Milano, Casa delle donne, via Marsala 8. Lunedì 14 ottobre 2024 prima delle tre serate della rassegna Una camera (tutta per sé), dedicate ad approfondire il lavoro di autrici che hanno utilizzato il film e il video come mezzi espressivi per indagare la realtà storica e culturale, il tema del corpo e della sessualità, e il complesso rapporto tra identità e luoghi. Verranno proiettati due film della prima documentarista italiana, Cecilia Mangini: Stendalì: suonano ancora (1960) e Essere donne (1965). Il primo riguarda l’antichissimo rito di lamentazione funebre che all’epoca ancora sopravviveva nel Salento. Il secondo documenta la realtà della condizione lavorativa e familiare delle donne negli anni sessanta. Giorgia Aprosio e Giulia Kimberly Colombo dialogheranno con Paola Ugolini, critica d’arte e curatrice indipendente.

Niccolò Nisivoccia, Un dialogo notturno, prefazione di Luciana Castellina, Industria & Letteratura, 2024. Ci sono parole che avvicinano alla comprensione degli interrogativi più urgenti di questo intricato presente. Niccolò Nisivoccia mette al centro la necessità dello scambio amoroso, politico e intellettuale fra donne e uomini. Oggi è più che mai necessario pensare una politica dell’amore, unica potenza trasformatrice che può opporsi alla potenza espropriante della violenza. Ne parliamo con l’autore, in dialogo con Laura Colombo.

Per acquistare online Un dialogo notturno: https://www.bookdealer.it/goto/9791280987365/607


Più di cinquant’anni anni sono passati da quando Carla Lonzi ha messo in luce l’intrinseca relazionalità delle pratiche artistiche e ha criticato la figura dell’artista concepito come unico depositario della creatività. Inoltre il fare arte per lei ha lo scopo di «arricchire il vivere insieme» e a partire da questo ha dilatato l’ambito artistico fino a comprendere anche «una frase trovata», «una serata riuscita». Da allora le pratiche artistiche relazionali elaborate dal femminismo si sono diffuse ben al di là dei contesti della politica delle donne, dando vita a nuovi significati e nuove dimensioni. L’entrata prepotente di artiste e curatrici nei luoghi dell’arte e della cultura a partire dagli anni Settanta ha contribuito a nutrire nuove pratiche fondate sul dialogo e sulla relazione, in risposta ai nuovi desideri ed esigenze di ripensare non solo la dimensione artistica, ma anche il rapporto vita-lavoro e l’equilibrio tra soggettività e alterità.
Come oggi le pratiche artistiche possono arricchire il vivere insieme?
Come le pratiche femministe possono potenziare quelle artistiche, e viceversa?
Come il «fatto creativo» interessa le nostre vite?
Ne discutiamo con Giorgia Basch e Donatella Franchi

Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza.
Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.
È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

DiotimaL’irrinunciabile. Alla radice dei bisogni, introduzione di Chiara ZamboniMimesis, 2023. L’ultimo libro della comunità filosofica Diotima ci presenta una sfida politica importante. Si tratta della potenza generativa dei bisogni irrinunciabili non soddisfatti, che si accompagna a parole desideranti. Una forma di conoscenza di noi stesse e delle nostre relazioni con il mondo. Come distinguere l’essenziale dall’indotto? Quale il nesso tra bisogno, desiderio e piacere? E tra i bisogni umani e quelli di altri esseri, animati e non? Ne parliamo con Caterina Diotto, una delle autrici. Introduce Laura Colombo.

Per acquistare online L’irrinunciabile:https://www.bookdealer.it/goto/9788857597034/607


Palermo, Biblioteca delle donne, via Lincoln 121. Nei “Seminari in Biblioteca” organizzati dalla Biblioteca delle donne delle donne Udipalermo, quest’anno si privilegia il linguaggio visivo per affrontare ancora il tema della guerra e della pace. Si tratta di una rassegna di 8 film e documentari, girati da registe, uno strumento diverso per sostenere un consapevole impegno in favore della pace e la non rassegnazione al militarismo e alla gestione violenta dei conflitti.


Calendario delle proiezioni, tutte alle 17.30:

Sabato 9 marzo – Facciamo pace! di Diana Quiroga (2024)

Sabato 6 aprile – Kordon di Alice Tomassini (2022)

Sabato 4 maggio – Gli alberi della pace di Alanna Brown (2021)

Sabato 8 giugno – E ora dove andiamo? di Nadine Labaki (2011)

Sabato 7 settembre – Lo sbarco di Adonella Marena e Dario Ferraro (2011)

Sabato 5 ottobre – Guerra e Pace di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi (2020)

Sabato 9 novembre – The Square – Dentro la rivoluzione di Jehane Noujaim (2013)

Sabato 7 dicembre – Teatro De Guerra di Lola Arias (2018).


Il film che apre la rassegna il 9 marzo, Facciamo pace! di Diana Quiroga, è un documentario realizzato in seguito alla costituzione, a Palermo, del Presidio donne per la pace, formato da donne singole e di varie associazioni subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Il documentario registra le considerazioni di alcune donne impegnate nel presidio e di altre che non vi partecipano, e segue alcuni momenti salienti della presenza in piazza, ogni settimana per tutto il 2023, un significativo contributo di riflessione sul tema della ricerca della pace.


Verona, Università, via dell’Artigliere 19 angolo via San Francesco (ex palazzo di Economia). Camminare sulle acque per pensare la terra è il tema proposto quest’anno, sette le lezioni con il seguente calendario:

-Venerdì 4 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi

Diana SartoriSe manca la terra sotto i piedi, vivere in lacuna

-Venerdì 11 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula da destinarsi

Wanda TommasiTerre ferite.

-Venerdì 18 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi

Snejanka MihaylovaMetanoia: il cuore dell’ascolto.

-Venerdì 25 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi

Margherita MorgantinL’esilio ereditato. Dov’è il mio accento?

-Venerdì 8 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi

Antonietta Potente La terra dentro.

-Venerdì 15 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi

Elisabeth JankowskiDentro la Torre di Babele.

-Venerdì 22 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi

Vittoria FerriScrivere la terra. L’immaginazione come posizione politica.

Per le studentesse e gli studenti: a chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritta/o alla laurea triennale e magistrale di Filosofia e alla laurea triennale e magistrale di Scienze dell’educazione verrà inserito nel piano di studi 1 Cfu.

Per la presentazione e la bibliografia del Seminario Camminare sulle acque per pensare la terra vai a https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallarete/grande-seminario-2024-camminare-sulle-acque-per-pensare-la-terra/

di Safaa Odah


Sono una cartoonist di Gaza. Dal 7 maggio 2024 vivo a Khan Yunis, nel campo di Ain Jalut, in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finisce, disegno sulla tenda.


Video



(Erbacce, 29 settembre 2024)

di Paolo Ottolina


Dal 2022 guida la fondazione dietro all’app che, dopo il dietrofront di Telegram, resta ultimo baluardo dell’assolutismo nella privacy. Ex Google, che ha lasciato in modo polemico nel 2019, della sua app dice: «Signal lavora all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso»


Chi è Meredith Whittaker, simbolo della privacy tecnologica che guida Signal

Nostra Signora della privacy ha una laurea in Retorica e Letteratura inglese presa a Berkeley e un ciuffo bianco sui neri capelli ricci. Da quando, nel settembre 2022, Meredith Whittaker è presidente della fondazione che sta dietro l’app Signal, è diventata un faro, l’icona di un’altra visione della tecnologia, in cui l’accesso famelico ai dati degli utenti non sia più un mantra ma un qualcosa da ripudiare o per lo meno da gestire con mille cautele. Ora che anche Pavel Durov, il fondatore di Telegram, sembra aver ceduto alle pressioni, cambiando le policy della sua app e concedendo l’accesso alle autorità (in casi legati a reati), Signal resta l’ultimo porto franco.

Signal è relativamente poco nota tra le app di messaggistica istantanea, ha tra i 100 e i 150 milioni di utenti (non esistono statistiche pubbliche aggiornate), contro il miliardo di Telegram e gli oltre 2 di WhatsApp. L’approccio estremamente rigoroso alla privacy lo ha reso però piuttosto diffuso tra tecnologi, giornalisti, personale politico, stelle dello spettacolo e dello sport. E piace anche a chi vuole discrezione mentre organizza proteste, da Black Lives Matter alle milizie paramilitari degli Oath Keepers.

«Signal, innanzitutto, è un’app creata da un’organizzazione no-profit, la Signal Foundation. È un progetto open source, e dunque il codice sorgente, cioè le istruzioni con cui è programmato, sono visibili a tutti e chiunque abbia delle doti di programmazione può contribuire a svilupparlo. È per questa ragione che Signal non può usare “trucchi”: è un po’ come se ogni dettaglio della sua struttura fosse scritto su una bacheca visibile a tutti» spiega Riccardo Meggiato, esperto di cyber-sicurezza e informatico forense. Poi aggiunge: «Ciò non toglie che la tecnologia crittografica utilizzata da Signal garantisca uno dei più elevati livelli di sicurezza: è “end to end”, quindi solo i partecipanti a uno scambio di messaggi hanno le rispettive chiavi per codificare e decodificare i contenuti scambiati». C’è di più: «Signal inoltre adotta un sistema di “codici di sicurezza”: ogni conversazione è contrassegnata da un codice di sicurezza diverso, visibile ai partecipanti, che ne garantisce l’integrità. Se il numero cambia, vale la pena verificare se uno dei partecipanti ha re-installato l’app, o cambiato telefono. In caso contrario è meglio fare attenzione. C’è poi la possibilità di comunicare solo tramite nome utente, in modo da non condividere alcun numero di telefono». Per queste sue caratteristiche Signal è diventata ormai da qualche tempo l’app d’elezione per chi ha la necessità di comunicare in modo davvero sicuro, al punto che è diventata anche una sorgente di contenuti e comunicazioni illegali. «Per certi versi – conclude Meggiato – Signal è la versione “seria” di ciò che Telegram prometteva di essere e che, in fondo, non è mai stato».

Nata nel 2014 dalla fusione di due progetti open source, RedPhone e TextSecure, a opera di Moxie Marlinspike, un hacker e crittografo americano, è oggi gestita da una fondazione no-profit, la Signal Technology Foundation, che si finanzia esclusivamente attraverso donazioni e sovvenzioni. Un modello che permette di mantenere una totale indipendenza e di non dover rispondere a logiche di pure profitto che spesso confliggono con la tutela della privacy. Mentre WhatsApp, pur utilizzando proprio il protocollo di crittografia di Signal, è di proprietà di Meta (ex Facebook) e raccoglie metadati sulle interazioni degli utenti, Signal adotta una politica “zero-knowledge”: i dati sono crittografati end-to-end e nemmeno i server di Signal possono accedervi. Telegram, invece, non crittografa i messaggi di default e il suo codice non è open source, il che rende impossibile verificarne la sicurezza in modo indipendente.

