Dal 17 novembre 2021 una serie di sei incontri in Libreria aperti a ragazze e ragazzi dai 15 ai 25 anni.


PRIMO APPUNTAMENTO: mercoledì 17 novembre dalle ore 17 alle ore 18,30


La partecipazione è libera e gratuita previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it

Tre libri per ascoltare e scoprire la meravigliosa attualità di Virginia 

Orlando, il queer ante litteram 

Gita al faro, la parola che illumina le nuove protagoniste

Una stanza tutta per sé, come mettere radici all’autorità delle donne

Letture di Giordana Masotto.


Questo è il primo di una serie di sei incontri mensili aperti a ragazze e ragazzi dai 15 ai 25 anni. Gli incontri fanno parte del progetto Nei libri c’è la vita, ideato da enciclopediadelledonne.it per promuovere la lettura di grandi scrittrici e poete moderne e contemporanee.



Partner del progetto: Casa delle donne di Milano e Cinetaca di Milano. Con il sostegno di Fondazione Cariplo.


di Doranna Lupi


Discanto. Voci di donne sull’enciclica Fratelli tutti (AA.VV., Paoline, 2021) è un libro che raccoglie, nel panorama delle molte letture e dei molti commenti all’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco, contributi unicamente femminili. Questo però non è un testo che parla unicamente del tema delle donne, bensì le autrici esprimono da donne le loro reazioni senza vittimismi o timori e manifestano le loro voci autorevoli, ponendosi come interlocutrici attraverso le modalità tipiche del femminismo: il partire da sé, la valorizzazione della propria esperienza nei contesti dove operano, lo sguardo sull’universale che non perde mai di vista il dato che l’umanità è due e che le tensioni tra sorelle e fratelli, nella chiesa come nella società, vanno affrontate superando ogni forma di apartheid mentale e culturale verso le donne.

È la voce di un gruppo di donne, alcune in relazione tra loro, appartenenti a diverse religioni, giornaliste, teologhe, insegnanti, sorelle religiose, tutte studiose accomunate dall’essere pensanti, che hanno accolto l’invito al dialogo di Papa Francesco, lasciandosi interpellare in maniera profonda, da differenti punti di vista.

«“Se la musica del vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provoca a lottare per la dignità di ogni uomo e donna.” Questo è il canto che intona Papa Francesco, il suo sogno che apre nell’enciclica il discorso sulla fraternità, con un linguaggio poetico e innovativo. Siamo tutti umani, siamo tutte creature che vivono nel mondo, occorre sognare insieme per coltivare il sogno di un’umanità migliore. Il cuore pulsante dell’enciclica resta sempre costruire questa fraternità che noi sappiamo essere anche sororità.» Lidia Maggi esorta il papa a non temere, in futuro, di sbilanciarsi; a continuare a rischiare quel linguaggio personale, capace di sorprenderci come pochi predicatori sanno fare, anche se parlare di fraternità universale dimenticando le tensioni tra fratelli e sorelle solleva un problema che non è solo linguistico.

Ci sono state, infatti, delle polemiche sul fatto che l’enciclica, ispirata da un’espressione di Francesco d’Assisi, s’intitolasse solo “Fratelli tutti” senza le sorelle, con una sorta di esclusione per tutte le donne. L’assenza del riferimento dal titolo delle sorelle non è neppure stata attenuata da un sottotitolo o da una parola al riguardo all’interno del testo.

Questa mancanza, spiega Maria Cristina Bartolomei, è dovuta a un’impostazione distorta che va smascherata e corretta alla radice. È essenziale che sia riconosciuta la necessità di soggettività e autorità femminile, nelle interazioni sociali.

Per questo la scelta del discanto, antica forma musicale che sviluppa una seconda linea melodica speculare alla prima, creando così un effetto armonico, è stata l’ispirazione per accostare e rendere presenti le sorelle accanto ai fratelli, con parole nate dalla loro competenza ed esperienza femminile del mondo.

Il papa usa spesso simbolicamente la figura geometrica del poliedro, dove al centro ci sono i poveri e intorno ci sono le periferie, ma le donne non sono la periferia del mondo perché stanno dentro ai processi della storia e non solo come vittime, anche se vengono considerate ancora tali da una società patriarcale e a volte anche da una chiesa che assume un volto patriarcale. La ricerca di dialogo che intesse tutta l’enciclica, dialogo con le religioni, dialogo con tutta l’umanità, a maggior ragione dovrebbe esserci con le donne.

«Solo chi è affetto da cecità storica da cecità politica e anche se vogliamo dire religiosa, non riesce a vedere questo protagonismo, ormai evidente. Per non vedere questa nuova realtà bisogna mettersi il burqa della mente», così Grazia Villa nel corso di una recente presentazione del libro.

I sogni si costruiscono insieme è il titolo del contributo di Rosanna Virgili che riprende le parole del papa contro la guerra e la pena di morte, affiancandole all’urlo d’impotenza contro la guerra, al dolore e alla pietà delle madri che attraversa come un filo rosso sangue tutta la bibbia, e va ascoltato. Il sogno diventerà realtà solo se uomini e donne lo faranno accadere insieme, altrimenti rimarrà solo un miraggio.

Come giungere a quest’umanità rinnovata, a questa “fraternità” universale? Uomini come Francesco d’Assisi e Benedetto, allo stesso modo di Gesù con Maddalena, si sono aperti nelle loro relazioni con Chiara e Scolastica, ai doni della sororità, allo spazio fecondo e profetico che si dà nell’accogliere anche le emozioni, il parlare che coinvolge sensi e affetti, pensieri e gesti.

La Chiesa cattolica ha molte cose da farsi perdonare, ma anche molto da offrire, spiega ancora Grazia Villa, a patto che sappia diventare «una Chiesa samaritana, maddalena e mariana» come viene affermato nel documento finale del Sinodo in Amazzonia, spogliata d’impalcature, orpelli, strutture anche patriarcali. Potrebbe così correre leggera verso lo stesso sogno di un’umanità risorta: Visto poi che “i sogni si costruiscono insieme”, il sogno diventerà realtà solo se le donne lo faranno ancora accadere.


(www.libreriadelledonne.it, 15 novembre 2021)

di Elvira Serra


Stefania Bertè ha 33 anni, lavora in una società di consulenza e questa settimana andrà in maternità. Cosa c’è di strano? Niente. E tutto. Perché Stefania ha ricevuto l’offerta di lavoro, dopo una selezione molto lunga, alla metà di aprile, negli stessi giorni in cui ha scoperto di essere incinta. Quando il suo attuale responsabile l’ha chiamata per comunicarle la notizia (lei aveva già un contratto a tempo indeterminato in un’altra azienda), ha replicato spiazzandolo: grazie, ma anche io devo darvi una notizia, aspetto un bambino. Era pronta a un arrivederci e grazie. Invece si è sentita dire congratulazioni e, dopo un ultimo rapido consulto interno: l’assumiamo. L’azienda si chiama Tack Tmi (Gi Group), ha una cinquantina di dipendenti e un’amministratrice delegata, Irene Vecchione, mamma di una bambina di dieci anni. Quando le abbiamo chiesto quanto avesse contato essere madre nella scelta di supportare la candidatura di una donna incinta, ha risposto che sicuramente la sua esperienza privata le dà, in generale, una maggiore capacità empatica. Ma, soprattutto, che non se la sentiva di penalizzare la candidata con i requisiti migliori in tutte le fasi di selezione per la maternità imminente, che non poteva diventare un handicap.

Cecilia, questo è il nome scelto da Stefania e da suo padre Aldo, nascerà intorno a Natale e ci ricorda due cose. La prima è che le donne al vertice possono davvero fare la differenza (ed è quello su cui si stanno impegnando le manager entrate nei cda delle società italiane quotate in borsa grazie alla legge Golfo-Mosca: erano il 7% nel 2011, ora sono il 41%). E che non si può parlare di donne e lavoro sui giornali, alla radio e in televisione, e chiedersi perché sono penalizzate, senza sceglierle come interlocutrici privilegiate. L’Italia non è un Paese per mamme. Ce lo dicono le statistiche (nel 2020 ci sono state 42 mila dimissioni di genitori di bambini da zero a tre anni, e il 77% erano donne) e ce lo dicono le testimonianze di chi ancora si sente chiedere, in fase di colloquio, se desidera avere figli (l’odiosa consuetudine delle dimissioni in bianco, scongiurata dalla legge che convalida esclusivamente quelle comunicate per via telematica, ha trovato un nuovo alleato nel mobbing). Ma l’Italia può cambiare e deve farlo. E non può riuscirci senza ascoltare, questa volta, prima le donne.


(Corriere della Sera, apparso col titolo “L’Italia non è (ancora) un paese per mamme”, https://www.corriere.it/opinioni/21_novembre_14/italia-non-ancora-paese-mamme, 15 novembre 2021)

di Laura Fortini


Vi è da chiedersi se abbia contributo il successo del fenomeno Ferrante nel mondo e in Italia a convincere Mondadori della necessità di ripubblicare Dalla parte di lei di Alba de Céspedes (1949, Mondadori 2021, introduzione di Melania Mazzucco, pp. 554, euro 15), di fatto scomparso insieme alle altre sue opere dal mercato editoriale ormai da moltissimi anni, introvabile anche il Meridiano in cui sono stati riproposti solo parte dei suoi romanzi nel 2011: introvabili anche nell’usato e finanche nelle librerie antiquarie al punto che mi ha chiesto una volta un libraio cosa diavolo fosse successo con i libri di de Céspedes, che tutte cercavano e nessuno trovava più.

Si può quindi solo salutare con entusiasmo la riedizione di Dalla parte di lei, che si spera sia pronuba alle altre notevoli opere di Alba de Céspedes, scrittrice che ha attraversato il Novecento con passo pieno e sovrano, affrontando volta per volta questioni che solo apparentemente possono essere collocate nell’ormai tramontata categoria della “scrittura femminile”, anche se ogni tanto anch’essa torna a fare capolino nella critica letteraria, più vetusta però.

La voce narrante di Alessandra, la protagonista di Dalla parte di lei, è la voce delle donne che attraversarono la seconda guerra mondiale e la resistenza acquisendo progressivamente forza del proprio sentire e del proprio vivere e arrivando così finalmente alla conquista del diritto al voto nel 1945, grazie alle donne che si batterono per esso nell’assemblea costituente: ed è quindi la voce di tutte le donne in tutte le guerre e resistenze al mondo. Ma ancora più è la voce delle donne che si congedano dal patriarcato con atti irremovibili e irredimibili quali quelli dell’assassinio simbolico del marito integerrimo e esemplare, ma colpevolmente ignaro di che cosa significhi il valore della differenza nel progetto di un mondo nuovo quale quello che le donne allora sognavano e che speravano dopo tanto patire: ovvero il rispetto e l’adozione di un alfabeto delle emozioni fatto di attenzione al mondo sì ma declinato sulla cura di sé e all’altra/o, un progetto di felicità personale e collettiva talmente rivoluzionario da arrivare fino ai giorni nostri. Quando Alessandra si accorge che il mondo nuovo nel quale ha sperato non vi sarà, se ne separa in modo definitivo perché sente in pericolo la propria vita, la propria integrità.

Si potrebbe parafrasare per questo romanzo il bellissimo saggio della antichista Nicole Loraux Come uccidere tragicamente una donna – tradotto in Italia da Laterza nel 1985 e anch’esso ormai introvabile –, che osserva come «è a causa degli uomini che le donne muoiono; per loro, molto spesso, si uccidono». L’Alessandra di Dalla parte di lei mette fine alle Anna Karenina della storia e con esse simbolicamente al patriarcato, uccidendo tragicamente un uomo e non un uomo cattivo e brutale, ma un uomo che non ha capito né voluto comprendere il valore delle donne.

Un libro bellissimo, da leggere e rileggere, che chiosa passo passo cosa significhi diventare una donna, ogni volta nuova e diversa da quante ci precedono e grazie anche a loro, a quante hanno scritto, pensato, riflettuto, agito. Alba de Céspedes è sicuramente tra queste: scrittrice, giornalista, direttrice dal 1944 della rivista “Mercurio” che accolse i primi scritti dell’Italia libera dalla dittatura e dalla lunga notte del fascismo, poeta delle filles de mai del Sessantotto, drammaturga e sceneggiatrice per il cinema, la Rai e la televisione, la sua vita ha caratteristiche di tale versatilità che sembra quasi riduttivo definirla solo un’intellettuale tale e tanta è stata la sua energia vitale, glielo scrive Maria Bellonci già in una lettera del 1948.

