Quasi tutti i mezzi d’informazione di oggi, 5 febbraio, si occupano della vicenda dello stupro della tredicenne a Catania. Alcuni si pongono il problema di cosa dicano le donne, in particolare le femministe, di questo stupro che è stato commesso da giovani maschi, alcuni minorenni, di nazionalità non italiana. Molti di coloro che si pongono questa domanda sono uomini.

A quanto mi risulta ben pochi uomini sui mezzi d’informazione si pongono, di contro, la domanda di cosa pensiamo, diciamo e facciamo noi maschi, me compreso.

Forse, in questi casi invece di guardare sempre al fuori di noi, di rendere esterno a noi il problema della violenza, in questo caso anche sessuale, e di puntare il dito accusatore verso altri uomini, meglio se stranieri, sarebbe il caso che volgessimo il dito, lo sguardo su di noi, sui nostri silenzi e sulle nostre omissioni. E tentassimo, con le parole e con le azioni, di cambiare lo stato di cose esistente, senza pensare che violenza sia sempre agita da altri, e non da noi stessi.

(Via Dogana 3, 5 febbraio 2024)

Nel mese di novembre si è consumato, davanti agli occhi di tutti – in una morbosa diretta televisiva, a cui ormai siamo purtroppo abituati – l’ennesimo femminicidio: la vittima era Giulia Cecchettin. Siamo stati tutti, per una settimana, con gli occhi incollati al telefono, alla tv, le orecchie fisse a varie stazioni radiofoniche alla ricerca di una notizia, un’informazione in più, nonostante la maggior parte degli spettatori conoscesse già quale sarebbe stato l’epilogo.

Io ho appreso la notizia durante una delle attività quotidiane più banali e indispensabili: stavo facendo la spesa al supermercato. Ricordo di aver aperto Instagram, mentre navigavo nel reparto surgelati, e aver visto sulla mia home il post di Elena Cecchettin – una tenera foto tra sorelle, un cuore in didascalia. Ricordo di essermi fermata in mezzo al corridoio, giusto un istante come per far funzionare meglio le mie sinapsi tra il rumore delle casse e il vociare degli avventori. Ricordo poi di aver pianto, una reazione spontanea e viscerale. Mi sono vergognata, un pochino, delle mie lacrime tra surgelati, verdure in scatola e patatineHo pagato la mia spesa, sempre tra lacrime sommesse, e sono rientrata a casa, triste e confusa.

La mia giornata è andata avanti alla meno peggio: non riuscivo a distogliere la mia attenzione da questa vicenda. Mi sono chiesta a lungo il perché, perché questo femminicidio era diverso – lo sentivo diverso, vicino, personale – mi sono chiesta se fosse per la tv, se fosse per l’attesa, se fosse per la contingenza con il 25 novembre, poi ho capito: era personale perché per la prima volta nella mia vita ho pensato: «Potevo essere io».

La mia vicenda personale, ormai di parecchi anni fa, è abbastanza simile a quanto ha preceduto la scomparsa di Cecchettin. Un uomo come Filippo Turetta l’ho avuto al mio fianco: una persona meschina, insicura, che traduceva questa sua inettitudine in una continua competizione con me, che apparivo agli occhi di tutti come una brillante liceale con un roseo futuro davanti. Lui, al contrario, accumulava fallimenti e delusioni accademiche durante i primi anni dell’università. Sminuirmi era dunque per lui essenza di sopravvivenza: più lui cadeva in basso, più doveva trascinarmi appresso.

