di Dario Pappalardo
«Mi diceva: lavora in cucina, in bagno, in camera da letto, ovunque. E mettitelo bene in testa: hai un sacco di tempo davanti a te». Nei ricordi di Tracey Emin, Louise Bourgeois è ancora lì che la sprona, la rimprovera, le dà consigli, condividendo con lei il mistero dell’arte. L’ex ragazza terribile della scena inglese, appena nominata Dame Commander dell’Impero britannico dal re Carlo III, ha vissuto con la madre di tutte le artiste contemporanee un curioso sodalizio. Lontane quasi mezzo secolo per l’anagrafe, firmarono insieme il progetto Do Not Abandon Me, fondendo il loro stile e i colori in acquerelli unici. Tracey ha poi dedicato all’amica un documentario della Bbc e oggi, mentre è alle prese con una mostra a Bruxelles, prepara quella del 2025 al fiorentino Palazzo Strozzi e revisiona una monografia in uscita da Phaidon, si abbandona volentieri al racconto di una Bourgeois vista da molto vicino.
Dame Tracey Emin, quando si è imbattuta per la prima volta nell’arte di Louise Bourgeois?
«Nel 1996: il curatore Stuart Morgan fu il primo a parlarmene. Mi invitò a vedere la mostra della “sua amica Louise” alla Tate, dicendomi che sicuramente l’avrei apprezzata. E così mi ritrovai davanti ad alcune acqueforti. Erano datate anni Quaranta e iniziai a chiedermi perché mai. Guardando quelle opere, ero convinta che Bourgeois avesse la mia stessa età. Non ne sapevo niente, non avevo mai letto nulla di lei. Solo più tardi avrei scoperto che era molto, molto più anziana. E diventammo amiche».
Dove vi incontraste?
«A casa sua a New York, nel 2007. Riuscii ad avere un appuntamento. La cosa assurda fu che la porta era aperta. Entrai e chiamai. L’assistente, Jerry Gorovoy, scese giù dalle scale e mi chiese: come sei entrata? E io: la porta era aperta. E lui: impossibile. Forse era stata Louise stessa ad aprirla. Non lo scoprimmo mai. Lei, già ultranovantenne, era nel suo studio e ogni cosa in quella stanza appariva grigia e monotona, eccetto il pavimento che splendeva del magenta dei suoi disegni. Brillava intensamente. Louise era seduta al tavolo da lavoro. La guardavo e ricordo di essermi resa conto che aveva un seno enorme, gigantesco, e che non ero mai stata nella stessa stanza con una persona così anziana, la più anziana con cui avessi mai parlato. Fu tutto strano e intenso: andammo subito d’accordo».
Bourgeois le chiese di collaborare con lei. Fu una richiesta unica. Non era mai capitato con nessuno.
«Sì, accadde un anno dopo. Una sorpresa enorme per me. Ero abbastanza nervosa per questo. Lei iniziò a dirmi: fa’ quello vuoi, qualsiasi cosa, incasina tutto. Fa’ quello che vuoi. Più lo diceva e più diventavo nervosa. Alla fine, mi ci sono voluti due anni prima che realizzassi la mia parte, aggiungendo il mio tratto alle sue invenzioni. Ho fatto tutto in un solo weekend, ho arrotolato i disegni e glieli ho rispediti. Lei era a letto quando le sono stati recapitati. Jerry glieli srotolava e, ogni volta che Louise ne vedeva uno, esultava. Li ha apprezzati tantissimo. Compresi i peni, gli uomini nudi. Fu molto sorpresa. Voleva che effettivamente il risultato finale della nostra collaborazione risultasse come di una sola mano. L’ego non era contemplato».
Bourgeois iniziò a lavorare in un mondo dell’arte ancora tutto maschile: è stata una pioniera.
«La sua rivoluzione fu di realizzare progetti di qualsiasi dimensione. Dai piccoli disegni alle sculture giganti. Nulla era impossibile per lei. Non si poteva dirle di no. È stata la prima donna artista a ragionare così. Faceva esattamente ciò che voleva, anche se, certo, si muoveva in un mondo
ancora tutto maschile. Eppure manteneva una sua femminilità nei lavori. Nessun uomo avrebbe potuto fare quello che faceva Louise: qualcosa di ultra-femminile e, talvolta, enorme nelle proporzioni. Ha rotto una marea di barriere per noi. È stata un modello eccezionale. Il suo vero insegnamento era dire: fallo e basta».
Che cosa è cambiato da allora nel mondo dell’arte?
«Fino a una decina d’anni fa, il pubblico riusciva a stento a fare il nome di dieci artiste. Ora ci sono tante artiste e artisti black, c’è più diversità. Quando Louise era giovane, c’erano donne nel mondo dell’arte, ma erano più figure legate alle istituzioni o al mercato, penso a Peggy Guggenheim. Artiste come Joan Mitchell hanno impiegato tanto tempo per essere apprezzate. Bourgeois stessa ha dovuto superare la sessantina per essere riconosciuta. E pensare che adesso sono io ad avere sessant’anni! La mia generazione ha vissuto un sacco di cambiamenti».
Louise si sentì più libera di creare dopo la morte di suo marito, Robert Goldwater, nel 1973.
«Decisamente. Trasformò la casa di New York nel suo studio. Ogni singola parte. Amava suo marito, ma come artista credo si sentisse un po’ frenata, durante il matrimonio. Ricordiamoci che era anche madre. Aveva un mucchio di distrazioni domestiche».
Una volta, lei, Tracy, ha detto che per continuare a essere artista non avrebbe potuto diventare madre.
«È vero. Non sarei stata in grado di conciliare entrambe le cose. Alcune donne ci riescono. Ma per me sarebbe risultato impossibile. È il mio cuore che mi guida, che mi sveglia al mattino. Sono i sentimenti. Per questo, se avessi avuto un bambino, non sarei riuscita a separarmene. E non avrei potuto fare anche l’artista. Avrei fatto male una delle due cose, sicuramente. La mia energia funziona così. Il mio tempo è questo. Ma sono una madre di gatti, e va bene così».
Bourgeois ha definito la sua idea di maternità con il ragno: la serie di aracnidi giganti ribattezzati “Maman” che sono nei musei di tutto mondo.
«Per lei il ragno è l’essere femminile che depone le uova, ha più gambe, è in grado di essere qualsiasi cosa, apparentemente fragile ma forte. I ragni che Louise realizza su ampia scala, poi, sono come dei rifugi. Ci si può riparare sotto e sentirsi sicuri. E questa idea di maternità così concreta è geniale. La sua Maman è una creatura che protegge».
Ricorda l’ultima volta che vi siete incontrate?
«Era a New York, un paio di mesi prima che morisse, nel 2010. Guardammo insieme un libro di opere giovanili e parlammo un sacco. Mi diceva sempre: (ne imita la voce) tu hai tempo, tu hai tempo. Era una cosa che mi ripeteva spesso perché effettivamente io non me ne rendevo conto. Non capivo quanto tempo avessi rispetto a Louise. E quanto ancora ne avessi a disposizione per cambiare completamente la mia vita. Louise cambiò la sua a sessantaquattro anni. Io ancora non sono arrivata a quell’età».
L’ha mai sognata in questi anni?
«Sì, uno strano sogno. L’ho vista su una diga, sembrava di essere a Venezia. Louise era in piedi davanti all’acqua, che mi aspettava».
(la Repubblica – Robinson, 23 giugno 2024)
di Leonetta Bentivoglio
Due grandi mostre, aperte alla Galleria Borghese di Roma e al Museo Novecento di Firenze, celebrano finalmente in Italia l’artista vissuta quasi un secolo che ha definitivamente liberato la creatività dal monopolio maschile. E che oggi continua a ispirare
Quanti interrogativi affiorano dal suo ghigno secco e da quel reticolo di rughe che è una matassa di ricordi emersi in superficie. Quanta ironia possiede ogni immagine della sua persona. E di quanta capacità di filtrare, modellare, spezzettare per poi rivisitare le cose del mondo, soffrendo ma anche giocando, si nutre ogni sua opera. Louise Bourgeois è un’artista sovraccarica di rinvii simbolici che esprime dimensioni spesso bipolari per raccontarci l’esistenza con le sue contraddizioni, i suoi traumi, le sue oscenità e i suoi conflitti, addensandola in una sfera traversata dalla psicoanalisi e dal mito. È una portatrice di affondi nella violenza relazionale e un’artefice di dilatazioni barocche degli sconvolgimenti del Novecento. È pure la fattucchiera che in un celebre ritratto di Robert Mapplethorpe reca sottobraccio un fallo enorme. Bellicoso? O difensivo come una clava? Si tratta di una sua scultura, Fillette, cioè ragazzina: «Per fare la foto avevo portato con me una piccola Louise», scrive lei. «Quell’opera mi rassicurava». Brandisci il pene, prima che lui catturi te.
Ora due grandi mostre in Italia, a Roma e a Firenze, celebrano il genio di Louise, nata a Parigi nel 1911 e morta a New York nel 2010. Visse in Francia fino al 1938 e poi in America, viaggiando nel frattempo in Europa e in Italia, dove passò periodi a Pietrasanta e a Carrara, nei laboratori del marmo. L’attuale riconoscimento italiano, forse tardivo vista la mole del personaggio e dei suoi influssi, esalta il segno di un’inventrice prolifica e autonoma, distante dai minimalismi, dai concettualismi e dagli espressionismi astratti del secolo scorso. Alla Galleria Borghese s’apre Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria, esposizione votata alla sua prassi scultorea, mentre il Museo Novecento presenta Louise Bourgeois in Florence, progetto sdoppiato col Museo degli Innocenti, sede di Cell XVIII (Portrait), cioè di una delle famose “Celle” di Louise. Questa categoria di lavori anni Novanta consiste in una trafila di paesaggi ingabbiati che contengono emblemi e relitti: specchi, ghigliottine, sedie fluttuanti, sacchi di stoffa, pelli di coniglio, letti, fantocci, ex voto… Illusioni carcerarie o monastiche. Ricettacoli di proliferazioni dell’inconscio. Ma anche sviluppi del tema della donna-casa che negli anni Quaranta era al centro della serie di pitture Femme-Maison, dove i corpi metà donna e metà edifici scavavano nell’identità femminile soffocata dalle prigioni domestiche.
Aveva genitori pesanti, Louise, e li portò sulle spalle per tutta la vita. La sua arte fu una pluridecennale seduta psicoanalitica per affrancarsi da loro, o ridisegnarli a modo proprio. Qualcosa di universale, nella rappresentazione di quegli spettri, oltrepassa di molto l’autobiografia parlandoci di spirito e sesso, vita e morte, anima e corpo, misoginia e fallocrazia. Sua madre era Joséphine Fauriaux, suo padre era Louis Bourgeois. Restauravano arazzi. Lui era dispotico, umiliante e fanatico dei bordelli. Lei teneva insieme la famiglia distogliendo lo sguardo dai tradimenti del marito. Louise impara la cura delle stoffe, la pratica dei colori, la ricomposizione dei pezzi mancanti nei corpi. Inizia studi di matematica alla Sorbonne e li lascia per l’École des Beaux-Arts. Poi trasmigra negli atelier di artisti come Ferdinand Léger, che la spinge verso la scultura. Farà anche installazioni, narrazioni oggettistiche, teatrini onirici, gouaches (scarlatte e colme di senso d’umido, evocative di fluidi corporei) e iperbolici ragni materni. Userà il gesso, il cemento, il lattice, il marmo, il bronzo, il legno e la stoffa, corteggiata con l’antica arma infantile dell’ago. Non si dà confini: indaga materiali e disposizioni delle forme in spazi minimi e massimi, da esploratrice del cosmo. Sposa l’americano Robert Goldwater, che insegna storia dell’arte, e parte con lui per gli Stati Uniti. A New York trova i surrealisti Marcel Duchamp e André Breton, maschi indifferenti all’arte delle donne. «Erano interessati alle donne ricche, questo sì», scrive Louise, «ed erano interessati soprattutto a sé stessi». Lei è rimasta ancorata ai voli azzurri di Joan Miró, scoperto negli anni parigini e descritto come «un magnifico shock estetico». A New York la memoria è il suo racconto: nel ’50 plasma figure totemiche, diciassette sculture lignee che richiamano le persone lasciate in Francia. «Mi mancavano disperatamente».
In tempi successivi privilegia i falli, che però non sono mai soltanto falli. Sono fiabe, sfide, gusci misterici. Escrescenze microbiologiche e aggregazioni collinari. Vedi gli addensamenti di cazzetti in marmo nero dell’opera Colonnata. A volte paiono fanciulline oblunghe e pettorute (Fillette); a volte si miscelano nel bronzo di una forma organica bifronte che mima testicoli e fessure, o insegue mammelle amalgamabili coi genitali maschili (Janus Fleuri). Opposizione, scissione, ansia di risolvere il dualismo.
Risale al ’74 The Destruction of the Father, ritratto di famiglia situato in un antro pieno di protuberanze viscerali. «È l’orrida cena capeggiata dal padre che si siede e gode», scrive. «E gli altri, la madre e i figli? Stanno in silenzio. La madre cerca di soddisfare il tiranno, suo marito». Tramite frammenti di carne macellata allestisce il banchetto cannibalesco. È una vendetta rituale. «Più mio padre si pavoneggiava, più ci sentivamo insignificanti», spiega. «Improvvisamente si creava una tensione terribile e noi lo afferravamo, lo trascinavamo sul tavolo e lo smembravamo. Fantasie, ma talvolta la fantasia è vissuto». Nell’estro di Bourgeois si stagliano scenari da tragedia greca che ispireranno non poco la Abramović, ma non soltanto. Un’ondata femminista di fine Novecento (Kiki Smith, Rona Pondick e altre) prese Louise come punto di riferimento per svelare la corporeità, anche nei tabù e nell’enfasi del rapporto madre-figlio. L’ultima, ossessiva icona di Bourgeois sono i ragni, col loro abbraccio dominatore e protettivo. Di proporzioni abnormi, sorgono in diverse città del mondo. Il ragno è la madre. È intelligenza procreativa. Ma è anche tessitura di una tela, costruzione dell’arte, emanazione della fillette Louise che ammanta con una cupola le nostre paure.
Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria è alla Galleria Borghese di Roma fino al 15 settembre, a cura di Cloé Perrone, Geraldine Léardi e Philip Larratt-Smith in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici. “Esistere come donna” è il programma di incontri e proiezioni a cura di Electa e Fondamenta che la accompagna: galleriaborghese.beniculturali.it Louise Bourgeois in Florence Do Not Abandon Me è al Museo Novecento di Firenze fino al 20 ottobre, a cura di Philip Larratt-Smith e Sergio Risaliti: Cell XVIII (Portrait) a cura di Philip Larratt-Smith con Arabella Natalini e Stefania Rispoli è nelle stesse date al Museo degli Innocenti di Firenze.
(la Repubblica – Robinson, 23 giugno 2024)
di Paola Cavallari
«E quando mi si dice che una donna è libera di fare del proprio corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri», ha chiosato brillantemente Alessandra Bocchetti già nel 20131.
Voci di “donne indisponibili” a questa malintesa idea di libertà sempre più prendono parola: per decostruire e affermare l’inaccettabilità di una idea di libertà disincarnata, che disconosce la logica del Due per riaffermare l’Uno, in una riedizione della logica universalistica androcentrica. Voci di autrici femministe che resistono a una cultura conformistica imperante che si spaccia per progressista; ma non lo è, piuttosto si tratta di “progressismo”, come precisa Francesca Izzo; un “pensiero unico” che vorrebbe bellamente spazzare via teorie e pratiche guadagnate dal femminismo anni ’70 (il cui cardine si incentrava sulla differenza sessuale), ritenute da quest’ondata dilagante un’ammuffita anticaglia da “superare”; e in un luciferino gioco trasformistico, si approderebbe a una novella riedizione – sotto “travestite” spoglie – dell’ineffabile e immarcescibile dominio del neutro maschile.
