di Amira Hass
Israele è stato sconfitto, e la sua sconfitta continua. E non perché dopo nove mesi di guerra Hamas non è ancora stato neutralizzato. Il simbolo della sconfitta figurerà per sempre accanto a quelli dell’ebraismo, come la menorah, e alla bandiera di Israele perché i leader, i comandanti e i soldati israeliani hanno ucciso e ferito migliaia di palestinesi, seminando desolazione nella Striscia di Gaza. Perché l’aviazione ha bombardato edifici pieni di bambini, donne e anziani. Perché gli israeliani credono che non ci sia alternativa. Lo stato ebraico ha perso perché i suoi politici stanno portando alla fame e alla sete due milioni e trecentomila esseri umani, perché a Gaza dilagano la scabbia e le infiammazioni intestinali. Ha perso in modo schiacciante perché il suo esercito concentra centinaia di migliaia di palestinesi in aree sempre più ristrette, etichettate come zone umanitarie sicure, prima di bombardarle. Perché migliaia di persone rese permanentemente disabili e bambini non accompagnati sono intrappolati in quelle aree.
Perché lì si stanno accumulando montagne di rifiuti l’unico modo di smaltirli è dargli fuoco, sprigionando emissioni tossiche. Perché per le strade scorrono fiumi di liquami ed escrementi. Perché quando la guerra sarà finita le persone torneranno nelle case in rovina piene di ordigni inesplosi e il suolo sarà saturo di sostanze nocive. Perché migliaia di persone soffriranno di malattie croniche.
Perché molte di quelle équipe mediche coraggiose della striscia di Gaza, uomini e donne, dottoresse, infermieri, autiste di ambulanze e paramedici (e sì, anche chi sosteneva Hamas o riceveva lo stipendio dal suo governo) sono stati uccisi dalle bombe e dalle cannonate di Israele. Perché i bambini avranno perso preziosi anni di studio. Perché libri e archivi pubblici e privati sono andati in fiamme, e manoscritti, disegni e ricami degli artisti di Gaza saranno perduti per sempre. Perché è impossibile immaginare il danno psicologico inflitto a milioni di persone.
La sconfitta consisterà nel fatto che uno stato che si ritiene l’erede delle vittime del genocidio compiuto dai nazisti ha prodotto questo inferno in meno di nove mesi, senza che se ne intraveda la fine. Chiamatelo genocidio. O non chiamatelo genocidio. Il fallimento strutturale non risiede nel fatto che questa parola ora è stata affiancata al nome d’Israele nella denuncia presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia. Il fallimento sta nel rifiuto della maggioranza degli israeliani di ascoltare i campanelli d’allarme di quel ricorso. Hanno continuato a sostenere la guerra, facendo in modo che quella denuncia diventasse una profezia.
La sconfitta è nelle università del paese, dove si sono formati giuristi che giustificano come “proporzionato” ogni bombardamento che uccide dei bambini. Sono loro a fornire ai comandanti un giubbotto antiproiettile ripetendo la frase fatta “Israele rispetta il diritto internazionale, avendo cura di non far del male ai civili” ogni volta che viene dato l’ordine di espellere la popolazione.
Le carovane di sfollati, a piedi, con i carretti, con i camion carichi di persone e materassi, con le sedie a rotelle che trasportano persone anziane o amputate, sono una bocciatura per il sistema d’istruzione dello stato ebraico, per le sue facoltà di legge e i suoi dipartimenti di storia. Questa disfatta è anche un fallimento della lingua ebraica: l’espulsione è diventata “evacuazione”; un raid militare è “un’attività”; il bombardamento di un intero quartiere è “un buon lavoro dei nostri soldati”.
La natura monolitica di Israele è un’altra ragione e un’ulteriore dimostrazione della disfatta. La maggior parte dell’opinione pubblica israeliana ebraica, compresi gli oppositori di Benjamin Netanyahu, è prigioniera dell’idea che una vittoria totale sia la risposta al massacro del 7 ottobre.
È vero, Hamas ha commesso azioni orribili: non ci sono parole per le sofferenze degli ostaggi e delle loro famiglie. È vero, aver trasformato Gaza in un enorme deposito di armi pronto all’uso è esasperante. Ma la maggior parte degli ebrei israeliani si è fatta accecare dalla sete di vendetta. Il rifiuto di ascoltare e conoscere è nel dna di questa disfatta. I nostri comandanti onniscienti non solo non hanno ascoltato le soldate ricognitrici che avevano lanciato l’allarme su un possibile attacco, ma soprattutto non sono stati in grado di ascoltare i palestinesi.
I germogli di questa sconfitta sono in quei manifestanti che protestano contro la riforma della giustizia israeliana ma esitano ad ammettere che non può esserci democrazia senza mettere fine all’occupazione dei territori palestinesi. è un fallimento già scritto nei primi giorni dopo il 7 ottobre, quando chiunque cercasse di far notare il “contesto” era considerato un traditore o un sostenitore di Hamas. Quei traditori erano i veri patrioti, ma la disfatta è anche loro.
(Internazionale n° 1567, 14 giugno 2024)
di Mario Di Vito, Giansandro Merli
Nella sua prima intervista da eurodeputata inizia a tracciare il programma: lotta a disuguaglianze, discriminazioni e guerra. «Il segnale più forte è che molti voti arrivano da giovani e studenti: loro possono cambiare la direzione del vento che soffia sul paese», dice al manifesto
«Il mio risultato è un segnale positivo di fronte al successo dei partiti di estrema destra in vari paesi europei. Ma il segnale più forte è che molti voti arrivano da giovani e studenti: solo loro possono cambiare la direzione del vento che soffia sul paese». L’eurodeputata Ilaria Salis si è presa qualche giorno per rispondere alle nostre domande, nella prima intervista che rilascia dopo aver ottenuto la valanga di 176mila preferenze che hanno trainato l’Alleanza Verdi-Sinistra ben oltre il quorum e che la porteranno a Strasburgo. Uno scambio ancora da lontano, che richiede alcune cautele per tutelare la posizione di una detenuta in un paese come l’Ungheria. Non per questo evita di entrare nel merito delle questioni che caratterizzeranno il suo nuovo impegno politico: dalle strade alle istituzioni, valorizzando le «esperienze di tanti anni trascorsi nei movimenti».
Onorevole Salis, con che stato d’animo ha atteso i risultati elettorali?
Direi che l’incredulità era lo stato d’animo dominante. Anche quando tutti ormai festeggiavano io ho aspettato di vedere i risultati numerici. Quando abbiamo superato il milione di voti per Avs sapevo che il 4% era stato raggiunto, ma stentavo ancora a crederci.
Dopo la notizia dell’elezione è riuscita a dormire?
Sì, mi sono addormentata di botto, un po’ come i bambini. Ma dopo poche ore ero già sveglia perché il telefono ovviamente ha iniziato a squillare presto. Quando ho aperto gli occhi non riuscivo a realizzare ciò che era successo, credevo fosse stato solo un bel sogno.
Che tipo di segnale rappresenta l’elezione di un’antifascista militante con questa grande quantità di consensi?
Un segnale molto positivo, soprattutto di fronte al successo elettorale ottenuto dai partiti di estrema destra in molti paesi d’Europa. È rincuorante vedere che tante persone, almeno in Italia, non hanno dimenticato la storia del nostro paese. Ma il segnale più forte è il fatto che molti voti arrivino dai giovani e dagli studenti. Credo che questo sia un dato di grande importanza perché la partecipazione politica dei giovani è fondamentale soprattutto nel mondo di oggi, che muta a ritmo incalzante. Forse solo grazie alle nuove generazioni potrà cambiare la direzione del vento che soffia sul nostro paese.
Sull’Europa soffia un vento di estrema destra. Qualcuno, con una battuta, ha detto che l’eurocamera è il posto meno sicuro dove mandarla in questo momento. Da dove bisogna cominciare per fermare una simile deriva?
Le destre non vogliono creare le condizioni e gli strumenti affinché le persone possano superare le loro insicurezze. Al contrario favoriscono dinamiche di regressione umana, sociale e politica. Perciò è importante impegnarsi per migliorare le condizioni materiali di vita e stimolare percorsi di crescita. Inoltre la solidarietà, forza coraggiosa e collettiva capace davvero di cambiare il mondo, deve essere il faro che ci aiuta a mantenere la rotta. Infine, bisogna dare vita a una nuova cultura popolare antifascista, che affondi le proprie radici nella gloriosa memoria dei partigiani, ma che si nutra anche e soprattutto del presente. Una cultura viva, sentita e vicina alle grandi questioni di oggi: diseguaglianza sociale, discriminazioni, guerra e cambiamento climatico.
Si aspettava di riuscire a trainare Avs a un risultato oltre ogni aspettativa?
No, non me lo aspettavo proprio e anzi ero preoccupata che non si riuscisse a superare lo sbarramento. Quando ho visto che le cifre prendevano il volo stentavo a crederci.
Nelle prossime settimane comincerà il suo impegno in Europa. Quale sarà il suo primo atto da europarlamentare?
Non è importante cosa farò prima o cosa farò dopo, perché i temi su cui voglio concentrare il mio impegno sono tutti ugualmente importanti e spesso legati tra loro. Ho provato sulla mia pelle cosa vuol dire essere in carcere all’estero e sono tuttora detenuta. Nessuno può accettare che si verifichino simili ingiustizie. Finalmente come parlamentare potrò dare voce alle storie e alle condizioni di tutte queste persone. In Italia la situazione è drammatica non solo all’interno delle carceri, ma anche per le condizioni a cui sono sottoposti i migranti trattenuti nei Centri di permanenza per i rimpatri. Mi batterò anche contro discriminazioni, disuguaglianze, sfruttamento, patriarcato e guerra. Per cambiare radicalmente le condizioni materiali di vita delle persone, per i diritti dei lavoratori, delle lavoratrici e dei precari. Per una scuola di qualità che non lasci indietro nessuno e per la tutela dell’ambiente.
Intorno alla sua candidatura si sono mossi centri sociali, movimenti, studenti e soggetti che di solito restano lontani dalle urne. Che tipo di relazioni pensa di coltivare con queste realtà?
Ho sempre fatto politica in contesti di movimento e fra le persone comuni: la mia intenzione è proprio partire da quello che sono e dalla mia storia. Credo che le esperienze di tanti anni trascorsi nei movimenti e gli scambi che continuerò a intrattenere con tali ambiti potrebbero aprire la strada a un’idea di politica più vicina alla vita reale e che coinvolga tutte le persone che condividono la volontà comune di battersi per ciò che è giusto.
(il manifesto, 13 giugno 2024)
di Stefano Sarfati
Il 30 maggio, 1° e 2 giugno si è tenuto a Torreglia il convegno straordinario “Incontriamoci così come siamo… sulla soglia…”, organizzato da Identità e Differenza di Spinea con la rete delle Città Vicine e le Nuove Beghine. Il convegno riprende gli incontri che si sono tenuti annualmente dal 1995 al 2018, importanti momenti di confronto di pratiche politiche femministe e di relazioni di differenza tra donne e uomini.
In questa occasione, Alberto Leiss di Maschile Plurale ha introdotto il tema della sua ricerca di genealogie maschili che desidera ritessere alla luce dell’incontro con il femminismo e ha avanzato la proposta di una pratica di incontro tra gruppi di uomini e gruppi di donne indipendenti. Ne è nato un dibattito interessante, che si è intrecciato agli altri temi portati da donne e uomini nell’incontro e incentranti in gran parte sul clima di guerra e le possibili risposte.
Umberto Varischio e Stefano Sarfati, entrambi impegnati alla Libreria delle donne, hanno messo a punto efficacemente il senso della loro pratica politica direttamente radicata in un contesto femminista e, come pure Claudio Vedovati, ciascuno con sfaccettature diverse, della scelta di inscriversi in una genealogia femminile. Marco Deriu (anche lui di Maschile Plurale) ha parlato del suo bisogno di ricostruire, come Alberto, una genealogia maschile a positivo, radicandola anche nella sua biografia personale e nella perdita precoce del padre.
Seguono i due interventi di Stefano Sarfati durante il convegno.
(La redazione del sito)
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Mia mamma è una delle fondatrici della Libreria delle donne di Milano, sono cresciuto tra le femministe, e ho sempre trovato una cosa normale dare autorità alle donne. Comunque aldilà di questa vicinanza che ho avuto fin da ragazzo, c’è stato un momento in cui ho letto, riflettuto e frequentato da vicino la Libreria delle donne e dopo un’iniziale difficoltà, il guadagno in termini di libertà è stato enorme. La mia grande scoperta (ma è la scoperta che fa ogni uomo che vi si avvicina) è stata che il femminismo della differenza è buono per gli uomini come per le donne, così come la madre è buona per i figli come per le figlie.
L’intervento di Alberto Leiss come altre volte in passato è stato per me stimolante e mi ha suscitato una riflessione. Quando Alberto ha accennato alle figure maschili da salvare, cosa si può salvare del patriarcato, mi ha fatto ricordare quando ho letto L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro, in particolare quando parla di genealogia materna. All’inizio rimasi spiazzato, ho sentito un senso di vuoto e spaesamento, mi dicevo: e io dove sono in tutto ciò? Mia sorella era inclusa nella genealogia di nostra madre e io no.
Poi ho pensato ok, mia sorella con le sue figlie continua la genealogia, mentre io sono diciamo così “un binario morto”, ma intanto che vivo sono nella genealogia di nostra madre, tanto quanto lei.
Quindi, per tornare all’intervento di Alberto Leiss la mia genealogia di uomo non sono i Montaigne, gli Spinoza eccetera, ma la mia madre naturale e altre madri simboliche.
Questo mi porta anche a essere d’accordo con l’intervento di Umberto, con cui condivido la pratica politica alla Libreria delle donne di Milano, di non ritenere interessante un gruppo di uomini che si esprimano in quanto uomini femministi, ma trovo interessante esprimermi da uomo femminista in un luogo principalmente di donne.
Da quando ci siamo riuniti l’ultima volta qui a Torreglia ad oggi il mondo è peggiorato, si parla di bombe atomiche, e siamo tutti e tutte angosciati. Personalmente credo che se tutti gli uomini dichiarassero la loro genealogia materna, ossia l’ordine simbolico della madre, figure come Trump, o Putin, ma anche Macron o Stoltenberg e le brutte copie nostrane, che in qualche modo esistono grazie alla figura simbolica del padre, perderebbero immediatamente consistenza.
Dopo la fine del patriarcato siamo finiti in un vuoto dove tutto può succedere, il passaggio che manca secondo me è il passaggio in cui gli uomini si rifanno a una genealogia della madre.
-2-
La radicalità del percorso del femminismo italiano dagli anni del Demau ad oggi, ma anche la domanda di Adriana Sbrogiò di ieri: voi uomini cosa fate? meritano da parte di noi uomini che ci diciamo femministi, una risposta radicale. Anzi gliela dobbiamo.
Non è più il momento dei pianti per i padri perduti, non è più il momento dei grandi geni del passato, se vogliamo un cambio di civiltà questi padri si devono lasciar andare, per citare Carla Lonzi: «vai pure».
Ovviamente sto parlando di padri simbolici; non è che non capisca il trauma della perdita di Marco Deriu, rispetto il suo dolore, io qui sto parlando di politica, di guerra e di pace, di vita e libertà.
Ribadisco quello che ho detto ieri: noi uomini che ci diciamo femministi dobbiamo senza esitazione dichiarare la nostra adesione al mondo della madre e dobbiamo trovare delle parole da far dilagare nel mondo per intendere questa adesione simbolica.
(www.libreriadelledonne.it, 13 giugno 2024)
di Giordana Masotto
Segnali interessanti: il quotidiano La Stampa ha pubblicato (19 maggio 2024) un articolo di Annarosa Buttarelli dal titolo “Quando abbiamo dimenticato che il ricorso all’aborto è un problema degli uomini?”.
In quell’articolo si fa un passo avanti importante sul tema. Si ribadisce come irreversibile l’autodeterminazione della donna come unità psicofisica inviolabile: da lì non si torna indietro, benché si assista oggi «al tentativo di aggredire questo presidio irreversibile che il “soggetto imprevisto”, le femministe delle origini hanno guadagnato nel corso della rivoluzione delle donne».
Contemporaneamente si sottolinea con decisione il cambio di civiltà necessario perché «l’inculturazione mancata dei maschi riguardo al rispetto dell’inviolabile corpo fecondo delle donne fa attrito con la riuscita de-culturizzazione patriarcale delle donne che si sono assestate nell’autodeterminazione. Sta ai maschi trovarsi all’altezza del coraggio femminile.»
Buttarelli invita a farsi ispirare dalle parole di Carla Lonzi: «Proviamo a pensare una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalle donne. In tale civiltà apparirebbe chiaro che i contraccettivi spettano a chi intendesse usufruire della sessualità di tipo procreativo, e che l’aborto non è mai una soluzione per la donna libera».