Quella che all’inizio era una semplice cotta estiva in pochi mesi è diventata una di quelle che adesso chiamiamo relazioni tossiche, con tira e molla, insulti, litigi, tranelli, fino alla violenza vera e propria e alla persecuzione. Infatti, non è sempre facile chiudere le relazioni con questo tipo di persone: come bisce riescono sempre a trovare il modo di rientrare nella tua vita, magari tramite amici in comune, attenzioni non richieste o chiamate imploranti nel cuore della notte. Rientrano coi i vari cambierò, i vari non sei tu, sono io e altre bugie che raccontano come se ci credessero davvero. Non se ne vanno, mai. Non se ne vanno perché io – e come me tante altre – mi sento obbligata ad accogliere le loro turbe, a offrirmi come spalla su cui piangere lacrime di coccodrillo. Così, anche se l’unica cosa che vuoi fare è sbattergli la porta in faccia, sei lì a cercare le parole migliori per andartene senza farlo soffrire troppo. Solo che a volte queste parole non esistono e resti con la porta aperta, lui entra ed esce quando gli pare, come se quella relazione fosse solo un albergo e le cose che vorresti dirgli si accumulano sempre di più, ma le parole buone, quelle che non fanno soffrire nessuno, non le hai più, te le ha tirate tutte via a suon di insulti e quindi che fai? Stai zitta, aspetti che il tempo faccia il suo corso, che sia lui a stufarsi, che sia lui a sbattere la porta, sperando che non faccia più casino del necessario. Così, a volte si alza solo un polverone, altre volte, nell’uscire, ti lascia cadavere.

E poi la fanno facile in tv: «Dovete lasciarli al primo segno di squilibrio!». Nei rotocalchi non lo sanno che nonostante il nostro immenso dolore, nonostante ci trattino come degli stracci, che in fondo ci dispiace, sì, ci dispiace vederli tristi e sofferenti: siamo noi le donne e in quanto tali ci dobbiamo prendere cura del mondo intero, anche della parte del mondo che ci odia e ci uccide.

D’altronde, è con questo refrain che siamo state educate: se ti tira i capelli gli piaci… devi capirlo… è che lui è un maschietto e non è intelligente emotivamente e attento come te che sei una femminuccia… così devi volergli bene lo stesso, perché a lui piaci, anche se tu i capelli non li vuoi tirati.


(Via Dogana 3, 13 gennaio 2024)

Questo incontro di VD3, il cui tema era stato pensato dopo l’estate, è venuto a cadere in un momento denso di avvenimenti correlati con gli argomenti proposti alla discussione: la prosecuzione della guerra in Ucraina, la strage di israeliani commessa da Hamas e la seguente guerra scatenata da Israele non solo nei confronti dell’organizzazione islamica, ma soprattutto della popolazione palestinese della striscia di Gaza.

Ma non solo: il 23 novembre è emerso il femminicidio di Giulia Cecchettin, seguito dalla grande manifestazione del 25 novembre («una marea femminista» come metaforicamente l’ha nominata Giorgia Basch in una delle introduzioni all’incontro), il discorso del padre di Giulia al funerale della figlia e le prese di posizione, gli editoriali, le riflessioni che hanno seguito questi avvenimenti. Il tutto anche attraverso la ripresa in ambito pubblico di un concetto, quello di patriarcato, da tempo quasi assente nelle riflessioni sul rapporto uomo-donna e di una novità indubbia che ha accompagnato la riflessione: la presa di responsabilità individuale di molti uomini nei confronti della violenza sulle donne che è una violenza maschile, una responsabilità non solo asserita privatamente ma anche esposta su innumerevoli mezzi di comunicazione.

L’incontro tenutosi alla Libreria delle donne di Milano il 3 dicembre scorso è quindi venuto in un momento in cui era necessario approfondire la discussione sulla responsabilità maschile nelle guerre e nei conflitti armati, la nostra responsabilità in quanto uomini nei femminicidi e nella violenza sulle donne e l’utilizzo di un concetto come quello di patriarcato, che nella discussione pubblica è stato usato a sproposito e senza un adeguato approfondimento: per esempio, lo slogan «il patriarcato uccide», mentre chi uccide le donne siamo noi uomini e non il concetto sociale e simbolico di patriarcato.

In questa direzione si sono mosse le tre introduzioni e il dibattito successivo.