Tra le voci più incisive ed esaurienti che si sono esposte per dire no, spicca per limpidità e assertività il libro Noi le lesbiche, preferenza femminile e critica al transfemminismo; vanno citate poi le traduzioni dalle opere di Sylviane Agacinski (per es. L’uomo disincarnato, prefazione di Francesca Izzo), Le avventure della libertà, di Francesca Izzo, Libertà in vendita, il corpo tra scelta e mercato, di Valentina Pazé, e mi scuso per le omissioni.
Ora è apparso Vietato a sinistra, dieci interventi femministi su temi scomodi (Lit edizioni, 2024), libro atteso, auspicato, di più, necessario: introduzione di Francesca Izzo cui seguono i saggi di (in ordine alfabetico) Silvia Baratella, Marcella De Carli Ferrari, Lorenza De Micco e Anna Merlino, Daniela Dioguardi, Caterina Gatti, Cristina Gramolini e Roberta Vannucci, Doranna Lupi, Laura Minguzzi, Laura Piretti, Stella Zaltieri Pirola.
Quali sono in estrema sintesi i temi esposti nell’agile ma sostanzioso pamphlet, quali i temi “vietati a sinistra”, che «hanno allontanato molte (me compresa) – scrive Izzo – da partiti e organizzazioni di sinistra»? Si dislocano in un arco tematico che va dall’affido condiviso, alla gestazione per altri (GPA), dall’identità/fluidità di genere alla prostituzione/sex work, alle norme anti-separatismo imposte dai regolamenti del terzo settore; temi visitati e interpretati secondo varie angolazioni e accenti, puntuali nel documentare episodi di censura, intimidazione, discriminazione; vicende vissute dalle autrici, episodi incresciosi, imbarazzanti, inquietanti.
«Vogliamo richiamare l’attenzione su alcune pratiche che impoveriscono lo spazio critico, un tempo fiore all’occhiello del campo dell’alternativa, e – inaudito – giungono a minacciare le donne indisponibili a sostenere presunti nuovi diritti sessuali quali la surrogazione della maternità, il blocco della pubertà, il lavoro sessuale… riferiremo solo alcuni episodi…», si legge nel saggio di Cristina Gramolini e Roberta Vannucci.
Non manca un’altra barbarie sessista: «Vorrei riflettere a cosa succede alle bambine, perché anche le bambine accedono alla pornografia… gli stupri sono comuni e la narrazione fa credere che alle donne possa piacere essere violentate», scrive Caterina Gatti, saldando prostituzione e pornografia, due questioni cruciali non separate tra loro.
Questioni divisive nel movimento delle donne, si sa: con grande coraggio il libro si assume il compito di affrontare tali argomenti “prendendo parola”, una parola scomoda, una parola audace: osa dire che il re è nudo; mettendola in circolo, restituendola alle tante – e io fra queste – che il femminismo l’hanno conosciuto, vissuto, praticato per anni, e ora sono sconcertate da come il mainstream della cultura dell’inclusione abbia deviato dalle premesse di giustizia sociale da cui era partita, stravolgendola, e si è giunti a invocare libertà – per qualcuno (al maschile) – che danneggiano o calpestano esistenze di altre (femminile), e chi non ci sta è omofoba o transfobica o fa discorsi d’odio.
Le questioni trattate quindi sono identificabili all’interno delle aree tematiche che ho menzionato; che, come si può capire, sono legate tra loro con un fil rouge, da una precisa economia simbolica, radicate in un impianto politico, filosofico e di diritto sessuato che lo sorregge, impianto acutamente argomentato nella introduzione di Francesca Izzo, dove le tessere del discorso sono poste e sviluppate in una prospettiva di politica sessuale coerente con l’eredità del femminismo.
«I problemi che ci stanno di fronte non sono affrontabili accumulando e sovrapponendo diritti, si tratta invece di rivoluzionare i fondamenti della cittadinanza perché l’ingresso delle donne significa la rottura e lo sconvolgimento degli assetti istituzionali. La logica dei diritti impedisce di “vedere” questi dati sistemici e punta invece a neutralizzarli con un approccio individualistico e neutro-maschile. Mai come dalla prospettiva delle donne il paradigma individualistico… appare fuorviante. I risultati li abbiamo sotto gli occhi, con un uno scambio della concezione della libertà come affermazione positiva dell’integralità della persona con l’idea mercantile della libertà come assenza di vincoli nel disporre di sé sul mercato. Sino al punto di invocarla per giustificare la pratica della maternità surrogata, per ridurre la prostituzione a sex work, un lavoro come un altro, o per pensare la sessualità come scelta soggettiva, come nel caso dell’identità di genere».
L’idea di libertà si è inquinata, stritolata dalla morsa narcisistica dell’ultraliberismo. La tendenza che si sta affermando, dunque, è quella di rivendicare libertà in spregio alla benché minima idea di reciprocità e interdipendenza; rivendicazioni che sgomitano per emergere sopra le vite dell’altro/a, che si vuole tacitare o manipolare o dipingere come consenziente, in una relazione alla pari, dove invece tra i due si configura un rapporto di potere.
Molteplici sono gli elementi che sbalordiscono in questo delirio idolatrico: una sistematica appropriazione di elementi della soggettività femminile; un oblio o un travisamento della cultura femminista, tra cui spicca l’irrilevanza del corpo, oscurato nella celebrazione dell’identità di genere (essendo il genere una costruzione sociale performativa che si declina in pura esperienza interiore, personale, svincolata dalla corporeità); la confusione di elementi contraddittori: «Contemporaneamente si moltiplicano gli appelli per la parità e il rispetto per le donne… e sono molto partecipate le manifestazioni al grido di “donna, vita, libertà”. Tante, in questa confusione di parole e di slogan, non vedono il punto in cui l’esecrazione della violenza domestica si trasforma in acclamazione della violenza a pagamento nella prostituzione e nella GPA», scrive Stella Zaltieri Pirola.
Fanno parte di quest’atmosfera mafiosa l’intolleranza, l’insulto, l’ingiuria, il boicottaggio, lo screditamento sul piano politico per chi si sottrae al «conformismo ideologico che vuole fare piazza pulita della pluralità delle idee… la nuova intolleranza di chi impone il pensiero unico» (Daniela Dioguardi); per chi pensa che sex work, GPA, ecc. siano un arretramento, non un progresso, e lo si bolla di moralismo, oscurantismo e di collusione con la destra. E nemmeno ci si prende l’onere di argomentare le proprie ragioni, si squalifica e basta; tecniche tipiche dei regimi autoritari, messe in atto anche nel consenso acritico e conformista nel dibattito pubblico veicolato dai media, medusizzati dal progressismo di cui sopra. «L’accusa di moralismo sposta immediatamente le posizioni contrastanti da un piano che dovrebbe essere di parità antagonista a un piano dove una delle due parti è automaticamente preminente: l’una progressista, l’altra retrograda» scrivono Lorenza De Micco e Anna Merlino.
Una delle parole d’ordine è “autodeterminazione”. È bene soffermarsi su questa pietra miliare del movimento degli anni ’70, anch’essa stravolta: «Con lo slogan (“L’utero è mio e lo gestisco io”) non si mutilavano i corpi. Negli anni Settanta quelle parole erano antitetiche a una visione che istituisce una barra di separazione tra mente e corpo: l’utero/corpo non era assolutamente vissuto come strumento di cui si poteva disporre, anzi, ci si opponeva radicalmente alle logiche biopolitiche strumentali, prefigurando piuttosto una riappropriazione di sé, del proprio organismo, nell’orizzonte di un insieme inscindibile di mente e corpo, di una ritrovata ricomposizione. L’impianto della regolamentazione (e della legittimità del sex work) si fonda, al contrario, su una disunione con il corpo, su un’ideologia di individualismo proprietario acquisitivo, da cui discende il disporre del proprio corpo, interpretato come “bene economico a disposizione”, strumento inscritto nell’orbita della merce: la dissociazione tra mente e corpo è evidente già in queste premesse di fondo… Comprendersi incarnati/e è assai più difficile che inneggiare alla libertà: una libertà che non fa i conti con il principio di realtà, che non accetta il limite, la relazione e l’esistenza dell’altra/o»2. Il brano è tratto da Religioni e prostituzione, le voci delle donne, dove il focus era il sistema prostituente; ma è possibile estendere le argomentazioni a tutta l’area delle questioni trattate in Vietato a sinistra, un pamphlet in cui si respira indubbiamente la voce femminile inaddomesticata, una voce che fin dalle origini del femminismo è sempre stata a favore della libera espressione e manifestazione dell’orientamento sessuale; ma come narrano con lucidità le donne di Noi le lesbiche, essere lesbiche non coincide con il conformismo ideologico dai tratti mafiosi così bene documentato in Vietato a sinistra.
La voce di una cristiana e femminista quale io sono è forse inopportuna, alla fin fine, in merito alle finalità del libro? Voci come la mia confermerebbero le accuse di moralismo e bigottismo che ci vengono rivolte?
La Chiesa cattolica, per lo più affossata in un clericalismo misogino, si è spesso pronunciata irriducibilmente contraria alle questioni qui esposte.
Ma non si cada in rozze semplificazioni. A volte le istanze convergono negli esiti finali, pur partendo da visioni e posizioni inconciliabili, nella teoria come nella prassi. Per esempio la Chiesa cattolica si colloca su posizioni di sostanziale esclusione dei gay all’interno nel clero, praticando così una inaccettabile discriminazione.
Non poche femministe cristiane, alcune presenti tra le autrici, partono quindi da assunti assai distanti da quelli dell’istituzione ecclesiastica; piuttosto hanno come apice quella carica sovversiva che è la libertà delle donne; hanno ben chiaro che «le religioni istituzionalizzate sono state il più fermo piedistallo della millenaria supremazia maschile» (Carla Lonzi)3, sono attrezzate e mature nell’operare discernimento sulla realtà di una Chiesa per lo più sessista, immersa in stereotipi antifemministi e per lo più maestra in strategie mafiose (occultate: vedi le dinamiche che la coinvolgono negli abusi di coscienza e sessuali) per ostacolare la presenza delle donne, per umiliarle, per inferiorizzarle.
Ripeto: alcuni posizionamenti possono avere esiti simili, ma hanno radici differenziate. Rigettiamo l’accusa di moralismo: i nostri cammini e la teologia femminista a cui ci richiamiamo sono esempi di spirito libero antidogmatico. Pensiamo e agiamo senza preoccupazione alcuna di un possibile accordo o disaccordo con l’insegnamento disciplinare della Chiesa. L’energia della Ruah affiancata alla luce della fede (e non della religione) ci sono compagne, in armonia con le parole di Simone Weil: «… Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni d’amore nell’ambito del pensiero»4.
(Paola Cavallari)
Note
1. Alessandra Bocchetti (2013), “Il diritto alla felicità”, intervista ad Alessandra Bocchetti realizzata da Barbara Bertoncin, in Una città, 200, febbraio 2013.
2. Paola Cavallari, Doranna Lupi, Grazia Villa (a cura di), Religioni e prostituzione. Le voci delle donne, VandA edizioni, 2024.
3. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Rivolta femminile, 1970, p. 16.
4. Simone Weil, Lettera a un religioso, Adelphi, 1996, p. 91-92.
(Adista, 22 giugno 2024)
di Jennifer Guerra
Nel 1390 Sibilla Zanni e Pierina Bugatis, due contadine milanesi, furono bruciate sul rogo in piazza Sant’Eustorgio, o in piazza Vetra, a seconda dei resoconti. La loro colpa era quella di far parte di una misteriosa società capeggiata da Madonna Oriente. Sibilla e Pierina erano state condannate a morte in seguito a due processi, il primo dei quali si era però concluso con una lieve condanna: frate Ruggero, il primo degli inquisitori, riconobbe che Sibilla e Pierina avevano creduto ingenuamente alle promesse di Madonna Oriente, come quella di poter resuscitare i morti. Nel secondo processo, le due donne ammisero però di partecipare ancora al “gioco” di Madonna Oriente, soprannominata Domina Ludi, riunendosi con lei una volta a settimana per mangiare carne e compiere riti. Stavolta la condanna fu severa ed esemplare: Sibilla e Pierina non si erano limitate a credere, ma avevano continuato a giocare.
La filosofa femminista Luisa Muraro ha raccontato questa storia in un celebre libro del 1976, La signora del gioco, in cui sostiene che la caccia alle streghe sia stata «un collasso di certi confini tra fantasia e realtà», dove la dimensione del sogno e la capacità di mediazione femminile con la natura sono state brutalmente represse dall’ordine patriarcale.
Il gioco, ancora oggi, è una dimensione negata alle donne, sia simbolicamente che materialmente. Secondo il Gender Equality Index dell’Istituto europeo della parità di genere, solo il 29% delle donne ha tempo per svolgere attività sportive, culturali o ricreative fuori casa più di una volta a settimana. I dati Istat sull’Italia confermano che le donne usufruiscono più degli uomini dell’intrattenimento culturale (libri, cinema, teatro), ma quando si tratta di attività che coinvolgono il gioco, come lo sport o andare allo stadio, sono in netto svantaggio. Le donne non solo hanno meno tempo libero degli uomini, perché sono oberate dal doppio carico di lavoro salariato e domestico, ma per loro la dimensione ludica sembra preclusa a un livello più profondo, come denunciato da Muraro.
Il gioco, scrisse Johan Huizinga nel suo classico del 1938 Homo Ludens, «è innegabile»: «Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco». Il gioco travalica la biologia e la cultura; anzi, sostiene Huizinga, alla cultura è precedente, perché gli animali non hanno imparato a giocare dagli esseri umani. Anche da adulti, gli esseri umani continuano a cercare spazio per il gioco nelle proprie vite, dai giochi di società, ai giochi a premi televisivi, passando per il gioco d’azzardo. Negli ultimi vent’anni, il gioco prende sempre più spazio nelle vite degli adulti, come dimostra l’enorme mercato videoludico (un’industria in crescita da 217 miliardi di dollari) e il fenomeno della gamification, che inserisce le dinamiche del gioco in settori che ne sarebbero privi, se non antitetici, come la scuola o il lavoro.
Le donne, però, continuano a restare fuori dai giochi. Come fece Olympe de Gouges nel 1791, chiedendosi se la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” riguardasse i diritti della donna, bisogna chiedersi se l’“homo” di “homo ludens” si riferisca al genere o alla specie.
Il gioco delle donne viene socialmente sanzionato, a differenza di quanto accade per gli uomini che sono più liberi di esprimersi come homini ludentes. All’uscita del film di Greta Gerwig Barbie nel 2023, molti critici uomini rimanevano sconcertati all’idea che fosse stato realizzato un film su una bambola e che fosse piaciuto a un pubblico così vasto. Una delle critiche principali stava proprio nel fatto che il film fosse in realtà un’operazione commerciale per «vendere più Barbie», una critica che si potrebbe applicare alle decine di film sui supereroi che da vent’anni escono a cadenza regolare, producendo un’enorme quantità di action figures e merchandise. Ma le critiche al Marvel Cinematic Universe, che di certo non mancano, si basano più sulla qualità dei prodotti audiovisivi che sul pericolo che possano indurre degli adulti a giocare con le bambole. Eppure il mercato delle action figures, dominato dagli uomini, supera di più di un miliardo di dollari quello del collezionismo di bambole.
Ciò che ha dato scandalo di Barbie, o forse non è stato compreso fino in fondo, è proprio la celebrazione del gioco e del divertimento che, se associata al genere femminile, non può mai essere fine a se stesso: Barbie è «carino ma non molto profondo», ha scritto il Time; è soltanto «nostalgia celebrativa per un giocattolo», ha scritto il Guardian. Per le donne, cui viene inculcato subito un enorme carico di responsabilità e cura, il gioco deve per forza finire nell’infanzia e, se prosegue nell’età adulta deve trovare una giustificazione plausibile.
