di Franca Fortunato


È bastato un documento della Commissione europea per una “inclusiva comunicazione” in cui si raccomandava di sostituire “festività” a “Natale” – una delle tante stupidità del cosiddetto linguaggio inclusivo – per sollevare le solite proteste delle destre in difesa della “tradizione” del Natale e “delle radici cristiane.” Il documento alla fine è stato ritirato, ma mi chiedo: dove sta il Natale? Dove stanno le radici cristiane?

Guardando questa Europa dei muri e dei fili spinati, una fortezza militarizzata attraversata da odio, ferocia e crudeltà verso altri esseri umani, mi viene da dire che il Natale è morto e con lui le radici cristiane. È morto alla frontiera polacca circondata di filo spinato, dove portare acqua e cibo alle/i migranti si rischia il carcere e nella foresta si lasciano morire di freddo e di fame creature piccole. È morto nelle acque del mare, dal Mediterraneo all’Egeo al Canale della Manica, dove si lasciano annegare uomini, donne, bambine/i, giovani come Maryam Amin, curda irachena, imbarcata con altri 26 migranti a Calais su un gommone mezzo sgonfio. Voleva raggiungere il fidanzato in Inghilterra. È morto a Ventimiglia con le ordinanze del sindaco di centrodestra con cui vieta ai “non residenti” “di abbeverarsi alle fontane pubbliche”, chiude l’unico campo di prima accoglienza della Croce Rossa e costringe le/i migranti a vivere sotto i ponti. È morto alla frontiera con la Francia dove la polizia respinge le/i migranti dopo aver tagliato a metà le loro scarpe con una fresa. È morto in una Europa che paga dittatori e torturatori di migranti, in Turchia come in Libia, e, in nome del profitto, consente alle multinazionali del farmaco di negare il vaccino anti Covid ai poveri della terra.

Ma in questa Europa c’è una terra lontana, periferica, dove il Natale è vivo. È la terra di mia madre, terra di accoglienza, di emigrazione, di solidarietà, di umanità che altri in questi ultimi anni hanno provato a sradicare con l’odio. Sono gli stessi che a ogni occasione rivendicano la tradizione del Natale e la propria cristianità. È la mia terra, la Calabria dove paesi come Roccella Ionica aprono le loro porte a chi arriva da lontano e le madri, come faceva la mia, lasciano aperte le porte di casa: «Trasiti, trasiti, accomodativi». È questo il senso del Natale in una Calabria che soccorre e non lascia morire chi è nel pericolo, che accoglie e non respinge. Natale è vivo negli uomini della Guardia costiera, dei Vigili del fuoco, della Croce rossa e delle forze di polizia che il 3 novembre a Roccella Ionica, sfidando la furia del mare, il vento e la tempesta, con una catena umana hanno salvato 74 migranti a bordo di una barca a vela. Natale è vivo negli occhi della giovane madre siriana che stringe a sé la sua creatura appena nata e la guarda come Maria guardava Gesù. Madre e figlia sono state soccorse, insieme ad altri 200 migranti, e portate in salvo a Roccella Ionica. La piccola è nata sul peschereccio su cui la madre in Turchia era stata costretta a salire, anche se prossima al parto. L’imbarcazione era alla deriva, c’era tempesta in mare, pioggia battente e forte vento, quando la giovane, aiutata da un’altra donna, dava alla luce la sua creatura nella cabina, la grotta della natività. È nata donna, di notte, al freddo e al gelo, con i migranti pastori e i re Magi accorsi per salvarla. Non importa a quale religione o meno appartenga sua madre, è una “cristiana”. «Povera cristiana», «povero cristiano» soleva dire mia madre davanti a un essere umano bisognoso. È questo che rende vivo il Natale, il resto è solo una farsa davanti a un simulacro vuoto e senza senso.