La carriera di Whittaker

Il percorso professionale di Whittaker è interessante quanto l’app che guida. Per ben tredici anni ha lavorato in Google, vivendo dall’interno l’evoluzione del colosso tech e la sua transizione verso l’intelligenza artificiale (AI), ben prima dell’esplosione del settore con ChatGpt. Un’esperienza che l’ha segnata profondamente, portandola a guidare proteste interne contro le presunte molestie sessuali sul posto di lavoro e i contratti di Google con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per lo sviluppo di AI militari. Nel 2019, Whittaker lasciò il colosso americano in modo polemico, per concentrarsi sul combattere «per un’industria tecnologica responsabile», dicendo: «È chiaro che Google non è un posto dove posso continuare questo lavoro». Da allora ha tenuto fede alla sua parola e la sua missione sembra essere diventata il mettere in guardia sui rischi dell’intelligenza artificiale e sulla pericolosa concentrazione di potere nelle mani di poche grandi aziende tecnologiche. Ha co-fondato l’AI Now Institute, con cui Whittaker si batte instancabilmente per indagare le implicazioni etiche e sociali dell’AI sul nostro futuro, partendo dai diritti e dal benessere collettivo. Whittaker non crede agli scenari distopici sull’AI che ci sterminerà. Anzi, invita a smitizzarla, ricordando che non si tratta di magia o di un’entità immateriale, ma di una tecnologia basata su enormi quantità di dati concentrati nelle mani di pochi attori.

E quando, come in un’intervista con Corriere LOGIN dello scorso anno, le vengono citate regolamentazioni come l’AI Act adottato dall’Ue, lei rilancia sempre la palla un po’ più in là: «Non basta limitarsi a contenere i rischi: serve un ripensamento più profondo dei presupposti su cui si basa lo sviluppo dell’AI. Abbiamo bisogno di fermarci un attimo e pensare: che cos’è l’intelligenza artificiale? Non è un qualcosa di immateriale che abbiamo portato in questo mondo: è una tecnologia che si basa su un’enorme quantità di dati concentrati nelle mani di una ristretta cerchia di soggetti». Da cui nessun volo fantascientifico su futuri alla Terminator (che tanto piacciono a Elon Musk, tra gli altri), ma un grido d’allarme concreto: «Il vero rischio è che l’AI inizi a presentare la realtà misogina e razzista come naturale, illudendoci che le risposte di una macchina siano oggettive. Queste problematiche possono essere evitate almeno in parte assicurandosi che tutti siano correttamente rappresentati nei set di dati che alimentano le AI».

Ecco perché Signal, con la sua crittografia end-to-end e la sua vocazione al no-profit, rappresenta per Whittaker un modello alternativo: «Signal sta lavorando all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso. Sta cercando di creare qualcosa che interrompa il flusso diretto dei dati».


(Corriere della Sera, 29 settembre 2024)

di Adriana Cavarero


Fra i grandi meriti di Omero, nota Hannah Arendt, c’è quello di aver reso immortali gli eroi di cui racconta la storia. Non sappiamo chi fosse Omero, il narratore che chiamiamo con questo nome, ma sappiamo chi fossero Achille, Ettore e Ulisse perché ne conosciamo le storie e non ci stanchiamo di rileggerle e raccontarle. Racchiusa nelle storie, la loro fama è imperitura e li salva dall’oblio. Non sono però solo i guerrieri a guadagnarsi questa immortalità donata dal canto omerico. Penelope, la tessitrice che fa e disfa la sua tela, è la protagonista di una storia davvero memorabile che la tradizione non ha infatti mai potuto dimenticare.

A Roma, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, si è di recente aperta Penelope, la prima mostra dedicata al personaggio omerico, a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, con l’organizzazione di Electa. Potete visitarla fino al 12 gennaio 2025, ammirando cinquanta opere che, attraverso la tradizione visiva e letteraria, ripercorrono il mito e la fortuna della regina tessitrice, celebre per il suo gesto di fare e disfare. Genialmente, l’esposizione comprende anche un omaggio a Maria Lai, artista che ha messo al centro del suo lavoro la materia tessile. Da Penelope alla grande artista sarda, dall’immaginario antico all’arte contemporanea, la mostra ci invita ad esplorare l’universo, simbolico e operativo, delle donne che tessono, che fanno del gesto della tessitura una trama di libertà, creatività e riscatto.

Racconta il mito che fu la dea Atena a donare alle donne l’arte del tessere, riservando invece agli uomini quella del guerreggiare. Ovviamente la parola greca è techne, un termine che, al contrario dell’italiano arte, non convoca immediatamente la bellezza, bensì una certa rigorosa perizia, una capacità del fare, un’abilità e una competenza fondate su un sapere. In Platone la figura del ‘tecnico’, comprensiva di quello che noi chiameremmo artigiano e artista, implica la conoscenza di un campo specifico o, meglio dell’idea, della forma che è al centro di questo campo – poniamo, l’idea di letto, guardando alla quale il costruttore di letti trae le regole oggettive così come il materiale adatto per la fabbricazione del letto. Ogni tecnico ha un sapere specifico dell’oggetto di cui è competente e che impone un ordine preciso al suo operare, dettandone le procedure, i tempi e la materia. Nel dire che un’opera è fatta a regola d’arte c’è dunque una sorta di ridondanza: l’arte, ovvero la techne, consiste sempre, e di per sé, nella sua regola. Il tecnico è precisamente l’esperto che vede e segue, esegue, questa regola. L’arte del tessere, in cui eccelle la regina di Itaca, sarà quindi un sapere specialistico delle regole, degli strumenti e del materiale, nonché delle modalità di intreccio, trama e ordito, adatti a produrre il tessuto. Diciamo, nel caso di Penelope, a produrre la tela, il sudario per Laerte.

L’algida spiegazione razionale dell’operare tecnico, fatta da Platone, ci aiuta qui tuttavia solo fino a un certo punto. Platone non prevede infatti che il tecnico, una volta fabbricata la tela, la disfi. Il gesto della tessitrice Penelope è anomalo, anzi scandaloso. Penelope possiede certamente un sapere perfetto della tecnica del tessere ma evidentemente sa qualcosa di più, qualcosa che, pur accadendo nella stanza dei telai in cui, come tutte le donne, è confinata, travalica questo confine, questo ruolo, questa specie di prigione femminile, e agisce sull’assetto politico del regno, là dove dominano gli uomini e lei è esclusa. Tessendo la tela di giorno e disfacendola di notte, Penelope per quattro anni tiene in scacco i pretendenti alla sua mano e la sorte di Itaca. Come con l’astuzia, la metis, il marito ha escogitato il trucco del cavallo di legno per sconfiggere il nemico in battaglia, così la metis di Penelope escogita il trucco del fare e disfare la tela per sconfiggere i pretendenti al governo di Itaca. Al contrario del marito, che opera nella propria sfera di competenza, ovvero nella sfera maschile del guerreggiare, Penelope, pur operando nella sfera propriamente femminile del tessere, fa in modo che gli effetti della sua astuzia riesca a travalicarla. Quel che avviene nella stanza dei telai riguarda direttamente la vicenda politica di Itaca, è questo il nucleo memorabile della storia.

Come ci raccontano Omero e la letteratura antica in generale, nella cultura occidentale, al contrario di ciò che avviene in altre culture, la tessitura è riservata anticamente alle donne o, meglio, il loro confinamento nell’ambito domestico prevede che esse vi svolgano il lavoro di tessitrici. Gli esempi testuali abbondano. Basterà qui, per stare ai poemi omerici, ricordare le parole che Ettore, pur dolce e mite marito, rivolge alla moglie Andromaca che, uscita dalla casa, si reca alla porta Scea per scongiurarlo in lacrime di non scendere in battaglia: «su, rincasa e bada ai tuoi lavori, il telaio e il fuso – le dice Ettore – e ordina alle ancelle di mettersi all’opera; alla guerra penseranno gli uomini» (Iliade, VI, vv. 490-93). Penelope stessa, che ha osato parlare nella sala degli uomini, il megaron, viene invitata dall’arrogante figlio Telemaco a tornare nella stanza dei telai. La politica e la guerra spettano agli uomini, la casa in cui si svolgono i lavori domestici e, in primis, la tessitura, spetta alle donne. I ruoli di genere, come oggi si direbbe, sono chiari. Donando alle donne l’arte della tessitura, in un certo senso, è stata miticamente Atena a escluderle dall’ambito pubblico e a imprigionarle in quello domestico. Ciò non implica che, per i Greci, quella della tessitura sia un’arte inferiore o secondaria, visto che di tale arte si pregia, anzi, la stessa Atena e molte divinità femminili. C’è nell’arte del tessere un orgoglio per l’abilità di produrre splendidi e utili oggetti, nonché una riconosciuta creatività che va al di là dell’utile. Dal tessuto, dall’ambito del textum, derivano del resto parole molto significative come testo e trama. Il tessuto istoriato è tale perché, come il grande Omero, racconta storie. Le crea, le inventa e le tramanda.

Si legge nel catalogo della mostra che nella tradizione iconica Penelope appare spesso malinconica. La malinconia, insieme alla fedeltà e alla pudicizia, scrive la curatrice Alessandra Sarchi nel suo saggio illuminante, costituiscono le sue principali caratteristiche. Pudore e riservatezza sono sottolineate anche nel saggio, altrettanto illuminante e documentato, dell’altro curatore, Claudio Franzoni. Sono saggi ricchissimi e avvincenti, indispensabili per chi visiti la mostra o voglia approfondire i vari filoni letterari, artistici, speculativi e simbolici che si stringono intorno alla figura di Penelope o da essa sgorgano.

Secondo un’autorevole tradizione, la casta e malinconica Penelope, modello di tutte le mogli, è un’icona dell’attesa. Forse ha una struggente nostalgia del marito e ancora spera che torni. Forse simboleggia appunto la moglie fedele alla quale manca il marito, ovvero la moglie che l’assenza del marito e l’incertezza per la sorte di lui rende triste e sconsolata. O forse suggerisce che nello stare confinata tutta la vita nella stanza dei telai, in fondo, c’è ben poca gioia. Molto stupore desta comunque il fatto che, quando Ulisse finalmente torna, travestito da vecchio mendicante, al contrario del cane Argo e del porcaro Eumeo, Penelope non lo riconosca. È Omero a raccontarci questo fatto davvero strano, tutt’altro che trascurabile. Quando Ulisse si palesa, lei non gli crede, vuole le prove. Avrà pensato che dopo tanti anni fosse improbabile che Ulisse fosse ancora vivo? (e alquanto forte e vigoroso come si evince dalla prova dell’arco). O avrà pensato che il suo trucco di fare e disfare per tenere sotto scacco il trono e il destino di Itaca, il suo astuto gioco della politica, fosse giunto inesorabilmente alla fine? Dopo tutto, che ne è di Penelope quando Ulisse si reinsedia nel regno? La regina Penelope, protagonista di una memorabile storia, dopo il ritorno del re, suo legittimo marito, ha ancora una storia?