Secondo Simone de Beauvoir, la manipolazione che confonde il gioco con il dovere comincia sin dall’infanzia: i maschi sono incoraggiati a giocare “a essere e fare”, due verbi indistinti, mentre le femmine sono incoraggiate a ripetere il modello materno con il gioco delle bambole. Anche le faccende domestiche sono presentate come un gioco, attraverso un meccanismo di retribuzione che si ripeterà poi nella vita adulta. Per la massaia, fare la spesa, strappare il prezzo più basso al commerciante, montare gli albumi, fare la marmellata diventano gli unici divertimenti possibili in una vita altrimenti priva di ogni altro piacere. Oggi, in una società in cui le donne non sono più solo schiave del focolare, questi divertimenti casalinghi sono sostituiti soprattutto dalla moda, dal trucco e dalla cura di sé, regni del piacere femminile che però concorrono inevitabilmente all’accumulazione del capitale erotico.
Il gioco, quindi, serve a rinforzare un ruolo piuttosto che a costruire un’identità basata sulla libertà di azione. Quando quel ruolo è stato ricoperto nell’età adulta, allora il gioco delle donne va o capitalizzato o strappato nei ritagli di tempo.
L’interdizione delle donne dal gioco senza altro fine se non il piacere è dimostrata ampiamente dalla loro esclusione dall’industria videoludica. Le donne, in realtà, giocano molto ai videogiochi: secondo il rapporto di IIDEA (Italian Interactive Digital Entertainment Association) il 38% dei e delle gamers in Italia sono donne; negli Stati Uniti, la percentuale si alza al 46%. Tuttavia, il settore resta dominato dai maschi, che costituiscono la stragrande maggioranza dei lavoratori nell’industria e il genere più rappresentato nei videogiochi. Anche il modo di giocare è diverso: quasi il 70% delle donne usa solo mobile, una modalità che consente di giocare anche per brevissimi periodi di tempo senza interferire troppo nel resto delle attività quotidiane.
Le incursioni delle donne nella fortezza machista dei videogiochi sono punite non solo a livello simbolico, ma anche materiale. Nel 2014 il Gamergate, un’enorme campagna di molestie e doxxing [divulgazione pubblica non autorizzata dei dati privati della vittima, Ndr] ai danni di videogiocatrici, giornaliste e lavoratrici dell’industria videoludica, dimostrò che nel settore non solo le donne non sono le benvenute, ma vengono anche punite per la loro presenza. Le campagne, condotte rigorosamente in modo anonimo, colpivano donne identificabili con nome e cognome. Ancora oggi, molte donne che giocano in multiplay si fingono uomini per evitare di essere molestate.
Il “gioco” della Signora del gioco, una figura misteriosa che compare in numerosi processi per stregoneria nell’Italia settentrionale, è il sabba. Muraro lo descrive non tanto come un momento di trasgressione e divertimento, ma come uno spazio di alleanze femminili e di fuoriuscita dal reale, dove le fatiche della sottomissione domestica possono essere dimenticate e si può costruire un mondo di fantasia, magia e comunione con la natura. La signora del gioco lascia doni nelle case delle donne che trova in ordine, poi le invita fuori a giocare nel sabba, per sperimentare una vita al di fuori dall’ordinario. L’ordine patriarcale non può tollerare il gioco, non perché metta in discussione la dottrina della Chiesa, ma perché col suo potenziale rivoluzionario fa uscire la donna dal ruolo che le ha sempre assegnato.
(L’indiscreto, 22 giugno 2024)
Post di Rosella Prezzo
Cose da sapere:
«Nel III secolo a.C. il poeta greco Apollonio Rodio raccontava che Zeus avesse regalato a suo figlio Minosse, re di Creta, un gigante di bronzo chiamato Talos, dotato di intelligenza e capace di proteggere l’isola dagli attacchi nemici. Talos era stato programmato per svolgere un compito: difendere Creta, agendo autonomamente rispetto al controllo umano.
Sin dall’antichità l’uomo ha sempre cercato di realizzare macchine pensanti create con capacità superiori, come quelle di un dio. Se oggi chiudiamo gli occhi e pensiamo all’intelligenza artificiale, immaginiamo qualcosa di etereo, divino, che può distruggere l’uomo, ma può anche permettergli di fare scoperte straordinarie. Qualcosa di astratto: una serie di codice blu, un robot bianco, la nuvola del cloud che contiene, gestisce ed elabora i nostri dati in uno spazio indefinito.
Eppure l’intelligenza artificiale ha una natura estremamente materica, ha un legame molto forte con la terra, che viene sfruttata per estrarre i minerali critici necessari per la produzione di batterie che ne determinano l’esistenza. Finora, l’elemento fondamentale che ci permette di usare ChatGpt è il litio, definito anche “oro bianco”*.
I giacimenti di questo metallo sono principalmente nelle salamoie dell’America Latina: soluzioni saline naturali ricche di minerali, che si trovano in grandi laghi salati in regioni aride o semiaride. Le più famose sono il Salar de Uyuni in Bolivia – che contiene circa il 60% delle riserve mondiali di litio – il Salar de Atacama in Cile e il Salar del Hombre Muerto in Argentina.
Secondo le leggende Aymara, il Salar de Uyuni nasce dalle lacrime e dal latte materno di Tunupa, un vulcano femmina che aveva partorito un bambino che le era stato rubato. Ricordando questo antico mito, il regista australiano Liam Young ha detto che «il nostro smartphone funziona con le lacrime e il latte materno di un vulcano e che questo paesaggio – nel sud-ovest della Bolivia – è collegato a ciascuno di noi tramite fili invisibili di commercio, scienza, politica e potere». Ci sono giacimenti di litio anche in Africa occidentale e poi in Australia e in Cina, dove le riserve ammontano rispettivamente a 4,7 milioni e 1,5 milioni.
Squilibrio idrico
Il litio può essere estratto in due modi: dalle formazioni rocciose solide, utilizzando una tecnica tradizionale simile all’estrazione mineraria, o attraverso l’essiccazione di grandi laghi – come avviene in America Latina – tramite un processo di evaporazione solare. Le salamoie vengono pompate in grandi vasche dove l’acqua evapora sotto il sole, lasciando un concentrato di minerali da cui si estrae il metallo. Per ricavare il materiale in questi bacini salati occorrono 1,8 milioni di litri d’acqua per tonnellata di litio.
Nelle salamoie dell’America Latina, lo squilibrio idrico ha provocato un aumento della siccità e della desertificazione. Il rilascio di sostanze tossiche utilizzate nell’attività estrattiva ha impoverito e inquinato le falde acquifere. Nel Salar di Atacama, in Cile, l’estrazione del litio ha consumato il 65% della quantità d’acqua presente, aggravando la crisi idrica che il paese stava già affrontando.
Inoltre, l’industria dell’oro bianco produce emissioni di anidride carbonica, che variano dalle 5 alle 15 tonnellate per singola tonnellata di litio estratto. Lo sfruttamento di queste terre ha un impatto molto forte sulle comunità che le abitano.
In Cile, in Bolivia e in Argentina è in atto una dura repressione delle popolazioni indigene che cercano di resistere all’imporsi delle attività estrattive nella regione. Mentre sono 100 milioni le persone nel mondo – tra bambini, donne e uomini – che lavorano in condizioni di sfruttamento all’estrazione del litio, soprattutto in Africa occidentale.
Estrattivismo
Lo svuotamento dei materiali della terra e della biosfera è strettamente connesso a un altro tipo di estrazione: la cattura e monetizzazione dei nostri dati. Maggiore è la quantità di dati che l’intelligenza artificiale richiede per funzionare, maggiore è l’energia che verrà impiegata per immagazzinarli e aggregarli. Maggiore è l’energia di cui i sistemi di Ia hanno bisogno, maggiore sarà l’approvvigionamento di minerali critici come il litio.
Questa interconnessione tra la estrapolazione dei dati personali delle persone e quella dell’oro bianco rientra nel concetto che Sandro Mezzadra, professore di filosofia politica all’Università di Bologna, definisce come estrattivismo. «Questo termine nasce in America Latina e si riferisce all’industria estrattiva in senso letterale, ai grandi progetti minerari che in quella parte del mondo sono sempre stati fattore fondamentale di integrazione all’interno del mercato mondiale sin dal XVI secolo», spiega Mezzadra.
«Successivamente, il concetto di estrattivismo assume un significato più ampio, riferendosi all’agricoltura estensiva e a come le attività estrattive determinano espulsione e spostamento di popolazioni indigene fin dagli anni Novanta. Io personalmente ho trascorso molto tempo in America Latina e ho maturato delle perplessità nei confronti di una focalizzazione esclusiva sulle attività estrattive in senso letterale. Nei primi anni Duemila ho incominciato a lavorare con una mia amica argentina, Verónica Gago, che stava facendo una serie di ricerche sulla penetrazione della finanza all’interno delle economie popolari del Sud America. Quello che emerge è la natura fortemente estrattiva del capitalismo contemporaneo».
Amazon Echo
Questo concetto viene ripreso anche nel lavoro della ricercatrice australiana Kate Crawford, che, per spiegare la correlazione tra estrapolazione e manipolazione dei dati, estrazione dei materiali e lavoro povero, ha deciso di tracciare l’intero ciclo di vita di un singolo prodotto: Amazon Echo.
Il suo progetto – che è anche un libro – si chiama Anatomia di un Sistema AI. Attraverso delle mappe viene spiegato il ciclo di Echo, dall’estrazione del litio per costruirlo fino alla fine della sua vita nelle discariche di rifiuti tossici in Pakistan e in Ghana dove si trova il cosiddetto “cimitero dell’e-waste” che impiega circa 70mila persone, tra cui migliaia di bambini che sono costretti a raccogliere rifiuti pericolosi a mani nude per pochi centesimi al giorno.
«Le piattaforme digitali sono attori capitalisti che valorizzano e accumulano capitale attraverso operazioni estrattive», dice Mezzadra, «c’è una correlazione tra l’estrazione dei materiali e quella dei dati, ma c’è anche un elemento che differenzia queste due operazioni: le risorse naturali come il litio esistono in natura, i dati invece sono prodotti attraverso le interazioni umane. E poi c’è l’obiettivo finale che unisce i punti di queste due attività estrattive: il profitto, che ha delle ricadute immediate nel nostro quotidiano. È una costruzione di mondi al cui interno ci muoviamo e veniamo mossi, sempre più manipolati e orientati».
(Facebook, 21 giugno 2024)
(*) Nota della redazione del sito
Il litio, elemento che moltissime applicazioni di varia natura (dalla psichiatria, alla produzione di vetri e ceramiche e di grassi lubrificanti) viene anche utilizzato per la costruzione di batterie (27% della produzione), in particolare per le auto elettriche e i dispositivi portatili, tra cui pc tablet e telefonini. Non ha un legame diretto con l’intelligenza artificiale, ma un rapporto mediato perché l’IA si “nutre”, per sua stessa natura, delle informazioni presenti sulla rete informatica, e quindi delle innumerevoli informazioni che vengono prodotte tramite questi dispositivi. L’importanza che ha attualmente dipende soprattutto dal ruolo centrale che ha nella produzione di auto elettriche o ibride, ma comunque il suo maggiore utilizzo (29% della produzione) riguarda le ceramiche e il vetro.
di Luciana Tavernini*
Ho avuto il piacere di conoscere personalmente Heide Goettner-Abendroth, quando nel 2014 l’ho invitata a parlare alla Libreria delle donne di Milano delle sue ricerche, sfociate nel libro Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene nel mondo” (Venexia 2013).
Ho grande ammirazione sia per il suo coerente e coraggioso percorso di studiosa sia per gli straordinari risultati della sua ricerca.
Infatti dal 1973 al 1983 Heide Goettner-Abendroth aveva insegnato filosofia e teoria della scienza all’università di Monaco ma contemporaneamente, analizzando studi di archeologia, linguistica, antropologia, dunque con un metodo interdisciplinare, cominciava a rendersi conto che il Matriarcato non è il “dominio o regola delle madri”, non è quindi equiparabile al Patriarcato che correttamente significa “dominio o regola dei padri”. Entrambi i termini sono composti da archē che oltre a ‘dominio’ ha anche il significato di ‘origine’, ‘inizio’, come troviamo nelle parole archeologia, studio delle origini, e archetipo, prototipo originale. Matriarcato significa dunque ‘in principio le madri’. Infatti, se attraverso la documentazione storica ed etnografica si cercano società dominate dalle madri o dalle donne, è impossibile trovarle perché il porre all’origine le madri produce una diversa forma sociale.
Già nel 1976 presentò al pubblico i suoi primi risultati che divennero nel 1980 il libro in tedesco La dea e il suo eroe, tradotto quindici anni dopo in inglese e che prossimamente verrà tradotto anche in italiano da Gabriella Galzio.
Nell’università però non vi era spazio per queste ricerche, infatti vigeva, come spesso anche oggi, quella che la storica María-Milagros Rivera Garretas chiama violenza ermeneutica. Quindi nel 1983, ormai 40 anni fa decise di non insegnare filosofia ma di dedicarsi completamente agli studi matriarcali e nel 1986 fondò l’International Academy Hagia (www.hagia.de) per gli Studi Moderni sul Matriarcato e la Spiritualità Matriarcale, che con Cécile Keller dirige ancora oggi.
Mi è parso significativo il suo percorso in cui, madre di due figlie e un figlio, ha saputo lasciare una posizione consolidata per continuare ad approfondire e diffondere le sue scoperte.
È oggi riconosciuta come la fondatrice degli Studi Matriarcali moderni, un nuovo campo epistemologico che ha messo a punto una definizione strutturale della forma sociale matriarcale. Decenni di studi antropologici e viaggi presso società matriarcali tuttora esistenti, ma anche donne e uomini di queste società le hanno fornito molte informazioni e confermato molte ipotesi, messe a confronto nei diversi convegni internazionali, da lei promossi, come nel 2003 in Lussemburgo, nel 2005 a San Marcos (Texas), nel 2009 a Roma, Milano e Bologna e nel 2012 a San Gallo in Svizzera. Dall’edizione canadese degli Atti del convegno del 2005 sono stati pubblicati in italiano, nel libro Società di pace. Matriarcati del passato, presente e futuro (Castelvecchi, 2018), curato da Luciana Percovich, alcuni saggi generali anche con uno sguardo ampio sulle caratteristiche di alcune società matriarcali delle Americhe, dell’Asia e dell’Africa.
Leggendo i suoi libri ricchissimi non solo di informazioni ma di connessioni che portano a un nuovo paradigma interpretativo della società, provo grande riconoscenza, come del resto è avvenuto e avviene da parte di molte donne, infatti è stata eletta una delle mille Donne di Pace del mondo e candidata ben due volte al Premio Nobel per la Pace ed è stata posta in suo onore una pietra nel Frauen-Gedenk-Labyrinth di Francoforte.
Quali caratteristiche presenta la forma sociale matriarcale da lei delineata?
A livello economico, poiché le donne gestiscono i beni essenziali come la terra, la casa, il cibo e cercano di bilanciare la ricchezza con la redistribuzione, senza accumulazione ma attraverso il dono, possiamo parlare di società di reciprocità basate su un’economia in equilibrio, un’economia del dono di origine materna, in cui vi è la pratica del dare doni non quella dello scambio del mercato, come ci ricorda anche Genevieve Vaughan (Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Meltemi 2005).
A livello sociale la maternità è considerata la funzione basilare perché crea le nuove generazioni ma non è necessario essere madri biologiche perché la maternità è condivisa tra sorelle. Si vive in clan legati dalla parentela matrilineare e spesso matrilocali (residenza presso la madre) dove i sessi hanno lo stesso valore (parità di genere) pur avendo ciascuno una propria sfera di attività: ad esempio le donne sono socialmente al centro della vita collettiva e gli uomini sono rappresentanti del clan all’esterno.
A livello politico si tratta società del consenso dove le decisioni vengono prese localmente nelle case del clan e, solo quando si raggiunge una decisione condivisa, la si mette in pratica e, se coinvolge altri clan, si delega agli uomini di essere i portavoce del clan in incontri allargati, dove le decisioni sono solo comunicate ma non modificate.