Vi è però da chiedersi come mai si sia scelto di riproporre l’edizione del 1994, che non ha la partizione dell’edizione che ha circolato in Italia dal 1949 al 1976, che ha venduto innumerevoli copie e che si è continuato a leggere fino ad oggi. Quella del 1994 ora riproposta è infatti la versione approntata da Alba de Céspedes per l’edizione statunitense, di ben 150 pagine in meno, confluita nel Meridiano che raccoglie parte dei romanzi della scrittrice, ma diversa e lontana da quel Dalla parte di lei che la tradizione di lettrici conosce bene. A partire dalla stessa Elena Ferrante che ne scrive nella Frantumaglia ponendo il romanzo in una sorta di proprio personale canone novecentesco, fatto di scrittrici, scrittori e libri come l’Adele di Tozzi, Dalla parte di lei di de Céspedes, Lettera all’Editore di Gianna Manzini, e poi Menzogna e sortilegio e l’Isola di Arturo di Elsa Morante e altri. Il libro che ha fatto buona compagnia a Elena Ferrante mentre scriveva le proprie opere è sicuramente il Dalla parte di lei in una delle molteplici edizioni che l’hanno proposto nella versione integrale, non nella redazione che de Céspedes sforbiciò per la traduzione statunitense del 1952, i cui tagli, come scrisse lei stessa in una lettera ad Arnoldo Mondadori del 21 novembre 1951, «sono stati fatti per assecondare la mentalità del semplicissimo pubblico americano» e non certo per il pubblico francese, ad esempio, come aveva già sottolineato in una lettera precedente.

De Céspedes predispose quindi per altri paesi una versione abbreviata del romanzo, non per l’Italia però, dove si è sempre letta l’edizione integrale, suddivisa in parti geograficamente e storicamente ripartite, secondo un’architettura dell’opera che de Céspedes abbastanza comprensibilmente voleva venisse letta dal pubblico italiano, che certo non riteneva semplicissimo come quello statunitense. Se è quindi comprensibile che l’editor Mondadori Antonio Franchini nel 1994 abbia pensato di proporre come una novità editoriale una nuova versione con i tagli allora effettuati, a oggi si tratta di una operazione poco comprensibile, che potrebbe corrispondere in parte forse all’ultima volontà dell’autrice, ma che poco corrisponde alla tradizione di lettura di uno dei libri più amati dalle lettrici italiane, il numero delle copie vendute sta lì a dimostrarlo.

Non va infatti sottovalutata l’importanza che le lettrici hanno avuto per le scrittrici tutte ma in particolare per Alba de Céspedes, pronta nel 1994, pur di ripubblicare dopo molti anni di circolazione delle sue opere già allora quasi clandestina, ad accettare sforbiciate a un’opera alla quale aveva lavorato fino all’ultimo momento ancora nel 1949, ma è stata la veste del 1949 – non quella del 1994 – che l’ha di fatto consegnata a un successo di pubblico senza precedenti: come del resto accaduto per molti altri classici, la lettura di un’opera letteraria fa parte della tradizione di un testo e sarebbe bene darle il giusto rilievo.

Chissà che comunque l’effetto Ferrante non porti alla riedizione (integrale, però) anche delle opere di Fabrizia Ramondino, data la contiguità evidente del ciclo de L’amica geniale con Un giorno e mezzo di Ramondino e al suo splendido teatro/oroscopo napoletano che conclude la pubblicazione del 1988, dal 2001 mai più in libreria come molte altre sue opere, nonostante Goffredo Fofi abbia ipotizzato a suo tempo che sotto il nome Elena Ferrante vi fosse Ramondino sotto mentite spoglie.

Si tratta di un discorso che può andare ben lontano, passando attraverso Paola Masino, di cui è stata riproposta recentemente solo Nascita e morte della massaia (2019) mentre mancano sostanzialmente all’appello i molti racconti (tranne Racconto grosso e altri riedito di recente), un romanzo importante come Periferia. E andando più oltre si arriva a Grazia Deledda, ormai relegata alla letteratura dell’Ottocento e alla Sardegna, il solo luogo dove si possano trovare le edizioni del Maestrale che insieme alle le ottime edizioni Ilisso hanno pubblicato volumi egregi con introduzioni e curatele eccellenti, come quelle di Giovanna Cerina ai numerosi volumi di racconti deleddiani, davvero notevoli. Ma occorre ancora ricordare che Grazia Deledda appartiene a pieno titolo al Novecento e che scrive fino al 1936, data di pubblicazione della bellissima autobiografia in terza persona Cosima, ancora oggi sostanzialmente reperibile in formato economico Oscar Mondadori con una introduzione di Vittorio Spinazzola del 1975? E che Deledda è la prima scrivere sempre nel 1936 ne La chiesa della solitudine cosa significhi per una donna scoprire di avere un cancro al seno, malattia di cui morì lei stessa? Le costellazioni delle scrittrici e delle lettrici hanno scie luminose fatte da tante luci e la loro forza è un vortice che potrebbe piegare anche gli editori più recalcitranti.


(il manifesto, 13 novembre 2021)


L’ultimo romanzo di Laura Pariani, Apriti, mare! è una distopia che si muta in favola: eventi terribili hanno fatto collassare il mondo di prima e ucciso tutti gli adulti sopra i quindici anni, azzerando ogni memoria; in seguito ha prevalso una società gerarchica e patriarcale, ferocemente misogina, ma un gruppo di bambine camminanti – lo Sciame – si sottrae al destino previsto e fugge in cerca della terra-senza-paura. In dialogo con l’autrice Francesca Graziani e Mirella Maifreda.

Accesso con Green Passdocumento d’identità mascherina.

Per acquistare online: Apriti, mare!


di Antonella Nappi



Sono convinta che il sistema capitalistico patriarcale sia spaventato dalla presa di spazio pubblico in atto da parte delle donne. Queste in molte parti del mondo contrastano le politiche economiche maschili, il dominio della finanza, del profitto e della legge del più forte. Le donne limitano la presenza simbolica dell’uomo, la devalorizzano. L’essere due: maschi e femmine a contrattare il governo del mondo si fa sempre più stringente ed è l’alternativa al dominio maschile e al sistema capitalistico.
Le donne sono “l’altro” per l’uomo e illuminano tutto ciò che ha sostanziato la vita umana senza riceverne consapevolezza e valore. Le persone ci stanno guardando e possiamo modificare la dinamica politica complessiva: quella sociale, economica e culturale.
I due corpi sessuati che la natura ci ha dato per vivere e divenire persone sono oggi interpretabili liberamente da ciascuna e ciascuno per esistere e agire in molte parti del mondo; le norme della divisione dei compiti e dei sentimenti, delle emozioni e dei desideri che il patriarcato aveva imposto hanno lasciato spazio alle nostre scelte e capacità, ora dovremmo poter comunicare e contrattare tra donne e uomini ma ancora non è facile perché gli uomini non sono abituati a farlo.
La natura ci dà limiti, e oltre al corpo ce ne sono molti altri; la realizzazione sociale di noi stessi in questi limiti ci avvantaggia perché ci permette di costruire in un contesto dimensionato che possiamo governare. Accettare i limiti personali, dimensionarci, parzializzarci e godere degli apporti degli altri che osserviamo e con cui ci relazioniamo mi dà realizzazione.
Il compito che alcune donne mi prospettano di addentrarmi nella futuribilità di piaceri sessuali immaginifici mi estenua, come tentare teorie che li governino.
Ho avuto e ho interessi che mi danno grandi piaceri erotici, come ho sentito dire a Stefano Sarfati alla Libreria delle donne tempo fa. L’erotismo si soddisfa con molte e diverse manifestazioni della vita: per me lo scambio affettivo con un uomo; l’amore estatico per l’intelligenza delle donne, le loro azioni politiche differenti da quelle dei maschi e le priorità che illustrano; i doni della natura.
Anche lo studio delle realtà, specie quella demografica e generazionale, perché su queste vorrei ci si orientasse a organizzare la società in modo responsabile: dal contenimento numerico delle gravidanze, alla valorizzazione delle esperienze delle persone anziane nel lavoro e nella politica, dando immagine che l’età sia una ricchezza relazionale.
Il confronto con i nuovi e vecchi movimenti politici che trattano di sessualità e lotta al patriarcato ha segnato per me qualche frustrazione e preoccupazione dove li ho sentiti aggressivi nei miei confronti; e nei confronti dei movimenti delle donne che sviluppano la loro cultura politica di alterità a quella degli uomini dando significato al conflitto tra due polarità.
È facile amare le differenze quando non ti intralciano, certo, ma non è detto che i progetti politici differenti si debbano per forza intralciare, possono essere ragionati.
Alcune donne, non poche nel mondo della contestazione al patriarcato, chiamano colonizzate quelle attratte sessualmente dai maschi. Esiste in effetti una competizione intorno alla norma sessuale: non è facile sostenersi da sole nella propria unicità senza desiderare di abbassare il valore di chi è diversa da noi. Allo stesso modo finiscono per monopolizzare agli occhi della popolazione l’amore per le donne, quell’amore: intellettuale, civile, politico che con tanta volontà il femminismo ha creato e reso discriminante nei rapporti sociali, viene oscurato. Riportato nel campo sessuale: della coppia, della famiglia o del libertinaggio, risulta più semplice da intendersi, conferma una tradizione di investimenti; perde rilevanza lo spostamento operato dal femminismo nelle priorità delle donne che ci ha portate a investire nella vita pubblica, cercando di restituire a questa affetto e carnalità, umanità. Lo si nota in un diffuso sospetto verso il femminismo che molte donne rilevano nelle amiche, come al contrario si rileva nelle ragazze che vivono difficoltà nel comunicare con i maschi il cogliere dal femminismo l’indicazione di rivolgersi alle donne anche sessualmente.
Il trans-femminismo ci ha rubato il nome per un movimento che è altro dal nostro: sembra rivalutare l’appetibilità della differenza dei generi di matrice maschile, proprio quelle descrizioni normate di uomini e donne che le femministe avevano intaccato e che il mondo maschile insiste però nel buttarci addosso. Vorremmo permettere alle identità di divenire più personali e libere a partire dalle esperienze del proprio corpo e dalle sue azioni, dalle peculiarità di ciascuna. Forse però noi donne e uomini non ci accorgiamo della carica sessuale che sprigioniamo spontaneamente, ma anche che carichiamo, nei e nelle trans vediamo la caricatura, ma la stessa cosa in noi ci pare legittima.
Il trans-femminismo ho pensato negasse la differenza biologica come dato reale e necessario alla vita personale per pensare, pensarsi e agirsi; nega in realtà di averne ricevuta una chiara e accettabile al suo desiderio o la sente diversa da quella che appare. La natura è complessa, i poli sessuali forse permettono molte gradazioni. Non è una condizione facile e va detta, saputa, rispettata.
Perché stupirsi però del fatto che questa problematica non investa direttamente il movimento femminista e respingere, nel voler dichiarare un sesso, la soluzione di dirsi maschi o femmina o entrambi con un riferimento al percorso biologico ed esperienziale condotto? Sentirsi diversi è un trauma che in parte ciascuna e ciascuno conosce, il femminismo ha voluto dichiararlo, renderlo la forza soggettiva di ogni donna, forse per questo da noi ci si aspetta un aiuto. È quello di indagare i propri disagi con ogni mezzo disponibile e avere la forza e sentire l’onore di dichiararsi per come ci si sente, documentare il proprio percorso e rivendicare di essere un gruppo sociale. Questo lavoro non è e non deve risultare sminuente. Al contrario, l’ampliamento di analisi della realtà e non la sua riduzione è la pratica che facciamo e riteniamo utile.
Trans-fobia, come omo-fobia sono definizioni che rimandano alla malattia mentale; ritorcere gli insulti contro chi ci ha insultato lo facciamo tutti, ma è cattiva politica, non indica una direzione di cambiamento.
Anche il tentativo di conquistare nuove norme nella lingua italiana che facciano scomparire la differenza di maschi e femmine è di matrice maschile: riappare l’umano iperpotente del patriarcato a comprendere entrambi i sessi senza che alcuna e alcuno possano dire e confrontare le loro esperienze. Appare una tavola pulita, che il “portatore d’organi” che se ne impossessa riempirà degli organi che gli servono.
Ho paura che i maschi abbiano il sopravvento ancora nel loro rimontare la leadership traballante maschile, ad esempio nel campo della maternità dove si guadagnano figli che perdono le madri perché i padri se ne disfano!
Sono le coppie sterili ad aver aperto la strada alle operazioni tecniche del prendere l’ovulo di una donna e metterlo in un’altra donna, così che finita la gravidanza il bambino venga consegnato. Ma è una ricerca scientifica dominata dal profitto ad averle sollecitate. Con la tecnologia diventa possibile che la relazione con se stessi non accetti più alcun limite e quella con gli altri non abbia per noi alcun peso? Lo sfruttamento del lavoro torna a essere senza regole e pervade di nuovo l’intero corpo? È un ritorno alla celebrazione della ragione del più forte come pratica comune?
La tecnologia indirizza il consenso verso un futuro di desideri pretesi e non guadagnati con il confronto, il ragionamento, la mediazione. È imposta dallo sviluppo capitalistico e finanziario che con questa si alimentano e vuole liberarci dal rapporto che abbiamo con noi stessi e con gli altri, proprio dalle fatiche che ci hanno fatti e ci fanno umani!
È facile in questa confusione volare sopra il conflitto tra maschi e femmine ma il conflitto sta lì, per tutti.
Il sistema capitalistico maschile fa politica per i suoi interessi ogni minuto, confonde e manipola, contrappone e svia i movimenti dal contrastare il sistema economico, gonfia quelli che non interferiscono con l’economia o che addirittura ne favoriscono rami di interesse, esaspera richieste che mettono i cittadini in contrasto tra loro e poi se ne libera.


