste forme di partecipazione, pur essendo diverse da quelle elettorali, rientrano comunque in una sfera politica sufficientemente significativa.
Nel complesso, i dati rivelano in modo inequivocabile come il divario di genere rifletta comportamenti profondamente diversificati in base all’età, con un contrasto forte nelle fasce di età più estreme. Per le donne anziane il maggiore astensionismo può essere ricondotto, almeno
in parte, alla loro marginalità sociale.
Tra i giovani, le donne votano più dei loro coetanei maschi, soprattutto se hanno un titolo di studio elevato. Questo indica che un maggiore senso di efficacia e una percezione positiva del proprio ruolo nel processo politico incentivano la partecipazione. La partecipazione giovanile è meno influenzata da determinanti sociali e territoriali, il che la rende una scelta più autonoma.
Le giovani donne, nonostante i migliori risultati scolastici e la determinazione nella carriera lavorativa, subiscono una doppia penalizzazione in un paese che valorizza poco sia i giovani sia le donne. Questa situazione le rende sensibili e pronte a mobilitarsi su temi come il welfare, la conciliazione lavoro-famiglia e il sostegno per la vita indipendente, ma anche pronte a punire i partiti, anche attraverso l’astensione, se le aspettative non vengono soddisfatte. Ma intanto le giovani donne votano di più, e più dei maschi. Come la spieghiamo? La ricerca non giunge ad alcuna conclusione se non che indicazioni più solide sui fattori determinanti della partecipazione femminile e delle differenze di genere non possono che venire dall’integrazione dell’analisi sociodemografica con quella dei comportamenti e degli atteggiamenti sociopolitici.
(www.libreriadelledonne.it, 19 giugno 2024)
di Antonella Nappi
Vorrei aggiungere al commento Europee, luci nel vento (12 giugno 2024) di Ida Dominjianni al voto europeo la mancata applicazione in Italia della par condicio nei media, e nella tribuna elettorale delle testate RAI, quello che credo fosse un obbligo: riservare uguale visibilità a tutti i programmi elettorali.
È stato così possibile attuare il silenzio stampa e televisivo sui gruppi presenti al voto e non graditi da emittenti e giornali, o forse soltanto deboli rispetto al governo.
Mi appare una cosa molto grave che i partiti abbiano accettato questo despotismo contro l’informazione della cittadinanza prima del voto. È stato un atto così antidemocratico da farmi riconoscere il Fascismo. Ha certamente avuto un peso nelle votazioni e lo ha per il futuro politico che ci riguarda.
Il potere dei media è mastodontico, ne abbiamo avuto sorpresa io ed Elena Urgnani – di Disarmisti Esigenti, candidata nella lista Pace Terra Dignità – dall’esito dei suoi voti: 35 voti a Milano e 26 ad Abbiategrasso dove vive, tramite propaganda in presenza; il resto, fino al totale di 400, dal Piemonte, dove una televisione locale le ha dato per circa cinque minuti voce e visibilità.
«Ciascuno può informarsi da sé!» (intendendo con questo «in rete»), questa frase, giustificata dall’espansione obbligata che ha avuto la comunicazione digitale, sembra l’epitaffio della cura delle relazioni collettive. L’isolamento individuale che porta a non votare, nei fatti ci sottopone alla sola voce del potere. Senza stimoli alla condivisione delle scelte, la politica dei partiti dà la vittoria di nuovo al fascismo.
(www.libreriadelledonne.it, 18 giugno 2024)
di Stefano Sarfati
Il 30 maggio, 1° e 2 giugno si è tenuto a Torreglia il convegno straordinario “Incontriamoci così come siamo… sulla soglia…”, organizzato da Identità e Differenza di Spinea con la rete delle Città Vicine e le Nuove Beghine. Il convegno riprende gli incontri che si sono tenuti annualmente dal 1995 al 2018, importanti momenti di confronto di pratiche politiche femministe e di relazioni di differenza tra donne e uomini.