A livello culturale si può parlare di cultura sacra perché basata su una profonda visione in cui il divino è immanente e tutto il mondo – uomini, donne, piante, animali, pietre, corpi celesti – è considerato divino, un divino femminile. L’universo è frutto della creazione di una grande madre e le feste, che seguono i ritmi della vita e delle stagioni, celebrano la natura nelle sue infinite manifestazioni. Non c’è separazione tra sacro e profano e c’è continuità tra vivi e morti perché si crede che gli e le antenate si reincarnino.
Farsi guidare da una definizione strutturale, come quella sopra presentata, non significa proiettare un tipo ideale di società fisso e immutabile ma di contribuire a un processo creativo di «comprensione ricettiva ma rigorosa delle variegate forme sociali matriarcali esistenti», utilizzabile anche per interpretare i reperti e i risultati archeologici. Heide Goettner-Abentroth ha potuto infatti nell’ultimo decennio sviluppare ed esporre la storia culturale delle società matriarcali e affrontare il problema dell’origine del patriarcato, un processo protrattosi per millenni, in luoghi e tempi diversi.
E lo ha fatto nel suo ultimo libro Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia Occidentale e Europa (Mimesis 2023)appena tradotto in italiano da Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocci del collettivo Le matriarcali che in Italia promuove con diverse iniziative i moderni studi matriarcali (https://lematriarcali.wordpress.com/).
Leggere questo libro è stata per me una triplice avventura della conoscenza, quel conoscere che ti trasforma. Innanzi tutto ho potuto seguire, come in un giallo, il modo in cui l’autrice smantella le false interpretazioni ideologiche presentando e confrontando le scoperte archeologiche fra loro e con le società matriarcali del presente e disvelando così quelle che finora erano confuse rappresentazioni delle società dei primordi per farci credere che la civiltà nasce con le forme patriarcali di dominio.
La seconda avventura è stata viaggiare, partendo dall’Africa, attraverso soprattutto i territori dell’Europa e dell’Asia Occidentale insieme alle popolazioni antiche ma anche alla scoperta delle centinaia di siti archeologici imparando a vedere segni che prima erano indecifrabili o interpretati in modo proiettivo e approssimativo: una guida affascinante anche per i miei futuri viaggi.
La terza avventura è stata andare nel passato dell’umanità scoprendo il modificarsi di strutture economiche, sociali, politiche e culturali e riconoscere le diverse origini del patriarcato e le forme di resistenza al suo lento instaurarsi in modi differenti.
In ogni pagina ho trovato sempre tre o quattro informazioni, interpretazioni, immagini del tutto nuove per me, pur essendo io stata un’insegnante di storia. Leggere per la seconda volta le 550 pagine del testo si è rivelata un’esperienza piena di sorprese perché ho potuto soffermarmi su particolari delle prove che via via l’autrice presentava e cogliere anche il suo stile nel dialogare con interpretazioni proiettive del presente sul passato di alcuni archeologi, un dialogo a volte ironico ma molto ben documentato (tra bibliografia e autorizzazioni delle immagini vi sono oltre venti pagine).
L’autrice, dopo un’introduzione in cui si sofferma su come si sono sviluppati i moderni studi matriarcali, nel primo capitolo rifiuta la divisione tra storia e preistoria perché implica lo svilimento e la deformazione delle conquiste non solo intellettuali dell’umanità antica e propone invece primevo e primordi. Dimostra la falsità dell’ideologia della guerra infinita, che legge, ad esempio, ogni resto di muro come fortificazione contro nemici e non come protezione da inondazioni o da animali e ogni cimitero collettivo come frutto di violenza e non come forma di culto per le e gli antenati. Un’ideologia di cui oggi, più che mai, avvertiamo la grande pericolosità, perché porta a una svalutazione della pace intesa solo come assenza di guerra e non invece come l’invenzione e messa in pratica di strategie per la risoluzione dei conflitti. Non si tratta dunque di parlare di società pacifiche, in cui non avvengono conflitti ma in cui essi possono sfociare in faide non in guerre perché non vi sono strutture organizzate come gli eserciti. Si tratta invece società in cui la violenza non è glorificata e, quando nascono conflitti, vengono risolti, ad esempio, con alleanza tribali o con matrimoni tra clan o con accordi rituali.
Gli altri sette capitoli sono strutturati in maniera simile tra loro e ciascuno è dedicato a un periodo preciso. Si aprono con una tabella cronologica, una descrizione degli ambienti e degli spostamenti delle popolazioni e una mappa in base ai ritrovamenti archeologici.
In quello dedicato al Paleolitico e nei due al Neolitico, seguendo un vasto percorso temporale e geografico, vengono delineate società con caratteristiche economiche, sociali, politiche e culturali complesse, capaci dell’uso di simboli, grazie a un’attenta e non ideologica interpretazione delle evidenze archeologiche, ad esempio nel Paleolitico le pitture parietali, le statuette femminili, i cimiteri collettivi o nel Neolitico le costruzioni megalitiche, i palazzi di Creta, le forme di irrigazione artificiale in Mesopotamia.
Nel quarto capitolo sull’età del bronzo nella steppa euroasiatica si descrivono le società del primo nomadismo con le loro iniziali forme di dominio e si mostra la resistenza delle donne, in particolare si affronta la questione delle Amazzoni.
Negli ultimi tre vengono presentate le diverse situazioni nell’età del bronzo e del ferro: dapprima si vede in Asia occidentale la nascita della forma stato e poi impero e l’inizio di una teocrazia che abolisce la Dea per giungere al monoteismo, poi si esamina come nell’Europa meridionale resistono le società tardo matriarcali, ad esempio in Sardegna, a Creta, in Etruria. Infine a Nord delle Alpi si mostra la permanenza di elementi matriarcali in società patriarcali come tra i popoli celtici e germanici.
Ogni capitolo è corredato da una documentazione di immagini e al termine troviamo una sintesi del capitolo e una definizione del periodo.
La struttura del libro dunque lo rende anche un’opera di facile consultazione, di cui possiamo rileggere anche solo quei capitoli sui periodi, sulle popolazioni, sui temi che più ci interessano.
Posso aggiungere che questa lettura mi ha trasformato nel senso di avermi fatto riconoscere e radicare nel tempo e nello spazio modalità di comportamento mie, di amiche e anche di uomini a me vicini, che prima vedevo in gran parte come caratteristiche individuali ed estemporanee.
Nota: La videoregistrazione dell’incontro del 3 marzo 2024 alla Libreria delle donne di Milano con Heide Goettner-Abentroth dal titolo Quando la civiltà era più umana si trova nel canale YouTube nel sito della Libreria al seguente link:
(*) Luciana Tavernini è impegnata nelle attività della Libreria delle donne di Milano. Ha partecipato fin dall’inizio alla Pedagogia della differenza e alla Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, successivamente alla Comunità di Storia vivente di Milano e ora SAMI. Tiene con Marina Santini il corso Historia viviente al master in Studi della differenza sessuale presso l’Università di Barcellona. Con altre ha scritto Libere di esistere (SEI, 1996), Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, 2015), Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione (VandA e-publishing, 2019), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (Moretti & Vitali, 2019). Traduce e scrive saggi per diverse riviste.
(AP-Autogestione e politica prima, a. XXXI, n. 2/3, aprile-settembre 2004, pp. 11-13)
di Antonella Mariani
C’è la contessa del brod e la dutura dei poveri, i bordelli affollano Brera e intorno a Porta Garibaldi le fabbriche inghiottono le masse in arrivo dalle valli lombarde e rigettano fumi tossici che ammorbano l’aria.
È la Milano a cavallo tra Ottocento e Novecento: piena di possibilità, proprio come ora, ma anche di emarginazione, povertà, lotta per la sopravvivenza.
C’è miseria e nobiltà, nell’ultimo romanzo di Tiziana Ferrario, già primo volto femminile del Tg1, inviata speciale nei quattro angoli di mondo che dopo incursioni variegate nella scrittura – da La principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli (2011) a La bambina di Odessa (2022), solo per citare i libri più recenti – si cimenta di nuovo nel racconto della sua città. Cenere (Fuori Scena, pagine 304, euro 18,50) è un romanzo ambizioso, basato su un certosino lavoro di ricerca storica.
Miseria e nobiltà, si diceva: i ceti popolari, sfruttati e disperati, e una borghesia intellettuale di sinistra – da Alessandrina Ravizza, la contessa capostipite delle cucine popolari, all’esule russa Anna Kuliscioff, compagna di Filippo Turati e tra le poche laureate in medicina dell’epoca, dalla poetessa Ada Negri all’antesignana della moda italiana Rosa Genoni. Nei loro salotti – descrive Ferrario svolgendo la trama del suo romanzo – si mettono a punto piani per colmare l’enorme e ingiusto stato di sfruttamento e subalternità delle donne, operaie per quattordici ore al giorno, sottopagate e costrette a lasciare a se stessi i figli.
Al centro del romanzo, che si apre con la repressione di Bava Beccaris l’8 maggio 1898, decine di morti nel centro di Milano tra la folla in rivolta per il pane, c’è l’amicizia tra due bambine appena uscite dall’infanzia, Giovannina e Mariuccia. L’una figlia di madre sola, componente dell’esercito delle piscinine, le apprendiste-schiave delle sartorie, che in cambio di un tozzo di pane e con la speranza di imparare il mestiere si sottopongono a turni massacranti e a lavori ben più pesanti di quanto il loro fisico gracile consenta. L’altra, Mariuccia, figlia del parlamentare socialista Luigi Majno e di Ersilia Bronzini, fondatrice dell’Unione femminile, già a dieci anni coinvolta nelle lotte della madre per l’emancipazione femminile.
Giovannina, tra realtà e finzione, sarà una delle coraggiose leader dello sciopero delle piscinine, che a cavallo del secolo portò alla prima legge di tutela delle piccole apprendiste sarte. La sua amica darà il nome all’asilo Mariuccia, storica istituzione ambrosiana di assistenza all’infanzia. Ferrario racconta in un intreccio narrativo incalzante la vita grama delle operaie negli opifici e nei tabacchifici che aprivano a Milano, delle povere donne chiuse nei bordelli che punteggiavano il quartiere allora malfamato di Brera, e insieme la genesi delle prime proposte di legge per la regolamentazione del lavoro infantile e femminile e per la tutela della maternità, scaturite nei salotti delle dame “illuminate” e portate in Parlamento dai loro mariti.
Una borghesia che si sporcava le mani: vediamo Anna Kuliscioff di giorno redigere articoli incendiari e proposte di legge, e la sera andare nei bassifondi a curare le donne malate, Ersilia Bronzini progettare di aprire case di accoglienza per donne maltrattate e intanto distribuire il cibo ai bisognosi. Se è il mondo socialista quello messo a fuoco dall’autrice tra le vie di una Milano in cui si intravvede il destino – il successo di una città che corre sempre avanti, e che talvolta travolge chi non sta al passo – si potrebbe dire qualcosa anche su ciò che faceva l’attivismo delle donne cattoliche, espresso ad esempio nella nascita, nel 1901, dalla Lega cattolica femminile, a sostegno delle operai, e nel 1905 dalla Federazione femminile milanese, un sodalizio che in pochi anni raccolse un alto numero di donne e di lavoratrici.
«Mi affascinava raccontare il periodo storico in cui è nato tutto, e soprattutto le prime misure per l’emancipazione delle donne. Sono loro le vere protagoniste di Cenere», dice Tiziana Ferrario. Giovannina, Mariuccia, le intellettuali di sinistra: tutte si muovono nella storia verso un fine comune, la liberazione femminile dalla schiavitù di un lavoro aberrante e il riconoscimento dei loro diritti di donne e di madri. E poi c’è Milano. I quartieri cittadini al centro dell’impetuoso sviluppo industriale nei primi anni del Novecento e di un disordinato fermento umano sono quelli dell’attuale movida: Garibaldi, Brera, soprattutto. Allora erano luoghi miserabili, oggi sono scintillanti e iconici. «Ma quella Milano generosa di cento anni fa – conclude Ferrario – rischia di diventare una città per pochi».
Libro: Cenere, ed. Fuori Scena, pp. 304, euro 18,50
(Avvenire, giovedì 20 giugno 2024)
di Matteo Miavaldi
L’autrice e attivista indiana a rischio: sarà processata per le idee espresse sul Kashmir. L’istruttoria è stata aperta sulla base della Unlawful Activities Prevention Act, sempre più usata per criminalizzare il dissenso pacifico
Arundhati Roy, intellettuale e attivista per i diritti umani tra le più note e combattive nel panorama mondiale, è finita nel mirino della repressione del dissenso in India per un caso vecchio di quattordici anni. A dimostrazione che esprimere opinioni divergenti dalla vulgata governativa è un’attività sempre più complicata e rischiosa in un’India che progressivamente si sta allontanando dagli standard democratici che le sono valsi per decenni il titolo ufficioso di «democrazia più grande del mondo». Venerdì 14 giugno, il vicegovernatore di New Delhi ha dato mandato alla polizia locale di aprire una nuova istruttoria nei confronti di Roy e dell’ex professore di legge Sheikh Showkat Hussain per un’ipotesi di reato risalente al 2010, quando i due parteciparono a New Delhi a un evento pubblico organizzato dal Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dal titolo “Azadi – The Only Way”, cioè “Libertà – L’unica via”. Il tema dell’incontro era fare il punto sulla situazione del Kashmir amministrato dall’India, l’unico stato della federazione indiana a maggioranza musulmana. Dalla metà del secolo scorso, il Kashmir amministrato dall’India è attraversato da forti spinte indipendentiste sfociate, negli anni Novanta, anche nella lotta armata. La risposta dei governi che per decenni si sono succeduti alla guida del Paese è stata trasformare il Kashmir nel territorio più militarizzato del mondo, con più di 130mila soldati stabilmente di stanza in uno spazio più piccolo dell’Italia settentrionale abitato da 12,5 milioni di persone.
Tra gli invitati all’evento di New Delhi figurava anche Roy, che pochi anni dopo il successo mondiale del suo primo romanzo Il dio delle piccole cose – Booker Prize nel 1997 – si era già affermata come una delle attiviste più schierate dalla parte delle minoranze etniche, religiose e castali del Paese, vittime di ingiustizie sociali ed economiche perpetrate, spesso, in nome del “progresso”.
La solidarietà con la battaglia per l’autodeterminazione del popolo kashmiro l’aveva portata a esporsi pubblicamente a favore di una de-escalation della presenza militare in Kashmir – macchiata da ripetute violazioni dei diritti umani andate impunite grazie alle leggi speciali che tutelano le operazioni militari indiane in Kashmir – e di un referendum che desse la possibilità a chi vive in Kashmir di decidere se aderire al progetto dell’India unita o se tracciare un futuro diverso. Referendum che era stato raccomandato da una risoluzione delle Nazioni Unite nel 1949 e che non si è mai tenuto. Oltre a una serie di saggi brevi e interviste pubblicate sui quotidiani e magazine più prestigiosi del mondo, nel 2007 Roy aveva dedicato alla questione kashmira anche il suo secondo romanzo, Il ministero della suprema felicità. Tre anni dopo, nel 2010, dal palco di “Azadi – The Only Way”, secondo le accuse divulgate nei giorni scorsi in un comunicato ufficiale del vicegovernatore di New Delhi, Roy e Hussain avrebbero pronunciato discorsi a favore della «separazione del Kashmir dal resto dell’India» e per questo entrambi sono accusati di una serie di reati che va dalla «promozione di inimicizia tra diverse comunità», «insulti con l’intenzione di minare la pace» e «asserzioni che pregiudicano l’integrità della Nazione».
Le indagini sono state aperte nello stesso 2010 e dopo quasi quattordici anni, lo scorso mese di ottobre, Roy e Hussain sono stati nominati nel documento dell’accusa ai sensi del Codice penale indiano regolare. Ma la svolta è arrivata venerdì scorso, quando le autorità hanno avuto il permesso di perseguire i due secondo l’Unlawful Activities Prevention Act (Uapa), una legge antiterrorismo speciale introdotta nel 1967 ma sempre più utilizzata per contestare reati di opinione. Ai sensi del Uapa, Roy e Hussain rischiano fino a sette anni di detenzione.