(Il Quotidiano del Sud, 3 dicembre 2021)

di Roberta Errico


Oggi, le ragioni razionali per avere figli sembrano essere sempre meno, in particolare perché poi dovrebbero crescere e vivere in questo mondo ormai gravemente compromesso dal punto di vista climatico, economico, politico e sociale. Premettendo che, pur in condizioni serene, a mio avviso avere figli non è quasi mai una scelta totalmente lucida, ma mossa piuttosto da emozioni profonde e anche da una non sottovalutabile casualità, è lecito chiedersi perché questo desiderio però permanga anche in questo momento storico. Mi sono chiesta io stessa perché abbia deciso di avere un figlio e a questo proposito mi piacerebbe evidenziare soprattutto il significato “politico” che può avere questa scelta, perché esiste e secondo me è connesso alla forza della speranza, che può consistere in un’importante assunzione di responsabilità e anche in una forma di “resistenza”.

In Italia, il crescente calo demografico – che ha radici profonde e ha iniziato a manifestarsi già molti anni fa – ha intercettato la paura dei millennial e della Gen Z di mettere al mondo figli a causa della loro condizione economica e sociale ma anche di un futuro imminente che appare per certi aspetti catastrofico. Parlare di speranza potrebbe quindi sembrare nel migliore dei casi un’utopia e nel peggiore fuori luogo, ingenuo, persino ridicolo, ma la sua etimologia racchiude il significato che invece vorrei invitare a cogliere: “tendere verso una meta”.

[…]

Il senso di frustrazione e spaesamento che spesso viviamo oggi è però dovuto anche al “sovraccarico informativo” dato dalla massiccia quantità di informazioni che caratterizza la nostra epoca. Queste ci hanno indubbiamente favorito nel costruire conoscenze poliedriche, ma hanno anche cagionato un effetto sotto certi aspetti inaspettato: in molti casi ci hanno confusi, bloccando la nostra capacità decisionale. Iniziare a domandarsi in che modo si vorrebbe vivere, sforzandosi di sviluppare una chiara visione, concreta, del futuro che vorremmo, si potrebbe riuscire a mettere insieme, un passo per volta, gli strumenti per realizzarlo.

Sono consapevole del fatto che questo lungo discorso stia omettendo un aspetto fondamentale, in particolar modo per la realtà italiana: il problema economico, che si misura anche nell’assenza di un supporto adeguato alle famiglie, in cui di solito si finisce per scaricare tutto il lavoro di cura sulle donne. Tra chi desidera essere genitore, nonostante tutto, ci sono infatti coloro che non sentono di poterlo fare perché non sono in grado di affrontare le spese che comporta. Salari non adeguati al carovita, contratti di lavoro precari, lavori in nero, mancanza di lavoro, inadeguate politiche di sostegno al reddito: tutto questo disincentiva le giovani generazioni a fare figli e spaventa giustamente le donne, consapevoli che l’enorme lavoro ricadrà quasi esclusivamente sulle loro spalle.

Proprio per sottolineare che invocare un “principio di speranza” non corrisponde a uno scollamento dalla realtà e dalle difficoltà che essa comporta, vorrei riportare la mia esperienza. Quando ho ricominciato a lavorare, dopo i cinque mesi di maternità obbligatoria ho pianto per una settimana. Lo so che in un’epoca estremamente dura per quanto riguarda la ricerca del lavoro sembra irriverente, ma io non volevo ricominciare, perché mio figlio aveva solo tre mesi e mezzo e mi sembrava che qualcuno mi avesse strappato una parte di me. Poi sono andata e mi sono sentita triste perché gli ero lontana, ma anche di nuovo “definita” come persona, un po’ più libera. L’ispettorato nazionale del lavoro ha effettuato uno studio dal quale emerge che nel 2020 il 77% dei neogenitori che hanno lasciato il lavoro sono donne. Le lavoratrici madri sono una minoranza nel mondo del lavoro, e al Sud sono vere e proprie mosche bianche. Conciliare un’occupazione con il lavoro di cura di un figlio è molto difficile, così come lo è vivere in un Paese che organizza gli Stati generali della natalità, che si rammarica del sempre più basso numero di nascite, che teme che la sua popolazione diminuirà del 50% tra 100 anni, ma che nei fatti continua a non fare nulla per sostenere chi desidera avere figli.

Tutto questo è terribile, ma le cose non devono essere per forza così, possono cambiare se ci si impegna affinché ciò accada, e io, nel mio piccolo, mi voglio assumere questa responsabilità, informandomi e informando. Essere disperati spesso equivale ad arrendersi a un futuro già scritto, ereditato dalle irresponsabili generazioni del passato. La speranza, invece, è un atto di ribellione, e per certi versi persino di rabbia. Non possiamo accettare passivamente il futuro che ci è stato dato, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per cambiarlo, e tra gli strumenti che abbiamo a disposizione può annoverarsi anche il crescere generazioni migliori di quelle passate, compresa la nostra.