Per muovermi in questo «imbrogliato presente», espressione utilizzata da Laura Colombo richiamandosi a un intervento di Ida Dominijanni su Internazionale dal titolo “Il campo di battaglia del patriarcato vacillante”, ho trovato molto utile la considerazione fatta sulla ferocia del patriarcato, che come una bestia ferita, diventa maggiormente reattivo e capace di offesa sino all’assassinio.

Penso anche siano utili le riflessioni fatte da Laura Colombo sulla necessità di fare ordine utilizzando il concetto di post-patriarcato e non più quello di patriarcato. Un concetto, quello di post-patriarcato, che rappresenta l’esito di una lunga discussione e di approfondimento che inizia dalla rivista Via Dogana nel settembre 1995 (allora edita in formato cartaceo) e in particolare da Luisa Muraro che considerava, dopo quattromila anni di storia e un periodo imprecisato di preistoria, essere arrivata, con la perentoria affermazione «È concluso!» l’epoca della fine del patriarcato. Ma cosa esattamente si era concluso secondo Muraro? Si era interrotto il secolare destino imposto alle donne, si erano sgretolate le leggi che lo tenevano in vita: i desideri maschili, quindi, non erano più i parametri e la misura per le donne. In altre parole, le vite femminili avevano iniziato da tempo un viaggio alla ricerca di significato in prima persona e le relazioni tra donne erano ormai visibili nello spazio pubblico.

Per questo Laura Colombo ritiene «quindi che bisogna parlare di post-patriarcato, perché, se non è finito il potere maschile e la sua ricerca da parte degli uomini, è cessato l’assoggettamento delle donne, è terminato il credito che le donne davano al sistema socio-simbolico rappresentato dal patriarcato».

È un’affermazione che mi convince, anche se a questa convinzione debbo affiancare una considerazione che nasce dalla mia esperienza: per uno come me, nato alla metà degli anni ’50, il patriarcato è stato un sistema pervasivo, che mi ha formato, soprattutto nei primissimi anni della mia vita e nella mia adolescenza. Onestamente, non credo di poter superare completamente questo condizionamento profondo. I giovani uomini che stanno crescendo o che nasceranno in futuro potrebbero forse riuscire a eluderlo e a superarlo a fondo con le pulsioni che ne sono l’effetto.

Condizionamento che per me, uomo che riflette sulla propria sessualità, riconosco nella mancanza di un “senso del limite”, che deriva dalla mancanza di consapevolezza su cosa non debba essere superato. A volte, durante l’atto sessuale o nelle fantasie, potrei desiderare di “andare oltre”, anche se nella realtà scelgo consapevolmente di non farlo, basandomi su discussioni avute con le donne. Questo desiderio, talvolta stereotipato come parte intrinseca della “natura” maschile, include la mancanza di resistenza a un impulso sessuale, una reazione violenta di fronte a un rifiuto sessuale e l’inerzia nel negoziare esplicitamente o implicitamente gli atti sessuali con la mia partner. Riconosco l’importanza del “senso del limite”, inclusa la consapevolezza che un rapporto sessuale può portare al concepimento, e quindi la necessità di fermarsi o di prendere precauzioni per evitare di superare quei limiti, come evitare un rapporto sessuale completo o proteggersi adeguatamente.

Il mio obiettivo realistico e concreto è controllare questa pulsione verso un ipotetico “infinito”, pur sapendo che in alcune circostanze potrei perdere questo controllo. Sono convinto che gestire queste pulsioni, senza reprimerle ma rimanendo consapevole della loro esistenza, rappresenti per me, in questa fase della mia vita, un obiettivo.

Questo non vuole dire che legga e interpreti il ruolo che mi è stato inculcato dal patriarcato come destino come un qualcosa di ineluttabile e da accettare passivamente.

Non voglio certo riprodurre la condizione maschile che Giorgia Basch descrive nella sua introduzione come «un patriarcato eroso, un fantasma del patriarcato che […] ha un volto nuovo che abbiamo appena compreso: quello dell’uomo-vittima. L’uomo che non si riconosce più. […] che si sente in competizione con le donne». Ma debbo fare i conti con la mia storia e con la mia esperienza.