In tutti questi anni Roy ha continuato a sostenere la causa kashmira, compreso nel suo ultimo lavoro, Azadi: Freedom, Fascism, Fiction, che nel 2020 le è valso un premio alla carriera alla 45a edizione European Essay Prize, il primo premio letterario internazionale dedicato unicamente alla saggistica.
Pen International, la più antica associazione internazionale di scrittori e scrittrici al mondo, in un comunicato ha condannato le accuse mosse da New Delhi a Roy e Hussain, specificando che «una legge antiterrorismo non deve essere mai usata come strumento per criminalizzare il dissenso pacifico».
(il manifesto, 20 giugno 2024)
Floriana Coppola
In “Donne che allattano cuccioli di lupo” la filosofa femminista Adriana Cavarero smonta la dimensione del materno come trappola per le donne e destino biologico per descriverla invece come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza, oltre ogni copione patriarcale
Mai saggio è stato così congruente con i nostri tempi. Donne che allattano cuccioli di lupo è l’ultima fatica di Adriana Cavarero. Con emozione l’ho ascoltata qualche tempo fa a Napoli, a Palazzo Serra di Cassano, già Istituto degli Studi Filosofici, dove nel 1985 nacque il movimento femminista della differenza sessuale a opera sua e di altre militanti. L’incontro è stato organizzato da Stefania Tarantino, con la partecipazione del gruppo di Studi femministi e di Giovanna Borrello.
L’immagine in copertina e il titolo forniscono un indizio importante sull’impostazione filosofica del testo. Il dipinto di Eugène Grasset di tre donne che volano tra gli alberi, con tre lupi accanto, riprende Le baccanti di Euripide, in cui alcune donne, ubriache di gioia e di libertà, allattano cerbiatti e cuccioli di lupo, trasformate dalla forza dionisiaca della maternità, che fa cadere la distinzione tra umano e animale: ed è proprio questa esuberanza nutritiva del materno che viene discussa, esperita e elaborata oltre gli stereotipi di genere.
Da sempre, l’esperienza della maternità ha avuto un’interpretazione retorica, colonizzata e gestita dall’ideologia maschilista cristiano-cattolica dei vertici ecclesiastici. La dimensione femminile della maternità è stata propagandata e vissuta come dimenticanza di sé, sacrificio oblativo, esaltazione del dono della vita all’interno della famiglia patriarcale. Attraverso la letteratura, Adriana Cavarero recupera le ombre di un’esperienza complessa, dove è urgente e necessario individuare ogni verità fino al fondo più buio, affrontando anche gli aspetti repulsivi e attrattivi. Scrittrici come Elena Ferrante, Clarice Lispector e Annie Ernaux hanno esplorato con una lingua dura e viscerale il tremendo del materno, quella vertigine interiore e incarnata nel corpo che viene lacerato nel parto, trasformato nella gravidanza, traumatizzato dal dolore delle doglie, scosso dal contatto fisico con il rischio di morte e con il mistero della vita. Il corpo gravido è l’esperienza della materia pulsante che vibra in ogni sua fibra, attua il processo della vita nel suo qui e ora, superando l’astrattezza algida della tradizione filosofica maschile, che si allontana dai corpi ed enfatizza puramente l’elucubrazione del mentale.
Ogni aspetto oscuro del materno simbolico, scrive Cavarero «viene indagato dalle scrittrici, cercando le parole per narrare quella frantumazione incarnata, che permette all’una di diventare due, oltre ogni retorica tradizionale idilliaca e luminosa». Ogni donna ha in sé la potenza della procreazione, rende possibile la rigenerazione della vita ma viene costretta a pagare per questo un prezzo feroce, nella struttura patriarcale passata e presente: mutilare il proprio progetto di vita, non sentire la fame di mondo. Eppure c’è da riascoltare l’intreccio assolutamente femminile tra parto e physis, che permette alle donne di «sentire con il proprio corpo il legame con la natura, con zoé». Scrive ancora Cavarero: «il processo generativo della materia pulsa nel corpo materno, nel profondo della carne e della psiche». Non c’è separazione ma unione sinergica tra mente e corpo. Siamo tutti vivi perché una donna ci ha partorito. Questo dato è incontrovertibile e Cavarero riprende le parole di Hannah Arendt: «Nessuno e nessuna di noi sarebbe al mondo, sarebbe apparso nel mondo se un corpo di donna, complice del ciclo naturale della generazione, ovvero della necessità della vita organica, non si fosse strappato per generarci».
Ma la società patriarcale e tecnologizzata ha “funzionalizzato” il naturale linguaggio creativo legato al materno. È un’espropriazione del corpo femminile che va invece riconsegnato alle donne. La psicanalisi freudiana ha, a sua volta, schiacciato l’eros femminile sull’invidia del pene senza saper elaborare l’invidia e la gelosia dei maschi della potenza del corpo femminile che dà la vita. Leggendo le belle pagine di Cavarero, viene in mente Donne che corrono coi lupi, il libro della psicanalista femminista Clarissa Pinkola Estés che vuole recuperare la donna selvaggia, libera di vivere con estrema naturalità il suo corpo e di gestire la sua sessualità in modo totale.
Dice Elena Ferrante: scrivere veramente è parlare dal profondo del grembo materno. Attraverso il pungolo incandescente delle scrittrici, Cavarero invita a una riflessione ontologica sul tema dell’origine come orizzonte materiale e carnale del bíos, o meglio della zoé, senza sentimentalismi e senza tecnologismi. La maternità si pone come una esperienza iniziatica di pura animalità, una fonte di conoscenza della vita e della morte, esperienza di un corpo preso nel ciclo violento della riproduzione. La materialità corporea della gravidanza e del parto ci permettono di vivere la complicità con una natura che stringe il corpo gravido in una morsa necessaria, vitale e inevitabile, oltre ogni indulgenza autoconsolatoria. La letteratura che Adriana Cavarero cita è alleata di questa narrazione cruda e violenta, che offre le parole giuste e non retoriche a questo nuovo percorso zoo-ontologico. Le autrici non parlano di obbligo delle donne a diventare madri, non parlano del desiderio della maternità ma narrano semplicemente questa esperienza come materia di conoscenza.
Nella nostra società, la famiglia monogamica si è basata sulla divisione della cura per le donne e del lavoro esterno e politico per gli uomini. E ancora adesso le donne sanno che, per emanciparsi e lavorare, devono marginalizzare il loro desiderio di maternità. Alcune comunità matrilineari vissute in epoche pre-patriarcali avevano dato vita a una struttura organizzativa inclusiva per le donne e i loro figli, senza asservimenti di genere. Queste culture arcaiche, attraverso una simbologia matriarcale, sottolineavano la potenza del corpo materno, che si apre per far nascere e che nutre e allatta. La Dea madre o Madre Terra era considerata una divinità primigenia e veniva rappresentata con caratteristiche genitali e sessuali molto visibili senza celare le differenze del corpo femminile. Lo strano e misterioso potere di figliare era celebrato come sacro e naturale. Per Aristotele, la physis è il perenne processo della nascita e crescita di ogni vivente che partecipa perciò dell’«essere – per – sempre nella natura». Questo principio, ripreso da Arendt è citato nel saggio di Cavarero: il pensiero filosofico maschile ha usato la metafora del parto per rinforzare la scissione tra la creatività intellettuale maschile e il potere riproduttivo della donna. Tale scissione ha sempre voluto sottolineare il primato della ragione sul corpo, spingendo verso la subordinazione e la rimozione del corpo materno nell’immaginario simbolico patriarcale. Invece il culto della Dea madre enfatizza e potenzia le immagini simboliche del corpo materno che nutre e genera.
Cavarero ci ripropone le ricerche dell’antropologa Marija Gimbutas, che a partire dal 1974 studiò la religione della grande Madre nelle civiltà neolitiche, dimostrando attraverso i reperti archeologici le caratteristiche pacifiche e comunitarie della cultura matrocentrica, in sintonia con la natura e in interconnessione tra tutti i viventi, animali e piante. Tesi osteggiata subito dall’ambiente accademico e poi, in seguito, da molte femministe, nel timore che celebrasse troppo la dimensione del materno, col rischio di rinchiudere di nuovo le donne nel recinto della sfera domestica. Non sembra probabile che discutere sulla nascita e sulla maternità voglia dire imprigionare le donne nella trappola di una funzione biologica che diventa un dispositivo normativo. È necessaria comunque, secondo Cavarero, una zoo-ontologia materialista, capace di affrancare la pluralità dei viventi dalla presa antropocentrica, dal suo slancio predatorio, distruttivo e autodistruttivo. In linea con le tesi di Bonnie Honig, si tratta insomma di recuperare la dimensione del materno non come trappola per la donna, ma come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza esistenziale e di selvaggia vitalità nutritiva, oltre ogni copione patriarcale.
La disamina di Adriana Cavarero della mitologia classica legata alle icone dell’iper-materno, come Niobe e Latona, fa comprendere come le orride trasformazioni narrate, fino alla pietrificazione del corpo, abbiano avuto lo scopo di punire la celebrazione della potenza creativa/generativa della donna, considerata un atto di hybris, cioè un atto di tracotanza e di superbia, di arroganza e di insolenza, nella cornice misogina del sistema patriarcale.
Il tema della maternità rimane, oggi più di prima, una questione complessa, in bilico tra un’ingenua, idilliaca e accattivante celebrazione del destino biologico della madre e la denuncia femminista del suo essere prigione, fino al più moderno e controverso dibattito sulla madre surrogata e l’utero in affitto. Cavarero contrasta anche la posizione filosofica di Simone de Beauvoir, che, nel suo famoso saggio, Il secondo sesso (1949), considera la funzione riproduttiva come un rigido destino biologico, da cui ogni donna si deve liberare per realizzarsi come soggetto libero e aspirare alla trascendenza, oltre la mera conservazione della specie. Storicizzando le affermazioni di De Beauvoir, che operava in un’epoca dove il ruolo della donna/madre/schiava del sistema patriarcale era un dato incontrovertibile, dopo oltre settant’anni possiamo condividere la posizione di Adriana Cavarero nell’affermare con Luce Irigaray che non è il dato biologico della riproduzione la trappola principale per la donna: ciò che bisogna superare è questo anti-biologismo filosofico, promuovendo una diversa opinione del bíos, senza combattere la zoé. E in questa direzione di ricerca rimane valida ogni interpretazione filosofica e politica, che sposta il baricentro del primato dell’uomo sulla natura, valorizzando una concezione ecologica, tesa a proteggere il nodo biologico che lega tutti i viventi in un’unica rete, in un’incessante rigenerazione, oltre la violenza maschile e guerrafondaia.
(Letterate.Magazine.it, 20 giugno 2024)
di Presidio DONNE per la PACE (Palermo)
2300 a.C. circa. Enheduanna, sacerdotessa sumera nonché prima poeta della storia di cui si abbia notizia, così scriveva sulla guerra:
Lamento allo spirito della guerra
Distruggi tutto in battaglia…
Dio della guerra, con le tue ali spaventose
spazzi via la terra e attacchi
travestito da tempesta furiosa,
ringhi come un uragano ruggente,
urli come una tempesta,
tuoni, infuri, ruggisci e tambureggi,
scateni venti malvagi!
I tuoi passi che si avvicinano
sono pieni di inquietudine.
Sulla tua lira di gemiti
sento il tuo forte grido lamentoso.
Come un mostro infuocato avveleni la terra,
come un tuono ringhi sul mondo,
alberi e cespugli crollano davanti a te.
Sei sangue che scorre da una montagna,
spirito di odio, avidità e rabbia,
dominatore del cielo e della terra!
Il tuo fuoco aleggia sulla nostra terra,
a cavallo di una bestia
con cavalli indomabili,
sei tu a decidere il destino.
Trionfi su tutti i nostri riti.
Chi può spiegare perché continui così?
Mentre le guerre in corso in Ucraina, Palestina e altrove non accennano a spegnersi, alimentate dal delirio di onnipotenza patriarcale, le donne tornano ancora una volta – come ogni mese – in presidio per la pace, alla Statua – piazza Vittorio Veneto, il 24 di giugno dalle 16.30 alle 18.30.
Udipalermo – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Donne Caffè filosofico Bonetti – Il femminile è politico – #governodilei – CIF – Le Onde – Arcilesbica
(Facebook, 20 giugno 2024)
di Elisabetta Colla
Il film della regista Léa Todorov, con Jasmine Trinca e Leïla Bekhti, pone l’accento sull’aspetto dell’emancipazione femminile di una figura di donna, medico e pedagogista che ha rivoluzionato il metodo educativo nel mondo
La storia di Maria Montessori è stata negli anni oggetto di moltissimi studi, ricerche, volumi, ma anche di film, documentari e fiction, ricordiamo fra questi la miniserie televisiva in due puntate Maria Montessori – Una vita per i bambini, con Paola Cortellesi protagonista.
Proprio su questa scia s’inserisce Maria Montessori. La nouvelle femme, presentato con grande successo in anteprima nazionale alla 60a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro – Pesaro Film Festival (14-22 giugno 2024), il nuovo film dell’’attrice, scrittrice e regista Léa Todorov, da lei dedicato a una delle scienziate italiane più iconiche nel mondo. Il film arriverà nelle sale italiane con Wanted dal 26 settembre.
Fra i personaggi femminili italiani più famosi al mondo, Maria Montessori è stata una delle prime donne a laurearsi in medicina in Italia ed è internazionalmente nota per il metodo educativo che prende il suo nome, adottato in migliaia di scuole dell’infanzia, elementari, medie e superiori in ogni Paese.
Maria, che da subito aveva mostrato una propensione per le materie scientifiche, faticò non poco per farsi accettare ed entrare a far parte di una comunità scientifica composta prevalentemente da uomini, visti i tanti pregiudizi che il mondo della medicina nutriva verso la possibilità che le donne diventassero medici. Dopo la laurea si specializzò in neuropsichiatria e pediatria ed iniziò il suo impegno a favore dei bambini dei quartieri poveri di Roma, convinta dai suoi studi che molte tra le malattie più diffuse potessero essere prevenute intervenendo sulla marginalità sociale.
Il film Maria Montessori. La nouvelle femme, che ha come protagonista Jasmine Trinca nel ruolo della pedagogista di origine marchigiane capace di rivoluzionare con il suo metodo l’educazione e l’approccio all’infanzia, è un racconto al femminile, femminista e profondamente illuminante per gli insegnanti e non solo, che vede al centro la Montessori come una figura che ha precorso i tempi, lottando, all’inizio del secolo scorso, per l’eguaglianza dei diritti in un mondo dominato dal paternalismo e dal maschilismo.
L’escamotage attraverso cui la regista Léa Todorov – figlia del più grande filosofo bulgaro e storico della letteratura russa, Tzvetan Todorov, e della scrittrice canadese Nancy Huston – costruisce l’intreccio della vicenda è l’incontro di Maria Montessori e Lili d’Alengy. Quest’ultima è una famosa “femme fatale” parigina che nasconde un segreto vergognoso: una figlia disabile, Tina, che tiene nascosta per proteggere la sua carriera nei salotti dell’alta società fin de siècle.
Lili decide di portare la figlia a Roma da dove arriva notizia di una pedagogista che sa come trattare casi simili: le due donne, interpretate da Jasmine Trinca (La stanza del figlio; Fortunata) e Leïla Bekhti (The Restless; A Man In a Hurry), diversissime in tutto, troveranno lentamente un’intesa inaspettata che porterà alla luce un segreto condiviso.
Maria Montessori. La nouvelle femme mostra la lotta di emancipazione di una donna, sia nella vita privata che in quella pubblica e professionale, e l’ideazione di un metodo, oggi universale, della sua sperimentazione e perfezionamento.
Interessante e centrale è nel film il passaggio dall’applicazione del metodo Montessori con bambini con difficoltà di apprendimento all’uso con bambini normodotati, che evidenzia l’importanza di un approccio all’insegnamento inclusivo e personalizzato, concepito per valorizzare tutte le diversità per un’istruzione accessibile a bambini di ogni condizione sociale e abilità.