(#ViaDogana3, www.libreriadelledonne.it, 13 novembre 2021)

di Antonietta Lelario


Il discorso che fa risalire la crisi dell’occidente ai guasti del capitalismo senza riconoscere che quest’ultimo è figlio del patriarcato è un parlare inefficace e monco. Salta ciò che è essenziale per una critica radicale: il riconoscimento del sapere delle donne e della sua necessità. A partire da quel sapere si è aperta una profonda discussione su che cosa voglia dire sottrarsi alle misure date e ritrovare, invece, una misura nella vita. L’elaborazione femminile, sviluppatasi in questi anni, mostra bisogni e desideri che mettono in discussione l’esistente e aprono strade per tutti. Se non ci si confronta su questo e non si smascherano i meccanismi su cui si è retto l’ordine patriarcale, la risposta politica non potrà che essere povera simbolicamente e politicamente. All’elaborazione femminile dà un contributo Laura Marchetti con un piccolo ma prezioso libretto, Matria (ed. Marotta e Cafiero, pp. 86, euro 10) nel quale ricorda come la subordinazione della donna operata dal patriarcato sia il segno di un ordine del mondo che, separando corpo e anima, natura e spiritualità e gerarchizzando, strumentalizzando, desacralizzando la physis, ha giustificato ogni violenza.

L’autrice affronta da questa prospettiva il ruolo degli Stati Nazione e fa vedere come non siano in grado di affrontare la crisi economica, politica e istituzionale in atto perché anzi ne sono la causa. Sono infatti evidenti i rischi per l’umanità della logica concorrenziale che è alla base delle loro relazioni, la rapina e la spartizione a cui sottopongono i beni necessari come terra, acqua, risorse naturali. A questo contribuisce l’idea di patria con i suoi confini e i suoi muri, i suoi apparati di difesa e di sorveglianza interna che non sono stati scalfiti nemmeno dal processo di globalizzazione in corso. «La critica al razzismo e al colonialismo, l’ecologia, il femminismo, l’apertura e il dialogo con culture altre, hanno fatto ritrovare un paradigma alternativo» dice Laura Marchetti per il quale lei, ispirandosi ai fratelli Grimm, propone il termine Matria. La Matria rimette al centro la casa materna, una terra in cui risuonano le canzoni, i giochi, le fiabe raccontate dalle mamme, luogo di nutrimento dei legami affettivi e spirituali, spazio della memoria e dell’infanzia. Nella casa della madre, nella Matria appunto, e nelle fiabe, ha trovato rifugio durante il patriarcato un’idea di Natura come corpo vivo, per cui un albero ferito può dire ahi! ed essere ascoltato, dove gli animali ci parlano e chiunque può andare nel bosco a far legna.

Nelle fiabe la natura svela, con i suoi aspetti terribili, le nostre paure, ma ci permette anche di elaborare una visione del mondo che non le cancella. E dalla casa della madre questo sentimento è passato nella cultura popolare. Non a caso nella lingua comune si è continuato a dire «madre natura» conservando il carattere sacro e animato della Natura che la cultura ufficiale stava cancellando, riducendola a protesi meccanicistica dell’uomo. Marchetti mostra come questa prospettiva sia riconducibile a tutto un filone di sapere – vedi Walter Benjamin, Hannah Arendt, Edgar Morin, Carolyn Merchant – a cui lei vuole restituire forza perché vede in questa prospettiva una possibilità di incontro fra quanti vogliono ritrovare il senso della politica come philia. Fra le grandi questioni aperte dalle donne c’è quella della lingua, come mostra il saggio La lingua materna della comunità filosofica Diotima. L’autrice la riprende con riferimento alla lingualatte dei fratelli Grimm, «la lingua che ciascuno beve con amore, ricevendola, come il latte dalle carezze e dalla voce della madre», una sorta di «grembo materno della storia e della diversità linguistica». La scelta del neologismo Matria contribuisce al processo di risignificazione della madre fondamentale per il superamento del patriarcato: un processo politico ed esistenziale insieme, che genera la riconversione dal lamento alla gratitudine, dall’insignificanza simbolica della madre al suo essere fondamento di un altro ordine di senso, come mostra il saggio L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro e recentemente il film di Pedro Almodóvar: Madres paralelas. Laura Marchetti è stata attiva nel movimento dei Verdi, ha accettato di essere sottosegretaria all’Ambiente del governo Prodi nel 2006 e insegna all’Università, mostrando con la sua vita che una donna può stare dappertutto con indipendenza simbolica e con fedeltà alla storia delle donne.


(il manifesto, 12 novembre 2021)

di Sara Manuela Cacioppo e Ivana Margarese


Proponiamo questa bella intervista ad Annie Ernaux in cui si inventa un genere per le sue opere: l’auto-sociobiographie. Già qualche anno fa in un’intervista pubblicata in Francia i lavori di questa scrittrice venivano definiti in negativo: non è autobiografia, non è storia, non è romanzo, non è… Con Luciana Tavernini allora avevamo detto: «È storia vivente». Un consiglio è quello di leggere i suoi libri seguendo l’ordine dell’elaborazione dell’autrice e non quelli della pubblicazione in italiano (Marina Santini per la Redazione del sito).


Annie Ernaux è una scrittrice coraggiosa e certamente un’innovatrice. Il suo stile intimo e analitico non lascia spazio alle mezze misure, ai coinvolgimenti tiepidi. Il lettore ne è comunque toccato. Ernaux ha il coraggio di raccontarsi, di aprire il baule della memoria e di raccontare senza sconti i minima moralia dell’esistenza. Ha dato voce e spazio a ciò che rischiava di passare inosservato sommerso da false credenze e ipocrisie. La lettura è capace di farci prendere coscienza delle cose che ci sono state sempre intorno pur non avendone avuto mai piena coscienza. In tutti i suoi libri, editi da Gallimard e da L’Orma in Italia, la Ernaux intreccia l’esperienza individuale a quella sociale e collettiva. Così se in “La Place” e “La Honte” descrive l’ascesa sociale dei suoi genitori, in “La Femme gelée” si concentra sul suo matrimonio, mentre in “Passion simple”, “Se perdre” e “L’Occupation” narra delle sue passioni amorose spesso tormentate, fino ad affrontare temi delicati e di grande impatto sociale come l’aborto in “L’Événement”, la morte della madre in “Une femme” o l’anoressia, la bulimia e le prime esperienze sessuali in “Mémoire de fille”.

Il suo stile rivendica una scrittura neutra, “plate”, «che non valorizzi né svaluti i fatti raccontati». L’ultima frase del libro “Les années” offre una sintesi della sua scrittura e delle sue ambizioni: Sauver quelque chose du temps où l’on ne sera plus jamais, sauver toutes les images qui disparaîtront [Salvare qualcosa del tempo in cui non ci si troverà mai più, salvare tutte le immagini che scompariranno, Ndr].

Infine l’opera letteraria della Ernaux è influenzata da un approccio sociologico, in particolare dalle teorie di Pierre Bourdieu. La scrittrice opera dunque una ridefinizione dell’autobiografia trasformandola in un genere del tutto nuovo, l’auto-sociobiographie, in cui l’esperienza reale è raccontata da un je collectif, fulcro del legame indissolubile tra l’intimo e il sociale.

Sara Manuela Cacioppo: Nelle sue interviste così come nelle sue opere fa riferimento all’ambizione di agire sul pensiero tramite la scrittura. La sua écriture engagée contribuisce a correggere le ingiustizie sociali, a partire dalle differenze di genere e sessualità. In “La Femme gelée” [La donna gelata], trasforma l’inconfessabile repulsione e orrore per la propria vita-prigione in un percorso di liberazione e dolorosa presa di coscienza.

Elle a trente ans, elle est professeur, mariée à un « cadre », mère de deux enfants. Elle habite un appartement agréable. Pourtant, c’est une femme gelée. C’est-à-dire que, comme des milliers d’autres femmes, elle a senti l’élan, la curiosité, toute une force heureuse présente en elle se figer au fil des jours entre les courses, le dîner à préparer, le bain des enfants, son travail d’enseignante. Tout ce que l’on dit être la condition « normale » d’une femme [Ha trent’anni, è professoressa, spostata a un “quadro”, madre di due figli. Abita in un appartamento gradevole. Eppure, è una donna gelata. Vale a dire che, come migliaia di altre donne, ha sentito slancio, curiosità, tutta una forza felice presente in lei immobilizzarsi con lo scorrere dei giorni tra la spesa, la cena da preparare, il bagno dei bambini, il suo lavoro di insegnante. Tutto ciò che si definisce la condizione “normale” di una donna, Ndt].

Crede nel «potere politico» della letteratura?

Sì, cos’è la politica se non la voglia di cambiare le cose affinché non restino fisse, immutabili nel tempo che scorre? Vede, nella mia scrittura, anzi nel mio desiderio di scrivere c’è una speranza di poter cambiare, di poter migliorare il presente così come il futuro. Il cambiamento non sarà di certo globale né accadrà nell’immediato, ma sono convinta che toccherà il singolo, che le mie parole agiranno sulle coscienze individuali. L’accettazione del cambiamento da parte del lettore dipende anche dal rapporto che istaura con il libro che ha fra le mani. La lettura è capace di farci prendere coscienza delle cose che ci sono state sempre intorno pur non avendone avuto mai piena coscienza.

Quindi alla sua domanda rispondo sì, credo che i libri possano agire sul modo, credo che l’io di qualcuno possa agire su quello di un altro. Tuttavia, è necessario che i libri non siano solo riflesso dell’intimo, ma anche della società. È con questa convinzione che nel 1981 ho scritto “La Femme gelée” (La donna gelata), in cui, come lei ha efficacemente spiegato, denuncio l’ingiustizia secondo cui le donne, a causa del loro sesso di nascita, siano obbligate a occuparsi delle faccende domestiche e dei bambini. Quando il librò uscì fece scalpore perché a quell’epoca non era abituale parlare di tali questioni liberamente come oggi. Pertanto ha ragione, l’ho scritto con la speranza di cambiare la società, di pretendere giustizia per le donne.

Sara Manuela Cacioppo: Lei rivendica uno stile di scrittura “reale” senza metafore o “espressioni eleganti”, quasi una forma di scrittura “documentaria”. Per andare oltre le gerarchie sociali e letterarie, mescola temi e registri linguistici, raccontando il mondo in un modo che è allo stesso tempo storico e individuale. “Fotografa” l’esperienza umana rivelandone le cangianti e talora oscure sfaccettature. La sua scrittura è un vero e proprio esperimento sia sul piano formale che contenutistico. Essa rifiuta l’autofiction a favore della verità, dell’esperienza intima del singolo che diventa “parola-confessione” e poi universalità. Pensa di aver inventato nuove “immagini” in letteratura?

Sono parolone importanti, eh! Però è vero, le ho usate anch’io riferendomi al mio modo di scrivere. Ripercorrendo nella mente il mio percorso letterario, penso di avere portato qualcosa di nuovo in letteratura, soprattutto nel ripensare la scrittura autobiografica, rendendola una scrittura non solo dell’intimità ma del sociale, una scrittura capace di evocare anche la sfera politica in cui è calato il mondo in cui viviamo. Questo mélange fra intimo e sociale non esisteva nella letteratura degli anni ottanta e novanta del secolo scorso. Posso rivelarle che in effetti ho sempre voluto cercare una forma adatta al pensiero che volevo esprimere, che sentivo il bisogno di comunicare. Questa ricerca stilistica continua mi ha permesso di rivoluzionare non solo il contenuto ma anche la forma tradizionale del testo letterario. La mia scrittura è ricerca del reale, del reale sociale, del reale collettivo, del reale delle donne. Quindi, in un certo senso, sì ho cercato di portare nuove immagini in letteratura, ho cercato di cambiare la letteratura, apportando il mio contributo nella grande rivoluzione delle forme letterarie cominciata molti anni fa.