Può darsi che questa risposta non sia completamente appagante, ma ho una preferenza per essere consapevole dei miei limiti piuttosto che cercare di superarli in modo ambizioso in un’unica occasione. Prediligo avere chiara coscienza di questo “limite”, per orientarmi meglio lungo un percorso personale e parziale verso la comprensione di me stesso e l’acquisizione di consapevolezza.

Certo, per le giovani generazioni il discorso è sicuramente diverso: il loro percorso di vita si è sviluppato in un patriarcato morente e si sono confrontati, coscientemente o meno, con la fine simbolica del patriarcato. Di questa situazione non posso parlare e spero che qualcuno di queste generazioni possa prendere la parola e spiegare la propria esperienza.

Riprendendo l’introduzione di Laura Colombo, mi convincono anche altre considerazioni che nascono dalla sua analisi. Quella che lega maschile e guerra, «il problema di un maschile che non sa stare alla misura della libertà femminile, che non può sopportare l’indipendenza delle donne da desideri e imposizioni di un lui debole e in affanno […] Il punto nodale non è quindi il patriarcato, inteso come sistema socio-simbolico di dominio dell’uomo sulla donna. La vera questione è la cultura patriarcale, alimentata da guerra e violenza, che fissa l’identità maschile in una tradizione anacronistica».

E quella che introduce il discorso sul neoliberismo, inteso come una forma specifica di biopolitica in cui le dimensioni sociale, politica ed economica convergono in un sistema che non è affatto repressivo, al contrario, è un sistema che genera, amplifica e ridefinisce la libertà umana secondo i dettami del mercato. Penso sia importante questo riferimento dato che, se non ritengo il sistema patriarcale un destino, non ritengo neppure il sistema economico sociale in cui siamo immersi un qualcosa di immutabile. Anche se sono consapevole che un cambiamento del sistema sociale ed economico non basta a cambiare le relazioni tra donne e uomini: il lascito del patriarcato richiede un lavoro supplementare da iniziare subito, anzi ancor prima.

Esiste, lo ricorda anche Giorgia Basch osservando che quello che sta nascendo dalla manifestazione del 25 novembre scorso e da quello che l’ha preparata e seguita, una «positività che questa forte risposta sta generando nello scuotere le coscienze», ma anche la «chiusura e alcune forme di nascente separatismo e radicalizzazione da parte delle donne [che] mi preoccupano. Perché l’autorità femminile continui a circolare sempre di più abbiamo bisogno di farla sentire agli uomini anche e soprattutto con nuove forme di mediazione, che partano dalla dimensione relazionale».

Una risposta che parte da una consapevolezza che lo starci, anche nelle relazioni con il maschile sia una strada non solo per cambiare queste relazioni di differenza, ma anche se stesse.

Riprendo ancora le sue parole: «Ci sarà la complicità dello sguardo congiunto, ci sarà l’ascolto della nostra differenza».

Per dirla con le parole di un uomo, Marco Deriu, al termine della sua introduzione: « […] c’è ancora molta strada da fare per congedarsi veramente dal sessismo e dalla violenza. […] non basta cambiare le leggi, occorre lavorare sulle mentalità, sulle aspettative sociali, sui modelli di relazione. È urgente cominciare a parlarne insieme».

E per riprendere il filo della mia autobiografia, quello che questo confronto, a volte aspro, a volte difficile e complesso, a volte liberatorio e gioioso che ho cercato e tutti giorni cerco con le donne e qualche uomo della Libreria delle donne di Milano che frequento da quasi trent’anni e con le donne che in quella sede incontro e ho incontrato: relazioni che mi hanno fatto crescere e diventare quanto di buono sono adesso.


(Via Dogana 3, 31 dicembre 2023)

«Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono?». Cosa potremmo fare? In verità, quando la virilità distruttiva è la guerra, ci dissociamo, tanto da aver dato vita a un movimento capace di grandi mobilitazioni, un movimento divenuto soggetto politico: il pacifismo.