In questa occasione, Alberto Leiss di Maschile Plurale ha introdotto il tema della sua ricerca di genealogie maschili che desidera ritessere alla luce dell’incontro con il femminismo e ha avanzato la proposta di una pratica di incontro tra gruppi di uomini e gruppi di donne indipendenti. Ne è nato un dibattito interessante, che si è intrecciato agli altri temi portati da donne e uomini nell’incontro e incentranti in gran parte sul clima di guerra e le possibili risposte.
Umberto Varischio e Stefano Sarfati, entrambi impegnati alla Libreria delle donne, hanno messo a punto efficacemente il senso della loro pratica politica direttamente radicata in un contesto femminista e, come pure Claudio Vedovati, ciascuno con sfaccettature diverse, della scelta di inscriversi in una genealogia femminile. Marco Deriu (anche lui di Maschile Plurale) ha parlato del suo bisogno di ricostruire, come Alberto, una genealogia maschile a positivo, radicandola anche nella sua biografia personale e nella perdita precoce del padre.
Seguono i due interventi di Stefano Sarfati durante il convegno.
(La redazione del sito)
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Mia mamma è una delle fondatrici della Libreria delle donne di Milano, sono cresciuto tra le femministe, e ho sempre trovato una cosa normale dare autorità alle donne. Comunque aldilà di questa vicinanza che ho avuto fin da ragazzo, c’è stato un momento in cui ho letto, riflettuto e frequentato da vicino la Libreria delle donne e dopo un’iniziale difficoltà, il guadagno in termini di libertà è stato enorme. La mia grande scoperta (ma è la scoperta che fa ogni uomo che vi si avvicina) è stata che il femminismo della differenza è buono per gli uomini come per le donne, così come la madre è buona per i figli come per le figlie.
L’intervento di Alberto Leiss come altre volte in passato è stato per me stimolante e mi ha suscitato una riflessione. Quando Alberto ha accennato alle figure maschili da salvare, cosa si può salvare del patriarcato, mi ha fatto ricordare quando ho letto L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro, in particolare quando parla di genealogia materna. All’inizio rimasi spiazzato, ho sentito un senso di vuoto e spaesamento, mi dicevo: e io dove sono in tutto ciò? Mia sorella era inclusa nella genealogia di nostra madre e io no.
Poi ho pensato ok, mia sorella con le sue figlie continua la genealogia, mentre io sono diciamo così “un binario morto”, ma intanto che vivo sono nella genealogia di nostra madre, tanto quanto lei.
Quindi, per tornare all’intervento di Alberto Leiss la mia genealogia di uomo non sono i Montaigne, gli Spinoza eccetera, ma la mia madre naturale e altre madri simboliche.
Questo mi porta anche a essere d’accordo con l’intervento di Umberto, con cui condivido la pratica politica alla Libreria delle donne di Milano, di non ritenere interessante un gruppo di uomini che si esprimano in quanto uomini femministi, ma trovo interessante esprimermi da uomo femminista in un luogo principalmente di donne.
Da quando ci siamo riuniti l’ultima volta qui a Torreglia ad oggi il mondo è peggiorato, si parla di bombe atomiche, e siamo tutti e tutte angosciati. Personalmente credo che se tutti gli uomini dichiarassero la loro genealogia materna, ossia l’ordine simbolico della madre, figure come Trump, o Putin, ma anche Macron o Stoltenberg e le brutte copie nostrane, che in qualche modo esistono grazie alla figura simbolica del padre, perderebbero immediatamente consistenza.
Dopo la fine del patriarcato siamo finiti in un vuoto dove tutto può succedere, il passaggio che manca secondo me è il passaggio in cui gli uomini si rifanno a una genealogia della madre.
-2-
La radicalità del percorso del femminismo italiano dagli anni del Demau ad oggi, ma anche la domanda di Adriana Sbrogiò di ieri: voi uomini cosa fate? meritano da parte di noi uomini che ci diciamo femministi, una risposta radicale. Anzi gliela dobbiamo.
Non è più il momento dei pianti per i padri perduti, non è più il momento dei grandi geni del passato, se vogliamo un cambio di civiltà questi padri si devono lasciar andare, per citare Carla Lonzi: «vai pure».