Sara Manuela Cacioppo: Lei ha affermato che «i libri danno spesso una visione maschile del mondo». In che modo le sue opere si impegnano a contrastare questa manipolazione invisibile?

Sono assolutamente convinta che viviamo assoggettati a una visione maschile del mondo, viviamo sotto l’egemonia dello sguardo maschile, quello che gli inglesi chiamano the male gaze. Lotto da sempre, con tutte le forze, per annientare questa visione dominante con il potere della scrittura. Tutti i miei libri sono pervasi da questo desiderio di rivalsa, ed è per questo che sono raccontati dallo sguardo di una donna, dagli occhi con cui una donna vede il mondo. Fin da subito il mio obiettivo è stato quello di mettere in luce una visione del mondo tutta al femminile, così ho raccontato le esperienze delle donne, le loro sofferenze, passioni, sensazioni. L’ho fatto già a partire dal primissimo libro che parlava di aborto, un tema importante su cui sono ritornata più tardi nel libro “L’événement” [L’evento]. Invece il motivo che mi ha spinta a scrivere “Les années” [Gli anni] non era quello di lottare contro l’imposizione dello sguardo maschile, ma di mostrare come lo scorrere del tempo fosse percepito dalle donne in modo del tutto diverso rispetto agli uomini. Racconto la storia della Francia dagli anni quaranta fino ai giorni nostri, filtrata dalla sensibilità femminile: se lo avessi scritto secondo la visione maschile, di sicuro il risultato finale del libro sarebbe stato molto diverso. In “Les années” insisto sulle metamorfosi che le donne hanno subito, sugli eventi che le hanno cambiate: ripenso alle donne degli anni cinquanta, ripenso a mia madre paragonandola alla donna che sono oggi, alla donna del tutto diversa dal passato che sono diventata. Al centro del libro infatti vi è proprio questa evoluzione della donna nel tempo, in un confronto inesauribile fra ciò che era e ciò che è, fra il passato e il presente.

Sara Manuela Cacioppo : Ammiro la sua capacità di descrivere la sessualità femminile senza reticenze né pudicizie. In “Mémoire de fille” [Memoria di ragazza] racconta la sua prima notte di sesso con un uomo alla colonia di S. nell’Orne. L’esperienza sessuale si diffonde ferocemente attraverso il suo corpo, intaccando ogni parte di lei, persino il suo futuro. La penetrazione del corpo e dello “spirito” risuona nella sua memoria, producendo immagini indelebili, di dolore e annientamento del sé.

La scrittura infatti rende possibile la decostruzione dell’io martoriato e al contempo la sua ricostruzione. Il processo di rimemorazione intrappola nella scrittura il ricordo, la sofferenza, tutto resta immobile nelle parole. L’esperienza personale trova il suo compimento fra le pagine, ed è lì che deve essere “abbandonata” per andare avanti. Tale trasformazione e rinascita per mezzo dell’atto di scrittura, richiede una coraggiosa rinuncia al dolore, alla falsità, all’ipocrisia verso se stessi, in un continuo conflitto tra accettazione e resa. In «Mémoire de fille » scrive: J’ai voulu l’oublier aussi cette fille. L’oublier vraiment, c’est-à-dire ne plus avoir envie d’écrire sur elle [L’ho voluta dimenticare anch’io quella ragazza. Dimenticarla veramente, cioè non aver più voglia di scrivere su di lei]. Eppure non l’ha dimenticata, non è così? Quella ragazza è intrappolata nel libro, ma non l’ha dimenticata.

No, mai. Non posso dimenticare la ragazza che sono stata, non si può dimenticare un trauma subito, soprattutto quando accade qualcosa che intacca l’essere nella sua completezza. Quando si subisce un trauma talmente grande da avere un impatto sia sulla tua intera giovinezza che sul tuo rapporto con gli uomini, la vita ne è condizionata per sempre. Traumi del genere non possono essere cancellati dalla memoria. Non posso dimenticare chi sono stata.

Per riallacciarmi anche al discorso di prima: non so se conosce lo scrittore francese, Serge Doubrovsky, morto qualche anno fa. Lui, in uno dei suoi libri scritto circa negli anni novanta, prova a ricordarsi della prima ragazza con cui ha fatto l’amore, scrive, scrive, cerca di ricordare, ma mentre le pagine si susseguono il ricordo non emerge. Ecco, vede? Questo per me è assurdo, oserei dire scandaloso. Questo esempio che le ho fatto mostra la profonda differenza, non solo fisica ma ontologica, fra l’essere maschile e femminile: io non potrei mai dimenticare un’esperienza importante della mia vita o se la dimenticassi per sfortunati eventi che non dipendono dalla mia volontà, cercherei un modo per recuperarla.

Sara Manuela Cacioppo: Nel romanzo “L’Occupation” ritrae una gelosia ossessiva, una passion noire che infesta letteralmente il suo immaginario. Cos’è per lei la gelosia? Chi è l’être occupé [l’essere occupato]?

Partiamo dal presupposto che i miei libri provengono sempre da qualcosa che ho vissuto.

Infatti anche questo libro è una storia vera…

Lo è assolutamente… Io penso che sia naturale, che nella scrittura ci siano sempre “segni di verità”. Per rispondere alla sua domanda, la gelosia è il contrario della passione ma è passione essa stessa, una passione oscura. Il termine occupé descrive la sensazione di essere riempiti completamente da qualcun altro, riempiti nella mente e nel corpo. L’être occupé vive appunto una passion noire, cioè una passione negativa che implica due persone: la persona di cui vorrebbe possedere l’amore in maniera completa, totalizzante, e l’altra persona che ha preso il suo posto accanto all’uomo che amava e che rivorrebbe con sé. L’occupante principale diventa allora non l’uomo di cui è innamorata, ma l’altra, colei che l’ha sostituta. L’occupazione è la scomparsa di sé stessi a causa dell’altro, è un déplacement, uno spostamento dell’oggetto amato. Come può capire, è un’esperienza estremamente interessante, ma estremamente dolorosa.

Sara Manuela Cacioppo: In un’intervista rilasciata a Fréderic-Yves Jeannet (L’Écriture comme un couteau, 2011), ha dichiarato: «Non mi considero un’entità singola, io sono una somma di esperienze, di determinazioni sociali, storiche, sessuali e di linguaggi continuamente in dialogo con il mondo. L’esperienza forma necessariamente una soggettività unica, ma io uso tale soggettività per trovare e rivelare meccanismi o fenomeni più generali e collettivi». L’influenza dell’approccio sociologico è evidente nei suoi scritti, possiamo parlare in effetti di auto-sociobiographie. Dunque nelle storie che racconta l’intimo è sempre legato al sociale?

Certamente. Noi siamo “esseri sociali”. Siamo individui immersi in un ambiente sociale definito, non esseri fluttuanti. Abbiamo, è ovvio, una psicologia soggettiva, ma anche quest’ultima in quanto formatasi in una collettività è sempre condizionata dalla storia e dall’ambiente sociale in cui siamo nati e cresciuti. È per questo che nei miei libri intreccio l’intimo al sociale, sono quasi imprescindibili. In essi troverete sempre una dimensione che definirei sessuata e sociale.

Ivana Margarese: In Una donna riporta in epigrafe un’affermazione di Hegel secondo cui la contraddizione, che sembrerebbe impossibile da pensare, è nel dolore di chi vive qualcosa di reale. Allo stesso modo leggere libri è un’appassionante maniera di voler comprendere il mondo, che deve arrestarsi tuttavia nell’ammettere che il modo in cui ci guardano gli altri rimane comunque più potente di qualsiasi libro. La cultura non può proteggere da tutto. C’è in effetti nella sua scrittura, a mio parere, un esercizio ossimorico nella tessitura continua di parti lacerate, nella tensione tra ciò che soffoca e ciò che apre ad altro e nel coniugare insieme ironia e entusiasmo.

La mia scrittura è una continua riflessione. Quando mi metto a scrivere infatti rifletto su ogni affermazione, su tutto ciò che quell’affermazione può significare, su tutto ciò che può essere vero così come su ciò che può non esserlo. Cerco di spiegarmi. Quello che intendo è che ogni scrittura è sempre un interrogarsi sulle cose del reale. E questo è uno dei motivi per cui ho inserito la frase di Hegel in epigrafe nel libro “Una donna”. Tutto quello che dico su mia madre in questo libro, lo potrei dire in un altro modo. So bene che ci sono cose di lei che non conosco, quello che scrivo del resto è solo il mio punto di vista.

Ivana Margarese: Vorrei fare una domanda sul rapporto col materno e sul valore simbolico e culturale della figura della madre a cominciare dall’esempio della Vergine Maria e del suo essere immacolata, senza macchia, ombre e egoismi. Il ritratto che offre di sua madre nei suoi libri è tutt’altro che piatto e rassicurante. Emerge sia una vitalità, una capacità di condividere il desiderio, sia una durezza che deriva anche dalla frustrazione di quello stesso desiderio. Per me, come figlia e forse come madre in futuro, è fondamentale riconoscere e accettare l’ambivalenza del rapporto con la madre, il senso di accettazione che coesiste con quello di paura e la capacità di riconoscere entrambi. Qual è la sua opinione sull’argomento?

Penso che la relazione che intercorre fra una madre e sua figlia sia sempre molto ambigua, nel senso che è difficile sia da percepire con lucidità, che da raccontare o da cogliere nelle sue sfumature complesse. È un rapporto che evolve con gli anni, non è fisso o immutabile e come tale deve essere compreso e interiorizzato. Tornando al libro citato in precedenza, “Una donna”, le posso dire che se lo scrivessi da capo, non potrei scriverlo uguale perché il tempo è passato. Se oggi riscrivessi quel libro su mia madre, magari lo scriverei in modo diverso.

Ivana Margarese: Ha dei particolari riti di scrittura?

Diciamo di sì. Scrivo al mattino, ma devo essere sola, non posso scrivere se ci sono persone intorno o dei familiari in casa. Questi sono i miei riti abituali, per il resto scrivo tanto al computer che a mano.

Ivana Margarese: Vorrei parlare di una questione complessa: l’aborto. In Italia, dove la legge 194 dovrebbe essere un diritto acquisito da più di quarant’anni, forse per la forte influenza cattolica il numero di obiettori di coscienza ha raggiunto cifre inaudite. L’aborto è ancora un argomento poco discusso, associato al senso di colpa e al rimpianto.  Lei invece ha avuto il coraggio di parlare dell’aborto, dando voce a molte donne attraverso la sua esperienza. Cosa pensa che si possa imparare e trasmettere attraverso il dialogo su questa esperienza?

Tempo fa non era possibile scrivere sull’aborto in modo esplicito poiché quest’ultimo era formalmente proibito in Francia a causa della legge del 1920, che è stata abolita, pensi, solo nel 1975. Prima non si poteva scrivere di aborto se non sotto forma di allusione, mai con estrema chiarezza o completezza nel riportare i fatti. Inoltre parlando di aborto non si poteva scrivere in prima persona e mai in modo autobiografico. Quando si è potuto trattare l’argomento in maniera schietta, era già passato del tempo e quell’esperienza sembrava un ricordo conservato nella memoria, ma fissato sulla carta. Ecco, penso che la letteratura possa avere un ruolo importante in tal senso: nel fissare l’esperienza del singolo e al contempo della collettività di cui egli fa parte.

Ciò che conta per me è descrivere le mentalità, le evoluzioni della società e i suoi diversi aspetti e problematiche, così come i modi di vivere, le novità che fanno andare avanti il mondo, i cambiamenti storici della società francese.

Ivana Margarese: Uno dei compiti della filosofia è la ricerca della verità, la comprensione della realtà senza pretese. La sua scrittura è anche una ricerca della verità. Mi piacerebbe poter tracciare una possibile genealogia dei “filosofi” che hanno segnato il suo modo di pensare e di scrivere.

Di sicuro Simone de Beauvoir, i suoi scritti hanno influenzato la mia vita, il mio modo di pensare, ma prima di lei ricordo Jean-Paul Sartre: leggere La nausée [La nausea] da ragazza è stato per me un vero e proprio shock. In ambito letterario invece potrei elencare molti autori che mi hanno profondamente segnata, ad esempio i grandi scrittori americani, in particolare ricordo il libro Les Racines de la colère [The Grapes of Wrath] di Steinbeck, e poi sicuramente Virginia Woolf, l’ho letta quando avevo venticinque anni, l’ho amata molto e l’amo ancora.