Invece, quando la virilità distruttiva è la violenza maschile sulle donne, siamo capaci di fare poco e nulla, ad eccezione di alcune valorose piccole minoranze di volenterosi. Gli stessi uomini che si reputano «rispettosi» evitano di assumersi una responsabilità, rimangono indifferenti o, peggio, difendono il proprio sesso di appartenenza («Non tutti gli uomini…»; «Anche le donne…»), se si sentono chiamati in causa. Solo molto di recente, alcuni opinionisti della grande stampa hanno iniziato a inquadrare la violenza sulle donne come questione maschile, ottenendo perlopiù il consenso femminile. In particolare, è successo a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa a novembre dal suo ex, Filippo Turetta, il quale rifiutava la separazione. Perché la maggioranza degli uomini sembra rimanere indifferente?

Viene in mente come prima risposta che femminicidi, stupri, maltrattamenti, siano ancora percepiti dalla maggioranza degli uomini solo come questione penale, per cui vale la responsabilità individuale. Casi di cronaca nera mista a cronaca rosa. Riguardanti unicamente lui, un matto squilibrato, lei, una che ha sbagliato a sceglierlo o a non mollarlo per tempo. Perciò, è una cosa buona l’irrompere del concetto di patriarcato nel dibattito pubblico sui femminicidi. Perché oppone alla lettura psicologica, individualistica, di cronaca, una lettura politica, che vede nella violenza l’espressione di un sistema di potere, sociale e culturale, a dominanza maschile. Che questo sistema di potere sia in grave crisi non è in contraddizione con l’essere così tanto evocato. La crisi di un ordine sociale e simbolico fa sì che non sia più percepito come ordine naturale, permette che sia svelato e riconosciuto nella sua parzialità, quindi che sia nominato e denunciato, nei suoi retaggi e nelle sue rigenerazioni. Bujar Fandaj, l’assassino femminicida di Vanessa Ballan, prima del delitto ha scritto su TikTok: «Mia madre mi ha cresciuto come la persona più gentile e dolce che tu abbia mai incontrato, ma se mi manchi di rispetto scoprirai perché porto il cognome di mio padre». Non somiglia a una consapevole rivendicazione patriarcale?

Il concetto di patriarcato lo ha rilanciato Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera del 19 novembre, riprendendo un antico slogan femminista, proprio per affermare l’esistenza di una responsabilità collettiva: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». La lettera ha suscitato insistite resistenze. Per settimane, i talk-show di Mediaset si sono chiesti se il patriarcato c’entra con i femminicidi. Per rispondersi sempre di no, senza però mai riuscire a liberarsi da quella domanda.

Secondo la visione delle femministe americane degli anni ’70, la violenza maschile è una funzione della società maschilista. Fa gioco a tutti gli uomini, violenti e non violenti, perché intimidisce e stressa tutte le donne a vantaggio di tutti gli uomini. Sia nelle relazioni private, sia nelle relazioni pubbliche. Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. Nelle relazioni pubbliche, spesso relazioni competitive, lei, quando vittima di violenza, deve gestire lo stress del maltrattamento, sottraendo tempo ed energia alla gestione dello stress del lavoro e della carriera, con relativo beneficio dei competitori maschili. Allora, può essere che la maggioranza maschile intuisca che, in fondo, la violenza sulle donne, più che una deviazione, sia una misura d’ordine favorevole agli uomini. Che, peraltro, se uomini buoni, permette loro di proporsi come protettori, tutori, controllori. O di ottenere un premio di fiducia per il solo fatto di non nuocere.