In effetti è plausibile persino ipotizzare che, nel momento in cui la sua memorabile storia finisce, quando il suo personaggio, che ha svolto un ruolo cruciale nella trama del racconto, esce di scena; che quando Omero chiude la vicenda del fare e disfare perché è tornato il re, Penelope abbia nostalgia del passato. Ora sarà come tutte le altre tessitrici, seguirà diligentemente la regola della sua arte, produrrà splendidi e utili tessuti ma non li disferà più. Anche la complicità con le ancelle per fare funzionare il trucco sarà solo un ricordo. La fama che ne ha fatto una delle icone fondamentali nell’immaginario dell’occidente svanirà nella noia casalinga dell’ordinario.

Il segreto dell’arte di Maria Lai è efficacemente espresso dal suo motto secondo il quale «essere è tessere», a cui si accompagna la sua acuta osservazione sulla somiglianza fra il filo della tessitura e quello della scrittura. Lo testimoniano, fra le realizzazioni dell’artista, i celebri libri di stoffa così come i telai, i grovigli e i fili che legano la montagna e l’abitare in un’opera collettiva. Nell’antichità erano le Moire a filare, e filavano la vita singolare di ogni essere umano, dalla nascita alla morte, essendo la morte semplicemente il filo troncato, spezzato. Sì, essere è tessere, anche perché, secondo il mito delle Moire, il nostro essere qui, in questo mondo o, se si vuole, il nostro esistere come singolarità incarnate, è un filo sottile, intrecciato con altri fili, che si dipanano in una trama collettiva, istoriata temporaneamente, per un tratto, per nodi provvisori, dalla storia di ciascuna vita. Notoriamente le Moire si sono guadagnate nella tradizione una fama sinistra perché tagliano il filo, decretano la morte. Si dimentica però che esse sono all’opera anche quando il filo si forma e nasce, al suo inizio. Come ben sa Penelope, c’è un inizio per ogni filatura, così come, intrecciando i fili, per ogni tessitura. Forse anche per questo la regina disfaceva di notte la tela: per ricominciare, per far sì che la sua storia non finisse e diventasse interminabile, perché sempre tornava al senso davvero memorabile e infinitamente ripetuto del suo inizio.


(Doppiozero, 28 settembre 2024)

AA.VV., Religioni e prostituzione. Le voci delle donne a cura di Paola Cavallari, Doranna Lupi, Grazia Villa, VandA.edizioni 2024. A partire dalle diverse fedi e dalla condivisa esperienza di femminismo, studiose, teologhe, filosofe interrogano testi sacri e tradizioni di Buddhismo, Cattolicesimo, Ebraismo, Induismo, Islamismo, Protestantesimo e ne smascherano i modelli patriarcali su prostituzione e violenza maschile contro le donne. La lettura femminile può rivoluzionare il punto di vista delle religioni, scoprendo le radici dei ruoli di potere legati al fenomeno prostitutivo. Luciana Tavernini dialoga con Doranna Lupi e Grazia Villa.

di Pinella Leocata


Vietato a Sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi editore) è un pamphlet attraverso cui le femministe della differenza vogliono rivendicare la propria storia e le proprie pratiche attaccate e contestate dalle compagne di strada, le transfemministe e le femministe intersezionali, e anche dalle forze di sinistra con cui per anni hanno fatto un importante percorso comune. Uno scontro su temi complessi, delicatissimi e “divisivi” che dieci femministe con storie diverse hanno raccontato a partire da una prospettiva comune, quella della difesa della donna da un pensiero e da un approccio teso a svalutarla negando la centralità del corpo e del sesso e, dunque, della differenza tra maschi e femmine. Un attacco alla dualità sessuale pensato nell’ottica dell’inclusione volta a dare pari dignità e uguaglianza ai gruppi minoritari e messi ai margini, come gay, transessuali, transgender, intersex. In questa prospettiva – sostengono le femministe della differenza – il “gender” viene visto come la via per eliminare alla radice le differenze sessuali considerate fonte di discriminazione. E dire che sono state proprio le femministe le prime a distinguere tra sesso biologico con cui si nasce e genere, cioè il «ruolo sociale, comportamentale ed emotivo che le diverse società attribuiscono ai due sessi».

Daniela Dioguardi, curatrice del pamphlet – a Catania in occasione della presentazione del libro che si è tenuta alla Camera del Lavoro su iniziativa de La Ragna-Tela e Fare Stormo – ha denunciato che chi non è d’accordo su questioni come la gestazione per altri, chi non considera la prostituzione un lavoro come un altro, chi non condivide il blocco farmacologico della pubertà in casi di disforia sessuale, viene accusato di essere reazionario, transfobico e persino fascista, mentre condividere queste idee e pratiche sarebbe espressione di laicità e modernità. Un approccio contro cui le femministe della differenza prendono posizione pubblica rivendicando la centralità del corpo e l’importanza della dimensione universalistica del tutto abbandonata per assumere il «paradigma individualistico diventato dominante nell’economia come nella politica e nell’etica». Paradigma in nome del quale «la concezione della libertà come affermazione positiva dell’integrità della persona viene scambiata con l’idea mercantile della libertà senza vincoli nel disporre di sé sul mercato». Una libertà per cui si pretende di avere diritto alla maternità surrogata che svilisce la complessità della procreazione umana trasformandola in una forma di produzione che riduce la maternità a mera gravidanza, a una sorta di «lavoro da fare svolgere alle operaie della riproduzione». Un’idea di libertà che reputa un diritto la mercificazione del proprio corpo e considera la prostituzione come un normale lavoro sebbene questa sia una delle moderne forme dello sfruttamento e del colonialismo.

«Si rivendica come un diritto l’avere un figlio, scegliere il sesso, prostituirsi», sostiene Silvia Baratella della “Liberia delle donne” che sottolinea come «i diritti ufficiali sono costruiti sul corpo maschile per cui l’eccedenza femminile rimane fuori». «Anche la legislazione di parità, che pure ha rimosso molti ostacoli alla realizzazione delle donne – denuncia – non solo non ha raggiunto del tutto l’obiettivo, ma produce paradossi». Per cui – come ha evidenziato Anna Di Salvo nell’introdurre l’incontro – in nome della bigenitorialità, in caso di separazione per violenza del coniuge, la donna rischia di vedersi togliere i figli accusata di “alienazione parentale”, cioè di istigarli contro il padre che i piccoli non vogliono incontrare per paura. Ancora. Il ministro dell’istruzione Valditara ha previsto “quote blu”, cioè quote maschili, per i posti di presidi, data la prevalenza di donne in questo ruolo. E nell’Emilia rossa l’Udi e un’associazione di lesbiche si sono viste rifiutati i finanziamenti previsti perché non hanno maschi tra i soci. Un approccio, questo, che – in nome di quello che viene definito progresso e modernità – anche la Sinistra ha fatto proprio. Di qui il titolo provocatorio del libro “Vietato a Sinistra”.

La volontà di cancellazione della donna – ha denunciato la femminista e deputata Avs Luana Zanella – passa anche dall’uso del linguaggio: dal ricorso al neutro, lo schwa, e dall’uso dell’espressione “violenza di genere” anziché violenza maschile contro le donne, e dalla perifrasi “persona con utero” per indicare la donna. È di questi giorni il manifesto di “Non una di meno” dove si legge che «il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco». «Per essere inclusive bastava dire: il diritto all’aborto è sotto attacco, perché ad abortire sono le donne».

Temi su cui si sono consumate rotture di relazioni politiche e amicali e persino l’interruzione di ogni forma di dialogo. Eppure è da qui, dal confronto, che bisogna ripartire per una politica condivisa delle forze di sinistra.


(La Sicilia, 28 settembre 2024)

di Franca Fortunato


L’iraniana Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace 2023, attivista per i diritti umani e contro la pena di morte e la tortura, in occasione della 79esima Assemblea generale dell’Onu in corso a New York, ha fatto pervenire al segretario generale Guterres e a tutti i membri dell’Assemblea un appello dal carcere di Evin (Teheran) dove sta scontando una condanna a dodici anni e undici mesi. «Sono trascorsi due anni dalla nascita del movimento “Donna Vita Libertà” – scrive – che ha attraversato tutto l’Iran […]. Il prezzo pagato per aver aderito a questa sollevazione collettiva e per aver mostrato solidarietà al popolo unito […] è stata una repressione che continua ancora oggi. Il mondo è testimone di uccisioni, esecuzioni, incarcerazioni e di una violenta e spietata repressione delle donne nelle strade, nei centri di detenzione e nelle prigioni. In questi giorni […] assistiamo alle sentenze di condanna a morte emessa dal regime contro donne attiviste come Pakhshan Aziz e Sharifeh Mohammadi», a tutti chiede di «agire con urgenza e determinazione […] per fermare le selvagge esecuzioni di massa dei prigionieri, liberare tutti i prigionieri politici e fermare la repressione delle donne e di tutte le istituzioni civili». I muri della prigione non hanno mai impedito a Narges Mohammadi di far sentire la sua voce. Oggi è in carcere anche per aver scritto un libro, Più ci chiudono più diventiamo forti. Voci di donne iraniane in lotta per la libertà, da poco tradotto in italiano e pubblicato da Mondadori. Il libro, per cui è stata accusata «di aver infangato il nome dell’Iran in tutto il mondo», raccoglie interviste a dodici detenute, sue “compagne” di prigione. Dodici detenute che raccontano, documentano, discutono con lei sulle condizioni disumane del carcere, e in particolare su una forma specifica di tortura, la “tortura bianca”, usata in tutte le carceri iraniane e anche contro di loro: la detenzione in isolamento con deprivazione sensoriale portata alle estreme conseguenze. Quello che viene fuori dai loro racconti sono storie dolorose di donne che solidarizzano tra loro, non si piegano al carnefice, alla repressione, alle botte, agli insulti, alle minacce e intimidazioni ma restano fedeli a se stesse e ai loro ideali politici e religiosi per cui sono in carcere. «A tenermi in piedi – scrive Narges in un appello consegnato in carcere alla madre Ozza Bazargan – in questa prigione, mentre il mio corpo è ferito e contuso, sono l’amore per il popolo onesto ma tormentato di questo paese e i miei ideali di giustizia e libertà». Donne che fanno scioperi della fame per protestare per le loro condizioni carcerarie o per “commemorare” i morti della repressione seguita alle manifestazioni per la morte di Mahsa Amini e «dimostrare vicinanza alle famiglie». Per punirla le viene negata la possibilità di parlare al telefono con la figlia Kiana e il figlio Ali, che vivono in Francia col padre Tahi Rahmani, giornalista progressista che ha lasciato l’Iran dopo essere stato arrestato e incarcerato per un totale di quattordici anni. Narges Mohammadi è una giovane donna, nata il 21 aprile 1972, laureata in fisica, e sin dall’università si batteva per i diritti umani e la giustizia sociale. Durante quegli anni – come racconta nel libro – ha subito i primi due arresti e da allora è stato un entrare e uscire dal carcere «per aver agito contro la sicurezza nazionale, per l’appartenenza al Centro dei difensori dei diritti umani, per propaganda contro il regime». Ma lei è una donna indomita. «Non smetterò mai di lottare affinché i diritti umani e la giustizia trionfino nel mio paese». Per quella lotta lei è in carcere e continuerà a fare sentire al mondo la sua voce.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io Donna”, 28 settembre 2024)

di Marta Ragozzino


Alla Libreria delle donne di Milano si possono trovare tutte le edizioni originali (i “libretti verdi”) delle opere di Carla Lonzi e degli scritti di Rivolta Femminile.