Ivana Margarese: Sta già scrivendo il prossimo libro?

Sì, lo sto scrivendo, è un libro importante in termini di “estensione temporale” nel senso che copre parecchi anni personali, ma li racconta in modo diverso rispetto al libro che ho già pubblicato, “Les années”.

Biografia

Annie Ernaux è nata a Lillebonne (Senna Marittima) nel 1940 ed è una delle voci più autorevoli del panorama culturale francese. Studiata e pubblicata in tutto il mondo, la sua opera è stata consacrata dall’editore Gallimard, che ne ha raccolto gli scritti principali in un unico volume nella prestigiosa collana Quarto. Nei suoi libri ha reinventato i modi e le possibilità dell’autobiografia, trasformando il racconto della propria vita in acuminato strumento di indagine sociale, politica ed esistenziale. Considerata un classico contemporaneo, è amata da generazioni di lettori e studenti. Finora L’orma editore ha pubblicato Il posto, Gli anni, vincitore del Premio Strega Europeo 2016, L’altra figlia, Memoria di ragazza, Una donna, vincitore del Premio Gregor von Rezzori 2019, La vergogna, L’evento e La donna gelata.


(Traduzione di Sara Manuela Cacioppo, https://www.vocidallisola.it/2021/11/12/annie-ernaux-lintervista, 12 novembre 2021)

di Antonio Piemontese


Glasgow – Margaret è nata e vive in un villaggio in Kenya. La responsabilità di procurare acqua alla famiglia è sua. Per dare modo al marito e ai figli di cucinare, bere, lavarsi percorre diverse volte al giorno, a piedi, i due chilometri che la separano dal laghetto vicino. Per questo non può lavorare. Un piccolo prestito da una ong le ha permesso di acquistare un serbatoio per l’acqua piovana grazie a cui si è sgravata dei viaggi quotidiani, ha potuto avviare un’attività di sarta e contribuire diversamente al bilancio familiare, oltre a guadagnare indipendenza economica.

Il legame tra genere e cambiamento climatico

Quella di Margaret non è una storia isolata, come emerge durante i negoziati di Cop26, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite in corso a Glasgow. Il nesso tra genere e cambiamenti climatici esiste, anche se poco pubblicizzato. «Oltre il 70% dei poveri del mondo è rappresentato da donne, così come l’80% dei migranti climatici – raccontava a Wired allo Youth4Climate a Milano Julieta Martínez, giovane attivista cilena, citando dati delle Nazioni Unite, oggi in Scozia per seguire i lavori di Cop26  –. Ma queste cose nessuno le sa».

Storie difficili da raccontare, ancora più da credere. «Alle ragazze latinoamericane e asiatiche spesso non viene insegnato a nuotare» scrive la International Union for Conservation of Nature, una ong svizzera. In Bangladesh, prosegue l’associazione, durante le alluvioni molte donne sono morte per annegamento aspettando i mariti, senza i quali non potevano uscire di casa, invece di mettersi in salvo. E l’Europa? Durante l’ondata di caldo del 2003, solo il 25% dei deceduti era di sesso maschile. Non va meglio negli Stati Uniti. Durante l’uragano Kathrina nel 2005, più di metà dei nuclei familiari poveri era costituito da madri single, dipendenti dalle reti sociali e di solidarietà costruite nel quartiere per le esigenze quotidiane. La tempesta ha distrutto questo tessuto, gettando le giovani nella disperazione.

Da inclusione a leadership

«Donne e ragazze sono spesso colpite in maniera sproporzionata dal cambiamento climatico e si confrontano con grossi rischi e difficoltà a causa del suo impatto, specialmente in situazioni di povertà», recita una dichiarazione firmata a Glasgow sotto l’egida di Un Women, l’agenzia delle Nazioni Unite dedicata alle donna, e delle autorità scozzesi.

Non è la prima volta che il tema trova spazio nelle conferenze internazionali. Nel 2014 è stato creato il primo Lima Work Program on Gender per aumentare il bilanciamento e la presenza di tematiche di genere nel lavoro delle parti e del segretariato. Un percorso che pare aver mostrato i suoi frutti. E che esula dalla povertà. «Se anche solo due anni fa, nella Cop25, si parlava di inclusione femminile, a Cop26 si parla di leadership. Mi sembra un bel passo avanti», ha affermato la sociologa Agustina Lo Bianco a Cop26 parlando di donne e scienza. «Ma nel nostro paese una dottoranda che resta incinta è costretta a vivere d’aria per cinque mesi», nota Elena Egidio, giovane candidata al PhD presente in Scozia come osservatrice.

Le delegazioni più rosa

E poi c’è la politica. A Cop26 le donne nelle delegazioni sono aumentate, passando dal 12% in media delle prime edizioni al 38% di oggi. Yemen, Turkmenistan, Corea del Nord e Vaticano hanno compagini completamente maschili. Ma anche il Giappone non brilla: tra 225 delegati, solo 45 sono donne. Maglia rosa, invece, a Moldavia (89%), Samoa (79%) e Messico (78%), che registrano la più alta presenza femminile. E una delle donne che più ha fatto sentire la sua voce è la prima ministra di Barbados Mia Mottley, autrice di un discorso ispiratissimo e potente, in cui ha inchiodato i grandi leader alle proprie responsabilità nei primi giorni dei negoziati.

Se un portato c’è già dal punto di vista del genere, è quello di aver aperto i dati sulle conseguenze della crisi del clima sulle donne. Numeri disponibili da anni che, però, nessuno si era dato pena di leggere. «Vogliamo che sia riconosciuto l’impatto differente del climate change sulla base di fattori come età, genere, disabilità e provenienza», scrive ancora Un Women. Alla luce del nuovo clima politico, riflessioni da lungo attese, in grado di scuotere anche i più tiepidi.


(Wired.it, 10 novembre 2021)

di Franca Fortunato


Varcare la soglia dei settant’anni, quando il passato è più del futuro, andare in pensione, fare bilanci, tirare le fila di una vita, trasferire i ricordi dalla memoria alla scrittura, è quello che fa Ilda Boccassini nel suo libro “La stanza numero 30 – Cronache di una vita” (Feltrinelli), ripercorrendo indietro nel tempo 40 anni di gioie e dolori, sprazzi di felicità e momenti di abisso. Da quella stanza, al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, dove arrivò giovanissima dalla sua Napoli con un figlio piccolo, ha portato avanti le sue indagini, celebrato processi, diventando incubo e bersaglio per mafiosi, corrotti e corruttori, politici potenti come Silvio Berlusconi e Cesare Previti, magistrati sedotti dalle lusinghe del potere e del denaro. Quarant’anni di battaglie, di delusioni e sofferenze ma anche di conferme, soddisfazioni e solidarietà di tante donne e uomini. Sempre pronta, dalla medesima stanza, a respingere insulti, minacce di morte e di stupro, insinuazioni, false accuse, attacchi feroci, tentativi di delegittimazione, di rimozione, da parte di un potere politico economico e massmediale bestiale, che fa di tutto per “difendersi dal processo” fino a piegare il Parlamento agli interessi di una sola persona, Silvio Berlusconi, e a ricorrere a iniziative eversive come l’irruzione di 100 parlamentari del Popolo delle Libertà nel palazzo di giustizia durante il primo processo “Ruby”, al grido “persecuzione giudiziaria”. Il libro ha il grande merito, attraverso una delle protagoniste, di restituire alla memoria e alla coscienza collettiva un pezzo di storia del nostro presente e il clima di intimidazioni e di paura verso quei magistrati, come Ilda, colpevoli di non essere scesi, come altri, a compromessi con il potere. Quanta spregiudicatezza nella proposta di Berlusconi al Quirinale! È “Ilda la rossa”, dal colore dei suoi folti riccioli, “la selvaggia”, “l’indomita”, “l’inavvicinabile”, “l’incorruttibile”, la femminista dalle collane vistose, un modo “per spezzare la tristezza” e dire: “Se pensate di piegarmi, di spegnermi, vi sbagliate”. È Ilda, la donna bella e coraggiosa, fedele a se stessa che sfida i pregiudizi sulle donne in magistratura, che porta sempre gli occhiali da sole come difesa “prima da un ambiente che non conosceva” e “poi da una malvagità” che aveva “imparato a conoscere” insieme a gelosie, odio, invidie di chi cerca di colpevolizzarla quando lascia i figli a Milano per trasferirsi in Sicilia e indagare sulla strage di Capaci, come aveva promesso in quel freddo obitorio a Giovanni Falcone, il magistrato avversato in vita e glorificato da morto. Davanti a quel corpo straziato giurò a se stessa e a lui che avrebbe “fatto qualsiasi cosa perché il suo lavoro non andasse perduto”, che avrebbe “protetto la sua memoria”, che avrebbe “sempre agito in un modo che lo avrebbe reso orgoglioso” di lei. E così è stato, in nome di quell’amore “dell’anima” fatto di affetto sincero e profondo, di amicizia vera, stima e ammirazione smisurata, che la legava a lui da vivo e da morto. Un amore che commuove, di cui racconta con grande rispetto di sé e di Falcone, e con delicatezza per i morti e per i vivi. Ne scrive dopo trent’anni da quella morte per liberarsi “dai demoni” e potersi aprire alla vita che le resta da vivere, e così, pacificata con se stessa, può lasciarlo andare a riposare accanto a colei che la morte ha unito per l’eternità. Un libro bello, utile, che dedica «alle donne dell’Afghanistan e alla loro lotta per la libertà». A lei un grazie per la magistrata che è stata e per la donna che è ed è sempre stata.


(Il Quotidiano del Sud, 12 novembre 2021)



di Ilaria Sirito



In questi giorni sta circolando sui social l’appello di una ragazza vittima di un molestatore che, presentandosi come ginecologo, l’ha contattata telefonicamente e le ha rivolto domande intime.
Divulgando la notizia, la ragazza ha raccolto testimonianze simili: sempre più giovani donne rivelano di essere state contattate dallo stesso uomo con modalità identiche e adesso il caso è diventato nazionale.
Casi come questo sono senza dubbio singolari per le modalità, ma non certo per la dinamica di fondo: le donne sono sistematicamente oggetto di molestie sessuali da parte degli uomini. Ed è essenziale parlarne, e farlo in questi termini – donne e uomini.
È per questo che alla domanda chiave dell’incontro della Libreria del 10 ottobre scorso, se sia possibile trovare un punto di incontro tra femminismo della differenza e teorie queer, alcune voci decise rispondono un secco “no”: risulta difficile riuscire a parlare di donne, di esperienze femminili e delle ipotesi per un futuro basato su tali esperienze, che derivano da una commistione di aspetti corporei e sociali, se ci si confronta con una cultura che di donne non parla, preferendo termini alternativi come “portatrici di utero”. Ed effettivamente espressioni come questa non ci permettono di ritrovarci in un vissuto comune, fatto sì di biologia ma anche di socializzazione, nostra e degli altri nei nostri confronti. Le donne non subiscono molestie come quella che ho raccontato nei paragrafi sopra perché sono “portatrici di utero”, né perché si identificano come donne. È l’eredità di una storia che sulla nostra biologia ha costruito dei ruoli che persistono nell’influenzare i comportamenti nostri e altrui a determinare episodi come questo. E per parlarne, abbiamo bisogno di un terreno comune e di parole con le quali ri-conoscerci.
Tuttavia, come è anche stato fatto notare all’incontro in Libreria, i fenomeni che vediamo verificarsi nella cultura queer sono mossi, tra le altre cose, da un bisogno che il femminismo della differenza conosce bene: smantellare i costrutti sociali, i ruoli e le norme di genere che pongono il potere nelle mani degli uomini e che opprimono le donne. Tra i temi più importanti che circolano negli ambienti queer vi è la critica alla cis-etero-normatività intesa come la norma sessuale e comportamentale che si accompagna all’essere uomo e all’essere donna. Insomma, se i ruoli di genere diverranno obsoleti anche grazie alle teorie queer, non potremmo esserne più felici. Anzi, è proprio in questa spinta anti-tradizionalista che femminismo e teorie queer convergono.
Rimane però al femminismo della differenza l’arduo compito di parlare alle donne mentre distrugge il concetto di donna tradizionalmente inteso – un compito la cui difficoltà è intrinseca e attribuibile solo parzialmente al movimento queer. Quest’ultimo tutela le identità non binary e trans, il femminismo ha come obiettivo la libertà delle donne (comprese quelle che “donna” l’hanno rifiutata come identità e come parola) anche attraverso una critica del concetto patriarcale di donna.
Un obiettivo che, a mio parere, è possibile portare avanti anche attraverso il dialogo con chi si identifica come queer, specialmente nelle più giovani generazioni non ancora giunte alla cristallizzazione del dibattito.