Lo sappiamo bene: ci siamo sempre fatte carico del problema contraccettivi, adottando via via le soluzioni che apparivano nel tempo più sicure e meno invasive. Ma oggi il tema minaccia di essere anche più sottilmente invasivo. Come spiega Laura Tripaldi in Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne, siamo entrati/e in una rete di sorveglianza biotecnologica.
Se vogliamo fare passi avanti in questo cambio di civiltà, è imprescindibile che gli uomini si chiedano: come ci rendiamo responsabili in relazione al corpo fecondo delle donne? Lo dice chiaro e semplice Gabrielle Blair che affronta il tema in Eiaculate responsabilmente. 28 buone ragioni (Feltrinelli 2024). Pare che anche nella ricerca qualcosa si muova (vedi Katherine J. Wu, Misure da uomo, articolo su The Atlantic/Internazionale – https://puntodivista.libreriadelledonne.it/misure-da-uomo/ -) e entro i prossimi vent’anni (!) avremo nuovi anticoncezionali maschili (per i quali naturalmente si cercano standard molto più severi di quelli fin qui usati per gli anticoncezionali femminili! E questo potrebbe avere ricadute positive anche per le donne).
Concludo ribadendo, come ci suggerisce Buttarelli, che è importante fare luce su questo cambio epistemologico: la libertà delle donne, con l’autodeterminazione (altro che denatalità e difesa della vita!) ha sottratto la generatività al dominio patriarcale e ha cominciato a ripensarla, ma quando gli uomini non si rendono in prima persona responsabili nel loro rapporto con il corpo fertile femminile, c’è una violenza simbolica che continua.
Forse, oso dire, è solo un primo passo, ma imprescindibile, per mettere in discussione l’indifferenza secolare della filosofia per il corpo materno. Come dice Adriana Cavarero: «Fenomeno esclusivamente femminile, la gravidanza permette di conoscere una “verità” essenziale della condizione umana, che al corpo integro dell’altro sesso non è dato esperire» (A.C., Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno). È più che mai necessario reintegrare la nascita come aspetto centrale della temporalità umana: la nascita ha la precedenza sulla morte. Le donne lo sanno. E il mondo ha più che mai bisogno di saperlo.
(www.libreriadelledonne.it, 11 giugno 2024)
di Maria Nadotti
Parlerò, e ne avrò sollievo
Giobbe 32, 20
«Pazienza, assennatezza, speranza, coraggio, lucidità, sete di verità». Ritrovo queste parole tra i miei appunti del 2009, in occasione del Premio letterario Città di Napoli di quell’anno, della cui giuria facevo parte. Le scrivevo a proposito di un saggio autobiografico folgorante, Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico (trad. it. e cura di Elena Loewenthal, Neri Pozza, 2008), dell’ebreo israeliano Avraham Burg (1955), presidente della Knesset dal 1999 al 2003, figlio dell’ebreo tedesco Yosef Burg, uno dei padri dello Stato di Israele. Quel libro avvincente, accorato, scomodo, che denunciava apertamente l’implosione etica, ancor prima che politica, di Israele, si poneva come una questione di coscienza. «Mi sono sentito in dovere», scriveva l’autore, «di dire le cose che mi bruciavano dentro». Un atto di responsabilità di contro alle morte gore della convenienza e della comodità. Dall’interno della cultura ebraica, amata e rispettata, amata perché rispettata, Burg denunciava l’establishment politico e la società di Israele, perché «ho la sensazione che il paese si sia trasformato in un regno senza profezia». Quel suo appello autoriflessivo avrebbe ottenuto il massimo riconoscimento, rassicurando in qualche modo tutte e tutti noi: nel microcosmo israeliano, autoproclamatosi la sola democrazia del Medio Oriente, una sorta di Occidente dislocato a Levante, c’era ancora chi aveva a cuore la giustizia e sapeva esercitare con acutezza priva di ideologismi l’arte critica del pensiero.
Sono passati, da allora, quindici anni, cinque cosiddette guerre di Gaza e un aumento vertiginoso degli insediamenti coloniali nei Territori occupati di Cigiordania. Il regime di apartheid si è, se possibile, aggravato e il processo di “pulizia etnica” intensificato. L’ipotesi dei “Due stati per due popoli”, oggi sveltamente riattualizzata dalla vulgata mediatica e dalla prassi poco più che discorsiva di troppi governi nazionali, fa pensare a una cristallizzazione dell’intelligenza, a un inciampo non innocente della volontà, a un deficit di immaginazione politica.
L’artista ebrea israeliana Sigalit Landau, le cui opere accompagnano questo mio testo, ha osservato da vicino i processi di “incrostazione” provocati dal sale del Mar Morto: il sale si stratifica, corrode e al contempo conserva. Non è quello che sta succedendo da più di un secolo nella Palestina storica? Non è quanto da lì si riverbera sulle diaspore ebraiche e palestinesi di tutto il mondo? Non siamo, tutte/i noi, parte in causa di una situazione di stallo evidentemente voluta, perseguita, facilitata, concessa?
In un libro fresco di stampa, Gaza. Odio e amore per Israele (Feltrinelli, 2024), scritto – io credo – con mani tremanti e un’enorme inquietudine nel cuore, il nostro Gad Lerner sembra porsi quesiti simili, un’analoga tempesta di dubbi. La sua, tuttavia, è una posizione asimmetrica rispetto a quella di Burg: se quest’ultimo ha scelto la nazionalità israeliana e l’impegno civile e politico nel proprio paese, Lerner è un cittadino italiano che in questa nostra povera patria ha combattuto le sue battaglie politiche e intellettuali facendo opera incessante di buon giornalismo. Ed è da qui che oggi si domanda e ci domanda: «Si può vivere in paradiso sapendo di avere l’inferno accanto?» Postulando, pur senza esplicitarlo, un interrogativo persino più destabilizzante: e se “l’inferno accanto” fosse la precondizione del mio paradiso e, insieme, il suo esito diretto?
A ripercorrere quietamente una serie di imprese coloniali che hanno trasformato il nostro Occidente in un temporaneo paradiso è inevitabile constatare che ogni giardino dell’Eden si fonda su un abuso originario, una sottrazione, un diniego, un atto di cecità, un’amnesia o una memoria a senso unico, un vuoto di empatia, una cancellazione… Eppure, in duecentocinquanta pagine febbrili, affollate di ricordi personali, notizie di cronaca, date e dati storici, incontri, scambi di pensieri con amici e persone della parte “avversa”, riferimenti a opere lette e scrittori amati (magnifiche le pagine sull’intervista del 1984 a Primo Levi), l’autore compie a sua volta una curiosa, forse involontaria, operazione di omissione. La Gaza che dà titolo al volume, sovrastata dalla riproduzione di Sansone l’eroe – la scultura monumentale di Baruch Wind che dal 2009 arreda la città di Ashdod – è alla lettera assente dalla narrazione. Non c’è la sua geografia, non c’è la sua storia, non c’è la sua economia, non c’è soprattutto la sua popolazione.
In un saggio del 2012 sul “contratto civile della fotografia”, la studiosa israeliana Ariella Azoulay, autrice tra l’altro di Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967-2007. Storia fotografica dell’occupazione (Bruno Mondadori, 2008) cita Edouard Glissant che cita Gilles Deleuze, dicendo: «Funzione della letteratura e dell’arte è inventare un popolo che manca». Ecco, nelle pagine di Gaza quel popolo continua a mancare, miticamente evocato solo come oggetto della frustrazione e dell’ira dell’accecato Sansone. Mi si dirà che gli interrogativi di Lerner, che nel corso del libro si riconosce più volte il ruolo disagevole dell’“ebreo buono”, sono altri, che il suo corpo a corpo è piuttosto con la sua gente, con la complessità vertiginosa di un’appartenenza dai margini a un centro in caduta libera. Lo capisco e mi sforzo di immaginare i costi di un tentativo controcorrente, per sua natura inevitabilmente solitario. Eppure, rimugino, se il problema fosse proprio questo, questa fissazione su di sé, questo sbarramento dell’orizzonte, questo fermarsi sulla soglia di casa, questo continuare a interrogarsi su ciò che di terribile è accaduto a te, alla tua famiglia, ai “tuoi” senza riuscire ad assumere quello sguardo analogico teorizzato tanti anni fa da Tzvetan Todorov. So che la memoria traumatica crea fortezze e blinda il pensiero. So che l’invito di Gad Lerner a riscoprire il «filone ebraico della tolleranza» – come lo definiva Primo Levi – e a onorare la figura del Giusto dovrebbe bastarmi. E invece credo serva qualcosa di più, una mossa a lato. Perché Gaza, se tutto si riduce a una questione di odio e amore per Israele? Se dici Gaza, devi dire Gaza. E così propongo a lettrici e lettori di leggere attentamente questo libro «dettato dall’urgenza degli eventi» per provare a immaginare quali sono le immagini mancanti, quale il fuoriscena sincronico e diacronico che gli fa da tacito sfondo. «A meno che non si venga colti dal panico», infatti, «l’oscurità tende a ridurre la fretta. C’è più tempo».
(Doppiozero, 12 giugno 2024)
di Nando Dalla Chiesa
Le Ribelli uscì per la prima volta nel 2006. L’intento era di sottolineare l’importanza, anche simbolica, di un filone femminile nella lotta alla mafia, fin lì ricondotta comprensibilmente –nella pubblica narrazione – al coraggio e al protagonismo di figure femminili.
Uomini le decine di sindacalisti uccisi nelle lotte contadine del secondo dopoguerra; uomini i giudici e i rappresentanti delle istituzioni colpiti a ripetizione tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso; uomini i rappresentanti della società civile – imprenditori e giornalisti soprattutto – puniti a morte per non essersi piegati alle pretese di obbedienza e silenzio di Cosa Nostra. […] Le Ribelli provò (e nel volgere di qualche anno riuscì) ad aiutare la diffusione di una lettura diversa. Mise in luce attraverso sei Scene concatenate le storie di donne che, muovendo dal proprio rapporto di sangue o affettivo con alcune vittime, avevano contribuito esemplarmente a rompere un’omertà secolare. Raccontò il coraggio di sfidare un potere criminale che era anche il potere più maschilista sperimentato dalla storia sociale italiana. Donne di ogni età. «Donne di popolo e donne benestanti» recitava la prefazione «vissute nel culto delle istituzioni o allevate nella più piena contiguità ambientale alla cultura mafiosa». Armate, indipendentemente dal titolo di studio o dal rango sociale, di una sola inarrestabile forza: i propri sentimenti. La loro era stata una rivoluzione “per amore”. Esattamente come l’inaudita rivolta delle madri di Plaza de Mayo contro la dittatura argentina che aveva falciato la “meglio gioventù” sotto il regime dei colonnelli tra gli anni ’70 e ’80. Il loro non era stato solo pianto disperato o furia vendicativa, come nel caso da antologia di Serafina Battaglia. Era stata soprattutto lotta per la verità, per la giustizia. E in senso più generale profondissima sfida culturale. Così che era possibile vederle una dopo l’altra, queste donne, su un sentiero sociale insanguinato, quasi cippi di un immaginario, dolente e orgoglioso cammino.
L’immagine delle Ribelli si è fatta strada. […] Film e libri si sono successivamente abbondantemente appropriati della parola per raffigurare le proprie protagoniste. […] Si sono così radicati progressivamente nella consapevolezza del movimento antimafia i nomi di queste donne sole, allineate in una storia civile che pareva scorrere a parte ma che apriva squarci potenti nella Storia d’Italia. E che già aveva visto sorgere al suo fianco alcune esperienze collettive locali. Si pensi all’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, promossa a Palermo nel 1982 da Giovanna Giaconia, moglie del giudice Cesare Terranova, fatto uccidere da Luciano Liggio nel 1979. O all’indimenticabile comitato dei lenzuoli bianchi nato a Palermo dopo le stragi del ’92, dove l’amore che aveva spinto alla rivolta non era quello per un figlio o per un marito ucciso, ma una straziante combinazione di affetto e gratitudine per i propri giudici che aveva scosso la città dopo le bombe del grande trauma. […] Ebbene, in questi vent’anni molto è cambiato, dando al titolo e al contenuto del testo un valore più grande, quasi di annuncio. Che è giusto rimarcare, così da poter meglio cogliere le increspature e le onde che sempre si formano nella Storia. Cosa Nostra, l’onnipotente organizzazione che sognava di ottenere tutta per sé la Sicilia, con Totò Riina nella veste di riverito viceré dell’isola, ha subito rovesci un giorno inimmaginabili. Non è stata solo una sconfitta giudiziaria e militare. È stata anche e soprattutto una sconfitta culturale, certo mai totale, avanzata sotto la spinta decisiva di migliaia e migliaia di donne. Familiari di un numero crescente di vittime […]; ma soprattutto familiari di nessuna vittima, cittadine e studentesse ostili alla violenza mafiosa, maestre e insegnanti desiderose di dare un altro futuro alle nuove generazioni. E in effetti a rivederla oggi la storia successiva al 2006 è costellata di protagonismi femminili diffusi in ogni campo dell’antimafia, capaci anche di creare nuovi campi di pensiero e di azione. Le studentesse di un tempo sono entrate nella carriera giudiziaria e in quella prefettizia, in quella giornalistica e in quella accademica, modificandone fisionomie culturali e prassi operative. Hanno reso più impetuoso il vento di ribellione che arrivava dalle associazioni e dalle scuole, e perfino dalla vita amministrativa. Come non vedere l’impegno straordinario e incessante di tante magistrate nel contrastare Cosa Nostra a Palermo, la ’ndrangheta a Milano, o la camorra a Napoli? Come non ricordare che i colpi subiti dalla ’ndrangheta in Emilia, la regione che si gloriava dei suoi “anticorpi” senza averli, sono arrivati grazie a una prefetta agrigentina? […]
Sarebbero infiniti gli esempi di questa nuova ribellione in nome dell’Italia e delle sue istituzioni che potrei fare, molti avendone visti e vissuti. È stato dunque in questo ciclo di anni che ho cominciato a rigirare nella mia mente e poi a proporre timidamente in pubblico il principio che l’antimafia è donna. Riflettendo su quello che vedevo. […] In realtà vedevo anche che quella mia tesi dell’antimafia donna non suscitava particolari consensi proprio tra le donne, comprese le mie stesse colleghe; facevano eccezione le studentesse, che d’altronde potevano proprio fisicamente verificarla nelle aule ogni giorno. Immaginavo che questo dipendesse dal pregiudizio femminile circa una astuta (e notoriamente maschile) captatio benevolentiae. O che potesse dipendere anche da quella certa incredulità che circonda ogni intuizione in tema di mafia non ancora maturata nel senso comune […]. Come si può dire d’altronde che l’antimafia è donna con tutti gli eroi che sono caduti combattendola da ruoli tipicamente maschili?
Finché la Storia, sempre lei!, mi mise davanti tra il 2011 e il 2013 una vicenda che sembrava fatta apposta per rafforzarmi nel convincimento che andavo coltivando da qualche anno. Una vicenda riassumibile in un nome di tre lettere che per me è diventato nel tempo un autentico spartiacque: Lea. Il nome di una giovane donna giunta a Milano da Petilia Policastro, che rivelò ancor più la forza rivoluzionaria dei sentimenti. Lea Garofalo. Nella sua vicenda si intrecciarono in forma irripetibile, quasi fosse stata immaginata da un sublime regista, la ribellione individuale e solitaria che attraversa la storia della lotta alla mafia della donna nel Novecento, e la ribellione femminile, collettiva, sociale, maturata negli anni Duemila. Un intreccio (lotta personale-lotta collettiva) che in modalità diverse aveva preso forma nella Palermo di fine secolo e successivamente nella campagna elettorale di Rita Borsellino per la presidenza della Regione Siciliana, con cui – non per caso – si chiudeva la prima versione delle Ribelli. Perciò questa edizione delle Ribelli [Le Ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore, 240 pp., ed. Solferino 2024, € 16.50], che giunge dopo numerose ristampe, ha sentito il bisogno di arricchirsi di un nuovo capitolo. Quello dedicato appunto a Lea Garofalo, alla sua storia e soprattutto alla storia del processo che le ha dato «verità e giustizia». […] Ossia dal momento in cui donne dai ruoli tanto diversi – magistrate, avvocate, giornaliste, insegnanti, studentesse – messe insieme dalla loro sensibilità e dal destino gridano tra la commozione e l’orgoglio che, sì, l’antimafia è donna. O almeno lo è abbastanza da poter colorare interamente al femminile una vicenda tanto esemplare e di confine nella lotta alla mafia. Dopo di allora anche il rapporto tra donna e mafia non è più stato lo stesso. […] Dopo di allora, sia pure lentamente e molecolarmente, il potere della mafia più antica e impermeabile, la ’ndrangheta, ha tradito scricchiolii crescenti. […] Difficile perciò a questo punto sottrarsi all’intuizione maturata tempo prima. Perché l’asse di scorrimento della lotta alla mafia sembra passare effettivamente oggi come non mai per l’evoluzione della cultura femminile e la sua inedita capacità di rompere schemi e ordini mentali partendo dalla sfera dei sentimenti.
(Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2024, apparso con il titolo «Rivoluzione “per amore”. La mafia sconfitta da Lea e le ribelli»)
di Jessica Chia
Quando la tunisina Gisèle Halimi viene al mondo, nel 1927, suo padre si dispera a tal punto che nega quella nascita per quasi tre settimane. Una figlia femmina era una disgrazia, un peso di cui liberarsi appena possibile. E quel marchio Gisèle lo sente bruciare sulla sua pelle fin da subito, già dentro le mura domestiche, dove ha inizio quella che diventerà un’instancabile ribellione. Che dalla Tunisia la porterà a diventare una delle prime – e più rivoluzionarie – avvocate di Francia.
È con lo sciopero della fame che da bambina riesce a ottenere il suo primo diritto: smettere di servire i fratelli in casa. Nonostante l’orrore – e la disperazione – dei genitori di fronte a quella bambina così sfrontata ed indomita. Ma Gisèle fa di più: riesce a imporsi sugli studi che non vogliono farle compiere, lei che è così brillante rispetto ai fratelli maschi. E riesce, da sola, a spezzare quelle catene che da secoli la vogliono immobilizzata nel ruolo di femmina destinata a servire i maschi della famiglia prima, e l’autorità di un marito poi. Catene che rompe a una a una: «Ben presto sfuggire da quello che appariva come un destino già tracciato è diventata la mia ossessione».
Una feroce libertà, di Gisèle Halimi con Annick Cojean (Fve, pagine 144, euro 17)
Ora la storia di Halimi è raccontata in Una feroce libertà (Fve), un libro-intervista (raccolto a pochi mesi dalla sua scomparsa, avvenuta nel 2020 a Parigi), firmato dalla reporter di Le Monde Annick Cojean, che ha raccolto la sua biografia sotto forma di colloquio. Qui Halimi racconta la sua terribile condizione familiare di nascita attraverso la storia della Francia, quella coloniale e post-coloniale d’Algeria, e le grandi rivoluzioni per i diritti delle donne che lei stessa in prima persona ha contribuito a tracciare.
Quest’innato senso di ingiustizia che riconosce nel volto di ogni donna fin da piccola, e la sua spiccata sensibilità verso gli ultimi, gli oppressi, la fanno diventare un’avvocata di successo, grazie anche alle sue arringhe spietate e appassionate con cui riesce a piegare chiunque, merito di un’estenuante preparazione. Ma, nel libro, racconta anche delle difficoltà quotidiane per essere accettata, rispettata e riconosciuta in un ambiente, fino a quel momento, costituito da quasi solo uomini.
Halimi è una forza della natura, e molto di più. Durante la guerra d’Indipendenza d’Algeria, sceglie di difendere in tribunale le partigiane algerine torturate dall’esercito francese, denunciando le violenze e gli stupri. Dal 1956 fino ai trattati di Evian nel 1962, fa la spola fra Algeri e Parigi (dove ormai vive da anni) per portare avanti questi processi, venendo definita «traditrice della Francia» e subendo lei stessa insulti e anche minacce di morte (nel 1961 riceve una lettera da parte dell’Oas, l’organismo terroristico francese, che annuncia la sua condanna a morte). Ma «la mia libertà non ha senso se non serve a liberare gli altri», dice in questa sua appassionante intervista.
In particolare, tra queste partigiane diventa famoso il caso di Djamila Boupacha (1938), militante del Fronte di Liberazione Nazionale algerino (Fln) che viene arrestata perché aveva cercato di far esplodere un caffè ad Algeri. E, per questo, costretta alla confessione dopo trentatré giorni di torture e stupri. Il processo che Halimi porta avanti infrange pubblicamente il tabù sullo stupro coinvolgendo l’opinione pubblica francese, i media, e prima fra tutti gli intellettuali che partecipano al caso, Simone de Beauvoir, che con un articolo pubblicato su Le Monde descrive minuziosamente lo stupro subito da Boupacha. Un testo sconvolgente che cambierà per sempre l’attenzione su questo tema.
Ma i processi-simbolo di Halimi sono tanti; tra questi ricordiamo quello rimasto nella memoria collettiva francese, il processo di Aix-en Provence del 1978 – passato alla storia come «il processo dello stupro» – che ha portato a modificare la legge contro le violenze sessuali in Francia. Processo che ha difeso due turiste belghe aggredite in tenda mentre erano in vacanza, picchiate e violentate per cinque ore da alcuni francesi: «La legge del 23 dicembre 1980 avrebbe riformulato la definizione di stupro, la quale avrebbe oramai incluso ogni forma di aggressione sessuale, compresi quelli che un tempo venivano considerati “attacchi contro il pudore”», spiega Halimi.
E Halimi è la stessa che firma il Manifesto delle 343 pubblicato dal Nouvel Observateur il 5 aprile 1971, nel quale donne molto famose, come Catherine Deneuve, Françoise Sagan, Marguerite Duras, Delphine Seyrig, dichiarano di aver abortito, infrangendo di conseguenza la legge. E accompagnando così la liberalizzazione dell’aborto, arrivata poco dopo con la legge Veil del 1975.
«Ribelle, impetuosa, instancabile. E libera. Ferocemente libera», Halimi è stata il terremoto perfetto che ha contribuito a far sgretolare – almeno un po’ – il sistema patriarcale francese. Alla fine della sua intervista, Halimi si rivolge alle giovani donne a cui consiglia, prima di tutto, di essere sempre indipendenti economicamente e di fare in modo di ottenere nuovi diritti, senza aspettare che siano gli uomini a «concederli». E poi, rivolgendosi alle ragazze: «Mi aspetto che facciano la rivoluzione. Non riesco a concepire, in effetti, come non abbia già avuto luogo. Hanno urlato i loro furori, hanno fatto scoppiare qua e là rivolte, seguite da grandi passi in avanti per i diritti delle donne. Ma siamo ancora ben lontani dall’obiettivo. Serve una rivoluzione del costume, degli spiriti, delle mentalità. Un radicale cambiamento nei rapporti umani, fondati da millenni sul patriarcato: dominazione degli uomini, sottomissione delle donne».
(Corriere della Sera – 27esima ora, 12 giugno 2024)
di Ida Dominijanni
I conti elettorali veri, insegnavano una volta i maestri di politica e di giornalismo, vanno fatti sui voti assoluti, non sulle percentuali. Tanto più se le percentuali sono falsate dalla discesa libera del numero dei votanti. Esempio: FdI vanta da due anni un 26,5% ottenuto alle politiche del 2022, ma tenendo conto dell’astensione quel valore equivale al 17% dell’intero corpo elettorale. Lo stesso vale adesso per le europee: le percentuali di tutti i partiti andrebbero ricalcolate, e scenderebbero di conseguenza, sulla base di quell’implacabile 50% di astenuti che continua a segnalare l’agonia della democrazia rappresentativa senza che nessuno se ne preoccupi granché.
A maggior ragione i conti cambierebbero se si avesse la pazienza di aspettare i valori assoluti invece di fare la gara a chi azzecca per primo le percentuali nelle maratone televisive. Perché poi, con i valori assoluti, arrivano le sorprese. Infatti, sorpresa! Guardando i valori assoluti si scopre che Giorgia Meloni detta Giorgia, nel frattempo proclamata urbi et orbi titolare di un salto dal 26,5 al 29% che proverebbe un aumento dei consensi rispetto al 2022, in realtà rispetto al 2022 di consensi ne ha persi seicentomila: Fdi passa infatti dai 7 milioni e 300.000 voti delle politiche ai 6 milioni e 704.000 delle europee. Idem per Forza Italia e Lega, che perdono 400.000 voti ciascuno. Aumentano invece di 250.000 voti il Pd, e di 500.000 AVS, mentre il M5S ne perde ben 2 milioni e 300.000. Non solo. Nel suo insieme, la coalizione di centrodestra mantiene ma non aumenta il suo bacino di voti, come del resto è avvenuto anche nel 2022 e avviene dal 1994 in poi, mentre la somma dei partiti d’opposizione sarebbe teoricamente superiore a quella della maggioranza di governo. Ma com’è noto il centrodestra si avvale da sempre di un vantaggio coalizionale su un centrosinistra perennemente diviso.
Questi dati non smentiscono, sia chiaro, l’egemonia politica e culturale che la destra può rivendicare oggi rispetto alla sinistra, ma ridimensionano l’entità numerica dell’“onda nera” che attraversa l’Italia. Così come andrebbe correttamente dimensionata – cosa tutt’altro che semplice data la disparità dei sistemi politici nazionali che convergono nelle elezioni europee – quella che attraversa l’intero continente.
Sul piano storico e simbolico l’avanzata delle destre più o meno radicali, soprattutto in Francia, Germania e Austria – ma la destra cresce anche in Bulgaria, Lussemburgo, Belgio e guadagna poco o nulla in Spagna, mentre l’Europa del Nord va in controtendenza e premia socialisti e Verdi – è un dato disperante che riporta le lancette della storia a un secolo fa, con la differenza che un secolo fa a contrastare il fascismo e il nazismo c’erano un socialismo e una socialdemocrazia forti della Rivoluzione russa del 1917, mentre oggi a contrastare sovranismi, nazionalismi, razzismi, tradizionalismi e autoritarismi di varie gradazioni ci sono sinistre pallide e riplasmate dal neoliberalismo e dall’abiura della propria tradizione. Se a questo si aggiungono gli effetti devastanti dell’onda nera sull’asse franco-tedesco fin qui pilastro dell’Unione, effetti che si sommano ai molteplici effetti disgreganti dell’Unione stessa indotti dalla guerra d’Ucraina, è evidente che la costruzione europea rischia un balzo all’indietro più che una battuta d’arresto, tanto più se i venti di guerra continueranno a spirare trasversalmente da destra e da sinistra.
L’allarme va dunque tenuto alto più di quanto lo farebbero suonare i dati elettorali nudi e crudi. Sul piano numerico, infatti, i danni dell’onda nera sembrano più contenuti. I due raggruppamenti di destra, Conservatori e riformisti (Meloni) e Identità e democrazia (Le Pen e Lega), guadagnano rispettivamente 4 e 9 seggi, ma l’attuale maggioranza tiene con i Popolari che guadagnano 10 seggi e malgrado i Socialisti e democratici ne perdano 4 e i liberali di Renew ne perdano ben 23. Formalmente dunque Ursula von der Leyen ha i numeri per puntare a un secondo mandato all’insegna di una continuità «pro-Europa, pro-Ucraina e pro-Stato di diritto», come lei la definisce. Ma in realtà si sa che i giochi sono già aperti per un allargamento o ai Verdi o alla destra di Conservatori e riformisti, cui i Socialisti hanno però opposto un “giammai”. È un quadro perfetto per i giochi di Giorgia Meloni ma aperto anche a quelli di Marine Le Pen, giacché sulla carta è possibile anche una maggioranza di centrodestra (Popolari, Liberali, Conservatori, Identità e democrazia), ancorché più risicata di quella attuale. Ma se anche la maggioranza attuale fosse confermata, è evidente che l’onda nera la condizionerebbe dall’esterno e sui contenuti (immigrazione, questione sociale, politiche di bilancio) molto più di quanto non sia già accaduto negli ultimi anni, tanto più che agli equilibri del parlamento di Strasburgo vanno aggiunti quelli del Consiglio europeo, già ben presidiato da destra da Meloni e Orbán ma destinato a spostarsi ancor più a destra se Le Pen (da oggi ufficialmente sostenuta dai gollisti) vincerà le elezioni francesi indette repentinamente da Macron o se Scholz dovesse cedere lo scettro a un popolare.
Mai come oggi tuttavia il quadro elettorale non basta a fare luce sul quadro politico reale. Non solo per i tassi di astensionismo sempre più elevati in tutto il continente. Ma soprattutto perché resta forte l’impressione che le urne abbiano dato sì entità e contorno ai venti di destra, ma non abbiano né dissipato né profilato con maggior precisione i venti di guerra. Rimossa o evitata dalla campagna elettorale, la guerra – d’Ucraina soprattutto – resta rimossa e evitata nei commenti postelettorali. Nicola Fratoianni fa bene a sottolineare che l’asse guerrafondaio di Scholz e Macron è stato pesantemente penalizzato dal voto. Ma che dire del consenso riconfermato a Donald Tusk, quello che poche settimane fa ci ha informato che siamo in una fase prebellica da un paese come la Polonia, che nell’Europa di oggi (e per volontà degli Usa) conta più della Germania? E come interpretare il crollo dei Verdi a livello continentale e segnatamente in Germania: come un no alla transizione ecologica, o come uno schiaffo alla loro posizione ultra-bellicista?
Tutto lascia presumere che malgrado i mal di pancia filo-putiniani della destra più radicale l’allineamento atlantista sull’escalation ucraina resterà quello che è almeno fino alle presidenziali americane, e che l’Europa continuerà a restare senza voce sul massacro di Gaza e sulla sempre possibile estensione del conflitto mediorientale. Curiosamente, e malgrado Giorgia Meloni, per una volta potrebbe essere proprio l’Italia a fare una qualche differenza. La lista di Santoro com’era prevedibile non ha raggiunto il quorum, ma abbiamo eletto candidati pacifisti nel Pd, in Avs e nel M5S, che si spera facciano sentire la loro voce a Strasburgo. Avs è la forza politica più premiata dal voto, non solo per la sacrosanta difesa dello Stato di diritto rappresentata dalla candidatura di Ilaria Salis, ma anche per il no all’invio delle armi in Ucraina, per il no all’Europa-fortezza rappresentato dalla candidatura di Mimmo Lucano, per un programma orientato al rilancio del welfare e dei diritti sociali e civili. Sarebbe l’abc di un rilancio della sinistra, se anche Elly Schlein, più sicura della propria leadership, cominciasse a osare di più di quanto non abbia saputo o potuto fare finora, disallineandosi dal mainstream atlantista. E se il M5S decidesse finalmente che cosa vuol fare da grande. Il laboratorio politico italiano non dorme mai, come ben sappiamo. Dopo decenni di sperimentazioni a destra, chissà che non si rimetta a girare a sinistra.
(Facebook, 12 giugno 2024)
di Katia Ricci
Dal 12 al 22 giugno 2024 presso il Museo Civico di Foggia sono esposte le cartoline della mostra di mail art Trame di vita Trame di pace, organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla rete delle Città Vicine e all’Atelier di artiste dell’Alveare di Lecce. Dopo Foggia la mostra sarà itinerante tra luoghi delle Città Vicine.
Inevitabile la scelta del tema di quest’anno in un periodo buio dell’umanità, ma nello stesso tempo illuminato da sprazzi di luce e di speranza per le azioni di tante donne e uomini in ogni parte del mondo tese al cambio di civiltà. La guerra non ha un volto di donna è il titolo di un libro di Svetlana Aleksievič che dice: «Le donne sono legate all’atto di nascita, alla vita». Papa Francesco invita a guardare alle donne per trovare la pace e uscire dalla spirale della violenza e dell’odio. Purtroppo c’è anche qualche segnale femminile a sposare la logica maschile riguardo alla guerra a cui le donne sono rimaste storicamente estranee.
L’arte è lo spazio in cui tutte le differenze, a partire da quella sessuale, possono incontrarsi e confrontarsi senza i conflitti distruttivi che stanno appestando questa nostra epoca, portandovi bellezza e fiducia.
Nello scenario della società contemporanea, l’arte assume un rilievo fondamentale come strumento critico e politico. In particolare negli ultimi anni, è cresciuto l’impegno di artisti/e sulle questioni che riguardano l’attualità attraverso le loro opere, facilitato dall’uso di strumenti digitali, dei social media e delle piattaforme online, che hanno consentito loro di raggiungere un pubblico più ampio e di diffondere in modo rapido ed efficace i loro messaggi. Anche le città sono investite da nuove forme d’arte che mirano all’occupazione dello spazio pubblico e diventano teatro di nuove sperimentazioni culturali, in cui artisti/e agiscono su territori non deputati generando spazi di socialità, occasioni di incontri, attraverso forme d’arte e performance agite anche in modo illegale.
In particolare la pratica della mail art, arte postale, con la sua lunga tradizione di carattere politico e di resistenza a ogni forma di potere, è particolarmente adatta a veicolare pensieri, parole, messaggi che hanno stretti legami con l’attualità e profondi significati sociali e politici. È, infatti, lontana dai condizionamenti, dalle mode e dalle trappole del cosiddetto sistema dell’arte ed è basata sulla comunicazione creativa. «La Mail Art – dice il mailartista Ruggero Maggi – non si fa per soldi, non si fa per la fama… si fa… si vive… è emozione».