D’altra parte, noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? C’è chi ha proposto un #metoo alla rovescia. Se tante donne, almeno una volta nella vita, hanno subito violenza, altrettanti uomini, almeno una volta nella vita, hanno inflitto violenza. Per parte mia, credo di aver reagito in modo abbastanza corretto ai rifiuti, perché in genere corrispondenti alle mie aspettative. Non posso sempre dire altrettanto della gestione delle relazioni e, in particolare, degli abbandoni, perché questi contrastavano con le mie aspettative. Specie, in un paio di situazioni, tipo quelle descritte da Dora Casadio, nelle quali durante l’amicizia tra un uomo e una donna, è l’uomo a innamorarsi della donna, perché lui scambia per reciprocità la disposizione di lei allo scambio intimo; per lui è un fatto eccezionale, mentre per lei è naturale. Perciò, ad alcune mie amiche, compagne, ho inflitto scene di gelosia quando mi sembrava fossero troppo amiche di altri uomini, o conversazioni coercitive, con toni insultanti, sarcastici, sminuenti, quando mi pareva che le loro opinioni divergessero dalle mie e, peggio, convergessero con quelle dei miei avversari. Così come ho vincolato più del tollerabile donne che non volevano avere più a che fare con me. Nulla di estremo, ma comportamenti conformi con lo schema di pensiero del potenziale femminicida.

Mi era oscura la mia interiorità? Non sapevo gestire le mie emozioni? Ero incapace di elaborare i miei sentimenti? Può darsi. Così mi presentavo quando era il momento di scusarmi. Una persona confusa che genera confusione nell’altra persona. Il dottor Jekyll che non sa spiegarsi il mister Hyde. Una forma di inganno e autoinganno. Perché, quando (forse) non sai gestire le tue emozioni negative, gelosia, rabbia, delusione, senso di abbandono, una cosa la scopri subito e impari a gestirla presto. L’espressione delle emozioni negative ha un potere manipolatorio. Lei, finché non arriva al punto di rottura, si mette sulla difensiva, si scervella per capirti, e accetta limitazioni. Questo, in una relazione nella quale ti senti inadeguato rispetto al dovuto, ti dà una sensazione dopante di potere a cui preferisci non rinunciare, fino a sondare il limite cui puoi arrivare.

Per un uomo, dissociarsi dalla violenza maschile può avere un effetto proiettivo, che gli permette di chiamarsi fuori nel breve termine. Ma, se la dissociazione è seria, riflessiva, duratura, l’effetto ti trasforma anche se non persegui l’obiettivo della trasformazione. Perché è difficile sfuggire di continuo al riconoscere parti di sé negli uomini che dici di voler isolare. Questo effetto specchio, con relativo senso di colpa, può essere l’ostacolo interiore alla dissociazione dalla violenza. Come il vantaggio sociale che deriva agli uomini dalla violenza è l’ostacolo esteriore.


(Via Dogana 3, 30 dicembre 2023)

Le relazioni introduttive all’ultima redazione allargata di Via Dogana 3 coltivano qualche speranza che l’omicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex-fidanzato segni una svolta nel comportamento di molti uomini. Contano che lo scambio con le donne, come è già stato per alcuni, si approfondisca e diventi per i più elemento di ispirazione per un radicale ripensamento dei comportamenti maschili violenti. Tento anch’io di dare un contributo in questa direzione.

Mi ha molto colpita che l’assassino, Filippo Turetta, abbia sofferto particolarmente del fatto che la ragazza si sarebbe laureata prima di lui. Il traguardo raggiunto avrebbe potuto portarla lontano e sancire la separazione sentimentale che da mesi Giulia perseguiva.

Dunque, un giovane uomo, di fronte al rifiuto di una donna e all’ipotesi di un allontanamento che la sottrarrebbe definitivamente a lui, alimenta possessività e frustrazione al punto da arrivare all’estremo crimine. Ma se agli inizi del loro rapporto avesse provato ammirazione e gioia nello stare vicino a una giovane brillante più di lui negli studi, se si fosse detto, magari con ingenua beatitudine giovanile, «Ha scelto proprio me!», sarebbe per questo cambiato l’epilogo della loro storia affettiva? Non lo sappiamo, ma lui avrebbe posto le basi per accettare forse con sofferenza, ma certo anche con rispetto il rifiuto di lei.