La redazione


«Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente». Con queste perentorie parole si chiude Sputiamo su Hegel, forse il più noto scritto di Carla Lonzi (1931-1982), storica e critica d’arte assai acuta, poi filosofa femminista radicale, il cui pensiero non convenzionale è all’origine del femminismo della differenza sessuale. Annarosa Buttarelli, nel suo recente Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione. Milano, Feltrinelli 2024, un breve ma denso profilo intellettuale e politico, pubblicato nella collana Eredi a cura di Massimo Recalcati, scrive che il rivoluzionario testo, stampato nell’estate del 1970, rappresenta per la sua autrice «il primo pericoloso passaggio – in pubblico – verso la liberazione». Proprio quell’estate, Lonzi aveva fondato, con la pittrice Carla Accardi e la giornalista e attivista Elvira Banotti, il movimento Rivolta femminile, il cui manifesto in sessanta punti aveva tappezzato i muri di Roma e poi di Milano. Liberarsi dall’hegeliano rapporto servo-padrone, riportato alla millenaria oppressione della donna da parte del patriarcato, è uno dei nodi della filosofia della trasformazione di Lonzi che, attraverso autocoscienza, deculturazione e rivolta femminile, voleva letteralmente «sputare Hegel fuori da sé», e fuori dalle altre donne trasformate. «La donna così com’è è un individuo completo», scriveva Lonzi, «la trasformazione non deve avvenire su di lei, ma su come lei si vede dentro l’universo e su come la vedono gli altri».

Parole chiare, e forse scomode, soprattutto allora, che hanno distinto un pensiero filosofico d’avanguardia, molto amato e negli anni costantemente approfondito. 

Non pochi sono stati infatti i contributi di studiose femministe, storiche dell’arte, critiche o filosofe, prevalentemente donne, che hanno affrontato l’opera mirabile (e ineludibile) di Lonzi, avvicinandola dal lato filosofico o da quello della critica d’arte. Dalle prime ricerche sul femminismo di Maria Luisa Boccia negli anni ’90 (L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Milano 1990), fino ad arrivare, appunto, a quelle attuali di Buttarelli, secondo la quale Lonzi è la pensatrice femminista più amata al mondo. Certamente è impossibile immaginare la storia del femminismo in Italia senza di lei. 

Su questo non si può non concordare, al di là delle specifiche passioni, o appropriazioni, scatenate da un pensiero filosofico tanto originale e al contempo rigoroso e concreto, che accende l’interesse anche delle nuove generazioni di giovani irriducibili, che oggi rifiutano ogni forma di patriarcato e pretendono confidenza con le parole e le forme più feconde del femminismo del passato. Anche per questo, forse, si stanno ripubblicando le preziose opere, ciclicamente irreperibili, della prima e della seconda Lonzi, la critica d’arte e la filosofa femminista, grazie all’iniziativa della casa editrice La Tartaruga (con la supervisione e cura proprio di Buttarelli), che segue il precedente sforzo di Sandro D’Alessandro e della sua Et al./edizioni, che aveva già riproposto, tra 2010 e 2011, diversi titoli dell’autrice, di nuovo esauriti in tutte le edizioni (o con prezzi alle stelle su e-bay).

Io sono stata fortunata, ho ritrovato in casa la prima edizione di Sputiamo su Hegel, quel piccolo libretto con la copertina verde degli Scritti di Rivolta femminile, la casa editrice fondata da Lonzi, testimonianza aurorale del femminismo di mia madre, Grazia Centola, che poi la intervistò nel 1981 per “Quotidiano donna”, il suo giornale. Proprio quel «sottile libretto verde» che, scriveva mia madre, «ha aperto a molte di noi, sugli inizi degli anni ’70, una strada che ci avrebbe portate lontano». Molto lontano. Attraverso una profonda irrinunciabile trasformazione del modo di pensare e di essere delle donne, della cultura borghese dalla quale spesso provenivano, del marxismo e del loro stesso fare politica, anche attivamente, nei partiti o gruppi della sinistra, della psicanalisi, della famiglia e semmai dei figli, dei rapporti uomo-donna, ma anche tra donne, del proprio corpo, dei desideri, della sessualità. 

La conversazione, intitolata “Con il problema dell’uomo alle spalle”, verteva sull’ultimo libro di Lonzi, intitolato Vai pure, allora da poco pubblicato sempre da Scritti di Rivolta femminile, spregiudicata analisi a due voci del rapporto di coppia che, nei diciassette anni precedenti, aveva legato Lonzi allo scultore Pietro Consagra, al quale, alla fine del lungo dialogo registrato con il magnetofono (che è anche, di nuovo, un discorso sull’arte e nell’arte e soprattutto sul potere, oltre che il “verbale di un fallimento spaventoso”), Carla appunto dice “vai pure”. «E dopo, dopo cosa succede?», chiedeva mia madre, «Non voglio sapere come finirà, perché non so cos’è la vita matura. Se è il finire in una coppia che si sostiene e sclerotizza o se, arrivati a un certo punto, non sarà più congeniale per me riprendere il cammino da sola per una esplorazione finale della mia vita». 

Era un discorso lungimirante, benché animato, ora capisco, da un profondo rovello. Ma purtroppo, fatta ancora una volta tabula rasa, non ci fu più tempo, Lonzi, che era stata male negli anni Sessanta, si ammalò di nuovo e morì, a Milano, l’anno successivo, con Consagra al suo fianco. 

La nuova collana promossa dalla casa editrice fondata nel 1975 da Laura Lepetit, che fu molto vicina a Lonzi e alle sue compagne nei primi anni Settanta, oggi della Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi e diretta da Claudia Durastanti, è stata aperta, l’estate scorsa, proprio dal volume Sputiamo su Hegel e altri scritti, che raccoglie i primi scritti femministi di Lonzi, pubblicati nei “libretti verdi” e poi stampati in unico volume nella medesima collana nel 1974. Quello del 1970 che dà il fulminante titolo all’intero libro, il successivo e forse ancor più radicale La donna clitoridea e la donna vaginale del 1971, anch’esso dotato di un titolo “scomodo” che subito infranse un tabù e un modo di essere, distinguendo due categorie femminili e privilegiando la donna clitoridea, svincolata e liberata anche dagli schemi sessuali imposti dal patriarcato (e non dalla fisiologia, spiega l’autrice con tanto di illustrazioni). Raccolti insieme ad altri scritti di Rivolta femminile, tra cui naturalmente il Manifesto del gruppo, che apre il volume ed è una chiarissima e “lapidaria” dichiarazione di intenti, che si conclude con il famoso «Comunichiamo solo con donne».

La nuova edizione ha una copertina assai bella, che chissà se le ribelli separatiste di Rivolta femminile avrebbero approvato. Si tratta di Violarosso, un quadro del 1963 proprio di Accardi, con i classici segni dell’artista, ormai sottili e quasi grafici, che compongono una specie di calligrafia-pattern. Tra i segni di Accardi, che si ripetono su un fondo di colore uniforme (che nella stampa risulta fucsia ma in verità è viola), alla ricerca di un potente effetto luminoso che Gillo Dorfles chiamò “brillanza”, ve ne è anche uno che, un poco dilatato, diventerà poi il logo di Rivolta femminile. Anche per questo, efficace il progetto grafico, accattivanti i colori, significativa l’opera scelta, esposta tra l’altro nella grande retrospettiva dedicata nel 2024 ad Accardi al Palazzo delle Esposizioni di Roma, forte il messaggio che passa, anche nella specialissima relazione tra le due Carle, molto legate negli anni precedenti il 1970 e destinate ad allontanarsi un po’ bruscamente nel 1973. «Ho patito molto di essere rigettata da lei. Il perché? Perché io volevo fare l’artista, non la femminista», confida Accardi ad Anne-Marie Sauzeau, anche lei critica, femminista e compagna di vita di artista (Alighiero Boetti), in uno scritto su Lonzi di qualche anno fa. Anche perché Accardi funge, in un certo senso, da trait d’union tra i due periodi, la critica e il femminismo, e tra i due primi libri editi da La Tartaruga. 

Il secondo è infatti Autoritratto, il capolavoro di Lonzi critica d’arte, che dialoga con 14 importanti artisti del suo tempo, registrando le conversazioni (raccolte tra 1965 e 1969) e ricomponendole poi, «in modo da riprodurre una specie di convivio, reale per me che l’ho vissuto, anche se non si è svolto nell’unità di tempo e di luogo», con un montaggio coraggioso e poetico, quasi una ricerca sulla lingua oltre che sui linguaggi dell’arte. Lonzi è insofferente, cerca una critica orizzontale, paritetica, rifugge il rapporto di potere che si cela nell’atto critico, ma partecipa al dialogo come una di loro.

Il volume, rieditato nei mesi scorsi sempre per la cura di Buttarelli, che anche in questo caso sceglie di non premettere un saggio introduttivo è un «libro fondamentale per come si scrive d’arte ma è anche il preambolo della pratica dell’ascolto che rivoluzionerà il femminismo di Carla Lonzi».

Naturalmente Accardi è compresa, unica donna, tra gli artisti protagonisti del famoso convivio (gli altri sono Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato e, in assenza, Twombly), apice di un sodalizio «largamente comunicativo e umanamente soddisfacente», come lei stessa scrisse. Pubblicato nel 1969 da De Donato, con in copertina un Concetto spaziale di Fontana, il più anziano e famoso tra gli artisti coinvolti, forse non approvato dall’autrice, che aveva scelto con cura il resto dell’apparato iconografico del volume, composto prevalentemente da piccole fotografie molto private e intime, sue e degli artisti che colloquiano con lei, Autoritratto è un’opera fondamentale nella storia della critica d’arte italiana per metodo e contenuti. Un’opera preziosa per comprendere le vicende della cultura non solo artistica di quegli anni, con la quale di colpo si chiude la vicenda critica di Lonzi, e si apre quella filosofica e femminista.