Ma è anche un atto politico, come ogni azione che nasce dal desiderio di aprirsi all’altro e ad altro, dalla necessità di creare relazioni, in questo caso tra mittente, destinatario, spettatore. La comunicazione mailartistica si avvale di reti che coprono l’intero pianeta. Non c’è paese, infatti, in cui non ci siano artisti che si servono di questa pratica per comunicare e scambiarsi idee, anche a costo di persecuzioni, come nei paesi a regime totalitario.
Nelle cartoline di Trame di vita trame di pace, sia nelle immagini che nelle poesie ci sono manifestazioni di dolore, quasi incredulità per quello che sta accadendo, espresse da simboli di guerra, da colori cupi o dal rosso del sangue versato, ma anche e soprattutto di speranza che ci ricorda che in tante e tanti stanno costruendo una nuova civiltà. Certo assistiamo a una brusca e drammatica interruzione di quel percorso, ma il male che ci circonda non ci deve far dimenticare quante /i ovunque operano per la pace, cambiando il proprio stile di vita, prendendosi cura gli uni degli altri e della natura con piccoli gesti quotidiani, mattoncini lego, per costruire la grande città di donne, uomini, esseri viventi e inanimati che avranno finalmente sconfitto l’orrore. Frequenti i simboli che rimandano alla dimensione materna, alla genealogia femminile e al mondo dell’infanzia, su cui si appuntano speranze e ragioni per bandire la guerra.
La novità della mail art di quest’anno è che vi hanno partecipato molte bambine e bambini, alcune/i italiani, altri, guidati dalla loro maestra, di una scuola d’infanzia tedesca. Vi partecipa anche una bambina dall’Islanda.
Colombe, cuoricini, sole, farfalle, colori accesi esprimono tenere e fresche emozioni; la parolaFrieden (pace), scritta in caratteri grandi, a colori, o con collage, che spesso campeggia sopra tutto lo spazio, è come un’invocazione, un grido rivolto agli adulti di fermarsi, di arrestare l’orrore, un grido che i bambini di Gaza, dell’Ucraina, di tante parti dell’Africa e del pianeta non riescono più neanche a sussurrare. Mi hanno colpito alcuni disegni che rivelano dolore e paura: una mano le cui dita si trasformano in un coccodrillo vorace e un monte con tre croci. In guerra Cristo è crocifisso ogni volta che qualcuno muore e si fa del male a un bambino.
Commovente la cartolina di una bambina che disegna sagome di adulti tenuti per mano e guidati da bambini perché, come dice Susanna, gli adulti dovrebbero ascoltare i piccoli perché «nel pensiero di noi bambini la guerra non esiste». Kría scrive: «La pace è piena d’amore, invece la guerra di odio e dolore. Siate gentili e non usate i fucili».
Partecipanti:
Michelina Boccia, Maria Bonaduce, Rossana Bucci, Federica Cananà, Giorgia Cananà, Monica Carbosiero, Rosalba Casmiro, Marilena Cataldini, Daniela Cecere, Ornella Cicuto, Alberta Crescentini, Rosy Daniello, Michela Del Tinto, Wanda Delli Carri, Gianni De Maso, Vittoria Di Candia, Michelina Di Conza, Anna Di Salvo, Anna Fiore, Antonio Fortarezza , Donatella Franchi, Carmen Fuiano, Viola Gesmundo, Donata Glori, Nando Granito, Clelia Iuliani, Francesca Lamberti, Antonietta Lelario, Nicola Liberatore, Oronzo Liuzzi, Adele Longo, Rosanna Macrillò, Nelli Maffia, Ruggero Maggi, Mariangela Magnelli, Madia Daniela Massagli, Pina Massarelli, Carmen Matteo, Giovanni Morgese, Clelia Mori, Pina Nuzzo, Vincenzo Patti, Stefania Piccirilli, Maria Paola Quattrone, Cornelia Rosiello, Enzo Ruggiero, Concetta Russo, Adriana Sbrogiò, Rosa Serra, Emilia Stefania, Enrico Straccini. Emilia Telese, Stella Zaltieri.
Bambine/i: Susanna, Francesco, Fabrizia, Kría. Scuola dell’infanzia di Riesenzwerge di Radebeul a Dresda: Johanna, Jonas, Zoey, Lina, Leonie, Ludovica, Ferdinand, Elliot, Gabriel, Philippa, Juna.
(Facebook, 10 giugno 2024)
di Giovanna Cifoletti*
Nel gennaio scorso uno studio diffuso nei media, poi confermato, calcolava che l’offensiva israeliana aveva causato nei primi due mesi di guerra l’emissione di oltre 280.000 tonnellate di CO₂. Si tratta una quantità superiore alle emissioni annuali per la vita quotidiana di venti Paesi. Difficile immaginarlo, e ora si deve moltiplicare almeno per quattro. Il bilancio delle emissioni di carbonio della ricostruzione di Gaza potrebbe essere cento volte superiore. Facciamo un esperimento mentale: immaginiamo di mettere fianco a fianco Milano e Napoli. La popolazione della striscia di Gaza era pari alla loro somma, su una superficie appena superiore a questa somma. Mettiamoci poi virtualmente a Sesto San Giovanni, o a Procida, di fronte a questo agglomerato urbano e assistiamo ai bombardamenti a tappeto per otto mesi, all’invasione di terra con carri armati e bulldozer che radono al suolo edifici per creare la striscia cuscinetto e la nuova strada divisoria tra nord e sud. Milano e Napoli che vanno in fumo. Chi vorrebbe essere là a respirarlo? Eppure sono i vicini, è Israele, che respira questo fumo, a dichiarare di voler continuare la guerra. Ci sono poi le macerie tossiche, piene di amianto, che costituisco ormai la terra di Gaza, 37 milioni di tonnellate. Si dice che ci sono più macerie a Gaza che in tutta l’Ucraina, ma Gaza è ben più piccola, quindi ci sono in media tre quintali di macerie al metro quadro. C’è poi un numero imprecisato di bombe inesplose (dal 10 al 15% di quelle esplose, 25 mila tonnellate […]) e infine si parla di una quantità enorme di rifiuti non gestiti a causa dei successivi spostamenti degli abitanti in questa guerra che, confondendo Hamas con la popolazione civile, somiglia a una caccia al topo. Si calcola che la bonifica richiederà quindici anni. Già tutto questo dovrebbe far comprendere agli Israeliani che la guerra in queste proporzioni è un suicidio per tutto il territorio. L’inquinamento provocato in così breve tempo non può disperdersi. Eppure ancora adesso non c’è intenzione di fermarsi, secondo Netanyahu «bisogna finire il lavoro», cioè il suicidio. In Israele ci sono critiche alla gestione della guerra, ma il presupposto di fondo è che la guerra sia «necessaria per la sopravvivenza di Israele», e il disastro ambientale è così poco sentito che c’è chi ha parlato di lanciare anche la bomba. La terra di latte e miele ai particolati attuale diventerebbe terra di latte e miele agli isotopi. Del resto il rischio c’è già, come abbiamo imparato dalla guerra in Ucraina, poiché questa guerra intensiva si svolge in presenza della centrale e della bomba in Israele. Ormai tutte le guerre sono di annientamento, anche se fatte “contro Hamas” o “per la difesa dei confini”, perché sono di fatto contro i civili e contro il pianeta.
[…]
È ormai impossibile distinguere tra i popoli semiti che circondano Gerusalemme. Si rischierebbe allora di annientare altri ebrei e il loro habitat. È un modo per dire che siamo ormai tutti dalla stessa parte. Una verità che noi europei viviamo già di fatto nel Mediterraneo che si riscalda indipendentemente dalla cartina politica. E l’abbiamo vissuta in Europa e nel mondo rispetto alla pandemia. Se non vogliamo più partecipare al completamento di questo suicidio né di altri, l’unica cosa che possiamo fare è votare contro la guerra e affinché l’Europa diventi quello che stava per diventare dopo la seconda guerra mondiale, una forza diplomatica contro la guerra.
(*) École des hautes études en sciences sociales, Parigi; Disarmisti Esigenti, Milano
(ND NoiDonne, 5 giugno 2024)
di WDI (Women’s Declaration International)
Women’s Declaration International denuncia: nella nuova bozza del Trattato la parola “sesso” è sostituita da “genere”, termine del quale non si dà una definizione precisa. Si tratta di una cancellazione legale e senza precedenti del sesso femminile
WDI (Women’s Declaration International) esprime estremo allarme per il fatto che l’attuale bozza del Trattato sui Crimini contro l’Umanità non includa donne e ragazze.
I Crimini contro l’Umanità includono attacchi diffusi o sistematici contro popolazioni civili, compresi atti come l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, l’imprigionamento, la tortura, lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata o altre violenze sessuali, la persecuzione di gruppi, la sparizione di persone, l’apartheid e altri atti disumani di carattere simile.
WDI denuncia questa estrema privazione del diritto delle donne e delle ragazze di essere incluse in questa legge internazionale fondamentale che garantisce la salvaguardia della vita e della dignità umana contro varie forme di violenza sanzionate dallo Stato.
WDI, che conta 38.138 firmatarie da 160 Paesi ed è sottoscritta da 531 organizzazioni in tutto il mondo, nel suo primo articolo ribadisce «che i diritti delle donne si basano sulla categoria del sesso» e che «gli Stati dovrebbero mantenere la centralità della categoria del sesso e non dell’“identità di genere” in relazione al diritto delle donne e delle ragazze di essere libere dalla discriminazione».
Le donne e le ragazze sono sempre state incluse nel moderno diritto internazionale sui diritti umani, ma la Commissione di Diritto Internazionale ha presentato una bozza di trattato in cui le donne e le ragazze vengono cancellate e al posto del sesso viene usato il termine indefinito “genere”. Questa cancellazione legale del sesso femminile è un atto senza precedenti di privazione dei diritti per le donne e le ragazze; il linguaggio adottato dal trattato causerà danni a donne e ragazze.
“Genere” è un termine che non può essere inteso senza assecondare gli stereotipi che sono identificati come dannosi nel principale trattato internazionale che promuove i diritti delle donne e delle ragazze, la CEDAW. Qui si stabilisce che gli Stati sono obbligati a sradicare questi stereotipi: pertanto il progetto di trattato sui crimini contro l’umanità è in conflitto con un obiettivo fondamentale dei diritti umani delle donne e delle ragazze, come indicato nella CEDAW.
Il “genere” nasconde anche la realtà della violenza basata sul sesso – che purtroppo è fin troppo reale in tutto il mondo – distruggendo la capacità di documentare e denunciare i crimini specifici del sesso. L’uso di “genere” come categoria legale al posto di “sesso” offusca anche il sesso degli autori di violenza e la loro eventuale punizione.
Anche la restituzione alle sopravvissute ai crimini è confusa e ostacolata se i dati e i criteri di qualificazione non possono distinguere tra maschi e femmine, ma devono invece utilizzare il termine instabile e indefinito di “genere”.
È già facile trovare esempi di negazione dei diritti di donne e ragazze a causa del modo in cui il “genere” (anziché il sesso) opera nel diritto penale (si veda il nostro rapporto completo QUI). Tali lesioni non potranno che moltiplicarsi se questo importante trattato internazionale sui diritti umani elimina la realtà del sesso per adottare il concetto confuso di “genere”. Anche la Commissione di diritto internazionale (ILC), che ha curato la stesura di questo trattato, ha affermato molto chiaramente che «L’omissione di una definizione del termine “genere”, contenuta nel comma h) del paragrafo 1, è stata oggetto di discussione da parte delle delegazioni: alcune hanno appoggiato l’omissione, affermando in particolare che la definizione contenuta nello Statuto di Roma era diventata obsoleta. È stato sottolineato che la sua assenza offre una maggiore flessibilità per gli Stati a livello nazionale. Altre delegazioni hanno preferito mantenere la definizione di genere contenuta nello Statuto di Roma che invece a loro parere non era non era diventata obsoleta, era priva di ambiguità e costituiva un linguaggio concordato. È stato sottolineato che sebbene ci fossero difficoltà a chiarire il termine erano comunque necessarie indicazioni su come su come definirlo» [1].
Si noti che anche i redattori riconoscono che il genere è un termine instabile, il cui significato è cambiato sostanzialmente negli ultimi decenni. È per questo che non vogliono usare la definizione usata nello Statuto di Roma che darebbe potere alla Corte penale internazionale.
Lo Statuto di Roma definisce “genere” come “sesso”. WDI sottolinea che la definizione dello Statuto di Roma ha il pregio di mantenere un chiaro riferimento ai corpi biologici che sono sessuati. Tuttavia, la definizione dello Statuto di Roma non ha mai rispecchiato l’uso che la CEDAW faceva del termine “genere”, profondamente legato a stereotipi dannosi per le donne e le ragazze. L’attuale spinta a usare il termine genere escludendo il sesso si allontana da entrambi i precedenti significati di genere, ovvero che il genere è il sesso e che il genere esprime stereotipi dannosi per le donne e le ragazze.
WDI esorta a riconoscere chiaramente che costruire un importante trattato internazionale con un linguaggio scivoloso, instabile, indefinito e apertamente discriminatorio e dannoso per le donne e le bambine è una pessima idea. WDI sollecita il rifiuto del termine “genere” nella bozza di trattato e il ripristino delle donne e delle ragazze come esseri umani pienamente presenti in questo trattato.
Per ulteriori informazioni si prega di contattare: Jo Brew, info@womensdeclaration.com
Per il rapporto completo sulla bozza di Trattato sui crimini contro l’umanità [in inglese, Ndr], cliccare qui.
[1] Sintesi della Presidenza sulle deliberazioni della prima sessione ripresa (2023) e alla seconda sessione ripresa (2024) del Sesto Comitato sulla bozza di articoli sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità e sulla raccomandazione della Commissione di diritto internazionale, raccomandazione della Commissione di diritto internazionale, Assemblea generale delle Nazioni Unite, settantottesima sessione. Sesta commissione, punto 80 dell’ordine del giorno, 11 aprile 2024, paragrafo 31, A/C.6/78/L.22/Add.1.
(FeministPost, 4 giugno 2024)
di Alberto Leiss
Ho passato l’ultimo fine settimana in una situazione imprevista, e assai ricca. Si riuniva nuovamente a Torreglia – tra i bellissimi Colli Euganei, in una Casa delle suore Salesie squisitamente ospitali, circondata da un parco incantevole – un seminario a cui ho partecipato per circa un quarto di secolo. Poi c’è stata un’interruzione di sei anni. Un po’ per il Covid, ma anche perché c’era stanchezza, forse qualche delusione o conflitto non bene elaborato? Ragioni per le quali un po’ temevo questo proposito di reincontrarsi. A volte le cose è bene che finiscano?
Citerò, tra tante amiche e amici che – ecco un primo dato essenziale – ho rivisto con grande piacere, solo la principale animatrice di questa lunga avventura: Adriana Sbrogiò, dell’associazione Identità e Differenza di Spinea, più donne e alcuni uomini che hanno aperto e mantenuto aperta la scommessa di un incontro tra femministe e maschi disposti ad ascoltare e ascoltarsi più profondamente, con il desiderio comune di inventare un modo nuovo di fare politica insieme.
Adriana, aprendo l’incontro, ha dato voce ai sentimenti di paura e angoscia per un mondo che precipita nella guerra, all’ansia del “che fare” per opporsi, reagire, modificare questa situazione che sembra sopraffarci. Forse la spinta a ritrovarsi è nata principalmente da questo desiderio: la consolazione degli affetti che certamente legano alcune, non poche né irrilevanti, relazioni personali e politiche. Questo è sicuramente accaduto. Ma non “solo” questo.
Il titolo dell’incontro era molto semplice e aperto: “Incontriamoci… così come siamo… sulla soglia”.
E l’idea, la situazione di essere “sulla soglia”, ha motivato molti pensieri e parole. E il meraviglioso canto di una amica (cito anche lei: Lucia Staccone). Come connettere l’esperienza di un passato di cui nel presente si ha la sensazione di non ritrovare nessuna riconoscibile eredità. Come cercare una via diversa da quella seguita sin qui e decidersi a imboccarla. Come dialogare con l’altro che potrebbe essere un nemico. Come allargare i margini che avvertiamo sempre più stretti per una azione politica capace di legare la capacità di cambiare noi stessi a quella di cambiare il mondo.
Vedere, dal proprio punto di osservazione e dalle proprie esperienze, che guerra e violenza non agiscono solo su relativamente lontani campi di battaglia, ma anche nella nostra quotidianità. Nelle parole. Nelle vite sofferenti di molte persone, spesso giovani, aggredite dalla povertà, respinte da chi dovrebbe accoglierle, costrette in ambienti ostili. C’è quindi molto da fare per condividere i tentativi di ricostruire umanità spezzate.