(#ViaDogana3 – www.libreriadelledonne.it, 10 novembre 2021)

di Giuseppe Sedia


Varsavia – Spinti dal regime di Minsk verso la frontiera con la Polonia e respinti indietro a colpi di lacrimogeni dalla polizia polacca. Tra i tre e i quattromila migranti ieri si sono trovati tra due fuochi, strumento involontario degli «attacchi ibridi» del dittatore Aleksandr Lukashenko, che li utilizza per punire l’Unione europea per le sanzioni adottate contro il Paese. Ma anche vittime del governo di Varsavia, che lungo il confine con la Bielorussa ha schierato ormai 22 mila uomini pur di impedire a una massa sempre più numerosa di disperati di attraversare il suo territorio per arrivare in Germania. «Siamo pronti a difendere la frontiera», ha ribadito anche ieri il ministro polacco della Difesa Mariusz Błaszczak.

È un confine sempre più caldo quello tra Polonia e Bielorussia, al punto che la crisi dei migranti creata ad arte da Minsk rischia adesso di sconfinare verso scenari imprevedibili quanto pericolosi. Con la Nato, chiamata in causa dell’ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, oggi leader dell’opposizione al governo populista di Diritto e giustizia (Pis), attenta a quanto accade e «pronta ad assistere gli alleati», dall’altra parte, Mosca che difende e giustifica il regime bielorusso.

Gli sconfinamenti, in verità, vanno avanti da agosto ma mai si erano visti così tanti migranti provare a entrare tutti insieme in territorio polacco come ieri quando al checkpoint di Kuźnica è arrivato un fiume di uomini, donne e bambini che camminavano in fila verso il confine «scortati» dalla polizia di frontiera bielorussa. Ed è proprio nei dintorni di questo villaggio della Podlachia, nel profondo nordest del paese, che la voce di un buco nella rete della recinzione avrebbe convinto i profughi a tentare il tutto per tutto nella giornata di ieri. Secondo fonti riportate dal portale polacco di giornalismo investigativo Oko.press, la maggior parte delle persone confluite a piedi verso il confine polacco provenivano da una manifestazione organizzata dai migranti iracheni presenti in Bielorussia.

Nel pomeriggio poi una parte della recinzione di filo spinato ha cominciato a cedere in più punti. «I bielorussi vogliono provocare un incidente di dimensioni significative, preferibilmente con proiettili sparati e vittime», ha dichiarato il viceministro degli Esteri polacco, Piotr Wawrzyk. Anche se ai giornalisti in Polonia resta vietato l’accesso alla zona chiusa di tre chilometri lungo la frontiera con il vicino, è stato quasi impossibile non accorgersi di questa massa umana fotografata a più riprese dall’alto e sorvegliata da un elicottero militare polacco.

Fino a ieri, in attesa della costruzione di un muro vero e proprio, la strategia di respingimento indiscriminato, messa in atto dal Pis aveva funzionato. Ma con questi numeri a saltare sono tutti gli schemi. A Kuźnica è successo di tutto. Esercito e polizia hanno utilizzato lacrimogeni per disperdere i migranti, mentre alcuni profughi hanno provato a sfondare le recinzioni utilizzato tronchi di alberi a mo’ di arieti. Tuttavia, c’è anche chi in patria continua a dare prova di solidarietà nei confronti di esseri umani usati come pedine di un gioco politico imprevedibile e crudele che al momento coinvolge Varsavia, Minsk e Bruxelles. Dalle luci verdi accese all’esterno delle abitazioni dagli abitanti dei villaggi polacchi di confine per segnalare la propria disponibilità a offrire soccorso ai migranti, passando per gli appelli firmati da personalità della cultura, c’è anche una Polonia che sembra disposta ad aiutare il prossimo, o quanto meno, pronta a indignarsi. In una lettera indirizzata al Consiglio d’Europa e al parlamento europeo le premio Nobel per la letteratura Svjatlana Aleksievič, Elfriede Jelinek, Herta Müller e Olga Tokarczuk denunciano la «catastrofe umanitaria» che si consuma ogni giorno al confine.

Con migliaia di soldati schierati nella zona, Varsavia spera di poter gestire l’emergenza senza coinvolgere Bruxelles. Un eventuale coinvolgimento di Frontex potrebbe essere interpretato come un cedimento all’idea di sovranità che il Pis vuole continuare a trasmettere ai suoi elettori, dopo aver detto «nie» nel 2015 al ricollocamento forzato di immigrati sul proprio territorio. Intanto il tema della crisi migratoria verrà affrontato «con urgenza» la settimana prossima dai ministri degli Esteri. «Invito gli Stati membri ad approvare finalmente il regime di sanzioni esteso alle autorità bielorusse responsabili di questo attacco ibrido», ha chiesto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.


(il manifesto, 9 novembre 2021)

delle firmatarie


Al presidente del Consiglio europeo

Charles Michel

Al Presidente del Parlamento europeo

David Sassoli

Ai membri del Parlamento europeo


Il governo polacco ha imposto lo stato di emergenza nella striscia di confine tra la Polonia e la Bielorussia, impedendo così a medici e infermieri di aiutare i malati e i moribondi nella zona di confine e bloccando l’accesso dei media alla tragedia che sta avvenendo lì. Tuttavia, bastano anche le informazioni incomplete e frammentarie per dare un’idea dell’immensa catastrofe umanitaria che si sta verificando al confine dell’Unione europea. Sappiamo che lì le persone subiscono la spietata procedura dei respingimenti e sono esposte alla fame, all’esaurimento e all’ipotermia nelle paludi.

Agenzie di viaggio bielorusse controllate dal regime di Lukashenko promettono ai disperati, in cambio di grosse somme di denaro, di poter raggiungere il territorio dell’Ue. Le persone attirate a Minsk in questo modo vengono portate nei boschi vicini al confine tramite trasporti organizzati. Da lì vengono spinte con la forza in Polonia, e le guardie di frontiera polacche le respingono con forza verso la Bielorussia. Nei casi peggiori, con esito fatale. Di alcuni morti conosciamo il nome, altri muoiono in modo anonimo.

Ora, come cittadine dell’Ue, ci rivolgiamo ai rappresentanti dell’Europa democraticamente eletti: non distogliamo il nostro sguardo dalla tragedia!

Dobbiamo essere consapevoli che degli esseri umani sono usati come ostaggi in questa guerra ibrida. Queste pratiche diaboliche passeranno alla storia come esempi della versione moderna della crudeltà. Troppe volte nella storia dell’Europa ci siamo concessi di non sapere. Abbiamo chiuso gli occhi. Ci siamo tappati le orecchie. Abbiamo taciuto. Le esperienze del XX secolo ci hanno mostrato chiaramente che esiste una conoscenza scomoda e tormentosa. La maggior parte delle persone non ha voluto farsene toccare, per salvaguardare il proprio benessere. Oggi questa situazione si ripete.

Per noi, l’Unione europea è soprattutto una comunità morale transnazionale, basata sulle regole della solidarietà interpersonale. Questo ci autorizza a sollecitare una presa di posizione univoca. Comprendiamo che non è facile far fronte all’assalto della disperazione ai confini dell’Europa. Tuttavia, ciò che stiamo permettendo che accada a queste frontiere non corrisponde ai nostri valori europei fondamentali.

Facciamo appello a voi per risolvere questa crisi umanitaria nel modo più rapido ed efficace possibile, tenendo conto della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e in particolare, per concedere l’accesso alla procedura d’asilo a tutti coloro che lo richiedono e che attualmente sono bloccati al confine orientale dell’Ue.

Chiediamo una vasta iniziativa diplomatica nei paesi del Medio Oriente per contrastare la narrazione fuorviante del regime bielorusso, che mira ad attirare il maggior numero possibile di rifugiati disperati al confine polacco-bielorusso, con lo scopo di aggravare e destabilizzare la situazione politica in Polonia e in tutta l’Unione europea.

Soprattutto, chiediamo che le organizzazioni che possono fornire assistenza medica e legale abbiano accesso alla zona di confine.

Chiediamo che giornalisti e media accreditati possano accedere alla zona in stato di emergenza, condizione essenziale per fornire al pubblico informazioni complete e veritiere.

Ci sentiamo dolorosamente perplesse: sapere vuol dire essere consapevoli del male che sta avvenendo. La conoscenza dovrebbe essere seguita dall’azione.


Svjatlana Aleksiević

Elfriede Jelinek

Herta Müller

Olga Tokarczuk

Vincitrici di premi Nobel per la letteratura


(Frankfurter Allgemeine Zeitung, 9 novembre 2011 – traduzione di Traudel Sattler)

di Agenzia Nev


È uscito il consueto fascicolo della Federazione delle donne evangeliche in Italia. Il documento accompagna alla riflessione dal 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, fino al 10 dicembre, Giornata dei diritti umani. L’Agenzia Nev ne parla con la curatrice, Claudia Angeletti.


Il fascicolo “16 giorni per vincere la violenza” è scaricabile in formato PDF al seguente link. Si tratta dell’ormai consueto documento della Federazione delle donne evangeliche in Italia (FDEI) per accompagnare, giorno per giorno, a una riflessione sui temi della violenza contro le donne. Quest’anno il tema scelto è quello della prostituzione.

I “16 giorni contro la violenza” vanno dal 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, fino al 10 dicembre, Giornata dei diritti umani.

Il titolo del fascicolo FDEI per il 2021 è “Prostituzione non è libertà” e si trova come inserto cartaceo anche all’interno del settimanale Riforma n. 43 del 12 novembre 2021.

Abbiamo chiesto a Claudia Angeletti, redattrice del Notiziario FDEI e dell’opuscolo, nonché insegnante di lettere classiche e laureata in Scienze bibliche e teologiche, di raccontarci questo nuovo numero, frutto del lavoro collettivo, a più mani, di uomini e donne impegnate per contrastare ogni forma di violenza.

«Quest’anno parliamo di prostituzione come forma di violenza contro le donne. Sul tema avevamo già lavorato insieme all’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD), con una serie di incontri, che proseguiranno nei prossimi mesi. Anche l’OIVD ha contribuito alla stesura dei testi.

Il fascicolo è articolato su diverse pagine – spiega Angeletti –. Parliamo di aspetti normativi, di evoluzione del diritto dall’800 fino alla legge Merlin. Presentiamo in sintesi le proposte in discussione in Italia oggi. Potrete trovare, inoltre, un esame antropologico sulle radici della prostituzione. E, ancora, affrontiamo i temi del turismo sessuale, della prostituzione sul web e delle cause.

La povertà è alla base di questo fenomeno – prosegue ancora la curatrice del fascicolo –. Il 95% delle prostitute parte da una situazione di povertà economica, sociale e culturale. A motivo di questo si ritrovano coinvolte in contesti di tratta e sfruttamento, a opera di una criminalità organizzata che fa di questo commercio un business molto redditizio».

La prostituzione si trova infatti al terzo posto, dopo il traffico di armi e di droga, per quanto riguarda il guadagno di chi lo gestisce.

Il fallimento del modello tedesco e il “menu” disumano

Nel fascicolo si parla inoltre della vita sulla strada e della vita delle donne in luoghi come ad esempio la Germania, dove la prostituzione è regolamentata per legge e dove si potrebbe quasi parlare di “prostituzione di Stato”, denuncia Angeletti.

«Le norme in Germania nascono per tutela e controllo sanitario, ma se si vanno a vedere i “menu” presentati ai “clienti” – afferma ancora Angeletti – si potrà notare che questi ultimi possono pagare per ottenere pratiche allucinanti. Le condizioni di vita delle donne sono al limite della sopportazione umana».

La dottoressa Ingeborg Kraus, psicoterapeuta da anni impegnata nella cura di donne prostituite, esposte a stupro, vittime di violenze, sostiene che «l’obiettivo principale della legge, che voleva portare le donne fuori dall’oscurità, è totalmente fallito […]. Lo Stato tedesco, normalizzando la prostituzione e garantendo una totale decriminalizzazione dei compratori del sesso, ha contribuito a un enorme aumento della domanda. Il comportamento dei compratori di sesso è sempre più pervertito e violento e totalmente disumanizzante. Il messaggio ai “clienti’ è chiaro: c’è un “diritto” a comprare atti sessuali e “servizi” in modo del tutto legale; si può comprare una donna e pisciarle in faccia, fare stupri di gruppo, o costringerla a ingoiare sperma e nei “menu” dei bordelli sono offerti “servizi” ancora più orribili (che non si elencano qui)» si legge in una delle pagine del fascicolo.