A ben vedere, impossibile immaginare non solo la storia del femminismo ma anche quella della critica d’arte senza di lei che, dopo aver rotto ogni schema in quel campo, fu capace all’improvviso di lasciare tutto, scegliendo la strada filosofico-politica, la strada dell’autocoscienza, del separatismo, e della concreta trasformazione, come ricorda Buttarelli nel suo libro.

Lei, che era stata l’allieva più promettente di Roberto Longhi, padre-patriarca della critica d’arte italiana, lei che era stata una delle «menti più lucide della generazione critica che aveva attraversato gli anni sessanta», come scrive Laura Iamurri nel suo volume su Lonzi e l’arte in Italia, descrivendone anche, sulla base delle fonti, i precedenti anni di formazione.

Ma nulla, forse, fu davvero improvviso, bensì inesorabilmente consequenziale e connesso al problema del potere (lo approfondiscono sia Iamurri che Giovanna Zapperi). L’arte, per Lonzi, non poteva farsi vettore di quelle forme liberatorie di costruzione del sé e di formazione dei legami, sulle quali stava lavorando dai primi anni sessanta, anche con Accardi, l’arte alla fine è maschile, e lei si allontana anche dagli artisti.

Non era facile, non era scontato, c’era stato anche il Sessantotto. Si apriva un decennio nuovo: di lotte, conflitti, tensioni, violenza, e anche di nuovi linguaggi creativi, nuove parole chiave, nuovo femminismo, nuove priorità, tra cui liberarsi da ogni forma di oppressione. Ma Lonzi quella vita vissuta a fianco degli artisti in difesa dell’autonomia della creazione, e della creatività, libera infine anche dal potere della critica, l’aveva lasciata: aveva scelto il femminismo, l’“uscita allo scoperto”, come lei stessa dice, lo sdegno per quella cultura maschile millenaria e misogina che aveva imposto l’inferiorità della donna.

Con Rivolta femminile aveva dimostrato di «saper andare via da dove una donna non può stare», come scrive Buttarelli, in un libro che non è esattamente una biografia e nemmeno un’esegesi, bensì si pone in risonanza con Lonzi, in un attraversamento dell’inesausta vitalità del suo pensiero, lungo un percorso scandito da capitoli che toccano in maniera non cronologica i principali scritti del periodo femminista, rileggendoli per similitudini e confronti e fornendo chiavi e spunti di riflessione, più che di interpretazione, sempre interni al corpo a corpo con il pensiero e l’opera dell’autrice.

Lonzi oggi si studia in tutto il mondo, non so dire se più come filosofa femminista che come critica.

Ma, a conti fatti, forse non furono veramente due vite e due Carle, anche se così parve, e in questi termini, quasi contrapposti, Lonzi era stata letta negli anni.

Un prima e un dopo, con il giro di boa del decennio più lungo del secolo breve a fare da discrimine. 

Due ambiti di ricerca e pratica separati, quasi che questo iato tra un prima e un dopo, questo farsi lei stessa, come scrive, tabula rasa, in un pensiero/azione assolutamente identificato con la vita, fosse irriducibile. Difficile, seppur utile, interpretare però. Buttarelli, che vuol far «far brillare i testi nella loro capacità autonoma di accompagnare chi legge a una augurabile trasformazione di sé» invece un poco lo considera un tradimento. Del resto, Lonzi scrive nel suo Taci anzi parla. Diario di una femminista, pubblicato nel 1978 da Rivolta femminile, «Quando un altro mi spiega una cosa mia, mi interpreta sia in bene che in male, ci vuole proprio molta delicatezza e intelligenza perché io lo accetti». Dunque Lonzi rifugge dall’interpretazione e non vuole lasciare alcuna eredità? O forse, come scrive Buttarelli, che molto si rivolge al monumentale diario, la sua è una eredità senza testamento «di cui non ci si può appropriare ma si può abbracciare»? Scritti trasformativi che cambiano la vita, li definisce la filosofa che ha avuto, dal 2017, la responsabilità scientifica del Fondo Carla Lonzi, per qualche anno depositato presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma per volontà del figlio Battista Lena e sensibilità dell’allora direttrice Cristiana Collu. Partì allora una meritoria attività di catalogazione e digitalizzazione dei documenti, preziosa per le studiose e gli studiosi di ambo i fronti, il femminismo e la critica d’arte. In questi ultimi mesi, tra grandi polemiche, il comodato è stato sospeso, per la visione diversa della nuova direttrice, e il Fondo sta cercando un’altra casa. Di sua iniziativa, mia nipote ventenne ha rintracciato online, digitalizzate, le minute delle lettere di Carla a mia madre, sua nonna, in occasione di quella intervista. Conferma del fatto che Lonzi interessa ancora alle più giovani.

Grazie alla sua visione e al suo pensiero, che tocca temi e nodi nuovamente attualissimi, Lonzi ha potuto cambiare «il linguaggio con cui le donne parlano di loro stesse, della loro sessualità e dei loro desideri». Rimbombano nelle orecchie le parole di Elena Cecchettin, «Non fate un minuto di silenzio per Giulia, ma bruciate tutto […] ora serve una sorta di rivoluzione culturale».

In particolare la lotta al patriarcato e la liberazione dai ruoli, anche sessuali, imposti da una cultura misogina pervasiva, che si annida anche nelle rivendicazioni egalitarie contro le quali Lonzi e le altre allora insorgevano «L’uguaglianza tra i sessi è la veste con cui si maschera oggi l’inferiorità della donna». Affermazioni che colpiscono con chiarezza e senza mediazioni, «Non vogliamo tra noi e il mondo nessuno schermo». Anche per questo, forse, il Manifesto e gli scritti di Lonzi possono avere ancora oggi un effetto dirompente sulle ragazze che vivono un femminismo diverso, intersezionale e connesso alle rivendicazioni di genere.

Ma non era questo il suo obiettivo. Lonzi non è mai diventata una maestra. Non era nella sua rivolta. Lei aveva decostruito, decolonizzato, deculturalizzato, utilizzando autocoscienza e separatismo per smontare, con autenticità, in primo luogo la sua vita e la sua cultura, tabù e pregiudizi, stereotipi e ruoli, ma non per essere una maestra del pensiero.

Del resto non voleva lasciare un’eredità, come suggerisce Buttarelli, ma piuttosto scrollarsi di dosso ogni incrostazione, ogni retaggio e vincolo di una cultura di sopraffazione millenaria, rifiutata con un taglio netto.

Ci vuole un grande coraggio per fare questo vuoto. Buttarelli è sincera, rivela di essere diventata “lonziana” da giovane, di aver avuto una vera e propria conversione nel 1974: «da quel momento ho iniziato a essere una donna».

E in questa decostruzione, in questo svuotamento quasi artaudiano, Buttarelli parla anche del vuoto dello zen e delle mistiche contemporanee, come Teresa di Lisieux, che Lonzi avrebbe scelto come riferimento morale, per comprendere l’abbandono di parti di sé e di posizioni, fuori da qualunque compromesso, verso un’autenticità inesorabile, come prima di lei per esempio Cristina Campo, Lonzi si consuma, pur non essendo una mistica.

La nuova edizione di Autoritratto porta in copertina una fotografia di Teresa di Lisieux nei panni di Giovanna d’Arco in prigione, durante una mise en scène al convento del Carmelo. Durastanti scrive che era desiderio dell’autrice “accompagnare” il suo libro proprio con questa fotografia, o forse con un particolare, come il primissimo piano del volto della santa mistica, diventato un’opera di Giulio Paolini proprio nel 1969. Teresa nella parte di Giovanna d’Arco in prigione, omaggio all’amica Carla, che all’epoca «nutriva un particolare interesse per la figura di Teresa di Lisieux».


(Doppiozero, 27 settembre 2024)

di Valentina Pazé


Di che cosa parliamo quando parliamo di maternità surrogata? Oggi tutti si esprimono sull’argomento, con piglio sicuro e toni ultimativi, in un clima politico fortemente ideologizzato e inquinato da confusioni, ambiguità, malintesi, primo fra tutti quello derivante dall’indebita sovrapposizione di questo tema con quello dei diritti delle coppie omosessuali. Può allora essere utile ripartire dall’inizio e provare a fissare alcuni punti fermi.

La surrogazione di maternità, o gestazione per altri (di qui in poi, per comodità, anche Gpa), è una pratica che consente di scomporre il processo procreativo in varie fasi, affidandole a soggetti diversi. Il modello oggi di gran lunga prevalente prevede che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna (diversa dalla prima) si offra per ospitare nel proprio utero gli embrioni (spesso più di uno) creati in laboratorio attraverso le tecniche della fecondazione in vitro. Ne risulterà una gravidanza particolarmente impegnativa per la gestante, tenuta ad assumere ormoni prima e dopo l’impianto ed esposta al rischio di complicanze, aborti spontanei, depressione post-partum superiore alla media. Non proprio una gravidanza fisiologica, dunque, nonostante si senta talvolta parlare della Gpa come di una pratica “vecchia come il mondo”, di cui si troverebbe traccia già nella Genesi, dove Agar (una schiava!) dà un figlio ad Abramo…

Quando parliamo di maternità surrogata ci riferiamo, inoltre, a un rapporto giuridico, mediato da un contratto tra soggetti privati, che richiede talvolta di essere convalidato dall’autorità giudiziaria. A sottoscrivere l’accordo c’è, da un lato, la donna che si impegna a portare avanti la gravidanza, rinunciando a rivendicare qualsiasi legame con il bambino che ha partorito. La chiamerò, di qui in poi, “madre naturale” o “madre surrogata”. Non “portatrice”, come si usa anche fare, perché è termine asettico che banalizza in modo davvero inaccettabile l’esperienza della gravidanza, nel corso della quale la madre ha scambi biologici ed emozionali con il feto, comprovati dall’epigenetica. Dall’altro lato ci sono i singoli o le coppie infertili che alla donna si rivolgono per superare la loro impossibilità di generare. Li chiamerò, di qui in avanti, “committenti” o “genitori intenzionali” (le formule più frequentemente usate nei testi legislativi, là dove la Gpa è legale).

Ciò che mi sembra importante evidenziare è che stiamo parlando di un accordo che intercorre tra persone che prima di essere state messe in contatto da un’agenzia non si conoscevano. Questo è il caso tipico, per lo meno. Quello della donna che si offre di soccorrere una sorella, un’amica o un amico gay si presenta (quasi) solo nei film. Nella realtà ci sono tutta una serie di altri soggetti attorno alle parti che siglano il contratto: agenzie incaricate di fare incontrare la domanda e l’offerta (e di provvedere alla necessaria “formazione” della surrogata), cliniche, avvocati, psicologi. Un indotto dalle ricadute economiche non indifferenti, che contribuisce a dare un’idea degli interessi in gioco, anche là dove la Gpa sia ammessa esclusivamente nella forma “altruistica”.