Ovviamente sto parlando di padri simbolici; non è che non capisca il trauma della perdita di Marco Deriu, rispetto il suo dolore, io qui sto parlando di politica, di guerra e di pace, di vita e libertà.
Ribadisco quello che ho detto ieri: noi uomini che ci diciamo femministi dobbiamo senza esitazione dichiarare la nostra adesione al mondo della madre e dobbiamo trovare delle parole da far dilagare nel mondo per intendere questa adesione simbolica.
(www.libreriadelledonne.it, 13 giugno 2024)
di Giordana Masotto
Segnali interessanti: il quotidiano La Stampa ha pubblicato (19 maggio 2024) un articolo di Annarosa Buttarelli dal titolo “Quando abbiamo dimenticato che il ricorso all’aborto è un problema degli uomini?”.
In quell’articolo si fa un passo avanti importante sul tema. Si ribadisce come irreversibile l’autodeterminazione della donna come unità psicofisica inviolabile: da lì non si torna indietro, benché si assista oggi «al tentativo di aggredire questo presidio irreversibile che il “soggetto imprevisto”, le femministe delle origini hanno guadagnato nel corso della rivoluzione delle donne».
Contemporaneamente si sottolinea con decisione il cambio di civiltà necessario perché «l’inculturazione mancata dei maschi riguardo al rispetto dell’inviolabile corpo fecondo delle donne fa attrito con la riuscita de-culturizzazione patriarcale delle donne che si sono assestate nell’autodeterminazione. Sta ai maschi trovarsi all’altezza del coraggio femminile.»
Buttarelli invita a farsi ispirare dalle parole di Carla Lonzi: «Proviamo a pensare una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalle donne. In tale civiltà apparirebbe chiaro che i contraccettivi spettano a chi intendesse usufruire della sessualità di tipo procreativo, e che l’aborto non è mai una soluzione per la donna libera».
Lo sappiamo bene: ci siamo sempre fatte carico del problema contraccettivi, adottando via via le soluzioni che apparivano nel tempo più sicure e meno invasive. Ma oggi il tema minaccia di essere anche più sottilmente invasivo. Come spiega Laura Tripaldi in Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne, siamo entrati/e in una rete di sorveglianza biotecnologica.
Se vogliamo fare passi avanti in questo cambio di civiltà, è imprescindibile che gli uomini si chiedano: come ci rendiamo responsabili in relazione al corpo fecondo delle donne? Lo dice chiaro e semplice Gabrielle Blair che affronta il tema in Eiaculate responsabilmente. 28 buone ragioni (Feltrinelli 2024). Pare che anche nella ricerca qualcosa si muova (vedi Katherine J. Wu, Misure da uomo, articolo su The Atlantic/Internazionale – https://puntodivista.libreriadelledonne.it/misure-da-uomo/ -) e entro i prossimi vent’anni (!) avremo nuovi anticoncezionali maschili (per i quali naturalmente si cercano standard molto più severi di quelli fin qui usati per gli anticoncezionali femminili! E questo potrebbe avere ricadute positive anche per le donne).
Concludo ribadendo, come ci suggerisce Buttarelli, che è importante fare luce su questo cambio epistemologico: la libertà delle donne, con l’autodeterminazione (altro che denatalità e difesa della vita!) ha sottratto la generatività al dominio patriarcale e ha cominciato a ripensarla, ma quando gli uomini non si rendono in prima persona responsabili nel loro rapporto con il corpo fertile femminile, c’è una violenza simbolica che continua.
Forse, oso dire, è solo un primo passo, ma imprescindibile, per mettere in discussione l’indifferenza secolare della filosofia per il corpo materno. Come dice Adriana Cavarero: «Fenomeno esclusivamente femminile, la gravidanza permette di conoscere una “verità” essenziale della condizione umana, che al corpo integro dell’altro sesso non è dato esperire» (A.C., Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno). È più che mai necessario reintegrare la nascita come aspetto centrale della temporalità umana: la nascita ha la precedenza sulla morte. Le donne lo sanno. E il mondo ha più che mai bisogno di saperlo.