Spesso, continua ancora Claudia Angeletti, «chi finisce nel giro della prostituzione ha subito violenze nell’infanzia. Questo porta in una spirale di violenza che si proietta in età adulta ed è difficile uscirne».

La selva oscura delle pulsioni maschili. Proposte

Un capitolo è dedicato alla “selva oscura delle pulsioni maschili”.

Sono due le cose da fare, secondo le redattrici: aprire canali per favorire l’uscita da queste reti e, prima ancora, promuovere azioni di educazione. Bisogna «chiamare in causa le famiglie, le chiese e la scuola per una sessualità libera e responsabile – dice ancora Angeletti –. Questi argomenti restano un tabù, tuttavia è il momento di fare un esame di coscienza, rispetto alle nuove generazioni che hanno facilità nel vendere il proprio corpo come se fosse una pratica di poco conto. Occorre chiamare in causa la società nel suo complesso. Anche con una nuova educazione all’affettività. Servono inoltre leggi più stringenti, o applicare quelle che ci sono, per punire i clienti e interrompere così la domanda. È la domanda a scatenare l’offerta, e su quella bisogna agire per impedire il traffico di esseri umani».

Il dibattito in proposito è «interessante e urgente, visti i dati sconcertanti riguardanti le relazioni sessuali a pagamento e visto il dibattito a livello legislativo su alcune proposte che vorrebbero cambiare o addirittura eliminare la legge Merlin. Come donne evangeliche – sottolinea la studiosa – non ci sembra una strada buona. Con tutti i suoi difetti, in quanto datata, questa legge ha una struttura valida. L’abolizione delle case chiuse e l’introduzione dei reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione sono due elementi di civiltà da mantenere».

Quanto all’immagine edulcorata e quasi “romantica” dei clienti come principi azzurri che «arrivano e risolvono i problemi, essa non corrisponde alla realtà. Attualmente, anzi, la situazione è ancora peggiorata. Tanto che la stragrande maggioranza delle prostitute sono oggetto di tratta. In Italia, come in Europa, per non parlare delle mete del turismo sessuale dove non esiste protezione né tutela per bambine, bambini e donne. In quei contesti le persone diventano oggetti passivi che non possono gestire il loro corpo».

“Sex-Work”. Fra libertà e illusione

C’è poi la questione, non solo linguistica, delle “lavoratrici del sesso”.

Chi si schiera a favore delle cosiddette sex workers, «termine accattivante che rappresenta una parte minima del fenomeno – conclude Angeletti –, quelle che riescono a “esercitare” autonomamente senza essere sfruttate vivono comunque in una situazione di libertà fittizia. A parte gli abusi, presenti anche in questa categoria minoritaria, il sistema è sempre lo stesso. Ed è un sistema in cui, intervenendo il denaro, con l’offerta soddisfi una domanda che di per sé è un fatto commerciale e non di relazione umana, dignitosa, paritaria e reciproca».

Il fascicolo contiene anche proposte di film e una bibliografia. Sarà a breve disponibile anche in inglese, tedesco e francese.


Scarica il fascicolo: Prostituzione non è libertà


(https://www.nev.it/nev/2021/11/09/16-giorni-contro-la-violenza-prostituzione-non-e-liberta/, 9 novembre 2021)


Grazie alle sue rivelazioni erano state arrestate 40 persone e denunciate altre 80, in gran parte appartenenti alla mafia albanese


Era disperata dopo che nel suo permesso di soggiorno era stato tolto lo stato di apolide e indicata la cittadinanza albanese. Per questo si è tolta la vita Adelina Sejdini, ex prostituta nata a Durazzo che ha fatto arrestare i suoi sfruttatori: grazie alle sue rivelazioni sono state arrestate 40 persone e denunciate altre 80, in gran parte appartenenti alla mafia albanese che controllava lo sfruttamento della prostituzione in tutta Italia.

Adelina viveva a Pavia ed era malata di tumore con frequenti ricoveri in ospedale al San Matteo. Più volte aveva chiesto di poter ottenere la cittadinanza italiana, opponendosi con tutte le sue forze alla cancellazione dello stato di apolide e all’assegnazione della cittadinanza albanese, il paese che aveva lasciato nel 1996 quando era arrivata in Italia a ventidue anni. A suo dire, nella sua nuova condizione avrebbe incontrato enormi difficoltà a vedersi assegnata una casa popolare. Inoltre una commissione medica l’aveva anche riconosciuta invalida al 100%: non poteva neanche trovarsi un lavoro.

Per protestare contro la burocrazia, alla fine di ottobre aveva deciso di andare a Roma, nonostante le sue precarie condizioni di salute, sperando di poter incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella o almeno alcuni funzionari del Ministero dell’Interno. Poi il 28 ottobre si è data fuoco. Soccorsa e trasportata all’ospedale Santo Spirito con gravi ustioni, la donna, su disposizione delle autorità, sarebbe dovuta rientrare a Pavia, ma è rimasta a Roma e sabato scorso si è tolta la vita lanciandosi da un cavalcavia ferroviario. Sulla tragedia sono in corso accertamenti da parte della Polizia Ferroviaria di Roma Termini.


(La Stampa, 9 novembre 2021)

di Tiziana Plebani


Potrei iniziare con una frase a effetto tipo: il potere se n’è sempre infischiato dei giovani. C’è del vero, come sappiamo. Eppure questa volta si è aperto un varco.

Se ha ragione Greta Thunberg di non essere soddisfatta dei risultati ancora insufficienti del G20 e soprattutto della COP26 tenutasi a Glasgow, non deve passare inosservato il cambiamento che c’è stato ed è sotto i nostri occhi, se vogliamo prestare la giusta attenzione. I giovani attivisti e attiviste del clima hanno fatto parte degli incontri ufficiali, sono stati al tavolo con i negoziatori, i funzionari e i ministri di ogni parte del mondo.

L’invito non può essere interpretato in mero senso paternalistico. L’urgenza del momento ha reso i giovani degli interlocutori come mai prima era accaduto: le loro istanze e i loro saperi, tutt’altro che espressione di un ingenuo ambientalismo, sono la misura di un confronto serrato e difficile tra la radicalità del benessere del pianeta, di cui sono portatori, e gli interessi di un modello di sviluppo che ha prodotto non solo sfruttamento, inquinamento, innalzamento climatico ma anche ingiustizia sociale ed economica ovunque.

Cosa mi colpisce di questi giovani? Siedono ai tavoli di concertazione con tranquilla sicurezza, sono preparati, organizzati. Noi li vediamo sfilare nelle piazze ma dietro questa visibilità pubblica c’è un grande lavoro e studio preparatorio e un’organizzazione a più livelli con strategie differenti. Fridays For Future ha creato negli anni una piattaforma comune e un luogo di aggregazione e discussione, mentre YOUNGO, l’Official Children’s and Youth Constituency dell’Unfccc (United Nations Framework Convention on Climate Change) ha obiettivi più politici e di rappresentanza: ha ottenuto di partecipare alla COP26 (con un’attivista anche italiana), e agli incontri preparatori, presentando la dichiarazione COY16 Global Youth Position, che riporta le opinioni di oltre 40.000 giovani leader climatici di tutto il mondo.

È una marcia di lungo periodo che questi giovani hanno percorso, non una fiammata a miccia corta, e la loro autorevolezza ha saputo imporsi con costanza e determinazione.

Se guardiamo dunque con attenzione la liturgia degli incontri politici internazionali, noteremo che lo schema è stato permeato da una novità che riguarda proprio l’inclusione, che non riesce a divenire mera assimilazione, di questi corpi, desideri e prospettive giovanili. E il metodo, la forma, la struttura sono stati intaccati e non è affatto poco, anche se per ora i risultati non sono all’altezza. Anche se a me scalda il cuore, come a Stefano Mancuso, l’impegno strappato al G20 di piantare mille miliardi di alberi entro il 2030.

Ma se prestiamo attenzione alle parole di Draghi pronunciate a Glasgow: «Dobbiamo coinvolgere i giovani, ci giudicheranno per le nostre azioni. Dobbiamo ascoltarli, ma soprattutto imparare da loro», salta agli occhi la svolta, appena iniziata ma già così significativa, nel rapporto tra generazioni. La trasmissione dei valori, delle priorità, delle istanze, non appare più a senso unico. I giovani hanno la forza di incarnare il futuro che è stato messo a repentaglio dalle generazioni precedenti, o meglio, dai loro rappresentati politici ma con il consenso silenzioso o meno della maggior parte. Sono un tribunale oltre che una parte che sa parlare per il benessere di tutta l’umanità e il mondo vivente.

E la loro novità accoglie un altro elemento di radicalità: la leadership femminile del movimento. Non si basa su quote, dibattiti parlamentari, leggi o percorsi di parità: l’autorevolezza femminile si basa sull’amore per il mondo e la difesa dei beni della terra e agisce di conseguenza. I nomi che sono apparsi sui media, l’ugandese Vanessa Nakate, la polacca Dominika Lasota, Mitzi Tan delle Filippine, oltre a Greta, sono solo l’avamposto di un movimento esteso, dai tratti femminili, espressione di un empowerment reale che avanza con chiarezza di intenti e pratiche.

Facciamo loro posto e insieme iniziamo a piantare i mille miliardi di alberi.


(Ytali.com, 8 novembre 2021)

di Marina Terragni


In particolare vìola l’articolo 3 che ci vuole uguali davanti alla legge. Alla coppia di uomini sarebbe infatti consentito mentire sullo status filiationis del bambino, cosa che non è mai permessa a una madre, sempre tenuta a dichiarare la verità sulla paternità del proprio figlio. In caso diverso, verrebbe sanzionata. Inaccettabile.

Il Tribunale di Milano ha ordinato al Comune di trascrivere integralmente l’atto di nascita con “due padri” di un bambino nato negli Stati Uniti da utero affittato e ovocita acquistato.

Dalla primavera del 2019 il Comune aveva sospeso le trascrizioni di questi atti di nascita, limitandosi alla trascrizione del solo padre biologico.

Qualche mese dopo una sentenza della Corte di Cassazione aveva confortato questa decisione, indicando la strada dell’adozione cosiddetta “in casi particolari” per il partner del padre biologico.

Successivamente un’altra sentenza, stavolta della Corte Costituzionale, aveva indicato la necessità che il legislatore – ovvero il Parlamento – individuasse una strada più rapida dell’adozione per le figlie e i figli di coppie dello stesso sesso, per la ragione che «la violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 – imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia – non possono ricadere su chi è nato».

Va tuttavia ricordato che in precedenza la stessa Corte costituzionale aveva ribadito la condanna della maternità surrogata, pratica che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», con il rischio di «sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate».

Sulla base dell’ultima sentenza della Corte Costituzionale invece il Tribunale di Milano ha ordinato la trascrizione integrale perché trattandosi di minori «la loro tutela non può essere sospesa a tempo indeterminato, nell’attesa che il legislatore vari la normativa».

Il Comune di Milano si è riservato di decidere dopo la lettura del decreto del Tribunale.

Ma il riconoscimento di “due padri”, oltre a non scoraggiare nei fatti il ricorso a utero in affitto (che è punito dalla legge solo quando praticato in Italia) violerebbe probabilmente l’art. 3 della Costituzione, che ci vuole uguali davanti alla legge.

Vediamo perché, con un semplice ragionamento.

Maria mette al mondo un bambino ed è senza dubbio sua madre, avendolo partorito (mater semper certa). Quanto alla paternità, se Maria è sposata o unita civilmente a un uomo, per la legge il padre è quell’uomo a meno di diversa dichiarazione da parte di Maria o di disconoscimento da parte del marito. Se invece Maria non è sposata né unita civilmente, sarà lei a indicare all’anagrafe – non è tenuta a farlo – il nome del padre: solo Maria può sapere chi è o, in alternativa, un test del Dna. Se Maria indicasse come padre biologico un uomo che non lo è, mentendo commetterebbe un reato contro lo status filiationis, ovvero priverebbe il bambino del diritto inalienabile di conoscere la verità sulle proprie origini.