Quello della donna che si offre di soccorrere una sorella o un amico gay si presenta (quasi) solo nei film. Nella realtà si tratta di un rapporto giuridico mediato da un contratto tra soggetti privati.

Ecco un ulteriore punto da chiarire, forse il più delicato e controverso dell’intera faccenda. Oggi normalmente si distinguono due versioni di Gpa: commerciale e altruistica. Nel primo caso la donna che sottoscrive il contratto viene remunerata per il suo “lavoro”, nel secondo riceve un “rimborso spese”. Nella realtà, distinguere tra queste due forme di compenso è molto difficile. Daniela Danna, una delle massime esperte italiane sul tema, non ha dubbi:

“La differenza tra Gpa altruistica e Gpa commerciale […] non esiste. Le donne, tranne rarissime eccezioni nell’ambito di relazioni strette già esistenti – non si prestano a portare a termine una gravidanza per altri se non ricevono un compenso, in alcuni paesi ufficialmente sottoposto a un tetto (facile da aggirare)” (“Fare un figlio per altri è giusto”. Falso!, Laterza, 2017, p. 6).

Distinguere tra remunerazione e rimborso è arduo non solo per la facilità con cui i controlli possono essere aggirati, ma perché il rimborso tipicamente non copre solo le spese mediche o gli abiti pre-maman, ma anche i “mancati guadagni” di donne che, al momento della stipula del contratto, possono essere disoccupate o lavoratrici precarie.

Più in generale, distinguere tra “lavoro” e “dono”, in questo campo, non è semplice. In tutti i casi, lo abbiamo visto, esiste un contratto, che vincola la gestante a tutta una serie di obblighi (stile di vita salubre, accertamenti medici, assistenza psicologica), limitandone la libertà, per non parlare della privacy. In alcuni casi i contratti prevedono che la stessa decisione di abortire, o non abortire (quando siano consigliabili interventi di “riduzione embrionale”) non sia pienamente nella disponibilità della donna, tenuta a risarcire i genitori intenzionali in caso di scelte a loro sgradite.

Esiste poi, soprattutto, l’obbligo di consegnare il neonato a coloro che lo hanno “commissionato”. Su questo punto è bene essere chiari. Si favoleggia, talvolta, di Paesi che riconoscerebbero alla donna il diritto di cambiare idea, nel caso in cui l’esperienza della gravidanza e del parto faccia sorgere in lei il desiderio di non interrompere la relazione con il suo bambino. La realtà è diversa. In nessun luogo in cui la Gpa è legale viene riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola. Anche nel Regno Unito, spesso portato ad esempio di Paese in cui sarebbe previsto il diritto al ripensamento, l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure dei genitori intenzionali. Non diversamente dispone il progetto di legge elaborato dall’associazione Coscioni, depositato in parlamento durante la scorsa legislatura: in caso di controversie tra committenti e madre naturale deciderà un giudice, “adottando in via d’urgenza un provvedimento nell’interesse dei minori anche in base alle intenzioni manifestate dalle parti e recepite nell’accordo di gravidanza solidale e altruistica”. L’ultima parola, dunque, è di un tribunale. Che – l’esperienza insegna – nel superiore interesse del minore ad essere cresciuto in una famiglia più agiata di quella della madre naturale, lo affida di regola ai genitori intenzionali. Solidarietà obbligatoria? Altruismo forzato? Dono esigibile per via giudiziaria? È chiaro che la presenza di un accordo giuridicamente vincolante e formalmente coercibile cozza con l’idea di un gesto gratuito e ispirato a generosità…

In nessun luogo in cui la Gpa è legale viene riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola: l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure dei genitori intenzionali.

Ma perché, allora, è così facile imbattersi in testimonianze di madri surrogate che dichiarano di avere agito per amore, e non per soldi? (per farsi un’idea, si veda il volume di S. Marchi, Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri, Fandango, 2017). A me sembra che si debba riflettere per lo meno su due aspetti. Per un verso – l’abbiamo visto – non dobbiamo pensare alla Gpa come a una relazione che riguarda esclusivamente una donna e una coppia infertile, ma tenere presente ciò che si muove dietro di loro: le agenzie, le cliniche, gli studi legali, gli psicologi… Il fatto che una surrogata non sia (ufficialmente) pagata, insomma, non implica che attorno a lei non esista un mercato. E dove c’è mercato c’è marketing; ci sono le donne che fanno da testimonial per le agenzie e sono tenute a restituire una certa immagine dell’attività in cui sono state coinvolte. Ma c’è poi, forse, anche una spiegazione più banale dietro al grande bisogno di alcune madri surrogate, e di coloro che ad esse si rivolgono, di raccontare – e raccontarsi – la Gpa in termini diversi da uno scambio commerciale: il fatto che, osservata dall’esterno, assomiglia un po’ troppo alla compravendita di un bambino. Qualcosa che perfino nell’epoca del neo-liberismo trionfante risulta difficile da accettare…

Su questo aspetto vale la pena di interrogarsi. Che cosa vendono, o “regalano”, le surrogate? Un bambino? O piuttosto un servizio, una prestazione, per quanto molto particolare e irriducibile a qualsiasi altra, perché consistente nella messa al mondo di un essere umano? Al di là della difficile risposta a questo quesito, una delle ragioni per cui dovrebbe essere a mio avviso mantenuto il divieto della Gpa ha a che fare con il rischio che l’esperienza sempre singolare e concreta della gravidanza venga banalizzata e ridotta a mera fabbricazione di un “prodotto” da offrire a chi ne faccia richiesta.

L’altra ragione, su cui mi sono soffermata maggiormente altrove (Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato, Bollati Boringheri, 2023) rinvia alla libertà delle donne di autodeterminarsi, che non va confusa con l’autonomia negoziale e va difesa anche contro le pressioni del mercato.

Il fatto che i bambini siano persone, e non oggetti, se per un verso giustifica il divieto di istituzionalizzare una pratica che li priva programmaticamente della relazione con colei che li ha messi al mondo, per altro verso induce a criticare proposte di legge punitive come quella presentata in Parlamento dalle destre, che, facendo della Gpa un “reato universale”, avrebbe ricadute deleterie sui bambini già nati attraverso tale pratica. Se i bambini sono persone, se i loro bisogni devono essere messi al primo posto, non si possono fare pagare a loro le colpe degli adulti che, per averli, hanno fatto ricorso alla Gpa nei Paesi in cui è legalmente riconosciuta. “Colpe”, peraltro, originate da un desiderio di genitorialità comprensibile, che non va criminalizzato. Non si tratta qui di inasprire le pene e rendere la vita difficile ai trasgressori. Si tratta di fare una battaglia culturale sul significato della Gpa, che non può essere considerata una semplice tecnica di riproduzione assistita. E chiedersi se il desiderio di avere bambini, di accudirli e amarli non possa essere soddisfatto attraverso forme di genitorialità diverse da quella biologica, basate sull’adozione e sull’affido (da aprire anche alle coppie omosessuali). E forse anche sulla disponibilità ad accompagnare la crescita dei figli altrui, in nome di legami di solidarietà e di affetto che non hanno bisogno di contratti per esprimersi.


(Il Mulino.it, 6 giugno 2023)

di Nadia Terranova


In queste settimane, sono usciti due libri che dietro un tono lieve, divulgativo, nascondono strutture robuste e uno scomodo interrogarsi: sono libri diversi, ma entrambi si rivolgono alle nuove generazioni per un confronto su cosa significhi essere oggi ragazza, donna, femminista. Uno è Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) pubblicato da Mondadori e firmato dalle filosofe Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo (pp. 216, euro 18,50); l’altro Contrattacco! Ribellarsi e difendersi dalla violenza maschile scritto per Sperling&Kupfer (pp. 256, euro 14,90) dalla giornalista Paola Tavella e illustrato dalla fumettista Teresa Cherubini (che ragazza lo è ancora). Escono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, interpretando un desiderio femminile collettivo, non troppo sotterraneo, di parlarsi fra donne rompendo il puro dato anagrafico. Entrambi si rivolgono alle ragazze contemporanee con uno spessore che li rende godibili a ogni età, ed entrambi hanno cura di tenere la porta aperta perché circoli aria fresca nella doppia direzione dell’ascolto reciproco: possiamo ammirare la libertà che nuovi corpi e voci stanno portando in strada e in rete, e insieme riconoscere altre esperienze e non cancellare segmenti fondamentali della nostra storia.

Tutti e due i libri scelgono una seconda persona che chiama sulla pagina le giovani lettrici, e tutti e due scansano la forma funerea e saccente del lascito, preferendo piuttosto configurarsi come intersezioni vive, accese e scomode. Tutti e due affrontano temi divisivi come la maternità surrogata (Donna si nasce) e la gestione femminile del denaro e del potere (Contrattacco!) cercando una necessaria distanza dalle soluzioni più ammiccanti della divulgazione massificata. Pur presentandosi come manuali, divergono nella forma: piacevolmente eccentrica, la prosa di Tavella che esorta alla consapevolezza del proprio e della propria forza materiale e magica viene completata dalle incursioni fumettistiche di Cherubini, mentre Cavarero e Guaraldo, con sapienza e arte di sintesi, decostruiscono gli slogan confusi che funzionano come sirene vuote per un femminismo di superficie. Se l’Adrienne Rich di Nato di donna e la Simone de Beauvoir del Secondo sesso insieme a Carla Lonzi fanno da comune sostrato, l’analisi di Donna si nasce saccheggia la poetica di scrittrici come Clarice Lispector ed Elena Ferrante e si confronta criticamente con il pensiero di Judith Butler, mentre Contrattacco! ricorda alle ragazze il lavoro di Elena Giannini Belotti e i passi in avanti di bell hooks. Pur presentandosi in vesti editoriali snelle, questi due libri ci ricordano che essere femministe implica una, a tratti sgradevole, postura di libertà, un continuo sforzo di luce e chiarezza.