(ND Noi Donne, 19 giugno 2024)
di Umberto Varischio
Per dare un respiro storico alla questione dell’astensione femminile al voto può essere utile leggere la ricerca di Dario Tuorto e Laura Sartori, Quale genere di astensionismo? La partecipazione elettorale delle donne in Italia nel periodo 1948-2018, (in “SocietàMutamentoPolitica”, 11, 2020, pp. 11-22).
Dopo una prima fase di storia repubblicana in cui la partecipazione femminile al voto era simile a quella maschile, negli anni Settanta emergono dinamiche contrastanti. Nonostante l’aumento della presenza femminile nel lavoro, nella società e nella politica, sostenuto dal femminismo e dalle lotte per l’autodeterminazione e la parità, questa maggiore visibilità non si traduce in una maggiore partecipazione elettorale delle donne.
A partire dalle elezioni del 1976 emerge un divario di genere nella partecipazione elettorale, con un aumento dell’astensionismo femminile e una maggiore mobilitazione maschile. Questo crea un divario negativo per le donne, stabilizzandosi su 1-2 punti percentuali in meno rispetto agli uomini fino alla fine della Prima Repubblica. Ciò indica una disconnessione tra la loro crescente presenza in vari ambiti della società e la partecipazione politica attiva attraverso il voto.
Negli anni Settanta le donne non solo sono state influenzate dalla sinistra e dalla critica femminista alle istituzioni escludenti, ma hanno anche iniziato a spostare il loro voto verso formazioni nuove e trasversali. Tuttavia l’emancipazione femminile si è manifestata anche attraverso l’astensione dal voto.
Dal 1976 al 1992, lo scarto medio di partecipazione elettorale tra uomini e donne è aumentato a circa 2 punti percentuali. Questo divario è cresciuto ulteriormente tra il 1994 e il 2018, arrivando a quasi 4 punti percentuali, con una differenza di 5 punti percentuali nelle elezioni del 2013 e 2018, mentre nelle elezioni del 2022 l’astensionismo delle donne è stato maggiore di quello degli uomini del 3,5%, molto probabilmente per la novità rappresentata da una donna che si candidava al ruolo di Presidente del Consiglio.
Durante la stabilizzazione degli orientamenti politici, la maggiore propensione delle donne a votare può riflettere un civismo più pronunciato rispetto agli uomini, legato alla trasmissione di valori civici e alla consapevolezza del ruolo della partecipazione nell’identità pubblica. Invece l’astensione può rappresentare una forma di contestazione, disaffezione e radicalismo, e un rifiuto degli obblighi tradizionali.
Secondo i due ricercatori il femminismo può essere una chiave per spiegare la diminuzione della partecipazione elettorale femminile. Il rifiuto di una politica percepita come maschile e patriarcale (gli autori richiamano un libro di Adriana Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità) prevalentemente incarnata nei partiti politici tradizionali può aver allontanato le donne dalle urne. Questo rifiuto ha sancito una distanza dalla sfera istituzionale e ha legittimato la scelta di altre forme di attivazione, non convenzionali, come l’impegno in attività sociali e di volontariato. Queste forme di partecipazione, pur essendo diverse da quelle elettorali, rientrano comunque in una sfera politica sufficientemente significativa.
Nel complesso, i dati rivelano in modo inequivocabile come il divario di genere rifletta comportamenti profondamente diversificati in base all’età, con un contrasto forte nelle fasce di età più estreme. Per le donne anziane il maggiore astensionismo può essere ricondotto, almeno
in parte, alla loro marginalità sociale.
Tra i giovani, le donne votano più dei loro coetanei maschi, soprattutto se hanno un titolo di studio elevato. Questo indica che un maggiore senso di efficacia e una percezione positiva del proprio ruolo nel processo politico incentivano la partecipazione. La partecipazione giovanile è meno influenzata da determinanti sociali e territoriali, il che la rende una scelta più autonoma.
Le giovani donne, nonostante i migliori risultati scolastici e la determinazione nella carriera lavorativa, subiscono una doppia penalizzazione in un paese che valorizza poco sia i giovani sia le donne. Questa situazione le rende sensibili e pronte a mobilitarsi su temi come il welfare, la conciliazione lavoro-famiglia e il sostegno per la vita indipendente, ma anche pronte a punire i partiti, anche attraverso l’astensione, se le aspettative non vengono soddisfatte. Ma intanto le giovani donne votano di più, e più dei maschi. Come la spieghiamo? La ricerca non giunge ad alcuna conclusione se non che indicazioni più solide sui fattori determinanti della partecipazione femminile e delle differenze di genere non possono che venire dall’integrazione dell’analisi sociodemografica con quella dei comportamenti e degli atteggiamenti sociopolitici.
(www.libreriadelledonne.it, 19 giugno 2024)
di Liliana Rampello
Sara De Simone da anni si occupa di poesia e letteratura, da Emily Dickinson a Katherine Mansfield e Virginia Woolf, e la incontriamo spesso anche su queste pagine. Di recente ha pubblicato per Viella L’atto sospeso. Azione e inazione dell’eroe dall’Iliade a Virginia Woolf (pp. 188, euro 20), inoltrandosi in un percorso lungo molti secoli e intorno a un tema davvero originale.
Un arco così esteso di tempo e di storie, per non finire in narrazioni banali o già note, doveva di necessità esigere un taglio attento, ben ragionato, e doveva orchestrare la materia per squarci in grado di superare la distanza e affondare in spazi simbolici precisi ma tra loro comunicanti. Una scommessa non facile, a mio avviso felicemente vinta, perché mostra in modo inequivocabile come uno sguardo differente, quando si posa su una grande e comune tradizione, può farci vedere qualcosa che non è stato né visto né registrato prima. Il punto di vista è dunque importante, una specie di gradiente che mette in luce le variazioni possibili di quella stessa tradizione, perché varia la forma stessa dell’avvistamento. Cambia la cartografia del passato, lo illumina là dove qualcosa se ne stava in ombra, o del tutto al buio, non detto o cancellato.
Nell’«atto sospeso» sembra andare in pezzi quell’eterno atto eroico che pensavamo intangibile, soprattutto per l’inerzia con cui spesso viene trasmesso durante il nostro percorso scolastico (absit iniuria verbis, benedico sempre la scuola pubblica). Quando però, come in questo caso, la tradizione viene trafilata alla luce di un pensiero non binario, improvvisamente diventa chiaro che l’inazione non è necessariamente l’opposto, il negativo dell’azione ma, al contrario, genera e rafforza l’azione, e, sbucando dagli interstizi, dalle fessure di un pensiero non ancora pensato, la interpella in modo cogente.
Cosa succede dunque se in una narrazione l’eroe si ferma, smette di agire? Intanto succede che di fronte a questa tesi la nostra curiosità si accende e ci spinge a considerare da vicino un’orchestrazione così radicale della temporalità da tagliarla senza sgomento in tre grandi momenti della letteratura: l’antichità classica, il romanzo medievale del XIII secolo e la prima metà del Novecento.
Il libro di De Simone si apre sull’immagine di Brice Parain, filosofo-personaggio di un film di Godard, Vivre sa vie, che racconta un episodio in cui, nel Visconte di Bragelonne di Dumas, Porthos va incontro alla catastrofe per il semplice fatto di essersi messo a pensare come sia possibile mettere un piede dopo l’altro quando camminiamo. Un’ironia feroce ci fa vedere un eroe che soccombe «sotto il peso di un pensiero», e nasce qui la prima interrogazione del testo, che lavora intorno all’idea di come i tanti eroi «in sospeso», lungo la storia della letteratura, «da Arjuna ad Achille, da Oreste a Pelasgo, da Perceval a Lancelot, fino ad arrivare alla riscritture novecentesche di Orlando e Percival nell’opera di Virginia Woolf», mettano in crisi «lo stesso paradigma eroico di cui sono il simbolo».
Intorno a questo cuore centrale dell’indagine si addensano studi e prelievi che provengono dal cinema alla fotografia, dai miti orientali e occidentali al teatro, alla filosofia, che agiscono tutti muovendo e percorrendo il tema da una colta profondità alla superficie, in modo spesso, e sorprendentemente, divertente. Il primo grande ritaglio temporale, la classicità, è accolto dalla riflessione filosofica di Simone Weil e Rachel Bespaloff, su posizioni diverse per quanto riguarda struttura e argomento del poema omerico (a questo proposito è bene ricordare il bel libro di Nadia Fusini, Hannah e le altre, precursore di questo ideale confronto). Per Weil, ne L’Iliade poema della forza, è propriamente la forza «il vero argomento, il vero centro» del poema, per Bespaloff è la poesia che ne «tiene assieme» «i ventiquattro libri».
De Simone sposa quest’ultima idea per due ragioni, la prima, subito messa in evidenza, è che è proprio della poesia l’interruzione, la cesura, l’aritmia e dunque la pausa, con la sua sospensione, arresta nell’istante la durata «che scandisce il ritmo indiavolato dell’azione» epica. Leggiamo di Elena, che nel terzo libro, sulle mura delle porte Scee, elenca a Priamo i nomi dei guerrieri achei più famosi, mentre si attende il duello che deciderà della guerra, ma l’esempio decisivo, che informa buona parte dell’Iliade è l’inazione, il non-fare di Achille che, da sola, determina l’intera evoluzione delle molte battaglie in campo.
Una pausa, e una domanda, bloccano anche Oreste, nelle Coefore di Eschilo: il suo braccio resta sospeso prima di infiggere la lama nel petto della madre Clitemnestra, aprendo i versi al teatro di una mente che non può sfuggire a un destino inesorabile.
La seconda ragione a sostegno dell’idea che la poesia sia in sé lo spazio e il tempo dell’interruzione, e dunque idea centrale per il valore dell’inazione in letteratura, si sviluppa con altrettanta coerenza nel capitolo dedicato al ciclo bretone di re Artù, introdotto dalla riflessione portante sulla malinconia, che poggia le sue ragioni sui testi di Warburg, Panofsky e Saxl, Wittkower, il Benjamin del Dramma barocco tedesco, Barthes, Susan Sontag, ma anche sul cinema di Rohmer e il volto di Buster Keaton nella famosa fotografia di Joseph Frank. Tutto converge a illuminare il sonno di Artù, «roi pansif», che fermando ogni azione, terrorizza la sua corte, o l’assenza a se stesso, stupefacente, di Lancilotto nel ciclo del Lancelot-Graal, il cui filo di pensiero lo rende meditabondo e passivo, trasognato eppure capace di azioni improvvise che abbattono il suo avversario, in ragione di un’«energia statica» che si trasforma in «energia cinetica». Perceval, protagonista di Le conte du Graal, è un altro cavaliere immobile, addormentato o in dormiveglia sul suo cavallo, non agisce, non pone le domande giuste, sbaglia tutti i tempi, ma l’incompiutezza della sua azione, così come incompiuto sarà il conte, produrrà tutte le narrazioni seguenti.
Manca ora solo l’ultimo salto che porta alla rilettura critica che Virginia Woolf propone dell’Orlando ariosteo nel suo Orlando. Una biografia e di Perceval nelle Onde. Un capitolo ricco di tensione critica, sentiamo che questo è il punto non finale, ma originario dell’intero percorso che possiamo leggere ora a ritroso, perché questi due romanzi vivono della «memoria dell’eroe», qui il sonno e il tempo esistono come necessità narrative esplicite, non più miticamente alluse. L’ironico rovesciamento del Furioso che qui si addormenta, cambia sesso e attraversa d’un balzo i secoli, l’assenza nelle Onde di Percival che, non essendoci, orienta ogni parola dei personaggi, indicano che il tema della sospensione è giocato con massima consapevolezza dalla Woolf, consapevolezza prima di tutto del ritmo di una prosa che, tra dieci interludi e nove soliloqui, deve inseguire i movimenti della mente, e insieme dello scorrere della vita.
Così come Orlando non compie nessuna azione memorabile, ma si «dimostrerà sempre più incline alla malinconia, alla fantasticheria e al sonno profondo», così Percival non è certo un condottiero, viene disegnato con in testa un caschetto colonialista, su una cavalla «malridotta», eroi entrambi messi a fuoco da uno sguardo ironico, sarcastico, che rivoluziona l’intera tradizione di cui i loro eponimi erano simbolo.
A vincere sui temi, sui personaggi stessi, non è però una «tesi» da dimostrare, ma la geniale intuizione che la sospensione, il ritmo, la pausa non stanno tra l’eroe e il mondo, tra azione e inazione, ma sono elementi connaturati a una scrittura che vuole sfuggire ai “generi” codificati. Una biografia fuori canone e un play-poem sono la forma che Woolf ha trovato per rallentare le scene, dilatarle o diminuirne la tensione, come e quando necessario alla narrazione stessa. È la vittoria ultima della poesia, da lei tanto amata, l’esito di questo lungo attraversamento della tradizione.
(il manifesto, 18 giugno 2024)
di Francesca Traìna
Qualche settimana fa, spulciando nella mia vecchia libreria di campagna, mi sono imbattuta in alcuni testi di Sylvia Plath; li ho riletti e, come mi era accaduto altre volte, ne sono rimasta turbata. Molti smarrimenti della poeta mi sembrano, tra l’altro, attualissimi e sovrapponibili a quelli che, oggi, vengono avvertiti soprattutto dalle donne. Ci ritroviamo, infatti, a difendere diritti già acquisiti, oggetto di tante battaglie da parte del femminismo. Così ho pensato di rendere omaggio alla poeta scrivendo di lei e, in tal modo, ricordarla a quante/i l’hanno amata.
Negli anni settanta la poesia di Sylvia Plath fu letta e analizzata in modo parziale e riduttivo perché ne furono considerati unici temi dominanti la presunta schizofrenia e la denunciata violenza maschile responsabile non soltanto della “follia” della scrittrice, ma anche del suo suicidio.
Certo fu donna e poeta assai scomoda, provocatoria e sovversiva; genio che ambiva alla perfezione, specchio di quante videro riflessa in lei la propria soggettività fino a creare il Plath Myth.
Emerge inequivocabilmente dai suoi scritti un atteggiamento anti-maschile in cui le figure di dio/padre/marito, vestite con abiti nazisti, vengono identificate in quelle di carcerieri e oppressori.
C’è infatti nella poeta, soprattutto negli ultimi anni, una chiara identificazione con gli ebrei vittime dell’olocausto e della perversione maschil-nazista, ma c’è di più in quella che può sembrare solo una identificazione nel ruolo di vittima. C’è qualcosa che tende ad andare oltre il dato biografico e che presenta una condizione di sofferenza esistenziale comune alla generazione vissuta negli anni ’50 e ’60. C’è la violenza di una struttura sociale e storica nominata nelle tragedie di Hiroshima e Dachau. C’è una società che ruota intorno a valori quali «domesticità, religiosità, rispettabilità, sicurezza attraverso l’acquiescenza verso il sistema» e che induce le ragazze ad essere studentesse e figlie perfette, madri e mogli inappuntabili.
Così il sogno di perfezione in Plath si schianta contro un’avvertita inadeguatezza: il sentirsi non all’altezza delle aspettative della madre, dalla quale non era mai riuscita a distaccarsi, al punto da dipendere totalmente dalla sua accettazione fino a perdere il senso di sé.
La ricerca poetica di Sylvia Plath mette in gioco la sfera personale, si connette alla complessità della sua psiche sfociando verso visioni sempre più sconvolgenti e facilmente confondibili con nuove possibilità di essere donna e poeta.
Ma il frutto della elaborazione poetica, intellettuale e psichica finisce per scontrarsi con gli obblighi della vita quotidiana e le sue forme, i ruoli, i legami sociali nei quali viveva immobilizzata e dai quali avrebbe desiderato liberarsi, mentre la madre – così presente e così distante – la costringeva a fingere di essere forte per superare ogni difficoltà, per farcela comunque.
La poeta canta da un luogo di dolore estremo.