Ma l’esitazione sulla soglia non può durare a lungo. Dopo mezzo secolo di pensieri, movimenti, pratiche politiche del femminismo – è stato detto a un certo punto – oggi la realtà è radicalmente cambiata perché le donne sono libere come non sono mai state.
Ci sono donne che, giunte al potere, lo esercitano in forme che seguono quelle maschili? Fino alle scelte belliche? Questo certamente non ci piace, non lo accettiamo, ma non nega che siano libere di farlo o di rifiutarlo.
È questa libertà che parla della “fine” del patriarcato come forza simbolica capace di ordinare le vite di tutti (e molto si è discusso anche di come ridefinire, o abbandonare del tutto, genealogie maschili capaci di aiutare la reinvenzione delle relazioni tra figlio e madre, tra figlio e padre, e come essere padri se lo scegliamo).
Siamo noi uomini a indugiare ancora troppo sulla soglia di una nuova libertà. Troviamo la forza di riconoscere e di liberarci da ciò che ci porta alla violenza e alla guerra. Guadagneremmo una vita migliore.
(il manifesto, 4 giugno 2024)
di Gianna Pomata*
Tra le uscite recenti della collana “Fact Checking” di Laterza – collana che ha l’intento lodevole di confutare pseudofatti e false teorie del nostro tempo – c’è anche il libro di Laura Schettini L’ideologia gender è pericolosa che si pone l’obiettivo di criticare tale tesi: la cosiddetta ideologia gender, ci rassicura l’autrice, non è pericolosa, è solo “un fantasma”. Il gender è una categoria analitica che le studiose femministe hanno elaborato dagli anni ottanta, con validi risultati di ricerca. Il mito dell’ideologia gender invece, sostiene Schettini, sarebbe stato costruito in funzione antifemminista da forze reazionarie, fascistoidi e bigotte – il Vaticano innanzitutto, in sintonia con i movimenti nazionalisti di destra. Dal momento che, come Schettini e l’editore Laterza, credo anch’io nel valore dell’evidenza empirica, sottoporrò a fact-checking questo libro in cui manca, innanzitutto, il riconoscimento del fatto che, oltre alla nozione del gender come categoria di analisi storico-sociale – l’unica che Schettini considera, esaminandola in dettaglio nel cap. 2 – ne esiste oggi un’altra, assai diversa, centrata sul concetto di “identità di genere”. E quando si parla di ideologia gender ci si riferisce comunemente a questa seconda nozione, come viene intesa nelle legislazioni sul “gender self-id” (l’autodeterminazione di genere) e nella cosiddetta “gender affirmative medicine”. Il silenzio di Schettini è sconcertante, perché è proprio questo il concetto di gender che ha assunto un’importanza straordinaria nella politica, come anche nella medicina e nel diritto, del nostro tempo. Manca inoltre nel libro la ricognizione di un altro fatto cruciale: la critica all’ideologia gender non viene solo da destra ma anche da sinistra, da un nuovo femminismo che si chiama appunto “gender-critico”. Ci sono oggi due modi di intendere il gender, profondamente diversi ed anzi, a mio parere, incompatibili. Il gender come categoria di analisi mette a fuoco come il sesso biologico – di cui non si contesta la realtà – venga interpretato in modo variabile a seconda delle culture. In questa prospettiva, il gender è un fatto socioculturale, intersoggettivo. La cosiddetta “identità di genere”, invece, come formulata sin dai principi di Yogyakarta (2006) nel movimento transgender, è qualcosa di puramente e intrinsecamente soggettivo e avulso dal dato biologico. Ecco come la definisce per esempio la principale lobby trans britannica, Stonewall UK: «Il senso innato del proprio gender, maschile, femminile o altro, che può corrispondere o no al sesso attribuito alla nascita». Si noti l’aggettivo “innato”. E si noti “il sesso attribuito alla nascita”, che implica che la determinazione del sesso sia potenzialmente arbitraria. Il sesso, infatti, non è più visto come un fatto osservabile ma come un opinabile “costrutto sociale”.
Siamo di fronte a una definizione del gender che prescinde del tutto dalla realtà biologica dei corpi. È maschio o femmina o altro (secondo un repertorio illimitato di gender possibili) chi si identifica come tale. In netta contraddizione con l’originale nozione culturale del gender, l’identità di genere viene presentata qui come un tratto innato e quindi preesistente rispetto ai condizionamenti sociali. Nasciamo tutti – ci viene detto – con una predefinita identità di genere, che può essere allineata con il sesso biologico (in qual caso la persona è “cisgender”) oppure no (in qual caso la persona è transgender). Questo non allineamento viene visto, contraddittoriamente, in due modi: come una forma di malattia mentale (“disforia di genere”) ma anche come un tratto “normale” della variabilità umana. Su che evidenza empirica si basa tutto questo? Come distinguere fra persone cisgender e transgender? Poiché l’identità di genere è qualcosa di squisitamente soggettivo, pertinente all’interiorità della persona, non c’è altro modo di accertarla che attraverso quanto la persona ci dice. Anche un bambino, anche una persona che soffre di turbe psichiche, anche uno stupratore: se ci dicono che sono trans, lo sono, e dobbiamo credergli. L’arbitrarietà e inverificabilità di questa nozione di gender sono evidenti. Siamo passati dal gender come strumento di analisi storico-sociale a qualcosa che non saprei come altro chiamare che una metafisica del gender. Nel libro di Schettini manca consapevolezza di questo fondamentale slittamento di senso nel modo di pensare il gender. Il libro, di conseguenza, è tutto costruito su un equivoco. Nessuno ha paura del gender come strumento di analisi storica, ma vivissima preoccupazione desta invece la metafisica del gender. Il dissenso da questa metafisica viene tanto da destra che dal femminismo gender-critico, con motivazioni e argomentazioni profondamente diverse. Questo è l’altro fatto centrale che Schettini passa sotto silenzio: c’è nel libro solo un brevissimo cenno dove si ammette che al richiamo della “sirena antigender” (sic!) hanno risposto in questi anni anche alcuni settori del femminismo. Schettini non menziona nulla peraltro di quella che è ormai una ricca letteratura di studi femministi che hanno criticato “gender identity”, “gender self-id” e “gender-affirming medicine”: dal libro della filosofa Kathleen Stock, Material Girls. How Reality Matters for Feminism (2021) a quello della politologa Holly Lawford-Smith, Gender-Critical Feminism (2022), all’antologia Sex and Gender (2024) curata dalla sociologa Alice Sullivan e dalla storica Selina Todd (2023), per citarne solo alcuni (nessuno di questi libri compare nella bibliografia in appendice al libro di Schettini). Questi testi rendono chiaro che le obiezioni del femminismo gender-critico alla metafisica del gender non hanno niente a che fare con un progetto reazionario di restaurazione del “patriarcato”. Al contrario, denunciano le conseguenze regressive che la metafisica del gender ha per le donne. Se qualsiasi uomo, semplicemente col dichiarare un’identità femminile, diventa legalmente donna, le donne perdono il diritto agli spazi separati (negli sport, nelle carceri, nei rifugi antiviolenza, nei bagni pubblici, eccetera) che le salvaguardano, almeno in parte, dai rischi legati alla differenza di forza fisica fra i sessi. Non solo, la metafisica del gender impone a tutti una ridefinizione della realtà. Rifiutarsi di convalidare l’autodefinizione di una persona che si identifica come trans, attraverso, per esempio, il cosiddetto “misgendering” – l’uso dei pronomi corrispondenti al sesso, non all’identità di genere – è stigmatizzato come “transfobico”, un termine di ignominia nella “neolingua” del nostro tempo. In un processo per stupro in Inghilterra, alla vittima è stato richiesto dal giudice di usare pronomi femminili per l’aggressore, identificatosi come trans: di dire quindi “her penis”, “il pene di lei” – l’espressione più orwelliana, più crudelmente assurda del nostro newspeak. Sostenere che donna è un essere umano adulto di sesso femminile, o che le donne non hanno un pene, o che un uomo non può essere una lesbica, sono diventate opinioni denunciabili non solo come “transfobiche” ma come hate speech. La metafisica del gender non comporta solo un grave arretramento dei diritti delle donne ma minaccia quel che è prezioso per tutti: la libertà di parola.
Ma c’è di più e di peggio, ed è quello che, in nome della metafisica del gender, si sta facendo a bambini e adolescenti. Secondo Schettini, una delle immotivate e irrazionali paure associate al “fantasma” dell’ideologia gender è che spingerebbe a «deregolarizzare e promuovere in modo selvaggio le transizioni da un sesso all’altro». Ma questa non è affatto una paura irrazionale: è quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Proprio in questi giorni, sui media di tutto il mondo, si parla della Cass Review (https://cass.independent-review.uk/), l’indagine del servizio sanitario inglese sulla “gender-affirmative care” praticata sui bambini coi “bloccanti della pubertà” e sugli adolescenti con gli ormoni femminilizzanti o mascolinizzanti. Sulla base dell’esame sistematico della letteratura medica su questo tema, la Cass Review ha concluso che l’evidenza scientifica a sostegno di questi interventi è «estremamente debole». Molto era già stato anticipato da Hanna Barnes nel suo Time To Think: The Inside Story of the Collapse of the Tavistock’s Gender Service for Children (2023) segnalando come bambini e adolescenti vengano sottoposti a interventi rischiosi (come i bloccanti della pubertà) o addirittura irreversibili (come gli ormoni “cross-sex”) senza una base evidenziaria attendibile. Lo studio riscontra inoltre come il modello “gender affirming” comporti una grave distorsione del processo diagnostico (“diagnostic overshadowing”). Nonostante la disforia di genere sia spesso associata, nei minori, a problemi mentali come autismo e turbe della personalità, questi vengono sistematicamente messi in ombra dal fattore gender. La disforia viene vista infatti come segno di un’innata e stabile identità trans, e si presume che i problemi mentali saranno risolti dalla “transizione”. Questo nonostante il fenomeno crescente dei “detransitioners”, che desistono dal trattamento ormonale proprio perché non risolve, e a volte peggiora, il loro disagio. Non si prende in considerazione l’ipotesi che la disforia possa essere dovuta a forme di condizionamento o contagio sociale. Non si prende in considerazione soprattutto il fatto che molti degli adolescenti disforici sono lesbiche e gay e che la loro disforia possa essere legata al persistente stigma dell’omosessualità – un fatto che lesbiche e gay del movimento gender-critico hanno denunciato da tempo. Quel che viene “affermato” nella “gender affirming care” non è scienza ma metafisica, con costi umani inaccettabili.
(*) Giovanna Pomata è professora emerita di storia della medicina presso la Johns Hopkins University
(L’indice dei libri del mese, 3 maggio 2024)
a cura di Anna Turri Vitaliani
Si è svolto, dal 18 al 20 ottobre 2023, nell’armoniosa quiete del Monastero di Sezano (Verona), il tanto atteso e desiderato Convegno delle Comunità di storia vivente. Da tempo era stato rinviato, anche a causa della pandemia, e finalmente le appartenenti delle varie comunità si sono riunite in presenza, provenendo da varie città: Milano, Savona, Foggia, Catanzaro, Sciacca, Mestre, Verona, Genova, Pinerolo, Barcellona.
Accomunate dall’impegno di mettere in pratica un modo innovativo di narrare la storia, le partecipanti al convegno, fiduciose nella fecondità del sentire profondo, avevano idee, scoperte, proposte e nuove riflessioni da scambiare in contesto, insieme a dubbi, ostacoli e difficoltà.
Il convegno era stato preceduto da alcuni incontri on line, preparati da Luciana Tavernini e Marina Santini, le quali, assieme alle altre componenti della loro comunità di Savona-Milano, avevano elaborato alcune domande, tra cui: quando un testo può essere considerato di storia vivente? Come distinguerlo da un racconto autobiografico? Come procedere in questa pratica?
Dopo tre anni di relazioni a distanza, si avvertiva il desiderio di un incontro in presenza, per discutere, potersi riabbracciare e comunicare emozioni.
Diventava, a questo proposito, importante trovare un luogo adatto, accogliente e confortevole, per parlare con agio, dare spazio alle istanze di ogni comunità, favorire nuovi incontri e godere anche di un piacevole soggiorno.
Quando è stata fatta la proposta di cercare uno spazio, si è accesa in me una lampada: ho visto il Monastero di Sezano come luogo ideale, per la bellezza della sua architettura, per l’accoglienza riservata alle e agli ospiti, per il clima di pace e serenità che vi si respira e l’ho proposto, assumendomi la responsabilità dell’organizzazione. Così per prima cosa ho contattato Paola Libanti, responsabile amministrativa dell’Associazione “Monastero del bene comune”, per verificare la disponibilità ad ospitare le partecipanti. Con lei ho chiarito fin dall’inizio che non tutte erano credenti. Paola, con molta dolcezza, mi ha risposto che non c’era alcun problema perché il Monastero è uno spazio aperto a tutte e tutti, credenti e non credenti, oltre alle diverse culture e appartenenze religiose.
L’organizzazione richiedeva un certo impegno, ma da subito Luciana Tavernini e Marina Santini mi rassicurarono con la loro presenza affettuosa e attenta, come del resto erano state fin dall’inizio con tutte noi della nuova comunità “Storia vivente in faccia al Monviso”, da quando muovevamo i primi passi a Pinerolo, presso l’antico Monastero della Visitazione, avendo di fronte a noi a ispirarci e sostenerci la spettacolare mole innevata del Monviso.
Da quando mi sono avventurata in questa nuova esperienza mi sono liberata da un peso, un macigno che portavo dentro di me da decenni: ho ripercorso la mia storia, risignificato le relazioni che ho intrecciato nel corso degli anni, riappacificandomi con mia madre e con me stessa. Ho guadagnato una grande serenità interiore e con essa la capacità di comprendere che i nodi si erano formati a causa del mio desiderio di libertà che mi faceva scontrare con chi mi voleva docile e sottomessa. Grazie alta pratica della storia vivente, sono entrata in un percorso vitale e trasformativo e ora provo una gratitudine profonda per le donne che mi hanno aiutata a portare alla luce i nodi irrisolti della mia vita, restituendomi il piacere della scrittura.
Hanno partecipato all’incontro di Sezano la comunità SaMi (Savona-Milano), promotrice del convegno in accordo con Marirì Martinengo, iniziatrice e inventrice della storia vivente, e con Laura Minguzzi; la storica María Milagros Rivera Garretas, già docente all’Università di Barcellona, autrice di testi, saggi e articoli significativi sulla storia vivente; la comunità “In faccia al Monviso”, la comunità di Foggia, la piccola comunità di Venezia-Mestre. In tutto 19 donne, delle 22 facenti parte della rete attuale di comunità e singole. Assenti, oltre a Marirì Martinengo, due amiche della comunità di Foggia.
Eravamo lì per desiderio, emozionate di incontrarci, decise a dire l’essenziale delle nostre storie “incandescenti”, a ragionare sui nodi irrisolti che fanno ingombro nelle relazioni.
Dopo aver verificato nei mesi precedenti l’interesse da parte di tutte di rivedersi, di individuare insieme i temi di approfondimento e di sapere che cosa ogni realtà stava facendo, si è deciso di presentare oralmente in contesto i racconti scritti da alcune e discuterne insieme; di ascoltare le pratiche messe in atto dalle comunità, con i guadagni e le ricadute positive sia a livello personale sia politico e le difficoltà incontrate. Infine, di valutare la possibilità di trasmettere la storia vivente, relazionandoci con le ricercatrici universitarie, le storiche di professione o le docenti di storia delle scuole superiori per far capire loro la necessità di lavorare sulla soggettività per una nuova scrittura della storia.
Il lavoro in contesto si è articolato nel modo seguente: per due mattine e un pomeriggio tre partecipanti hanno coordinato a turno i lavori e nove hanno proposto all’attenzione comune il proprio racconto. L’ultima mattina è stata dedicata ai progetti e alle proposte o a ulteriori riflessioni. L’ascolto del testo di un’altra è gesto di relazione: ognuna ha messo nelle mani delle presenti il suo racconto, fiduciosa nella cura del loro giudizio, consapevole che di quel giudizio ha necessità come un nutrimento che l’aiuta a fare passi avanti nel percorso di conoscenza di sé e della storia entro cui si è articolata e si sta articolando la sua vita.
Diventare “autrici” della propria storia, “storiche” appunto, richiede dei cambiamenti, vuol dire mettersi in discussione, uscire dalle gabbie patriarcali, scoprire i nostri intoppi, riconoscere e sbrogliare i conflitti del vissuto personale e far emergere la propria soggettività, trovare insieme alle altre «il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata», «ritornare alle origini, all’antica relazione con la madre, alle grandi pretese dell’infanzia per trovare il filo della propria vita unica e irripetibile».