Nascere donne è un fatto, la cui coscienza è una strada accidentata tutta da percorrere, una strada in cui cultura e biologia non sono avversarie l’una dell’altra, come oggi va di moda sostenere. «La differenza sessuale innanzitutto è un fatto», scrivono Cavarero e Guaraldo, «nella specie umana, così come in molte altre specie viventi, le femmine e i maschi hanno caratteristiche anatomiche e quadri ormonali differenti. Avremmo potuto dire un fatto biologico, se non fosse che il fatto della differenza sessuale viene registrato, interpretato e valutato da tutte le culture di cui abbiamo una documentazione storica fin dall’antichità, ovvero in tempi in cui la biologia non era ancora nata e ben poco si sapeva dei codici invisibili che fanno funzionare i corpi». Anche la cultura ha le sue trappole, ricorda Tavella: «Veniamo educate a farci benvolere, a non disattendere le aspettative degli altri, a sorridere anche quando vorremmo piangere, a non essere mai scostanti, a non fare capricci, a essere carine», e ancora: «Il manuale della femmina adorabile è infarcito di istruzioni sull’arrendevolezza, remissività, pazienza, dolcezza, paura, oltre che di consigli subdoli, tipo: se sorridi sei più bella». Essere arrabbiate è vietato, sottolinea Contrattacco!, che indica chiaramente in questa zona rossa la neutralizzazione maschile della possibilità per le donne di difendersi e di conoscere e gestire le proprie emozioni. L’industria del fitness che oggi spopola insegna un controllo sul corpo dedicato alla bellezza e alla perfezione piuttosto che alla consapevolezza, al mito dell’invincibilità piuttosto che alla conoscenza e all’utilizzo strategico dei propri limiti.

Uno dei nodi più interessanti di Contrattacco! riguarda proprio questo tipo di esplorazione personale, che ha che fare con la forza anche se viene spacciato per debolezza: conoscere i propri confini non significa difettare, ma sapere quali zone di noi sono inviolabili, e imparare a difenderle. In queste pagine, i disegni di Teresa Cherubini mostrano due esercizi a metà tra corpo e spirito, derivati dal percorso yogico di Tavella, che insegnano non solo alla nostra parte cosciente a dire no, che si tratti di una molestia o una proposta più melliflua, o semplicemente qualcosa che non desideriamo ricevere. Se fissiamo confini troppo stretti rischiamo l’asfissia, se troppo ampi non avvisteremo chi vuole travalicarli a forza: per trovare la nostra dimensione dobbiamo, innanzitutto, prendere contatto con noi stesse, tutte intere. Altro che disprezzo della biologia: è attraverso il corpo che sappiamo chi siamo, come ricordano Cavarero e Guaraldo: «La corporeità e i suoi dati elementari, il nostro esser corpo non solo eretto ma sessuato nella differenza, svolgono un ruolo decisivo in quella piena capacità di significazione, altrimenti chiamata linguaggio, che caratterizza la specie umana rispetto alle altre specie animali».

Siamo corpi, dunque, e attraverso la nostra postura, il nostro passo, i nostri movimenti ci definiamo. Lo sanno le ragazze che attraversano le strade al buio e che chiedono oggi, a gran voce, di riprendersi la notte: è una richiesta del corpo, dello spazio che ci è concesso occupare. Lo sanno attraverso la maternità, come figlie o come madri, le donne che fanno l’esperienza di «espellere un frammento vivo del proprio corpo, e di sentirsi figlia come frammento di un corpo intero e ineguagliabile» (la citazione di Elena Ferrante viene riportata dalle filosofe in Donna si nasce, libro che ha, fra gli altri, il non comune merito di parlare di uteri gravidi non come se fossero un difetto o un dettaglio da rimuovere). Sappiamo di essere corpo e allo stesso tempo sappiamo di non essere soltanto corpo: se come femministe decidiamo di abitare questa contraddizione senza forzarla da una parte o dall’altra, senza cedere alla facile tentazione di scioglierla, ci costringeremo a sguardi diversi, a volte sorprendenti, moltiplicando le possibilità di approccio alla vita e aumentando in noi la difesa dalle trappole meno esplicite del maschilismo e del patriarcato. Scrive Tavella: «I corpi femminili sono mortificati, educati e addestrati per perpetuare la disuguaglianza. Ma i nuovi corpi, i corpi ‘cattivi’, quelli da ragazzacce scalmanate che scopriamo e ridisegniamo imparando a difenderci e a contrattaccare, possono essere vissuti e rappresentati per garantirci indipendenza e autonomia, finora esclusiva degli uomini». Quei corpi sono rappresentati da Teresa Cherubini nelle sue efficaci e belle illustrazioni, mentre lo stesso corpo che si spacca e genera un frammento di sé non mostra meno potenza nelle pagine di Cavarero e Guaraldo: la Grande Madre, la Madre Terra, Rea, Gea, Gaia, Cibele, Inanna, Ishtar, Astarte e le altre divinità delle società più arcaiche non vengono tirate in ballo con la fumosa nostalgia di un tempo perduto, ma come simbolo di una forza che non si può cancellare e che mostra come è stato costruito il ruolo della debole e della vittima sul corpo delle persone di sesso femminile. Una decostruzione presente anche nelle pagine di Tavella, che individua precise strade di libertà: «Un corso di autodifesa femminista, la frequentazione di una palestra di arti marziali per donne, iscrivere le nostre bambine a ju jitsu o karate fin da piccole sono tutte esperienze del corpo ma anche della psiche».

Nei collettivi di autodifesa si impara a dare e ricevere sostegno, si impara a fidarsi ed essere oggetto di una riposta fiducia, ma si impara anche che l’aggressività non è per forza sbagliata o evitabile, soprattutto se reattiva. La consegna alle ragazze, in questi due libri, è densa di libertà e indipendenza dagli uomini ma anche da fazioni sclerotizzate. «Come femministe abbiamo imparato a elaborare un pensiero concreto ma libero, non subordinato né ai partiti né alla visibilità mediatica degli schieramenti dati. Non ci interessa essere inquadrate in fazioni politiche progressiste o oscurantiste», scrivono Cavarero e Guaraldo, invitando le ragazze a leggere senza paraocchi. Perché di tutte le strade femministe che si possono percorrere, capire resta la più autenticamente sovversiva.


(il manifesto, 26 settembre 2024)

di Serena Tarabini


Máxima Acuña, la contadina peruviana simbolo mondiale delle lotte contro l’estrattivismo: «Ricevo minacce di morte, ma credo che grazie all’unità delle lotte si possa vincere contro il potere»

Con il suo metro e mezzo scarso di altezza e la sua voce mite, la contadina peruviana Máxima Acuña da più di dieci anni sta tenendo testa a un colosso minerario. Difende un bene ancora più prezioso dell’oro di cui l’industria estrattiva va a caccia senza scrupoli: il suo diritto a esistere e la salute dell’ambiente. La sua origine è umilissima: nata a Sorocucho sulla Cordigliera andina nel 1970, è cresciuta nella casa dov’è nata, con i genitori, anche loro contadini, persone semplici che come lei non sapevano né leggere né scrivere ma che le hanno insegnato a lavorare la terra e a convivere con la natura. Il terreno dove si trova la sua casa e vive con la famiglia, il marito e quattro figli, è l’unica cosa che possiede; si nutre dei prodotti da lei coltivati, beve l’acqua della laguna che alimenta il suo terreno e lavora la lana delle sue pecore per realizzare vestiti e artigianato da vendere. Una vita, la sua e quella di migliaia di altri campesinos che non vale nulla di fronte alla sete di profitto di una multinazionale. Suo malgrado è diventata una famosa attivista e simbolo di resistenza, insignita di premi e riconoscimenti, chiamata da ogni parte a raccontare una storia che non è ancora finita e che riguarda tanti. È venuta di recente in Italia dove fra le altre cose ha partecipato a GEA, la scuola di giustizia ecologica e sociale che si è tenuta a Trevignano.

Quando e perché è iniziata la sua lotta?

La mia lotta è iniziata nel 2011 quando le imprese Yanacocha del Perù e Newmont degli Stati Uniti hanno iniziato a invadere il nostro territorio con i loro macchinari per espandere la loro attività estrattiva. Hanno convinto tutti i nostri vicini a vendere le loro terre anche se in realtà è come se gliele avessero rubate perché sono stati intimiditi e minacciati e alla fine hanno ricevuto una somma molto minore del reale valore delle loro terre. Noi non abbiamo accettato i soldi in cambio della vendita perché crediamo che la terra abbia un valore che non si può quantificare ed è l’unico bene che possediamo. Noi ci sentiamo i custodi della terra.

La società mineraria Yanacocha vuole realizzare un imponente e controverso progetto di estrazione di oro e di rame dal nome “Conga”. Un investimento di 5 miliardi di dollari che mira a creare una miniera estesa per oltre 20 km². Con quali conseguenze per il territorio e chi lo abita?

La realizzazione del progetto Conga porterebbe alla distruzione di migliaia di ettari di territorio andino: l’estrazione dell’oro rilascia metalli tossici nella terra che noi coltiviamo, prosciuga le più di venti lagune che forniscono l’acqua che noi beviamo e utilizziamo per irrigare i nostri campi, rilascia polveri nell’aria che respiriamo. Alcune di queste lagune sono l’unica fonte di acqua per gli abitanti di Celendín e Cajamarca. Inoltre per noi queste lagune non hanno un valore solo materiale, ma anche simbolico importantissimo. L’elemento liquido dell’acqua nella cosmovisione andina è centrale, l’acqua ci dà la vita, senza l’acqua nessuno potrebbe vivere. La gente della città deve pagare per bere l’acqua, noi campesinos prendiamo l’acqua dalle fonti di acqua pura, non dobbiamo pagare niente. Quest’acqua, l’acqua della Pachamama (madre terra in quechua, la lingua andina) dà vita anche a tutte le persone nella città perché arriva dalle lagune.

In che modo il conflitto con l’impresa mineraria ha condizionato e danneggiato la sua vita? Quali minacce ha ricevuto?

Abbiamo subito maltrattamenti fisici e psicologici. Siamo stati picchiati dalle forze di polizia locali, su pressione della società mineraria abbiamo subito uno sfratto illegittimo, siamo stati denunciati ingiustamente di invasione di terreno. Ci è stato reso difficile coltivare, abbiamo visto uccidere i nostri animali, i raccolti della nostra terra sono stati rubati. Abbiamo trovato la nostra casa distrutta in più occasioni, una volta anche il tetto e i pannelli solari e la videocamera che avevamo istallato per registrare i soprusi di cui eravamo vittime. La nostra libertà di movimento è limitata perché non possiamo più uscire ed entrare in casa senza essere identificati dai check-point che l’impresa ha insediato. Inoltre, è partita contro di me e la mia famiglia una campagna pubblica di diffamazione in cui si sostiene che siamo dei bugiardi e dei pazzi che si oppongono allo sviluppo. In questo modo hanno convinto i vicini di casa a non avere nessun tipo di relazione con noi. Un’altra conseguenza è che a causa di questa nomea non possiamo trovare lavoro. Non abbiamo più privacy, pace, tranquillità nella nostra casa perché con i loro macchinari sono arrivati sui confini della nostra terra, nel cielo sopra di noi vola un drone, siamo circondati dalla polizia e dalla loro vigilanza privata che ci controllano e che sono corrotti dall’impresa. Ci hanno proibito di andare nelle lagune della nostra terra, hanno anche distrutto i documenti che attestano che la proprietà della terra è nostra.