La “stanza tutta per sé” è stanza di cristallo che la taglia e l’attraversa. Da quel luogo di dolore non può che rappresentare luoghi di dolore deromanticizzati e resi negli aspetti più umilianti e ghettizzanti: l’orrido, la mostruosità, l’oscenità, l’abiezione, l’isteria sono il tessuto connettivo dei suoi versi. L’ansia e la disperazione evolvono in forme e figure senza corpo con testa di medusa, arpia, gorgone che raccontano esperienze borderline.
Dal dolore insostenibile si può fuggire rifugiandosi nell’asensibilità asettica, come se da dentro una teca di vetro si potesse guardare tutto senza percezione di dolore; come se auto-imprigionandosi e allontanando da sé ogni possibile tattilità, ogni con-tatto, si potesse rendere sordi il corpo e l’anima.
Ma, come scrisse Anne Sexton, amica di Sylvia Plath: a woman who writes feels too much (una donna che scrive sente troppo). Così la scrittura, che avrebbe potuto salvarla, in realtà la pone ancora al centro di un dolore la cui ferocia intollerabile incontra il suicidio, il salto fuori di sé forse come possibilità di estinguere il dolore medesimo, forse come tentativo di cancellare il sé.
La mia scelta è tuttavia quella di non codificare il gesto, bensì ritenerlo un fatto tragico e privato anche nella prospettiva di demolire stereotipi nei quali, ancora oggi, Plath rischia di rimanere ingabbiata.
È la stessa poeta a darsi corpo di strega in poesia come scelta di provocazione che, verosimilmente, mirava a rovesciare la mistica della femminilità americana – e non solo – proposta dai cartelli pubblicitari degli anni cinquanta ed oltre. Strega, luna (dea), olocausto, sono i tre temi ricorrenti nei suoi scritti dove la parola della ribellione solitaria venne considerata pericolosa e sovversiva dall’ipocrita società, tanto da essere letta come follia, e isterico fu definito il corpo da cui quella parola veniva fuori a turbare le coscienze “buone” e “giuste”.
Questa poeta ambiziosa e fragile che avvertiva soffocante indossare solo gli abiti di madre e sposa, rappresenta uno dei sacrifici femminili al mondo e all’arte, perché scardinando in solitudine le porte del disvelamento di sé, mediante la ricerca linguistico-poetica, frantumò se stessa e fu travolta dai suoi stessi demoni creativi ed esistenziali.
(www.libreriadelledonne.it, 18 giugno 2024)
di Antonella Nappi
Vorrei aggiungere al commento Europee, luci nel vento (12 giugno 2024) di Ida Dominjianni al voto europeo la mancata applicazione in Italia della par condicio nei media, e nella tribuna elettorale delle testate RAI, quello che credo fosse un obbligo: riservare uguale visibilità a tutti i programmi elettorali.
È stato così possibile attuare il silenzio stampa e televisivo sui gruppi presenti al voto e non graditi da emittenti e giornali, o forse soltanto deboli rispetto al governo.
Mi appare una cosa molto grave che i partiti abbiano accettato questo despotismo contro l’informazione della cittadinanza prima del voto. È stato un atto così antidemocratico da farmi riconoscere il Fascismo. Ha certamente avuto un peso nelle votazioni e lo ha per il futuro politico che ci riguarda.
Il potere dei media è mastodontico, ne abbiamo avuto sorpresa io ed Elena Urgnani – di Disarmisti Esigenti, candidata nella lista Pace Terra Dignità – dall’esito dei suoi voti: 35 voti a Milano e 26 ad Abbiategrasso dove vive, tramite propaganda in presenza; il resto, fino al totale di 400, dal Piemonte, dove una televisione locale le ha dato per circa cinque minuti voce e visibilità.
«Ciascuno può informarsi da sé!» (intendendo con questo «in rete»), questa frase, giustificata dall’espansione obbligata che ha avuto la comunicazione digitale, sembra l’epitaffio della cura delle relazioni collettive. L’isolamento individuale che porta a non votare, nei fatti ci sottopone alla sola voce del potere. Senza stimoli alla condivisione delle scelte, la politica dei partiti dà la vittoria di nuovo al fascismo.
(www.libreriadelledonne.it, 18 giugno 2024)
di Brunella Torresin
Torna l’opera che la grande femminista dedicò ai suoi amici più geniali: Pascali, Fontana, Accardi, Twomby. Fotografia collettiva di una rivoluzione
Carla Lonzi pubblicò Autoritratto nel 1969,con l’editore De Donato: era ed è rimasto il suo ultimo lavoro di critica d’arte. Da quel momento e fino alla sua scomparsa, nel 1982, si sarebbe dedicata anima e corpo alla teoria e alla militanza femminista, con l’elaborazione di testi ancor oggi fondativi. Già in queste pagine le ragioni della sua svolta esistenziale sono esposte con perentoria chiarezza: «Quando mi sono trovata a fare la critica d’arte, ho visto che era un mestiere fasullo, completamente fasullo», afferma, e ne parla già al passato. Autoritratto nasce dalla raccolta e dal montaggio di una serie di conversazioni con quattordici artisti, registrate tra il 1965 e il 1969: Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, cui si aggiungono le domande, senza risposta, rivolte a Cy Twombly nel 1962.
Un libro formidabile che, dando seguito alla ripubblicazione delle opere complete di Carla Lonzi iniziata con Sputiamo su Hegel (2023), La Tartaruga restituisce al pubblico in un’edizione curata da Annarosa Buttarelli (pp.416, 22 euro). Non solo l’epoca e il luogo delle registrazioni sono diversi, ma varia anche la composizione degli interlocutori che partecipano a ciascun incontro. Nel trasporne i contenuti dal parlato allo scritto, Carla Lonzi lavora sul montaggio e crea una sorta di flusso di coscienza, o autocoscienza, che solo di rado interrompe con le proprie osservazioni.
Definisce Autoritratto «un libro un po’ divagato». Possiamo intuire le domande – sulla poetica, sulla tecnica, sull’ontologia stessa dell’arte, la politica, il mercato, il pubblico, la ricerca in divenire – ma non sempre sono dichiarate. È dichiarato, invece, lo scopo di questo convivio: dimostrare che l’artista è naturalmente critico e che l’opera d’arte rappresenta naturalmente una «possibilità di incontro e un invito a partecipare» a «un’altra condizione dell’uomo».
Come nessun altro, la natura “implicitamente” critica dell’artista è innervata di vissuto e di tecnica, di capacità immaginativa e sfondamenti politici, di potenza simbolica e di evocazione. È il motivo per il quale nel 1969 Carla Lonzi inserisce, come racconto parallelo al testo, fotografie le più diverse, pubbliche e private: immagini degli artisti da bambini, da soli o con i genitori, adulti assieme a mogli e compagne, immagini di opere e immagini realizzate in occasioni espositive. In copertina, anziché il Concetto spaziale di Fontana scelto all’epoca dall’editore, avrebbe desiderato l’immagine che ora Claudia Durastanti, curatrice editoriale de La Tartaruga, ha voluto per questa edizione: la fotografia di Teresa di Lisieux (1895) che interpreta Giovanna d’Arco seduta in catene nella sua prigione.
Cosa c’è sullo sfondo di Autoritratto? Ovviamente il Sessantotto, il Maggio francese, la Biennale contestata. «La nostra società – scrive Lonzi nella premessa – ha partorito un’assurdità quando ha reso istituzionale il momento critico distinguendolo da quello creativo e attribuendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti». E davanti a sé? Lo dichiara Jannis Kounellis quando osserva che noi «abbiamo fatto di tutto per abolire il mestiere dell’artista e, una volta abolito il mestiere, non per fare un altro mestiere, ma per essere un uomo diverso». O una donna diversa: perché, come dice Carla Accardi, gli uomini «se lo devono levare, eh, un poco, questo terrore della donna che ragiona. Il Potere io l’ho conosciuto, certo che l’ho subìto: come educazione, come ordinamento della società stabilito dagli uomini, con la forza, con l’addomesticamento, con l’asservimento, con l’intontimento, insomma».
È la magnifica utopia dell’artista che, con le parole di Luciano Fabro, si spinge a «prendere possesso del mondo, aprire una breccia attraverso cui possano passare tutti coloro che sono disponibili». Pino Pascali, all’epoca della pubblicazione di Autoritratto scomparso da un anno, confessa che «io cerco di fare quello che mi piace fare, in fondo è l’unico sistema che per me va bene», il che non esclude «una propria identità morale». Lucio Fontana, portentoso, preconizza la liberazione dell’uomo dalla materia: «Diventerà un essere semplice, come un fiore, una pianta e vivrà solo della sua intelligenza, della bellezza della natura e si purificherà del sangue». Ancora Carla Accardi usa un’espressione bellissima nel descrivere il proprio lavoro: «Mi piace che uno capisca dove il mio cuore tocca e dove la mia parola, invece, circonda». È una sintesi perfetta anche per l’altra Carla – l’amica, la femminista, la rimpianta Carla Lonzi.
(Robinson – la Repubblica, 16 giugno 2024)
di Viviana Daloiso
La coda per la strada. L’emozione incontenibile. Il sogno realizzato di salire la scala, entrare nel seggio, pulire la bocca dal rossetto e assicurarsi che, sì, c’eravamo. Abbiamo votato anche noi per il domani dell’Italia. Le immagini finali del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, che hanno commosso le sale dei cinema quest’anno e innescato il dibattito ancora inesaurito sull’importanza del voto delle donne e sul loro ruolo irrinunciabile nella costruzione della Repubblica, sembrano sbiadire davanti agli esiti impietosi dell’ultima tornata elettorale. E va bene, ripetono gli analisti, al non voto femminile eravamo già abituati da anni, la tendenza è assodata a tutte le età e lungo tutta la cosiddetta piramide sociale – che nel nostro Paese aderisce impietosamente alla cartina geografica dello Stivale –, ma il dato messo nero su bianco dai conteggi definitivi dei sondaggi circa quanto accaduto il weekend scorso è di quelli da dimenticare. O meglio, da attraversare e metabolizzare, per capire dove si è sbagliato e come cambiar rotta.
Scomparse
Tra chi non è andato a votare, e cioè oltre la metà degli italiani di cui tanto si è parlato negli ultimi giorni, la maggior parte sono state proprio donne. Del tutto disinteressate alla campagna elettorale, tiepide nei confronti delle istituzioni europee e persino in quelli delle due leader donne (la presidente del consiglio Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia ed Elly Schlein per il Partito Democratico) che per la prima volta si scontravano nell’agone della politica nazionale. Le cifre sono impietose, per Avvenire le ha elaborate in esclusiva Swg: se fra gli uomini la barra dell’astensionismo si è spinta fino a un già drammatico 46%, per le donne è salita oltre il 59%. Un secco 13% di differenza, oltre che un aumento dell’11% rispetto al numero di elettrici che avevano già scelto di non recarsi alle urne nella tornata del 2019 (all’epoca s’erano attestate al 48%). Come dire: la situazione è in peggioramento, senza che le conquiste in termini di rappresentanza a livello politico abbiano sortito effetti concreti, né le forme organizzate di protesta contro discriminazioni di genere e diseguaglianze.
Perché? Cosa ci allontana così tanto dalla politica nonostante la faticosa conquista del diritto a far sentire la nostra voce e la sacrosanta battaglia perché sia ascoltata al pari di quella dei maschi? «Le risposte affondano nelle specificità territoriali e culturali, ovviamente, ma hanno alcune matrici comuni – spiega Cristina Pasqualini, sociologa dell’Università Cattolica che collabora con l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo – prima fra tutte l’evidente incapacità da parte della politica di rappresentarle, le donne. Tanto ci sentiamo sole, tanto mancano decisioni davvero incisive per le nostre vite, attenzione ai nostri problemi concreti, tanto crescono disaffezione e sfiducia. Non è un caso se le dinamiche di voto riscontrate nel segmento femminile sono le stesse che registriamo nelle indagini sui giovani: donne e ragazzi sono in questo momento le due categorie più vulnerabili del Paese perché rimosse quasi del tutto dall’agenda istituzionale e il risultato è la loro delusione e disillusione. Non contano sulla politica, non vi badano, perché la politica li esclude».
Le priorità
Vengono in mente le manifestazioni di donne che hanno infiammato il Paese in autunno, subito dopo il terribile femminicidio di Giulia Cecchettin, la richiesta agitata con rabbia nelle piazze (assieme alle chiavi) di uno sguardo sul dramma delle violenze e dei femminicidi: «Proteste che non sono state incanalate in un percorso realmente costruttivo di cambiamento – rileva la prorettrice dell’Università Bocconi Paola Profeta –, come se l’azione politica non riuscisse a superare la contingenza dei singoli problemi, di volta in volta ridotti a discorso ideologico, in una dinamica di polarizzazione delle posizioni che non arriva mai a incidere davvero nella quotidianità delle donne: così oggi ci troviamo con un Family Act di fatto fermo, con la cancellazione quasi totale di percorsi di empowerment e occupazione femminile, con un dibattito da parte del governo sbilanciato sui figli piuttosto che sul lavoro e da parte delle opposizioni quasi completamente incentrato sui diritti, penso in questo caso a quelli Lgbt o di adozione da parte delle coppie gay, che riguardano una minoranza della popolazione: la maggioranza delle donne non vi si riconoscono», ergo la stessa maggioranza non si riconosce in nessuno.
Un nervo scoperto, quello della distanza tra le priorità dei partiti – di governo e non – e la realtà ben esemplificato dal dibattito in corso sull’aborto: con i presunti “attentati” alla libertà femminile legati alla decisione di prevedere figure pro-vita nei consultori che avrebbero dovuto scatenare una rivolta di popolo (femminile soprattutto, s’intende) e che invece non hanno smosso l’elettorato. Nemmeno a livello di preferenze: «Le donne che hanno seguito la campagna elettorale d’altronde sono state anche meno di quelle che hanno votato, e quelle che hanno votato lo hanno fatto seguendo l’andamento nazionale con pochi discostamenti – spiega Rado Fonda, responsabile ricerche di Swg –: nel 28% dei casi, cioè, hanno premiato Fdi, nel 9% Forza Italia e nel 10%, qui un punto percentuale in più rispetto agli uomini, la Lega». Vale a dire che nel 47% dei casi hanno confermato la linea della maggioranza di governo, non importa la posizione così tanto contestata sull’aborto. «Nel 25% dei casi, invece hanno votato Pd e nell’11% Movimento 5 Stelle, con un picco al Sud relativamente al partito di Conte del 16,4% contro il 13% degli uomini. Segno che il fattore economico, e la variabile reddito di cittadinanza, in questa parte del Paese ha evidentemente non solo più peso, ma più peso per il genere femminile, evidentemente lontano dal mondo del lavoro».
Chi lavora, chi no
Che proprio l’occupazione, per altro, sia la variabile davvero incisiva sul desiderio di partecipazione alla vita democratica del Paese lo dimostrano i dati che guardano oltre a quelli di genere: l’astensione s’è fermata a poco più del 40% dei lavoratori e delle lavoratrici autonomi, tanto per fare un esempio, e ha toccato quasi il 60% nel caso dei ceti bassi: «La disoccupazione femminile è il vero problema, lo ripetiamo da anni – sottolinea Lella Golfo, reduce dall’incontro col presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il Premio Bellisario –. Quando una donna si realizza, conquista la sua autonomia e afferma il suo talento, quella donna combatte anche, scende in campo, non perde l’occasione di far sentire la propria voce. Sei donne su dieci che non sono andate a votare sono donne per cui il domani non è mai arrivato, per cui non è cambiato ancora niente e che sono convinte che niente cambierà. Occorre convincerle del contrario, ciò che da sempre è l’impegno della nostra fondazione». E occorre un impegno serio per il superamento delle diseguaglianze, «perché le donne abbiano le stesse possibilità e gli stessi stipendi degli uomini – rileva ancora la sociologa Pasqualini –, perché possano godere di autonomia e indipendenza, perché banalmente possano gestire un proprio conto corrente. Serve parlare delle donne, a tutte le donne. E non basta, è evidente, che siano leader donne a farlo: è importante, ma non è sufficiente».