La storia vivente ti fa capire che la tua storia è importante perché solo da qui puoi conoscere e guardare il presente; ti porta indietro, in un percorso a spirale fino a recuperare i «frammenti luminosi e oscuri» del sentire originario.
I racconti di storia vivente sono testi “in movimento”, in continua formazione, che non cancellano le emozioni, richiedono un lavorio su vari livelli, una scrittura di scavo interiore che parte dalle “viscere” (termine utilizzato dalla filosofa spagnola María Zambrano).
I nodi irrisolti ritornano, si ripresentano in forme sempre diverse nella vita ed è difficile, quasi impossibile rimuoverli, tenerli nascosti perché, prima o poi, riemergono e a volte esplodono in modo selvaggio. L’indagine sui nodi irrisolti esige la verità di un confronto vero e sincero, un lavorio teso a comprenderne il significato profondo, altrimenti restano chiusi in un «passato che non passa». Parlarne con altre è il primo passo per sciogliere quei nodi e andare oltre, in un percorso autentico di libertà.
Dai vari racconti sono emersi degli elementi comuni come il legame fortissimo e spesso conflittuale con la madre con cui ciascuna prima o poi deve fare i conti, ma anche il rapporto difficile con il padre e il maschile in generale, quando il proprio desiderio di libertà si manifesta e inizia a prendere forma. Sono emersi anche il nodo della sessualità e della maternità non libera, di cui si parla poco.
A Sezano abbiamo praticato «l’autorità in contesto», ognuna ha fatto in modo che ci fosse uno scambio vivo di autorità circolante, ha riconosciuto a sé e all’altra autorità sulla propria storia. Non c’è stata sempre sintonia e alcune critiche sono state aspre e taglienti. A volte sono mancate quella pazienza e capacità d’ascolto necessarie per venirsi incontro da grandi distanze. Era comunque chiaro a tutte il valore delle critiche per andare avanti nella ricerca comune.
Milagros Rivera Garretas ha posto la domanda sul possibile rapporto fra l’ispirazione e la storia vivente e ha indicato l’importanza di non parlare solo del dolore, ma anche delle esperienze di felicità che ci hanno segnato, raccontandole in maniera ispirata, lasciando spazio al mistero, alla possibilità di aprirci all’infinito. Le nostre storie, iniziate nella seconda metà del ’900, cominciano nel patriarcato, ma portano con sé la fine di quel regime. I nodi che ci portiamo dentro sono il modo in cui il patriarcato ci voleva imbrigliare, imprigionare. Se riusciamo a scioglierli, si entra in un tempo in cui c’è spazio per il piacere femminile e l’ascolto dei propri desideri. Per questo, ha sottolineato Laura Minguzzi, è necessario iscrivere nella storia il cambiamento simbolico portato dall’invenzione della storia vivente, collocandola tra gli «eventi memorabili» che hanno trasformato la storia perché ha messo in luce la fecondità del sentire profondo e creato un altro tempo.
A Sezano c’è stata un’apertura, un nuovo respiro nelle relazioni. L’incontro preziosissimo di Sezano – scriveva a tutte Marina Santini un mese dopo il convegno – è stato l’occasione per alcune di incontrarsi per la prima volta, per altre di ritrovarsi e sentirsi ancora più vicine, favorite anche dalla tranquillità del luogo. Sono circolate emozioni forti e parole di verità. A distanza di tempo, ognuna sta verificando la ricchezza che quel momento le ha donato e che continua a circolare nelle relazioni.
Anna Turri Vitaliani, interessata ai temi del ‘sacro’ e del divino femminile, fa parte dei gruppi donne delle Comunità di base con cui fa ricerca e della Comunità di storia vivente “In faccia al Monviso” di Pinerolo. Con Doranna Lupi e Sandra De Perini si è confrontata per la stesura di questo report.
(Autogestione e politica prima, n° 2/3, aprile-settembre 2024 – anno XXXII)
di Annalisa Camilli
C’era una canzone che cantava mia nonna quando ero bambina, raccontava la storia di una certa Teresina. Era una parabola sull’onore, ma all’epoca non lo sapevo. Per me era solo una storia d’amore che finiva male. Una delle mie preferite. Mia nonna non ricordava dove aveva imparato quel racconto. E aggiungeva o toglieva delle parti ogni volta che lo cantava, in quella sua lingua misteriosa ed espressiva. Un po’ in italiano, un po’ in dialetto. Ma la storia era davvero successa, assicurava lei. Non si trattava di un racconto inventato.
Qualche volta diceva che gliel’aveva raccontata un cantastorie, di quelli che un tempo giravano per le piazze dei paesi, un’altra volta che l’aveva letta sul giornale e che era la storia vera di una ragazza di cui si era tanto parlato dalle sue parti anni prima.
Teresina era «felice e bella», diceva la canzone. Era una contadina di sedici anni e s’innamorava di un uomo più grande di lei, Giulio, che le giurava un amore eterno. Ma poi le cose si mettevano male: la sorella di Teresina, Margherita, si innamorava dello stesso uomo, e Teresina rimaneva incinta. A sedici anni e fuori dal matrimonio. «Come una serpe fa a uccellino», la sorella di Teresina attirava a sé Giulio, convincendolo che Teresina lo tradiva e che il figlio che portava in grembo non era il suo.
Così Teresina era abbandonata da Giulio, che decideva di sposare Margherita. Ma poi, nella storia, c’era un secondo tempo inaspettato, un finale che forse era il frutto dell’immaginazione di mia nonna. Il giorno del matrimonio, Teresina si presentava all’altare e uccideva sia Margherita sia Giulio. E poi si consegnava alla polizia per farsi arrestare. «Chi al mondo fa del male, sempre del male avrà», concludeva mia nonna. Ed era una specie di maledizione, un monito, il tentativo di ribaltare l’ingiustizia.
“Fare l’amore”, diceva mia nonna per dire che una ragazza frequentava un ragazzo. Lo diceva senza nessun imbarazzo. Quando diceva “fare l’amore” non intendeva niente che avesse a che fare con il sesso o l’intimità, anzi la sua intenzione era spiegare – senza mai dire niente in maniera esplicita – che “fare l’amore” per una donna implicava una specie di lotta con l’amato e con se stessa per evitare qualsiasi contatto fisico.
Il sesso fuori dal matrimonio, una gravidanza fuori dal matrimonio erano la cosa peggiore che potesse capitare a una ragazza, perché rischiava di essere abbandonata da tutti e rinnegata perfino dalla sua famiglia, una macchia indelebile che l’avrebbe segnata per tutta la vita.
Saltavo sulle ginocchia di mia nonna senza nessuna grazia certi sabato pomeriggio, mentre aveva appena finito di vedere una soap opera in televisione o di leggere un libro. Faceva le due cose con continuità, guardava Sentieri su Rete4 e leggeva molti libri Harmony. Erano gli anni ottanta.
Lei era nata nel 1909, come John Fante e Rita Levi Montalcini, ma non aveva studiato perché aveva cominciato a lavorare a quindici anni. Tra noi due c’erano settant’anni di differenza. Si era sposata tardi, raccontava. E per tardi intendeva ventisette anni. Aveva avuto quattro figli, di cui due erano morti prima dei due anni.
Aveva sempre lavorato. Non l’ho sentita fare mai discorsi su cosa dovesse fare o non fare una donna, ma la questione dell’onore era un’ossessione. Ho capito anni dopo che era una paura che le avevano inculcato fin da bambina. Era terrorizzata che una ragazza facesse sesso prima del matrimonio come dalla possibilità di essere morsa da una vipera d’estate durante una scampagnata. Sapeva nel profondo del suo cuore che avere un figlio fuori dal matrimonio per una donna della sua generazione poteva arrivare a costarle la vita.
All’origine del dominio maschile
Il delitto d’onore è rimasto in vigore in Italia fino al 1981. Un uomo – un padre, un fratello, un marito – che uccideva una donna che aveva macchiato il suo onore, e cioè che aveva fatto sesso fuori dal matrimonio, poteva avere l’attenuante del delitto d’onore. La pena per l’omicidio poteva essere ridotta, considerando che stava difendendo il suo onore e quello della sua famiglia, presupponendo quindi che gli uomini della famiglia avevano una specie di diritto di controllo e proprietà rispetto alle donne e alla loro sessualità.
Fino al 1930 in Italia era riconosciuta un’attenuante anche per l’omicidio dei figli nati fuori dal matrimonio, chiamati “prole illegittima”. In alcuni paesi del mondo i delitti d’onore sono ancora tollerati: in Pakistan nel 2022 384 donne sono state uccise dai loro familiari per questioni legate all’onore, è il paese con più femminicidi al mondo. Ma il fenomeno non ha nazionalità, è globale.
Secondo lo psichiatra francese Philippe Brenot, all’origine del dominio maschile sulle donne e della violenza, che ne è la conseguenza, c’è l’incertezza della paternità. La violenza maschile sulle donne è una caratteristica esclusiva della specie umana ed è indissolubilmente legata all’invenzione del matrimonio e al controllo della sessualità femminile (anche fuori dal matrimonio) come garanzia del riconoscimento dei figli per gli uomini.
Fino agli anni ottanta erano attivi in tutta Italia diversi istituti, spesso gestiti da religiosi, in cui le donne che avevano concepito un figlio fuori dal matrimonio erano mandate dalle loro famiglie per nascondere la gravidanza: in questi istituti partorivano e poi erano costrette ad abbandonare i figli, dati in adozione. Questi luoghi hanno funzionato fino ai primi anni ottanta. La legge 194, che ha legalizzato l’interruzione di gravidanza nel paese, è entrata in vigore nel 1978.
Nel recente Il prezzo degli innocenti (Longanesi 2023) la giornalista italoamericana Maria Laurino ha raccontato che tra gli anni sessanta e ottanta circa quattromila bambini italiani sono stati sottratti alle loro madri in queste circostanze. E sono poi stati adottati da famiglie benestanti negli Stati Uniti, che in cambio versavano agli istituti alte somme di denaro. In molti casi le donne erano minorenni, venivano da contesti di povertà.
Quante siano state le donne che si sottraevano a questo destino e che portavano avanti la gravidanza nonostante tutto è complicato ricostruirlo. Spesso si mentiva sui figli nati fuori dal matrimonio. Un espediente era quello di fare credere che fossero figli avuti dai genitori delle neomamme, e in questo modo erano registrati all’anagrafe.
Nel 1983 in Italia le madri nubili erano circa 75mila. Era l’unico caso in cui la legge permetteva alle donne di dare al bambino il proprio cognome. Nel 2015-2016 le madri single erano 859mila, più della metà delle quali divorziate o separate. Il 34,6 per cento erano madri nubili, cioè donne sole che avevano avuto figli fuori del matrimonio.
Secondo l’Istat ancora oggi le madri single sono più esposte di quelle in coppia al rischio povertà, e in generale devono lavorare di più e stare di più fuori di casa per sostenere economicamente la famiglia, vista anche la disparità salariale tra uomini e donne nel paese. Il 42 per cento delle madri single è a rischio povertà o esclusione sociale.
L’uguaglianza tra genitori
Fino al 2016 le donne non potevano dare il loro cognome ai figli, se non nel caso di madri nubili, anche per questo nel 2014 l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu), che aveva accusato Roma di avere delle leggi discriminatorie verso le donne.
Grazie a due sentenze della Corte costituzionale – una del 2016 e una del 2022 – è ormai possibile dare ai figli il cognome di entrambi i genitori e anche solo quello della madre, ma solo se c’è un accordo tra la madre e il padre. «Nel cognome dei figli l’eguaglianza tra i genitori», è scritto nella sentenza della Corte costituzionale del 2022. La corte è arrivata prima del parlamento. L’Italia ancora aspetta una legge che regoli la questione del cognome materno e tutte le contese rimaste in sospeso dopo la sentenza della consulta. Una proposta di legge è in senato da gennaio del 2024, anche se i testi che in passato hanno provato a occuparsi della materia sono sempre stati affossati.
Sono nata nel 1980, un anno prima che fosse abolito il delitto d’onore, due anni dopo la legalizzazione dell’aborto. Porto il cognome di mia madre.
Sono nata una domenica mattina con il parto cesareo, rompendo le acque e i piani di mia madre, che aveva previsto di farmi nascere due giorni dopo. E quando nel nido della clinica hanno dato in braccio a mia nonna quel fagottino paffuto appena arrivato al mondo, lei è scoppiata a piangere. Ero nata fuori dal matrimonio e mio padre non solo non voleva sposarsi, ma non voleva nemmeno che nascessi.
Mia madre aveva trentott’anni, lavorava. Era rimasta incinta e aveva deciso di portare avanti la gravidanza anche se mio padre non era d’accordo. Quando mia madre glielo aveva detto, lui le aveva strappato la borsa dalle mani e l’aveva rovesciata. Aveva paura che lei volesse ucciderlo e che nascondesse da qualche parte un’arma, perché non era concepibile per lui che una donna da sola decidesse di fare un figlio, senza il sostegno del compagno.
Quando invece lo aveva detto ai suoi genitori, mio nonno era andato a prendere il fucile da caccia che custodiva in garage, risoluto ad andare da mio padre e regolare i conti dell’onore. Mia madre allora aveva detto che se avesse provato a varcare la soglia di casa con quell’arma non l’avrebbe mai più vista.
C’erano stati la rivoluzione sessuale e il femminismo, mia madre era una donna con una personalità forte, anche se non era stata una femminista. Era autonoma dal punto di vista economico e aveva una sorella, che l’avrebbe sostenuta in tutto. Così mio nonno fu costretto a riporre il fucile e a dimenticarsi l’onore.
Quando mi diedero in braccio a mia nonna, ore dopo la mia nascita, lei pianse disperata. Un uomo, uno sconosciuto, le si avvicinò e senza chiedere quale fosse il motivo della disperazione, le disse che la bambina era davvero molto bella, che le assomigliava, aveva il suo taglio degli occhi e la bocca a cuore. Non sapeva che avrei portato anche il suo nome e che le sarei saltata sulle ginocchia tutti i sabati pomeriggio, per farmi raccontare quelle storie che avevano sempre delle protagoniste femminili. Quei racconti avvincenti a cui ogni volta lei toglieva e aggiungeva dei pezzi, spesso cambiando il finale.
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza maschile contro le donne e nominarla.
(Internazionale.it, 29 gennaio 2024)
di Katherine J. Wu
Entro i prossimi vent’anni una nuova generazione di contraccettivi potrebbe arrivare sul mercato. Il primo, una pillola che impedisce ad alcune cellule di accedere alla vitamina A, potrebbe essere in grado di limitare la fertilità senza inondare il corpo di ormoni. Un altro è un’iniezione che blocca temporaneamente l’apparato riproduttore. Il metodo più avanti nei test è un gel topico che dovrebbe causare un’infertilità temporanea se spalmato quotidianamente sulle spalle e sulla parte superiore delle braccia, senza influire sull’umore o sulla libido. «Nel complesso, non abbiamo riscontrato nessun evento avverso grave», dice la ricercatrice Christina Wang, che ha lavorato al gel.
Questa nuova generazione di trattamenti sarà importante non solo per i suoi innovativi metodi di somministrazione, ma per il suo target: gli uomini. Per decenni gli uomini determinati a gestire la propria fertilità hanno avuto solo due opzioni imperfette, il preservativo o la vasectomia. Ma negli ultimi anni sono stati fatti enormi passi avanti nello sviluppo di opzioni semplici, comode ed efficaci, e con effetti collaterali praticamente nulli. Presto le donne potrebbero non essere più costrette a sostenere quasi per intero il peso di evitare una gravidanza.
Una migliore contraccezione maschile non sarebbe possibile senza i tanti percorsi scientifici aperti da quella femminile. Ora il controllo delle nascite da parte delle donne, che può avere ancora molti effetti collaterali fastidiosi e a volte rischiosi, potrebbe meritarsi un po’ di sostegno. È vero, la logistica per impedire a un ovulo di uscire dall’ovaia non si sovrappone completamente ai meccanismi per tenere lo sperma lontano dal tratto riproduttivo femminile. Ma tra le due cose «ci sono molte somiglianze», dice Diana Blithe, che dirige il programma di sviluppo di anticoncezionali dei National institutes of health (Nih) statunitensi. Questo significa che uno può facilmente influire sull’altro.
Grazie ai progressi nel campo della contraccezione maschile, i ricercatori potrebbero presto offrire nuove forme di controllo delle nascite che non siano solo più tollerabili, ma anche più personalizzate e meno invasive, e che potrebbero essere usate sia dagli uomini sia dalle donne.