Nel 2014 la Corte Suprema della regione l’ha prosciolta dall’accusa di occupazione illegale, nel frattempo la sua lotta è diventata nota a livello internazionale, nel 2016 ha vinto il premio Goldman, il più importante per l’ambiente a livello mondiale, una sentenza recente della Corte di Giustizia regionale (agosto 2024) ha accolto la richiesta di fermare il progetto a causa dei danni che provoca all’ambiente; tuttavia la battaglia non è finita.

Io devo ancora lottare insieme alla mia famiglia. Continuiamo a ricevere minacce di morte e a essere mandati in prigione, le denunce non si fermano. Siamo molto più soli e abbandonati, perché la gente dei villaggi che prima ci appoggiava ora è sparita, sono stati intimiditi dalle imprese coinvolte. Il processo giudiziario non è ancora terminato e noi non abbiamo le risorse economiche per seguirlo fino alla fine. Ma il pericolo più grande rimane quello della vita: è un rischio molto concreto, molte volte questo tipo di problemi è stato risolto in questo modo e nessuno lo è venuto a sapere oppure nessuno ha pagato per questo.

In che modo andare avanti? Di cosa c’è bisogno per vincere questa battaglia definitivamente?

L’unico modo è l’unità; un’alleanza fra autorità, organizzazioni, politici, giovani e anche le altre donne che lottano. Penso che questa possa essere la strada per vincere contro questi poteri. Per questo ho accettato l’invito della Scuola Gea di venire a Roma, per tessere nuove alleanze e costruire una rete di lotta comune. Sono molto grata alla scuola Gea perché con loro ho potuto incontrare il partito di Sinistra Italiana e dei Verdi che si sono impegnati a sostenere le mie spese legali e a portare il mio caso nella commissione esteri del Parlamento italiano. Ho incontrato anche il Dicastero dello Sviluppo umano integrale della chiesa di Papa Francesco e loro si sono impegnati a mettermi in contatto con il vescovo di Cajamarca. Solo lottando insieme le ingiustizie contro la mia famiglia e la distruzione di Madre Terra termineranno. La nostra lotta non riguarda solo la nostra terra, ma anche quella di coloro che vivono nelle città e pensano solo ai soldi: la fame un giorno arriverà anche lì, e allora che faremo? Dobbiamo lottare non solo per noi, non solo per voi, ma per il Pianeta intero.


(il manifesto – Extraterrestre, 26 settembre 2024)

di Lara De Lena


Il suo discorso a Venezia in occasione del premio assegnatole dalla giuria presieduta da Isabelle Huppert, ha – come afferma Maura stessa – toccato un nervo scoperto: il silenzio sociale nei confronti di temi come la complessità della maternità al di fuori della sua narrazione più convenzionale e l’ancestrale e ormai inaccettabile difficoltà della sua conciliazione con il lavoro. «Mi auguro che la società – ha dichiarato la regista Maura Delpero nel ritirare il Leone d’Argento – dato che si riproduce attraverso i nostri corpi, inizi a sentire questo problema come suo e non lasci sole le donne».

La piccola e insieme maestosa storia corale di Vermiglio si svolge nel 1944 in un piccolo paese incastonato nella Val di Sole, una terra di confine che accompagna e abbraccia le vicende dei protagonisti diventando paesaggio interiore, bianco e siderale in momenti drammatici e verde e assolato in momenti più teneri. Le vicende si snodano con un rispetto filologico della lingua e del momento storico, ma proprio questa collocazione così puntuale in un tempo e in un luogo specifico diventa funzionale al racconto di una vicenda che può tranquillamente collocarsi al qui e ora. È proprio questa la ragione che ha spinto il Comitato di Selezione per il film italiano a sceglierlo per la 97ª edizione degli Academy Awards per concorrere nella categoria International Feature Film Award, «Per la sua capacità di raccontare l’Italia rurale del passato, i cui sentimenti e temi vengono resi universali e attuali».

Il tuo percorso di formazione parte dalla città di Bologna, credi che sia stato importante per la tua crescita artistica?

Assolutamente sì. Bologna mi ha fatto conoscere il cinema. Ho studiato Lettere all’università, guardando film in Cineteca, dove ho scoperto la storia del cinema e la cinematografia contemporanea attraverso le rassegne che passavano di lì, occasioni che mi hanno aperto al mondo. A Bologna ho passato gli anni della mia formazione e sono diventata un’adulta, la mia formazione ideologica è partita da lì. Io non credo che il cinema sia un’arte giovane, è un’arte per adulti, per aver qualcosa da raccontare devi aver vissuto e io lì ho vissuto tante cose, sono certa che quello che porto adesso nel cinema è frutto di quello che sono diventata attraverso questa città.

Quanto è stata influente la collaborazione con una compagnia teatrale per la tua formazione, se lo è stata?

Difficilmente avrei fatto un lavoro su un altro spettacolo. Quello spettacolo nello specifico era molto cinematografico. Ho sentito che quello spettacolo potesse avere uno sguardo in più che non fosse solo di servizio o ancillare, ma che potesse in qualche modo risignificarlo. Mi piaceva stare in teatro, guardare gli attori tirare su lo spettacolo, è stata un’esperienza a tutto tondo.

Il tuo discorso di ringraziamento per il Gran Premio della Giuria ricevuto a Venezia ha avuto grande eco. Ci vuoi dire qualcosa su questo?

La quantità di messaggi che ho ricevuto dopo quel discorso non mi ha stupita ma mi ha fatto pensare, in fin dei conti è stato un discorso semplice e, nel mio caso, assolutamente sentito perché sono stata io stessa una giovane mamma che girava il suo film con enormi difficoltà. La sensazione che hai quando fai questo mestiere – e non è solo una sensazione, perché a volte te lo senti proprio dire – è che te la sei cercata. Ai miei colleghi maschi questo non è mai stato detto. I registi che fanno film con bambini piccoli sono tanti, ma rimane una questione che non tocca nessuno. Il riverbero che ha avuto questa semplice frase mi ha fatto capire di aver toccato un nervo scoperto. C’è troppo silenzio attorno a questo tema, si lascia che le donne si mettano sulle spalle il peso di questa scelta come fosse un capriccio personale mentre è una questione che riguarda tutti.

Pensa che la società di oggi si stia definitivamente smarcando dal retaggio culturale patriarcale o la strada per la parità è ancora lunga?

Il tema della maternità complessa che tratto in Vermiglio affonda le radici nella mia infanzia, ma è anche un modo concentrato di raccontare nel complesso le questioni legate alla maternità in generale, soprattutto all’interno di una società patriarcale che certo sta cambiando, ma che ancora non ha fatto il passo decisivo. Io mi ritrovo a parlarne in maniera più diretta e subliminale per una questione legata al mio inconscio e alla mia infanzia, ma sono anche contenta dal punto di vista politico di mettere queste questioni al centro dei miei film. È una cosa buffa quella che è successa nei secoli, questa programmatica esclusione di un genere rispetto a un altro. Tutti noi lo abbiamo normalizzato perché siamo nati in un mondo così; tuttavia, io faccio sempre l’esercizio di raccontarmi le questioni come se dovessi rispondere a un bambino che mi fa una domanda, e raccontare la questione di genere a un bambino non può che generare la domanda: «Ma perché?».

A proposito di bambini, come è stato per lei lavorare con attori così piccoli?

Innanzitutto, credo che loro siano preziosi. Il loro sguardo, soprattutto in un racconto duro come quello del film, è uno sguardo che dà futuro e, insieme, leggerezza. I bambini riescono a dire le cose in maniera irriverente e dolce insieme, dicono le cose che noi adulti pensiamo ma non ci permettiamo di dire. Mi è piaciuto, soprattutto in Vermiglio, avere questa sorta di coro greco che commenta di notte i grandi avvenimenti come le micro-questioni della famiglia, avere i loro sguardi sussurrati delle cose che non si possono dire, vivere il processo di rielaborazione nelle loro giovani menti di quello che accade in casa. A loro quando giri non puoi dire tutto, alcuni sono troppo piccoli per storie così dure. Questo porta a volte a creare storie nelle storie pensando a quello a cui anche nella vita reale avrebbero accesso: quando io da bambina entravo in cucina le voci degli adulti si abbassavano e io raccoglievo frammenti. E li mettevo assieme e ora li racconto.


(l’Unità, 26 settembre 2024)


Milano, cinema Anteo, Arlecchino e altre sale. A partire da giovedì 26 settembre 2024 è in programmazione Maria Montessori. La nouvelle femme, produzione italofrancese diretta dalla regista Léa Todorov, con l’interpretazione di Jasmine Trinca. Il film descrive Maria Montessori (1870-1952) come una straordinaria donna rivoluzionaria, coraggiosa, che dedica la vita a cambiare il sistema educativo attraverso un approccio personalizzato e lotta per affermare il protagonismo delle donne nella società. A un secolo dalla sua creazione, il metodo Montessori è considerato ancora oggi all’avanguardia in tutto il mondo. Il film è prodotto dalla Wanted, che ha riservato per la Libreria delle donne un voucher sconto sul biglietto, da presentare alla cassa.



Roma, Palazzo Merulana, via Merulana 121. «Sabina Ambrogi ha fatto un’operazione magnifica, culturale e affettiva, con questa mostra sul lavoro artistico di sua madre, Anna Fabriani (1924). Per me è stato un gran piacere vederla e immaginare il tempo rubato per dipingere agli obblighi della vita quotidiana, la ben nota “stanza tutta per sé” così difficile da conquistare. Credo che Sabina abbia voluto rendere omaggio anche a questa conquista che si trasmette di madre in figlia e non è mai assodata una volta per tutte» (Ida Dominijanni su facebook). Orari e info: https://www.palazzomerulana.it/

Unica. Sei storie di artiste Italiane, a cura di Maria Grazia Messina, Anna Maria Montaldo e Giorgia Gastaldon: mostra a Nuoro, Spazio Ilisso, fino al 30 ottobre, + catalogo. Un invito a riscoprire il lavoro di sei artiste del Novecento: Carla Badiali, Carol Rama, Giosetta Fioroni, Carla Accardi, Tomaso Binga e Maria Lai. Oltre 70 opere sono in mostra a Nuoro presso lo Spazio Ilisso e sono raccolte nel catalogo che presentiamo stasera. Un’occasione preziosa per approfondire i nessi tra arte e politica. Con Francesca Pasini e Renata Sarfati intervengono Giorgia Gastaldon, una delle curatrici, Iolanda Ratti, responsabile per il Contemporaneo del Museo del 900 di Milano, Antonello Cuccu della casa editrice Ilisso.