Il cambiamento
Le cose cambieranno? Forse. «Ora occorre prendere atto di una doppia sconfitta: – continua Profeta – una di noi donne, che non abbiamo saputo onorare la battaglia fatta sul voto da chi ci ha preceduto; una della politica, per averci anestetizzato». Ma è proprio la politica ora che dovrebbe cogliere l’opportunità di recuperare una fetta di elettorato decisiva muovendo le leve giuste per risvegliarne passione e fiducia. «Deluse non significa perse. Le donne, come i giovani, stanno solo aspettando che cambi l’aria – conclude Pasqualini –, per rimettersi in moto e diventare protagoniste di un percorso di partecipazione senza cui nessuna democrazia può sopravvivere a lungo». Nemmeno la nostra.
(Avvenire, 16 giugno 2024)
di Jessica Perra
«Quando la bimba non aveva neanche un mese ho affrontato una trasferta da Bologna a Pavia per un reportage. Per allattare mia figlia facevo tredici chilometri in macchina ogni tre ore. Ripetendo il tragitto tre volte in un giorno». Così Alice Facchini, giornalista freelance, non ha mai interrotto il lavoro dopo essere diventata madre. «Non mi sono mai fermata. Mara [nome di fantasia, ndr], la mia bimba, aveva solo quattro giorni quando ho fatto la prima call». La incontriamo per riflettere sulle difficoltà di conciliare la maternità con la carriera giornalistica. La sua esperienza conferma i dati che emergono in un rapporto condotto nel 2022 dal gruppo di ricerca e sondaggi OnePoll: quella da giornalista è la terza carriera meno adatta alla vita familiare.
Durante la gestazione e la maternità molte donne devono scegliere tra famiglia e lavoro, affrontando il peso delle disuguaglianze di genere e della precarietà e il giornalismo non fa eccezione: le giornaliste vengono pagate meno rispetto ai colleghi, firmano meno articoli e ricoprono meno cariche apicali. Per loro concedersi una pausa o un congedo è vissuto come un privilegio, soprattutto se lavorano al di fuori delle redazioni. «Non fermarsi diventa una necessità – continua Facchini – perché manca un mezzo di sostentamento e quindi alcune freelance sono costrette a continuare a lavorare, anche se non vorrebbero».
Un’esperienza simile è toccata anche a Irene Caselli, quarantadue anni, reporter multimediale ed esperta di prima infanzia e genitorialità. «Non avevo un congedo e se avessi smesso di lavorare avrei smesso di guadagnare. Quando è nato Lorenzo [nome di fantasia, ndr] stavo lavorando all’una di notte perché dovevo consegnare un paio di cose. Sono iniziate le prime contrazioni alle due di notte e sono andata all’ospedale. Il pomeriggio ho partorito e alle nove di sera ho mandato una mail chiedendo un’estensione di una settimana, poi sono tornata a casa e l’ho scritto».
Rimanere produttive non è una scelta. Secondo Alice Facchini «c’è anche una questione di pressione sociale di chi dall’esterno guarda e dice “chissà se sarà ancora attiva, se avrà deciso di ritirarsi alla vita privata”. Quindi la mia decisione era legata anche all’ansia di dimostrare che ero ancora sul pezzo, che potevano ancora chiamarmi».
Serena Bersani, presidente dell’associazione GiULiA Giornaliste che si batte per le pari opportunità e una corretta rappresentazione delle donne nei media, ricorda: «Comunicai di essere incinta soltanto quando la pancia al sesto mese era evidente e non potevo più nasconderla. Non l’ho detto prima perché avevo paura che mi togliessero incarichi». Durante un colloquio di lavoro disse al capo del personale della redazione che suo marito aveva preso l’aspettativa proprio per permetterle di essere assunta. Ma non bastò per liberarsi delle supposizioni sulle sue capacità lavorative in quanto giornalista e madre: «Cominciò a dirmi: “Io già immagino che ogni mezz’ora tu chiamerai a casa per sapere se il bambino sta bene, se ha mangiato”. Mi trattava come se non riuscissi a scindere il lavoro da cosa succede a casa, ma non mi conosceva». Questo pregiudizio, noto come maternal bias, è basato sull’idea che le donne diventino meno produttive e interessate alla carriera dopo aver avuto figli.
Le preoccupazioni di Alice Facchini e Serena Bersani sono giustificate. Secondo il rapporto Plus 2022 dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, dopo aver dato alla luce un figlio quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni lascia il lavoro, mentre solo il 43,6% continua a lavorare, con una percentuale ancora più bassa nel Sud e nelle isole (29%). La principale ragione di questa scelta è la difficoltà nel conciliare il lavoro con la cura dei figli. Nonostante un notevole calo nel tempo, persiste uno squilibrio di genere nelle dimissioni post-nascita.
Il timore che la maternità possa incidere sul lavoro non riguarda solo le giornaliste freelance. Come testimonia il recente caso di Lara Ricci, giornalista demansionata da Il Sole 24 Ore da responsabile delle pagine letterarie dell’inserto domenicale a correttrice di bozze, dopo il periodo di maternità obbligatoria. Serena Bersani esprime preoccupazione per il caso: «L’Ordine e il sindacato non sono riusciti a proteggere questa collega e a far valere i suoi diritti. Ricci è dovuta ricorrere al tribunale per riavere il suo posto, questo dimostra che il problema è ancora profondo». Il 22 gennaio 2024 il tribunale del lavoro di Milano ha riconosciuto, per la seconda volta, le decisioni del quotidiano economico come discriminatorie. Per Lara Ricci è stato difficile dimostrare la discriminazione: «È arduo, ad esempio, provare il caso in cui una donna non abbia ottenuto una promozione che meritava a causa del suo genere», racconta. Tuttavia, l’ultima sentenza ha reso più facile la prova delle discriminazioni contro tutte le lavoratrici madri. «La discriminazione si può realizzare non solo in quanto la maternità ne sia la causa – spiega la giornalista, evidenziando l’importanza della sentenza – ma anche solo in quanto sia l’occasione per farlo, approfittando cioè della sua assenza per congedo».
Espulse, un collettivo di giornaliste che indaga sulle molestie e sugli abusi di potere nel giornalismo italiano sottolinea la scarsa risonanza mediatica della sentenza «che invece potrebbe spingere altre donne – giornaliste, ma anche altre lavoratrici – a fare causa ai datori di lavoro che le hanno discriminate durante la maternità». Il demansionamento, come dimostra la vicenda di Lara Ricci, è uno dei timori più grandi, ma non è l’unico. «Io avevo un contratto a tempo indeterminato – commenta Ricci – mentre non è il caso di molte giovani donne precarie, che rischiano il non rinnovo. Inoltre, le freelance spesso lavorano anche subito dopo il parto per paura di perdere collaborazioni».
Tutti questi pregiudizi, ostacoli e timori fanno parte di un settore in cui la salute mentale è ancora un tabù. «Dopo il secondo figlio, mi sono resa conto di essere in burnout. Avevo bisogno di una pausa», ricorda Irene Caselli, sottolineando come, nonostante l’expertise in questi ambiti, non si fosse accorta di quanto fosse difficile ritornare a lavorare così presto e affrontare le conseguenze del mancato distacco da lavoro.
Maria Grazia Flore, psicoterapeuta ed esperta in psicologia perinatale puntualizza: «In Italia il compito della cura è ancora prevalentemente affidato alle donne. Questo crea una situazione ambivalente in cui, nonostante il supporto apparente alla conciliazione lavoro-famiglia, mancano i presupposti come il congedo di paternità più lungo e servizi di welfare adeguati». «La penalità nel mio caso è stata la mia salute mentale e la mia salute fisica – dice con grande consapevolezza Irene Caselli – perché ho continuato a fare le cose come se fossi da sola ma non ero da sola».
In Italia, il tema delle difficoltà affrontate dalle giornaliste durante la maternità è trascurato, come dimostra la scarsa disponibilità di dati. La prima indagine sulla condizione lavorativa delle giornaliste madri è stata condotta tramite un questionario nel maggio 2022 dalla commissione Pari opportunità dell’Ordine della Campania, ma i risultati non sono ancora stati pubblicati. «C’è bisogno di molta flessibilità nel mondo giornalistico – conclude Caselli, con lo sguardo che si fa più serio – e mentre la flessibilità da un certo punto di vista si combina bene con l’essere madre, da altri punti di vista è complicato».
(Altraeconomia, 15 giugno 2024)
di Franca Fortunato
Ci sono donne, le femministe, a cui le altre devono la loro libertà, in particolare le giovani donne. Una di queste è Carla Lonzi che, alla fine degli anni Sessanta inizio anni Settanta del secolo scorso, con il suo gruppo di autocoscienza Rivolta Femminile ha dato origine, come altre, al femminismo italiano della differenza. A distanza di quarantadue anni dalla sua morte, avvenuta nel 1982, Lonzi non solo continua a essere presente nella mente di chi c’era ma è diventata una delle femministe più studiate in tutto il mondo. A lei, infatti, sono dedicate tesi di laurea, seminari, ricerche, studi, in tutte le università. È riconosciuta come “avanguardia filosofica italiana del XX secolo” e ovunque nascono gruppi di lettura dei suoi scritti la cui riedizione oggi è curata dalla filosofa femminista Annarosa Buttarelli, autrice tra l’altro del recente saggio Carla Lonzi, edito da Feltrinelli per la Collana “Eredi”. «Gli scritti di Carla Lonzi – scrive l’autrice – possono essere considerati di “trasformazione”, ovvero testi non accademici, ma d’esperienza, di vita e di pensiero concreti, capaci di produrre cambiamenti irreversibili in chi ha la fortuna di sentirli risuonare come veri e adeguati a sé». È quello che è accaduto a lei, a me e a tante donne della sua/mia generazione divenute “eredi senza testamento” di un pensiero e di una politica. Eredità oggi da «conservare e trasmettere memoria alle nuove generazioni», alle giovani donne che «pur avendo acquisito la libertà creata dalle loro madri, spesso non sanno dire come, dove e quando si sono combattute le lotte che hanno dato origine alla loro libertà». È questo l’impegno di Buttarelli che nel suo saggio ci porta dentro gli scritti di Lonzi, la quale era consapevole «di essere all’origine della rivoluzione più radicale mai realizzata: la fuoruscita delle donne dalla cultura patriarcale», attraverso la pratica dell’autocoscienza e la trasformazione di sé nella relazione con l’altra, con le altre. «Essere una donna – scrive Lonzi –, che assume di esserlo, comporta il disfacimento di ciò che prevede la società e la cultura per lei» e «ricusa ogni ruolo sociale e intellettuale». Lonzi “traghetta” così se stessa e le donne fuori dalla cultura patriarcale, le rende “donne pensanti e libere” e si misura nelle relazioni “donna con donna”, che altre femministe della differenza renderanno «più praticabili dentro un ordine simbolico femminile, agli albori nel momento in cui lei scrive». Le giovani della “quarta ondata” del femminismo, che oggi lottano contro stereotipi e ruoli patriarcali, non hanno memoria del lavoro di “deculturizzazione” che le madri del femminismo della differenza hanno già fatto, togliendo al patriarcato ogni credito femminile e creando «una genealogia di saperi e sapienze femminili». Buttarelli nel suo saggio ci guida nella comprensione di parole chiave del pensiero e della pratica politica di Lonzi: autenticità, autocoscienza, relazioni tra donne, fare vuoto, auto-inferiorizzazione, andare via, che ci fanno capire come lei della sua vita ne fece «un’opera d’arte dove mente, corpo, relazioni, esperienza sono tenute insieme». […]
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 15 giugno 2024)
di Orsola Riva
Sofia Corradi, ottantanove anni, è nota come “mamma Erasmus” perché a lei di deve l’invenzione del programma di scambi che ha fatto viaggiare milioni di studenti. Fra questi anche sua nipote Margherita che ha tenuto il discorso di ringraziamento per il titolo conferito dall’università parigina a sua nonna (nella foto: Sofia Corradi e sua nipote Margherita)
«Avrei voluto che ci fosse nonna sul palco della Sorbona a ritirare il dottorato honoris causa. Ma non stava bene, e in fondo il fatto che ci fossi io al suo posto ha un valore simbolico perfino più forte. Anch’io sono un’erasmiana, come pure mia sorella Alice: non c’era modo migliore di rappresentare quello che lei ha significato e significa per milioni di giovani». Margherita Ventura, 22 anni, è laureanda in Psicologia a Perugia. È toccato a lei venerdì scorso parlare davanti a 150 persone riunite nel grande anfiteatro dell’università parigina per celebrare Sofia Corradi, che lei e sua sorella chiamano nonna, ma al mondo è nota come «mamma Erasmus». In Italia, forse, il suo nome non è così popolare – nemo propheta in patria – ma quello stesso Premio europeo Carlo V che Mario Draghi ha ricevuto due giorni fa dalle mani di re Felipe VI era già stato conferito nel 2016 proprio alla professoressa Corradi, prima italiana e seconda donna della storia dopo Simone Veil. È a questa caparbia signora romana che oggi va per i novanta, infatti, che si deve l’«invenzione» di uno dei programmi di maggior successo della storia europea: l’Erasmus, appunto.
Tutto cominciò da un’«arrabbiatura», come ha raccontato lei stessa tante volte, perché al suo rientro in Italia da una borsa di studio in Diritto comparato alla Columbia di New York, la sua università, che era la Sapienza, non le aveva voluto riconoscere gli esami sostenuti in America. Corradi amava studiare e senza troppa fatica si era rimessa in pari e presto laureata, ma non era donna da mettersela via. Dieci anni dopo, essendo stata nominata consulente scientifica della Conferenza dei rettori italiani, mise a punto un documento che proponeva il riconoscimento dei periodi di studio all’estero. Il «lodo Corradi», adottato dal ministro dell’Istruzione Ferrari Aggradi nel 1969, naufragò a causa della fine anticipata della legislatura. Ma daccapo Corradi – come ha raccontato lei stessa nell’ultima intervista al Corriere poco più di due anni fa – andò avanti per la sua strada, «rompendo le scatole» ai rettori italiani e ai loro omologhi europei.
Il primo risultato lo spuntò nel 1976 con un progetto pilota della Commissione europea che di fatto spianava la strada all’Erasmus, anche se per il lancio del programma vero e proprio si dovette attendere fino al 1987.Da allora, secondo l’ultimo censimento aggiornato al 3 giugno, i partecipanti sono stati 15.655.169. Fra questi anche Margherita e sua sorella. «I miei sei mesi a Siviglia sono stati l’esperienza più bella della mia vita. – racconta Margherita – Pensi che non sono rientrata neanche a Natale. Inizialmente sia io che Alice, che nel frattempo stava facendo il suo secondo Erasmus a Parigi, pensavamo di tornare a Roma per stare con nonna. Ma lei al telefono ci ha detto: “Non se ne parla proprio. Qui trovate sempre i soliti parenti. Godetevi l’Erasmus”». E così le due sorelle prima hanno festeggiato insieme il Natale a Parigi e poi hanno atteso il nuovo anno a Siviglia.
È andata così anche per il discorso che Margherita ha pronunciato alla Sorbona. Tutta farina del suo sacco. Corradi, che non per nulla è professoressa emerita di Educazione degli adulti, non ha voluto metterci becco. «L’ho scritto di notte, perché ero emozionata e faticavo a prendere sonno. Il mattino dopo l’ho letto a nonna, che mi ha dato il via libera. Quando le abbiamo mandato il video della cerimonia girato da Alice, lei mi ha fatto i complimenti e mi ha detto che si vedeva che stavo leggendo qualcosa che avevo pensato io. E che proprio per questo il discorso funzionava». Cosa ha detto Margherita quel giorno? Che «l’Erasmus non è solo un programma di studio, ma un modo per creare un ponte fra i cuori delle persone, superando barriere culturali e pregiudizi. Un modo per promuovere la pace». Non poteva essere più attuale.
(Corriere della Sera, 15 giugno 2024)