Viene ripetuto giustamente che i cosiddetti femminicidi sono determinati dall’impossibilità per alcuni uomini di accettare la libertà che le donne agiscono. E moltissimi, sempre di più, diventano consapevoli che la violenza estrema è la spia di un disagio vissuto forse da tutti gli uomini per una manchevole elaborazione del mutato rapporto tra i sessi.

Noto che tra le conseguenze più evidenti della libertà delle donne vi è certamente il loro eccellere negli studi e sempre più spesso nelle professioni.

Mi concentro su questo unico aspetto della realtà per chiedermi se, tra le cause dell’infelice rapporto che gli uomini intrattengono con le donne, non sia centrale proprio il modo in cui vivono e (non) elaborano l’eccellenza femminile.

Le donne hanno dato ampia testimonianza dei sentimenti e dei comportamenti che le hanno legate a uomini eminenti e geniali, ne sono piene la storia dell’arte, della letteratura, delle scienze. Sono diventate allieve riconoscenti, collaboratrici fattive ed orgogliose, purtroppo anche spesso misconosciute dagli stessi uomini che hanno goduto del loro appoggio, ma qui conta solo la testimonianza dell’elaborazione vitale che le donne hanno dato della grandezza di un uomo.

E gli uomini? Certo non manca qualche esempio di riconoscimento da parte di alcuni, ma sembra non bastare.

Come i più attenti sanno, anche per le donne è stato difficile sia elaborare il modo di rapportarsi alla grandezza di un’altra, sia accettare che comunque l’altra mantiene integra la libertà di sottrarsi alla relazione. L’impegno politico e il lavoro del pensiero femminile hanno trovato parole per dire che vi è da guadagnare coltivando sentimenti di ammirazione e di riconoscimento per l’intelligenza e le capacità di una propria simile, superando così invidia e indifferenza. Ma anche per affermare che è possibile accettarne il diniego, per via della felicità che viene dal mettersi in gioco con la forza del proprio desiderio, qualunque sia l’esito della contrattazione. “Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio” di Luisa Muraro è uno dei testi fondamentali che ha mostrato come stare proficuamente al mondo, misurandosi con il desiderio dell’altra o dell’altro, che può corrispondere o non corrispondere.

E gli uomini? Possono approfittare anche loro di questo percorso esemplare? Imparando a riconoscere, per esempio, i guadagni possibili nella loro vita grazie all’accettazione piena dell’eccellenza delle donne? E così imparando anche a rispettarne le scelte?

Si potrebbe cominciare con la constatazione che quando lei si muove libera è molto probabile che eccella, perché millenni di ricerca dei modi per sopravvivere all’oppressione o di uscirne addirittura vincenti, da parte delle sue simili, sono per lei un pozzo senza fondo di conoscenza, di connessione profonda con la realtà, che la proiettano su un piano di maggiore intelligenza del mondo e alimentano il desiderio, la forza e il coraggio necessari per cambiarlo.

Il disconoscimento delle grandi e diffuse capacità femminili rischia di rendere la maggior parte degli uomini cieca e sorda nei riguardi di metà del genere umano.

Come insegnare, dunque, a un giovane uomo la felicità di trovarsi vicino alla grandezza di una donna?

Infatti proprio della sua felicità si tratta, sempre che lui non si accontenti dei piaceri promessi dal potere e dalla sopraffazione.


(Via Dogana 3, 21 dicembre 2023)

L’uccisione di Giulia Cecchettin, a due giorni dalla laurea, ha suscitato una tale ondata di attenzione e di partecipazione da farne un importante momento di svolta nella consapevolezza politica. Di quello che è seguito vorrei mettere in evidenza un fatto significativo per una politica come la nostra, che si fonda sul linguaggio: questa volta c’è stata una inedita e generalizzata presa di parola.