Nei più di sessant’anni passati dall’introduzione della pillola anticoncezionale, l’elenco delle scelte per le donne si è allungato in modo impressionante. Possono optare per metodi di barriera o scegliere tra pillole, cerotti e impianti sottocutanei. Possono fare un’iniezione più volte all’anno o usare un dispositivo intrauterino che può durare fino a dieci anni. «È quasi come essere nel reparto cereali di un supermercato», dice Amy Alspaugh, infermiera e ricercatrice all’università del Tennessee a Knoxville.
Molti strumenti sono stati migliorati: le spirali e gli impianti ora durano di più e sono più facili da inserire e rimuovere. Il dosaggio degli ormoni è drasticamente diminuito. «In passato davamo alle donne dosi da cavallo di estrogeni e progestinici», dice Alspaugh. «Ora facciamo in modo che dosi più basse siano comunque efficaci», riducendo al minimo gli effetti collaterali. Alcuni ricercatori hanno esplorato nuovi metodi come microaghi o microchip che consentirebbero alle donne di regolare a distanza la loro fertilità, un’idea che ha sollevato molte preoccupazioni sulla privacy. Il Population council, una ong con sede a New York, sta studiando un anello vaginale multiuso che oltre a prevenire la gravidanza può rilasciare un antivirale per proteggere chi lo usa dall’Hiv, spiega l’endocrinologa Régine Sitruk.
Nel complesso, però, i cambiamenti nella contraccezione femminile sono stati solo incrementali: nuovi ingredienti più che ricette diverse. «Ormai usiamo gli stessi metodi da quasi trent’anni», dice Heather Vahdat, direttrice esecutiva della Male contraceptive initiative. E molte donne sono insoddisfatte a causa degli inconvenienti e dei rischi. Alcune riferiscono di aumento di peso, acne e sbalzi d’umore o temono il possibile rischio ictus legato alle pillole ormonali. Altre lamentano della scomodità dei dispositivi intrauterini. In contesti diversi inserire manualmente un dispositivo nel basso addome senza anestesia probabilmente non sarebbe tollerato, eppure nel caso degli anticoncezionali femminili «lo abbiamo fatto diventare accettabile», dice il ginecologo Brian Nguyen. I dispositivi non ormonali come preservativi, diaframmi e spermicidi sono facilmente reperibili, ma di solito meno efficaci, e possono comunque avere effetti collaterali.
Una maggiore varietà di contraccettivi da usare solo quando si hanno rapporti risparmierebbe alle donne la fatica di dover sopportare inconvenienti per mesi o anni, dice Vahdat.
Da tempo alcuni ricercatori sostengono che nella contraccezione femminile gravi effetti collaterali sono considerati sopportabili. Le donne, dopotutto, devono confrontare questi costi con quelli di una gravidanza, una condizione che può anche avere complicazioni letali. Gli uomini, invece, usano i contraccettivi per evitare la gravidanza di un’altra persona.
Ho chiesto a Vahdat se il tipo di effetti collaterali degli anticoncezionali femminili attualmente disponibili supererebbe l’esame in quelli maschili in fase di sperimentazione. «Sulla base dei precedenti», mi ha detto, «penso di no». Molti esperti concordano. Nel 2011 uno studio internazionale su un contraccettivo ormonale iniettabile per uomini è stato interrotto quando un comitato indipendente ha stabilito che gli effetti collaterali «superavano i potenziali benefici». Gli eventi avversi includevano sbalzi d’umore e depressione, entrambi comuni nelle donne che usano anticoncezionali. Eppure la maggior parte dei partecipanti ha affermato di voler continuare a usare il farmaco. Negli ultimi anni Nguyen ha sentito molti uomini citare le esperienze negative delle loro partner come il motivo che li ha convinti a partecipare alle sperimentazioni. «Vedono il rischio per la propria compagna come un rischio per loro».
I severi standard sugli anticoncezionali maschili potrebbero innalzare l’asticella anche per quelli femminili. Progressi simili sono già in arrivo. I ricercatori stanno cercando di formulare un contraccettivo topico per gli uomini con una dose di testosterone naturale unito alla progestina, che blocca la produzione di sperma. L’idea è replicare quello che succede naturalmente nel corpo degli uomini per ridurre al minimo gli effetti collaterali. Molti contraccettivi ormonali femminili, invece, si basano su un composto sintetico chiamato etinilestradiolo, che imita in modo incompleto gli estrogeni prodotti dal corpo delle donne e sembra aumentare la possibilità di coaguli di sangue. Il Population council sta lavorando a un altro tipo di anello vaginale che sostituisca l’etinilestradiolo con ormoni più compatibili con la biologia femminile.
Più flessibilità
Altri dispositivi potrebbero essere più complicati da realizzare. Per esempio, i ricercatori sperano di poter offrire agli uomini una vasectomia più facilmente reversibile, in cui un idrogel solubile o rimovibile viene inserito nel dotto deferente. Invece chiudere temporaneamente le tube di Falloppio è molto più difficile. Inoltre, mentre lo sperma è prodotto costantemente, gli ovuli vengono rilasciati in base a un ciclo che può essere difficile da prevedere, il che può complicare anche il controllo degli effetti collaterali, spiega Nguyen. Gli interventi mirati sono più facili da eseguire sui testicoli che sulle ovaie, e il loro successo è più facile da verificare: gli uomini possono controllare il numero di spermatozoi con un test simile a quelli per il covid, mentre per le donne non esiste nulla di simile, dice Wang. E poiché la produzione dello sperma richiede mesi, i contraccettivi ormonali maschili potrebbero non creare problemi se si salta un giorno di trattamento, a differenza delle pillole per le donne che tendono a essere meno flessibili, dice il ricercatore Mitchell Creinin.
La difficoltà di controllare gli ovuli, tuttavia, non è un problema insormontabile. Il concepimento non può avvenire se l’ovulo e gli spermatozoi non si incontrano, quindi quasi tutti i farmaci progettati per ostacolarne la funzionalità o la motilità potrebbero fare la loro parte nel tratto riproduttivo femminile. Il Population council sta lavorando a un prodotto che modifica l’acidità della vagina per impedire allo sperma di muoversi al suo interno, dice Sitruk-Ware. E Deborah Anderson, un’immunologa dell’università di Boston, sta studiando una pellicola solubile imbevuta di anticorpi che bloccano gli spermatozoi, da inserire nella vagina prima del rapporto sessuale e in grado di garantire la contraccezione per uno o due giorni, dice. Un paio di farmaci in fase di sperimentazione per gli uomini potrebbero un giorno essere commercializzati in una qualche forma anche per le donne: tra questi ce n’è uno che blocca la motilità degli spermatozoi e che potrebbe, anche questo, essere usato nel tratto riproduttivo femminile.
Ora che tanta attenzione è rivolta alle preferenze contraccettive degli uomini, alcuni ricercatori temono che i bisogni delle donne siano messi da parte. Jeffrey Jensen, che si occupa di contraccezione all’Oregon Health & Science University, dice che mentre i finanziamenti per i metodi maschili continuano ad avere il via libera, negli ultimi anni il suo team ha dovuto sospendere alcuni progetti sulla contraccezione femminile per mancanza di fondi. «Le autorità pensano che questo filone di ricerca sia esaurito», commenta.
Sitruk-Ware racconta che lo sviluppo di un gel contraccettivo topico per le donne è stato interrotto perché i finanziatori erano più interessati al gel per gli uomini.
Tuttavia è improbabile che la contraccezione maschile smorzi l’interesse delle donne per i dispositivi pensati per loro, dice Allison Merz, una ginecologa dell’Università della California a San Francisco. Semmai, quando questi prodotti ultrasicuri e ultraefficaci arriveranno sul mercato, scateneranno ulteriori discussioni sulla contraccezione femminile e faranno sorgere più interrogativi sul perché la comodità e la tollerabilità non siano state una priorità per le opzioni femminili fin dall’inizio.
(Internazionale, 31 maggio 2024)
di Michele Giorgio
«Tornate a casa, andate via, state aiutando Hamas, i terroristi di Gaza». L’uomo, in apparenza sui quarant’anni, urla, fa un giro con la sua auto intorno alla rotonda davanti a Tarqumiya, grida altre frasi piene di rabbia e se ne va. Altri due attivisti di destra si tengono a distanza, osservano senza intervenire. «Non va sempre così, senza grossi problemi», ci spiega Nir, trentacinque anni, di Tel Aviv e membro del gruppo ebraico-arabo Standing Together, «(quelli di destra) quando vogliono creare problemi arrivano a decine e si mostrano aggressivi, non solo con i camionisti. Noi facciamo di tutto per evitare tensioni, il nostro unico fine è favorire con la nostra presenza il passaggio dei camion carichi di aiuti diretti a Gaza».
L’offensiva israeliana ha molti campi di battaglia, non tutti nella Striscia. Rafah, Jabaliya, Nuseirat sono i nomi delle città palestinesi più martoriate in questi giorni. Ma ci sono scontri diversi che si combattono in altri luoghi. A Tarqumiya e altri incroci stradali, ad esempio, dove gli attivisti della destra fanno il possibile per bloccare i convogli umanitari che partiti dalla Giordania percorrono la Cisgiordania, escono dal transito di Tarqumiya e dopo, alcune decine di chilometri in Israele, giungono al valico settentrionale di Gaza o a quello meridionale di Kerem Shalom, al confine con l’Egitto. Nelle ultime settimane i social media sono stati inondati di immagini di autocarri bloccati e saccheggiati da militanti della destra e coloni israeliani insediati nella Cisgiordania occupata. Non sono mancate aggressioni fisiche ad autisti palestinesi e due autocarri sono stati dati alle fiamme. Si sono visti anche bambini, molto piccoli, che calpestano scatole di aiuti per Gaza. «È importante fermare gli aiuti… È l’unico modo per vincere. L’unico modo per recuperare i nostri ostaggi», ripete un militante della destra estrema in un video.
Standing Together è lo schieramento opposto in questa battaglia che vede due trincee israeliane. «La ragioni della destra sono assurde e disumane» ci dice Shimon, anche lui di Tel Aviv, da dove provengono gran parte dei membri ebrei di Standing Together. «Estremisti e coloni – aggiunge – sostengono che gli abitanti di Gaza non dovrebbero ricevere nulla. Tutto ciò è inaccettabile, si tratta di una grave punizione contro civili che sopravvivono appena, che non hanno più nulla, che vivono in tende e soffrono la fame. Dobbiamo aiutarli, mandando cibo e chiedendo la fine della guerra».
Shimon ammette di rappresentare una minoranza esigua di israeliani, che può incidere ben poco. «Purtroppo l’opinione pubblica in maggioranza vuole ancora la guerra, per vendicare i morti israeliani del 7 ottobre e colpire Hamas», spiega sistemandosi il cappello sulla testa. Fa molto caldo e il sole brucia per chi deve passare ore in attesa. «Ci ricompensa il saluto e il grazie sincero dei camionisti che escono dalla Cisgiordania. Capiscono che la nostra presenza può dissuadere quelli che progettano di aggredirli», dice Claire che solo di recente ha scelto di mobilitarsi a difesa di Gaza. «Non è facile, occorre affrontare tanta ostilità, ma non potevo restare a guardare di fronte alle sofferenze della popolazione di Gaza». Per Abed, un palestinese della Galilea, venire al presidio di Tarqumiya rappresenta l’opportunità per sentirsi utile, dopo quasi otto mesi di dolore e frustrazione passati a seguire le stragi di Gaza. «So che sto facendo qualcosa di concreto per aiutare altri palestinesi», afferma.
Ci sono tre camionette della polizia. Gli agenti seguono con attenzione i movimenti degli attivisti di Standing Together. Nei giorni scorsi i poliziotti sono stati accusati di restare a guardare. Coloni ed estremisti, sospettano in molti, ricevono informazioni proprio da polizia ed esercito sul passaggio dei camion umanitari. E non solo dalle forze di sicurezza. Una rete di gruppi WhatsApp gestiti da esponenti dell’estrema destra nota come Lo Nishkach (in ebraico «non dimenticheremo») riesce a mobilitare centinaia di membri del movimento nelle attività di blocco della consegna degli aiuti umanitari. I militanti vengono convocati agli svincoli stradali. Lì fermano i camion e se gli autisti non dimostrano che il loro carico non è destinato a Gaza, gli attivisti passano alle vie di fatto. Opera anche un altro gruppo, Tsav 9, ma dopo l’incendio dei due autocarri ha rallentato la mobilitazione in strada pur mantenendo una linea radicale. «La nostra attività è pratica, e se questo significa scaricare il carico e bruciarlo per evitare che arrivi al nemico, lo faremo», ha dichiarato qualche giorno fa al giornale Haaretz Yosef de Bresser, uno dei fondatori di Tsav 9. Dall’inizio della guerra De Bresser è stato arrestato dieci volte. Oltre a bloccare i camion, è stato anche coinvolto nel tentativo di entrare a Gaza per stabilirvi degli avamposti di coloni.
Nadav, ventisette anni, un riservista dell’esercito israeliano, è al presidio di Standing Together. Ha partecipato all’offensiva israeliana, da fine ottobre a fine dicembre, nel nord della Striscia. Indossa una maglietta della nazionale inglese di calcio e sfoggia baffi che non hanno nulla da invidiare a quelli di D’Artagnan. «Il servizio militare è obbligatorio in Israele e ho partecipato all’offensiva in una unità di fanteria, ma non sono a favore della guerra, anzi» ci racconta Nadav «sono sempre stato contro l’occupazione e favorevole al diritto dei palestinesi di essere liberi e di avere un loro Stato. Quanto ho visto a Gaza – morte, distruzione di interi centri abitati, disperazione – ha accresciuto queste mie idee. Per riportare gli ostaggi a casa sono necessari una trattativa e la fine della guerra». A Gaza l’esercito israeliano ha commesso crimini guerra, gli domandiamo. «Non mi intendo di leggi internazionali. Quello che so è che a Gaza sono stati commessi gravi errori». A pagare questi «errori», aggiungiamo noi, sono state persone innocenti.
(il manifesto, 31 maggio 2024, pubblicato con il titolo: Stop al cibo per Gaza, l’altra guerra dell’estrema destra)
di Alessandra Pigliaru
Recentemente la nuova direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (ora di Renata Cristina Mazzantini, subentrata a Cristiana Collu dopo otto anni di mandato) «ha comunicato la volontà di interrompere il comodato del “Fondo Carla Lonzi”, senza chiedere al figlio il passaggio alla donazione del Fondo». È quanto si apprende dalla interrogazione della deputata Luana Zanella (Avs) presentata al ministro della cultura Gennaro Sangiuliano invitandolo a promuovere «il riconoscimento del Fondo Carla Lonzi a Bene Culturale, rappresentando esso rilevante interesse artistico, storico, archivistico e bibliografico (art. 2, comma 2, del d.lgs. 42/2004, “Codice dei beni culturali”)».
Nel 2017 Battista Lena, figlio della femminista, critica d’arte e saggista italiana – nata a Firenze nel 1931 e morta di cancro a Milano nel 1982 – conferisce in comodato d’uso alla Gnamc le carte private contenute in quattro scatoloni di sua proprietà che fino a quel momento giacevano nella sua casa umbra. La storia del «Fondo Carla Lonzi 1942-2003», a cura di Marta Cardillo, con la collaborazione di Lucia R. Petese, il coordinamento di Claudia Palma e la consulenza scientifica di Annarosa Buttarelli, è reperibile (e consultabile da chiunque) nell’inventario di 274 pagine redatto nel 2019 e ora sul sito del MiC (che ha la documentazione relativa alla Gnamc). Scorrendo le centinaia di pagine di inventario, ci si fa una prima idea della mole di materiali restaurati e catalogati: migliaia di carte divise in faldoni tra dattiloscritti, quaderni, diari, corrispondenze, minute, audiocassette, i testi delle monografie redatti da Lonzi non solo nel periodo femminista, infine fotografie eccetera. Una vera miniera a disposizione di generazioni di studiose e studiosi che infatti ne hanno giovato fino a ora. Ci si può anche addentrare nella disposizione e nel riordino del Fondo, cominciando dalla sua storia archivistica, c’è la modalità di acquisizione, il contenuto, la bibliografia, la suddivisione in due sezioni, la prima relativa a Carla Lonzi (i documenti finiscono nell’anno della sua morte) e la seconda a sua sorella Marta, dal 1970 al 2003.