(www.libreriadelledonne.it, 11 giugno 2024)
di Antonella Nappi
Il contributo di Clelia Mori Gli uomini e la guerra del 29 marzo scorso mi ha riportato alla mente quando nacque il figlio di mia cugina, ma potrei dire il figlio di mia figlia, per l’infinitesimo ruolo materno che ho sperimentato con lei: ho sentito di varcare la mia vita in un futuro infinito. La gioia più grande della mia esistenza ha squarciato tutti i dolori, avevo un futuro che raccoglieva gli affetti della mia famiglia, della mia appartenenza. Non lo so se c’entra l’essere femmina o soltanto riconoscere l’appartenenza.
Clelia Mori argomenta bene. Ma anche altre nozioni sono utili per osservare la pluralità delle influenze che ci educano e ci modificano. Nelle popolazioni antiche ancora visibili Margaret Mead* mise bene in rilievo le diversità insite nel contesto di relazioni economiche e umane che diversificavano le reazioni di uomini e di donne in rapporto anche alla cura della vita e alla violenza. Vivere insegna, tutto è modificabile con l’economia, la relazione umana, la cultura applicata.
Presso gli Arapesh la scarsità del cibo metteva a rischio l’ovulazione. Maschi bambini, più capaci di lavorare la terra e altro perché di sette, otto anni, venivano sposati a bambine di cinque, perché le alimentassero, assolvendone i genitori. Questi ultimi, e proprio il padre, al primo accoppiamento sessuale dei bambini divenuti dopo anni adolescenti, rinunciava alla copula per sempre, preservando la possibilità di alimentare nel gruppo sociale complessivo i nuovi nati. E molti altri diversissimi esempi parlano delle potenzialità maschili, in molti versi. Possono essere senza regole, i maschi, ma anche molto autoregolati, disumani e umani sia le femmine che i maschi, si tratta di esperienza.
Le Mundugumor, sempre in Mead*, buttano i lattanti sulle spalle: se si tengono ai capelli vivono, se riescono a imboccare il seno dall’alto senza cadere, mangiano; i figli a loro sono di impaccio soltanto. Presso i balinesi, dove lo stupro era completamente inesistente, le madri stimolavano i piccoli sessualmente e smettevano prima dell’apice, al loro piangere li deridevano ripetutamente. I padri li attaccavano al proprio capezzolo come noi al ciuccio, per tenerli buoni. Tra noi chi condivide i carichi domestici con la madre perché lei così educa i maschi, sarà autonomo, e se la moglie lo lascerà continuare a farlo anche rispetto ai figli, questi permarrà capace di lavorare alla cura di tutto quanto si abitua a fare. A meno che non si pretenda da lui di massimizzare i soldi sul lavoro o di utilizzare tutto il tempo abile per conservarsi la possibilità di un posto remunerato.
Se un tempo arcaico vedeva la necessità di uccidere ogni straniero incontrato per la prima volta, per la paura del diverso, questo si faceva. E per difendersi dagli altri che ti imprigionavano e vendevano ai portoghesi che ti portavano schiavo in America, dovevi armarti e unirti ad altri, in Africa, e cercare di fare la stessa cosa a quelli che vivevano nel tuo stesso contesto. La Mead spiega così un passaggio dalla casa matriarcale al formarsi di quella patriarcale in quel luogo: i maschi strinsero legami tra loro per questo commercio e trasferirono in case di uomini il cibo che prendevano dalla casa materna, per solidarizzare. Il crescere di risorse dei maschi ha potuto creare il resto.
Anche la difesa dei propri figli e della madre che li allattava per anni aveva un senso di cura e collaborazione umana per i maschi. L’abbiamo disprezzato nel primo femminismo, come la gravidanza delle madri, per l’insopportabilità delle conseguenze politiche che il potere maschile ci aveva fatto subire. Ma non ci conviene minimizzare l’educazione: anche gli uomini sanno pensare agli altri se ne fanno esercizio.
(*) Molti sono i testi e i filmati, di Margaret Mead menziono Sesso e temperamento, Maschio e femmina, Popoli e Paesi, e il libro di Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente. I filmati di Margaret Mead erano custoditi presso l’Università di Pisa.
(www.libreriadelledonne.it, 23 maggio 2024)