In primis ha parlato la sorella Elena che dal suo dolore ha tratto una lucida analisi, poi su questa ennesima uccisione hanno parlato non solo le femministe, ma intellettuali, artisti, donne e uomini comuni. Mi ha commosso un bambino di undici anni che ha appeso davanti alla casa di Giulia un biglietto con su scritto: «prometto che da grande non diventerò mai come lui». In quei giorni perfino la mia parrucchiera parlava di patriarcato.

Considero positivo che la parola patriarcato sia uscita dagli ambiti femministi e sia diventata una parola corrente. Detto questo sono pienamente d’accordo con Laura Colombo quando nella sua introduzione dice che la parola giusta per definire il tempo che stiamo vivendo è post-patriarcato. Il patriarcato, infatti, ha perso sia la sua base nella società che il suo sistema di norme rappresentato dalla legge del padre ed è proprio il post, cioè la distanza, che permette di individuare a colpo d’occhio i comportamenti che si rifanno a quel modello del passato. Se fossimo ancora immersi in quella cornice culturale non ce ne renderemmo conto.

Di post-patriarcato parlano da tempo pensatrici femministe come Ida Dominijanni e Ina Praetorius, e nel 2014 Irene Strazzeri ha pubblicato il suo libro Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico. Ma è una parola che circola ancora poco ed è bene riprenderla e rilanciarla, perché fa chiarezza. Ha ragione Ida Dominijanni a ricordare nel suo bell’articolo su Internazionale che oggi la legge del padre è stata soppiantata dal “discorso del capitalista”, dal godimento immediato e dalla non sopportazione della frustrazione e della mancanza. Filippo Turetta, con la sua impossibilità ad accettare di essere lasciato e di vedere Giulia laurearsi prima di lui, è figura dell’oggi e non residuo del passato. Ma in quel passato trova il privilegio di essere uomo e ha a disposizione tutto l’armamentario prepotente e violento di quella cultura. Come ha detto Elena Cecchettin, «nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto».

Ora la questione è se quell’ondata è una fiammata che si esaurisce in grandi manifestazioni o se ci sarà un seguito di cambiamento e trasformazione. In questi giorni i femminicidi continuano inesorabili ma vediamo anche che non si sta arrestando il desiderio di cambiamento.

Sappiamo bene che la politica essenziale è che ognuno, ognuna parta da sé nel suo vivere quotidiano per trasformare la qualità delle relazioni in cui è inserito e inserita: quelle di coppia, quelle con i figli e le figlie, quelle con amici e amiche, quelle nel posto di lavoro. Inoltre diventa sempre più importante porre maggiore attenzione attorno a sé e non sorvolare sul commento sessista, sulla battuta misogina, sul paternalismo, sul minimizzare, sullo sminuire le donne.

Io penso anche però che il tempo sia maturo per un gesto simbolicamente forte. Nell’invito a questo incontro è citato il Manifesto di Rivolta Femminile che già nel ’70 diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Con le orribili guerre in corso, la militarizzazione del modello di comportamento maschile si è ulteriormente intensificata, per questo penso che ci voglia un gesto di rottura plateale. Ho in mente quello che ha rappresentato per le donne il Me Too, la cui forza è stata in grado di percorrere il mondo. Capisco che per gli uomini la cosa è più complicata perché c’è un doppio passaggio nella presa di coscienza. Il primo passo è senz’altro “mi riguarda” e mi azzardo a dire che la presa di parola di queste settimane ha posto le basi di questo primo passaggio. Il secondo passo è “non ci sto più” e questo va detto a voce alta per aprire a qualcos’altro.

Durante il funerale di Giulia, Gino Cecchettin, il padre, si è esposto con parole significative quando ha detto: «Mi rivolgo agli uomini, noi per primi dobbiamo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi sfidando la cultura che minimizza la violenza da parte di uomini apparentemente normali, non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione cruciale è creare una cultura di responsabilità e di supporto».

Ecco, è il momento per gli uomini di rispondere alla sua chiamata.


(Via Dogana 3, 19 dicembre 2023)

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