Sospendere il comodato d’uso anzitempo (nella interrogazione di Zanella si legge «senza una giustificazione tecnica») rischia di interrompere ciò che procede con dedizione da qualche anno e la cui convenzione con la Gnamc avrebbe previsto proseguisse fino al 2027. Ne sono prova costante la pubblicazione di Sputiamo su Hegel e altri scritti per La Tartaruga di Claudia Durastanti, con la curatela di Annarosa Buttarelli, che pochi mesi fa ha rinnovato l’attenzione verso Lonzi e la sua elaborazione ancora oggi cruciale. E in effetti tra il 2010 e il 2012 intorno alla riedizione dei testi di Rivolta Femminile (che non era solo il gruppo femminista e radicale di cui faceva parte Lonzi ma anche una casa editrice), è stato grazie alla tenacia condivisa da alcune tra le menti più raffinate del femminismo italiano, a iniziare da Liliana Rampello e una grande editrice come Laura Lepetit, che si trovò in Sandro D’Alessandro delle Edizioni Et Al. un intelligente alleato per la ripubblicazione completa delle opere di Lonzi (interrottasi per la morte prematura di D’Alessandro): Sputiamo su Hegel e altri scritti aveva la postfazione di Maria Luisa Boccia; Taci anzi parla, in due volumi la cui postfazione era di Annarosa Buttarelli (e che ora, essendo diventato introvabile, è quotato svariate centinaia di euro); Autoritratto con la prefazione di Laura Iamurri (appena ristampato da La Tartaruga); Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra e il postumo Scritti sull’arte, a cura di Lara Conte, Iamurri e Vanessa Martini.
L’interesse artistico, storico e archivistico del Fondo della femminista italiana è allora ancora oggi un atto politico, generativo e di lavoro radicale della memoria; consentirne la consultazione e lo studio è ulteriore occasione per altri progetti di carattere culturale: pubblicazioni, tesi di laurea, laboratori, esposizioni. Nel 2018 anche la Gnamc le dedicava un articolato festival di tre giorni; dello stesso anno è l’open call Dopo Hegel su cosa sputiamo? La mostra «Io dico Io – I say I» è del 2021 mentre l’anno successivo è stata promossa la traduzione inglese di Autoritratto. Solo per citare alcune delle iniziative che hanno interessato la comunità scientifica, moltiplicatesi anche oltre le mura della Galleria. Nel corso del 2021, con la collaborazione di Google Arts & Culture, l’Archivio Carla Lonzi è stato digitalizzato ed è disponibile per la consultazione, con 162 storie e oltre 16mila immagini e video. Sarebbe auspicabile che la Gnamc proseguisse in ciò che ha cominciato, sia pure nella successione delle diverse direzioni. Fisicamente sono pochi metri quadri, e poche le risorse economiche: i bilanci dal 2017 sono pubblici e consultabili, insieme ai report annuali, con voce dedicata alla restaurazione, alla catalogazione e al riordino di un Fondo tanto prezioso quanto esposto.
(il manifesto, 30 maggio 2024)
di Carlo Alberto Bucci
Alla Galleria nazionale d’arte moderna le sorti delle carte e degli scritti di Carla Lonzi e Anton Giulio Bragaglia sono nelle mani di Battista Lena e di Valerio Jalongo. Arte, critica, archivi, musica e cinema si incrociano nel destino dei due preziosi fondi che la direzione del museo di Valle Giulia ha deciso di restituire poiché si tratta di beni lasciati in comodato. E il museo, che si appresta a lavori di messa in sicurezza dei depositi, non può o vuole garantire la conservazione di beni non di proprietà pubblica. Sembra insomma che la parola definitiva starà ora al regista Valerio Jalongo e a Battista Lena, autore di colonne sonore, tra l’altro per i film della moglie Francesca Archibugi: starebbe a loro, e a i loro cari, decidere se completare in futuro la donazione o se riprendersi un patrimonio di famiglia – 7,5 metri lineari di documenti nel caso di Lonzi; circa 110 su 170 per quanto riguarda Bragaglia – arrivato grezzo nei depositi del palazzo di Bazzani. E ora schedato, restaurato, digitalizzato. In una parola, valorizzato. A spese dello Stato.
L’affondo della critica letteraria
Ma andiamo per ordine. La notizia della restituzione di tutti i documenti del fondo Lonzi è stata lanciata, e aspramente criticata, due giorni fa su Facebook da Annarosa Buttarelli, filosofa e curatrice del riordino del Fondo della critica d’arte e studiosa del femminismo nata a Firenze nel 1931 e morta nel 1982 a Milano: “Desidero informare il mondo femminista di un accaduto gravissimo: la nuova direzione della Galleria nazionale ha interrotto il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi, di fatto espellendolo dalla Galleria e sottraendolo così all’accesso pubblico, soprattutto femminista. Occorre che si registri un vero e proprio attacco al femminismo che il nuovo corso vuole fuori dalla Galleria”.
La lettera contestata
Contatta da Repubblica, la studiosa che ha curato, tra l’altro, la recente edizione del celebre Autoritratto di Lonzi, in cui a parlare erano gli artisti, innanzitutto Carla Accardi per finire con Cy Twombly, dice: “Ho ricevuto una lettera dalla nuova direttrice della Galleria nazionale, Renata Cristina Mazzantini, in cui mi si comunica che il comodato non sarà trasformato in donazione e che, quindi, la documentazione archivistica verrà riconsegnata ai proprietari”. E sulla motivazione: “Nella lettera si dice solo che la decisione è presa poiché è finito il mandato di Cristiana Collu”. Ossia la direttrice che nei suoi anni di gestione (2015-2023) del museo che fu condotto da Palma Bucarelli, ha incrementato le donazioni degli archivi privati (come quelli dei galleristi romani Sargentini, Miscetti, Minini o dei pittori Capogrossi, Rizzo, Cavalli) portandoli da 12 a 57. E trasformando l’edificio costruito nel 1911 in un centro studi, oltreché di mostre, in forza dei vasti depositi sotterranei. Ma ora proprio quei locali sono al centro di una ristrutturazione.
La replica della neo direttrice
La nuova direttrice della Gnam (acronimo indigesto per l’assonanza con il verbo mangiare, ma ormai accettato da tutti) non ci sta a passare per antifemminista. “Ho letto con molto rammarico di essere stata tacciata di essere una nemica di Carla Lonzi. Io, che ho letto i suoi libri e che, da donna, ho dovuto lottare per affermare la mia professionalità nel campo dell’architettura”, dice a Repubblica Mazzantini, arrivata a dicembre alla Galleria nazionale dopo l’esperienza al Quirinale. “Ma da architetto – sottolinea la dirigente del Mic – conosco bene le regole e i rischi di gestire materiale d’archivio, che ha bisogno di particolari accorgimenti per la conservazione, in depositi inadatti quali sono i locali che ci apprestiamo a mettere a norma: e il primo lotto di lavori è stato già messo a bando. Questa e solo questa la ragione per cui, mio malgrado, siamo costretti a restituire ai legittimi proprietari il fondo Lonzi ma anche della parte del Bragaglia in deposito da parte degli eredi”.
“Magazzini stracolmi…”
Poi si entra nel dettaglio attraverso il testo della direzione della Gnam condiviso con l’Ufficio stampa del ministero della Cultura (Mic): “Questa decisione è stata presa per non far assumere alla Galleria nazionale la responsabilità di dover trasferire e custodire beni privati altrove durante il periodo dei lavori, con costi a carico dello Stato, e comunque per ridurre anche in futuro il carico d’incendio che graverebbe sui locali destinati a magazzino, già stracolmi. Al di là delle problematiche inerenti la sicurezza, vi sono anche ragioni economiche che motivano la decisione di restituire i fondi e le opere di proprietà privata: le opere e i fondi che non sono di proprietà pubblica non sono coperti dalla garanzia di Stato, pertanto occorre assicurarli tramite onerose polizze assicurative da stipulare a spese della Galleria e quindi del contribuente”. Continua il comunicato del Mic: “Tali polizze, che sono normalmente attivate nel caso di mostre temporanee, trovano scarsa giustificazione per periodi tanto prolungati e potrebbero suscitare rilievi da parte della Corte dei Conti”. La sensazione è che Mazzantini voglia tagliare corto con la politica dei comodati, di archivi ma soprattutto di opere d’arte, portata avanti dalla gestione Collu (“questo museo non è l’Archivio di Stato, la sua struttura non è adeguata a conservare documenti” spiega Mazzantini).
Le foto di Ugo Mulas restaurate
Ma l’architetta non nasconde la delusione per la perdita degli originali di un faticoso lavoro di schedatura e restauro eseguito: e si va dalla lettera di incarico al testo redatto da Lonzi per il convegno alla Gnam del 1958 su “L’arte moderna e il teatro”, alle foto agli artisti del maestro Ugo Mulas che erano attaccate l’una all’altra negli scatoloni della famiglia, passati da Carla Lonzi alla sorella Marta e da questa al nipote (un deposito in 4 tranche in tutto). Uno sforzo iniziato nel 2017 e costato al museo “oltre settantamila euro”, compreso il compenso ad Annarosa Buttarelli, certifica ricevute alla mano Mazzantini.
“Pronti alla donazione, ma è tutto online”
L’architetta che dirige il museo di Valle Giulia lascia però aperta una porta: “Se Battista Lena decide di donare, accettiamo volentieri questo importante fondo di Carla Lonzi che comunque, lo ricordiamo, è consultabile online sul nostro sito alla sezione Fondi storici”. Gli altri musei, anche stranieri, stanno a guardare pronti a fare la propria offerta. E su quelle carte Francesca Archibugi si sta documentando per un suo lavoro cinematografico sull’opera della madre di suo marito, l’autrice di libri come Sputiamo su Hegel, che sembra sia in corso di lavorazione.
La mostra di autunno sul Futurismo
Il fondo Lonzi, dicevamo, non è l’unico a tornare a casa. Anche lo sterminato archivio di Anton Giulio Bragaglia sta per essere restituito nella parte (un po’ meno della metà) ancora in comodato. “Così viene spezzato in due, è ancora peggio che restituirlo tutto: un danno culturale enorme per la storia della fotografia e dello spettacolo d’avanguardia in Italia”, sottolinea Giuseppe Appella, lo storico dell’arte che molto si è speso per l’acquisizione del fondo. Mentre la Galleria nazionale marcia verso la mostra/monstre sul Futurismo in autunno a cura di Gabriele Simongini, che è plausibile peschi anche tra le foto che si ritrova in casa, la direzione taglia in due la messe di locandine, libri, foto, manoscritti, poesie di Paolo Buzzi o lettere diGiuseppe Prezzolini e Grazia Deledda: 200 metri lineari di archivio schedati in due anni di lavoro. E consultabili online nell’Opac della Gnam.
“Un bene archivistico non si può dividere”
“Un bene archivistico non si può spezzare”, dice, delusa, Claudia Palma, in pensione dal marzo 2023 dopo 43 anni di Galleria nazionale d’arte moderna e gli ultimi passati a lavorare sui 45 fondi acquisiti da Collu. Già direttrice dell’archivio bio-iconografico e dei fondi storico e fotografico di Valle Giulia, Palma sottolinea: “Su 170 metri lineari di documenti del fondo Bragaglia,60 erano ancora in comodato mentre 110 già acquisiti dallo Stato. Con la restituzione si rompe un vincolo e ciò è contrario al Codice dei beni culturali”. Anche in questo caso, se il regista Valerio Jalongo e le sue sorelle, eredi del padre del Fotodinamismo futurista, decideranno di completare la donazione, la Galleria nazionale si dice pronta ad accettarla e a trovare una soluzione per non spezzare in due queste importanti pagine di storia della cultura italiana.
(la Repubblica, 30 maggio 2024)
di Loredana Magazzeni
È notizia di questi giorni che l’attuale direzione della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha interrotto il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi. Se lo espellesse, lo sottrarrebbe all’accesso pubblico. Abbiamo intervistato la filosofa Annarosa Buttarelli, che ne è la curatrice.
Quando e come è iniziata la tua cura del fondo Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma? Qual è la sua importanza per la conoscenza della grande artista e pensatrice?
Tutto è avvenuto quasi miracolosamente. Per molti anni ho collaborato con Cristiana Collu alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Nel 2018 Battista Lena, il figlio di Carla Lonzi ha proposto alla direttrice un comodato d’uso per un sicofoil di Carla Accardi. Vedendolo in galleria mi è venuta l’idea di suggerire a Cristiana Collu di provare a verificare la disponibilità di Battista a portare in galleria tutti i documenti della madre, in modo che fossero catalogati e messi a disposizione del pubblico. La lungimiranza della direttrice ha fatto il resto. E oggi si può dire che il Fondo Carla Lonzi è l’unica raccolta al mondo documentale e iconologica perfettamente accessibile, e protetta dalla digitalizzazione. Una festa per tutte le studiose, le femministe, gli studiosi, le giovani e i giovani sempre più vicini alla strada aperta dalla madre del femminismo italiano della differenza.
L’attuale direzione ha interrotto il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi, di fatto espellendolo dalla Galleria e sottraendolo all’accesso pubblico, proprio in un momento in cui Lonzi viene ripubblicata da La Tartaruga e il suo pensiero riceve un grandissimo riconoscimento da parte del femminismo e delle giovani generazioni. Come te lo spieghi?
In ogni circostanza ci sono sempre concause, mai una sola. Ma posso azzardare qualche ipotesi: 1) hanno senz’altro giocato, da parte della nuova direttrice, una certa superficialità e l’incompetenza nella delicata materia archivistica; 2) ho ricevuto dalla direttrice una lettera (a me per conoscenza in quanto curatrice scientifica del Fondo Lonzi) in cui scrive il motivo ufficiale dell’interruzione di comodato d’uso: si tratta della bizzarra sovrapposizione della fine dell’interesse della nuova direttrice a avere il Fondo con la fine del mandato della precedente direttrice Cristina Collu, citata esplicitamente nella lettera (!); 3) questo fa pensare che uno dei motivi che spingono all’espulsione sia la solita damnatio memoriae di chi ha preceduto con onore e successo. Lo fa pensare anche il fatto che sono scomparsi dal blog della Galleria (quindi dall’accessibilità online) tutte le iniziative, le mostre, le realizzazioni che Cristiana Collu ha potuto fare proprio per sostenere la presenza e la vitalità del Fondo Lonzi. Come se si volesse cancellare l’enorme potenzialità del Fondo, pienamente intercettata e sostenuta durante il mandato di Collu; 4) di conseguenza viene da pensare che vi sia nella nuova direttrice l’ignoranza (in senso letterale) del prestigio del bene culturale che ha in casa, ma soprattutto si rileva un certo disprezzo per tutto ciò che ha a che fare con il femminismo di cui io sono una filosofa esponente, responsabile scientifica del Fondo che ho contribuito a costruire. Non sono mai stata ricevuta, né consultata.
Cosa possiamo fare per salvare l’accesso al fondo e di conseguenza consentire il libero accesso allo studio dei documenti?
L’accesso al Fondo fisico è garantito in Galleria finché il figlio di Carla Lonzi non lo ritirerà. Ha tempo sei mesi, in cui è possibile accadano cose interessanti e miracolose, un’altra volta. Se lo ritirerà dobbiamo sperare che lo voglia ricollocare in un’altra istituzione pubblica così da garantire, in Italia, l’accesso pubblico, e visto l’investimento fatto dallo Stato per la nascita del Fondo stesso. Sarebbe bizzarro, per limitarci a questo, che il Fondo di una pensatrice italiana fondamentale nella storia della cultura, dell’arte, del femminismo italiani finisse in qualche istituzione estera o in qualche archivio privato. Lo si potrebbe considerare una mancanza di rispetto per l’impegno che il Ministero della Cultura italiano ha profuso, in personale, in dirigenza, in risorse.
Dall’esterno si può fare quello che stiamo facendo qui, parlare, informare, scrivere, segnalare, lavorare sui social, raccogliere firme che chiedano il riconoscimento del Fondo Carla Lonzi come Bene Pubblico, in modo che non possa uscire dall’Italia. Questo riconoscimento deve essere chiesto dal figlio che è ancora proprietario del Fondo, non avendo donato il Fondo alla Galleria. Ritengo sia impossibile che Battista Lena non voglia fare questo passaggio necessario. Forse però occorre sostenerlo e consigliarlo pubblicamente in questo senso.
Qual è l’importanza del pensiero di Lonzi oggi?
L’importanza del pensiero e delle opere di Carla Lonzi è eterna, poiché lei è allo stesso livello delle grandi pensatrici del ’900. L’editore Feltrinelli mi ha chiesto di scrivere un libro per la collana Eredi diretta da Massimo Recalcati. Gli “eredi” che scrivono in quella collana sono coloro che si sono trasformati al contatto con il pensiero di un maestro e di una maestra. Il libro si intitola Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione. Ho provato a presentare l’immensa, inesauribile, inappropriabile opera di Carla Lonzi, una pensatrice femminista rigorosa, autocosciente, radicale, magistrale, integra nella coscienza e nei gesti, amorosa verso i giovani e verso i rapporti umani. Tutto questo è ciò di cui si ha bisogno in questo tempo che sta spargendo crudeltà ovunque. I e le giovani cercano tutto questo e l’opera di Carla Lonzi lo dà.
(Letterate Magazine, 30 maggio 2024)