Altro caso: Anna mette al mondo un bambino, è senza dubbio sua madre, non dichiara il padre biologico ma indica come “altra madre” Paola, una donna alla quale è unita civilmente o con la quale ha una relazione affettiva. Anche in questo caso la trascrizione integrale dell’atto di nascita costituirebbe un’alterazione di stato. Consentire la trascrizione integrale dell’atto di nascita con due madri, Anna che è effettivamente la madre e Paola che non lo è, significherebbe dire che Maria e Anna non sono uguali davanti alla leggeMaria non può mentire, ad Anna invece è consentito alterare lo status filiationis. Se invece Paola, compagna di Anna, accede all’adozione in casi particolari, avremo una madre (Anna) e una madre adottiva, Paola, e la verità sulle origini sarà preservata. Il caso di Anna può essere però complicato dal ricorso ad alcune tecniche di fecondazione assistita: succede infatti in alcuni casi che la gravidanza sia stata condotta da Anna, ma che l’ovocita sia di Paola, che è a tutti gli effetti la madre genetica del bambino. Va comunque detto che in questi casi quasi mai si ricorre a utero in affitto, che – ricordiamolo – in Italia è un reato (legge 40).

Ultimo caso: Giovanni e Marco (uniti civilmente o comunque in coppia) decidono di avere un figlio (genitori intenzionali) ricorrendo a utero in affitto o gestazione per altri all’estero, in uno dei pochi Paesi in cui l’utero in affitto non è reato – solo una ventina di Stati sugli oltre 200 nel mondo – e l’atto di nascita viene registrato integralmente in quel Paese, indicando i due uomini come entrambi padri. Il padre biologico sarà uno solo dei due (Giovanni o Marco), fatto che dovrebbe essere chiarito con test del Dna: è capitato anche che qualche clinica abbia utilizzato il seme di un terzo estraneo. La madre per contratto viene quasi sempre cancellata dal processo, e così la donna che ha venduto gli ovociti per realizzare il concepimento, quasi sempre due persone diverse. La registrazione integrale dell’atto di nascita in Italia, quindi oltre al padre biologico – ammesso che lo sia – anche il suo compagno riconosciuto come egualmente padre, è una palese alterazione dello status filiationise nega al bambino il diritto alla trascrizione sulla verità sulle proprie origini. Quindi la coppia Giovanni e Marco godrebbe di una “corsia preferenziale” rispetto a Maria, che è tenuta a non mentire sulle origini del bambino, e nel caso volesse attribuire il ruolo di padre a un uomo che non è il padre biologico dovrebbe necessariamente ricorrere all’adozione in casi particolari. Quindi Giovanni e Marco verrebbero in qualche modo “premiati”, essendo sollevati ad un tempo dal reato di alterazione di stato, e anche dal reato di ricorso a utero in affitto, ancorché realizzato all’estero e quindi non punibile in Italia (un ragionamento analogo si può svolgere nel caso di coppie eterosessuali che ricorrano a maternità surrogata).

In conclusione, la trascrizione integrale all’anagrafe degli atti di nascita di figli di coppie dello stesso sesso viola l’art. 3 della Costituzione che ci intende uguali davanti alla legge: per Maria vale una legge diversa da quella che vale per Anna e Paola, e per Giovanni e Marco. Se Maria vuole indicare come padre un uomo che non è il padre biologico deve ricorrere all’adozione in casi particolari. Nel caso di trascrizione integrale automatica dell’atto di nascita per i figli di coppie dello stesso sesso, senza dover ricorrere all’adozione in casi particolari, queste coppie godrebbero di un diritto che a Maria non è concesso.

Di più: la situazione di Anna e Paola e quella di Giovanni e Marco non sono assimilabili, benché in entrambi i casi si tratti di coppie dello stesso sesso. La differenza sessuale esiste, e nessuna legge può cancellarla. Nel caso di Anna e Paola la madre, semper certa, è nota, certezza che manca nel caso di Giovanni e Marco. Inoltre nel caso di Anna e Paola può esservi un contributo alla nascita da parte di entrambe le donne, quella che ha partorito e quella che ha messo a disposizione l’ovocita, situazione che merita un’attenta considerazione da parte del legislatore, e normalmente non viene commesso alcun reato nel concepimento; nel caso di Giovanni e Marco abbiamo solo un padre biologico, condizione che va accertata, e la filiazione è stata realizzata attraverso una pratica che in Italia è un reato severamente punito.

La strada maestra, quindi, nel caso dei figli di coppie dello stesso sesso – e in particolare di due uomini – resta l’adozione in casi particolari.

Ma soprattutto, quando si parla di nascita, la madre non può essere “parificata” al padre e deportata dalla posizione centrale che la natura le ha conferito. Il diritto deve saper rappresentare la differenza sessuale.


(Feministpost.it, 8 novembre 2021)


Dopo quasi tre mesi dalla presa del potere dei taleban, le scuole secondarie e superiori sono state riaperte anche per le ragazze nella sola provincia di Herat, nell’Afghanistan occidentale. Lo riferisce Tolo News, citando informazioni diffuse da un’associazione locale di insegnanti. Il ritorno in classe, secondo la stessa fonte, riguarderebbe 5mila studentesse dal settimo al dodicesimo anno di corso. Nel resto del Paese restano invece aperte per le allieve solo le scuole primarie.

Proprio da Herat, il 21 ottobre scorso, era stato lanciato un toccante appello per l’istruzione femminile. Protagonista la 15enne Sotooda Forotan, che era salita sul palco per leggere una poesia durante una cerimonia per commemorare la nascita del profeta Maometto, ma aveva stupito e commosso il pubblico con le sue parole: “Oggi, come rappresentante delle ragazze, voglio lanciare un messaggio che proviene dai nostri cuori. Sappiamo tutte che Herat è una città della conoscenza… perché allora le scuole devono restare chiuse per le studentesse?”.

Il video del discorso, diventato virale sui social media locali, aveva riacceso le proteste contro il bando all’educazione femminile, permessa a livello nazionale solo nelle scuole primarie, e accresciuto ulteriormente le pressioni sul governo taleban.


[…]


(Avvenire, 8 novembre 2021)

di Federico Gurgone


È in libreria, edito da Giunti, La preistoria è donna (pp. 300, euro 20) della storica francese Marylène Patou-Mathis, direttrice di ricerca presso il Cnrs e specialista nel comportamento dei Neanderthal. Come evidenzia l’eloquente sottotitolo – Una storia dell’invisibilità delle donne – il saggio chiarisce quel che sciaguratamente appare ancora necessario chiarire: le donne preistoriche non trascorrevano le giornate spazzando le grotte; la metà maschile della popolazione non può vantare alcuna esclusività nel contributo offerto all’evoluzione tecnica e culturale dell’umanità originaria. Ne discutiamo con l’autrice.

C’è una motivazione particolare che l’ha indotta a scrivere questo libro proprio in questo momento storico?

Per combattere luoghi comuni sulla preistoria che persistono nei testi scolastici, figuriamoci in un immaginario collettivo alimentato dalle superficiali ricostruzioni del modo di vivere dei nostri antenati divulgata dalle illustrazioni, dai film e dalla letteratura. La società occidentale è fortemente impregnata di patriarcato e la gender archaeology, diffusa nei paesi anglosassoni, è stata a malapena recepita dai colleghi europei.

Nel corso della mia carriera sono inciampata in pregiudizi metodologici viziati da presupposti sessisti. Dalla metà dell’Ottocento agli anni Ottanta del secolo scorso mai nessuno si è preso la briga di mettere in discussione un assioma: gli artefici delle innovazioni capaci di segnare il progresso sono maschi. Il controllo del fuoco, la grande caccia, l’arte rupestre? Merito loro. E basta.

Come è nato il postulato dell’inferiorità delle donne in quei contesti?

È stato a fatica costruito nei secoli, prima teorizzando una divisione dei compiti sulla base del genere, presumendo la diversa capacità dei sessi di svolgere una determinata attività, quindi gerarchizzando i compiti stessi, infine dando per scontati i risultati di tale elaborazione. La caccia, ritenuta tipicamente maschile, è stata considerata più nobile della raccolta, ovviamente femminile. L’educazione dei bambini e le mansioni domestiche richiedendo competenze sottovalutate, non potevano che interessare le sole donne. Seguendo questa falsariga gli uomini finirono progressivamente per confinarle nella sfera familiare, riservandosi la facoltà di gestire ogni affare connesso alla vita sociale, politica e culturale. In principio fu la religione a scolpire nella pietra il dogma della subordinazione delle donne, in seguito ci pensarono i medici, da Ippocrate a Cabanis, a decretare un’inferiorità femminile «per natura».

La scienza può forse aiutarci a ritrovare una giusta prospettiva?

La bio-geochimica permette, grazie all’analisi degli elementi contenuti nel collagene conservato nelle ossa, di conoscere la dieta di un individuo del Paleolitico. Non sono state riscontrate differenze nelle abitudini nutrizionali tra uomini e donne, per cui potremmo dedurne che i loro status sociali si equivalessero.

A conclusioni simili ci porta lo studio dei traumi presenti sulle ossa, indizio della ripetizione continuativa di una specifica azione dovuta alle occupazioni lavorative. Il Dna, inoltre, ha smascherato le attribuzioni di numerosi fossili che, nel dubbio, erano giudicati maschili. Il cosiddetto Uomo di Mentone, rinvenuto nel 1872 in una delle grotte dei Balzi Rossi, presso Ventimiglia, è stato giustamente ribattezzato la Donna del Caviglione.

Con nitidezza sempre maggiore si palesa l’incapacità dell’archeologia, qualora volesse, di mettere in relazione la professione con il genere.

Lo ribadisce la recente scoperta della tomba di una cacciatrice vissuta novemila anni fa sulle Ande peruviane. Nel continente americano – si è poi capito – le donne avrebbero costituito dal 30 al 50% del totale dei cacciatori. Ciò dimostra come la nozione di genere, binaria nel mondo occidentale contemporaneo, non fosse identica in quell’epoca e in quel luogo, per i quali possiamo benissimo immaginare una distribuzione degli incarichi in base all’abilità e all’esperienza. Magari cacciava e dipingeva semplicemente chi ne era capace. L’arte paleolitica raffigura principalmente animali. Quando troviamo figure umane, quasi al 90% sono femminili, a partire dalle famose Veneri. Senonché l’interpretazione delle statuette è stata appannaggio di studiosi uomini, i quali evidentemente hanno preferito far risalire a se stessi la loro creazione. Prove? Nessuna. Anzi, se esaminiamo le molteplici rappresentazioni di donne incinte e l’alta mortalità durante i parti, ci viene naturale ipotizzare che almeno una parte delle statuette sia stata scolpita da donne per altre donne, per esempio con la funzione di amuleti protettivi. E ormai è certo che molte delle impronte di mani in negativo sulle pareti delle grotte sono state apposte da donne. Forse i dipinti vicini sono stati realizzati da loro.

Sembra ovvio. Anche tra gli aborigeni d’Australia, se cercassimo confronti, incontreremmo un buon numero di riproduzioni pittoriche realizzate da artiste.

Ecco, l’etnoarcheologia. Di nuovo studiosi maschi: avendo notato un ruolo di genere nelle società occidentali prese in esame, dove sono gli uomini a cacciare, hanno dedotto per la preistoria una situazione analoga. Senza nemmeno tenere a mente che si può cambiare: se l’economia dei cacciatori-raccoglitori si è perpetuata, ciò non vale necessariamente anche per le strutture sociali, il modo di pensare, la cosmogonia e la percezione di genere.

Conosciamo il Paleolitico soprattutto da scavi effettuati in Europa e nel Vicino oriente. Il resto del mondo ha però ancora tanto da insegnare. In Africa il sistema matrilineare è stato per lungo tempo più frequente di quello patriarcale; lo stesso potrebbe essere accaduto in alcune società preistoriche.

Una rilettura della preistoria può favorire la costruzione di un futuro prossimo migliore?

Deve. A volte, nostro malgrado, abbiamo sentito l’urgenza di gerarchizzare popoli, sessi, culture, epoche. Tuttavia, se siamo qui è perché sia le donne sia gli uomini preistorici hanno saputo adattarsi al loro ambiente e risolvere i loro problemi. Sarebbe sufficiente cambiare i criteri con cui osserviamo il passato per accettare che patriarcato e violenza potrebbero non aver sempre convissuto con l’umanità. La speranza nasce da una constatazione: la storia non è fissa e nulla è immutabile. Il patriarcato è solo un fenomeno contingente: deve e può essere sostituito da una visione egualitaria.


(Alias-il manifesto, 6 novembre 2021)


Essere lesbiche significa situarsi al di fuori del campo del desiderio maschile. Una posizione che permette di sperimentare l’irriducibilità della differenza sessuale e «un rapporto bello e imprevisto, quello della preferenza amorosa tra due donne». Lo raccontano cinque attiviste nel libro Noi le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo, ed. Il dito e la luna, 2021. Ne discutiamo con Cristina Gramolini e Lucia Giansiracusa, due delle autrici. Introduce Silvia Baratella.


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