(thevision.com, 2 dicembre 2021)

di Laura Monti


Per la professoressa Cecilia Robustelli: «L’introduzione di un simbolo estraneo alla lingua in un testo creerebbe confusione nella comunicazione»


«L’italiano si può rendere più inclusivo, ma le proposte per farlo devono rispettare le regole del sistema lingua, altrimenti la comunicazione non si realizza, e la lingua non funziona». È netta la posizione di Cecilia Robustelli, ordinaria di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia che da anni lavora con l’Accademia della Crusca, sulla questione “schwa”, la piccola “e” rovesciata che alcuni vorrebbero aggiungere o sostituire alle desinenze italiane per includere in un colpo solo tutti i sessi e le identità di genere. La ragione della contrarietà è anzitutto tecnica («Parlo da linguista, non da filosofa o sociologa», premette la professoressa) e ha a che fare con il rischio di sostituire con un simbolo il genere grammaticale.

Se si eliminano le desinenze il testo diventa un mucchietto di parole

In un’intervista alla Dire, la professoressa ci ha spiegato perché: «La funzione primaria del genere grammaticale in un testo è permettere di riconoscere tutto ciò che riferisce al referente, cioè all’essere cui ci riferiamo, attraverso l’accordo grammaticale. Se si eliminano le desinenze scompaiono tutti i collegamenti morfologici, e il testo diventa un mucchietto di parole delle quali non si capisce più la relazione». Per i sostenitori della “schwa”, però, il genere grammaticale avrebbe il difetto di dare visibilità ai due soli generi maschile e femminile, ignorando il variegato mondo di coloro che non si identificano in uno dei due: «Ma il genere grammaticale – dice in proposito Robustelli – viene assegnato ai termini che si riferiscono agli esseri umani in base al sesso. Il genere “socioculturale”, cioè la costruzione, la percezione sociale di ciò che comporta l’appartenenza sessuale, rappresenta un passaggio successivo». Invece, l’impressione è che «il termine “genere” venga spesso usato con il significato di “sesso” e questa confusione complica il ragionamento, già di per sé complesso». Una confusione a monte che le varie definizioni di “Italiano inclusivo” reperibili in rete non aiutano a districare.

Non affidare alla grammatica il compito di comunicare nuovi generi

Tornando alla confusione che creerebbe l’introduzione di un simbolo estraneo alla lingua in un testo in sostituzione delle desinenze, la professoressa ha ribadito che così «si eliminano gli accordi tra le parole e si mina l’intera coesione testuale: e questo è un fatto grave». Invece «quando si cambia qualcosa in una lingua ci si deve innanzitutto chiedere se quel cambiamento funziona per assolvere allo scopo che un sistema linguistico deve compiere, cioè la comunicazione». Non è una sentenza, quella di Robustelli, piuttosto la constatazione che «spesso le proposte ingenue sono animate da buone intenzioni ma irrealizzabili nella realtà della lingua italiana. Piuttosto di affidare alla grammatica il compito irrealizzabile di comunicare nuovi generi o la decisione di non accettarli – propone la linguista – perché non intensificare la discussione sul loro significato e approfondire le ragioni che ne motivano la richiesta di riconoscimento sociale? È il discorso il luogo adatto a questo scopo, non la grammatica».

Il simbolo al posto delle desinenze impedisce il riconoscimento del femminile, posizione da linguista non solo da femminista

Per Robustelli l’introduzione di un simbolo al posto delle desinenze avrebbe anche la conseguenza di impedire il riconoscimento della presenza femminile nella società, quando è invece «fondamentale nella lingua italiana nominare donne e uomini con termini maschili e femminili e usare al femminile anche i termini che indicano ruoli istituzionali e professionali di genere femminile se sono riferiti a donne». Questa, ha precisato Robustelli, che di questa tematica si occupa da tempo, «non è soltanto una posizione femminista: è una posizione da linguista, perché se non si attribuisce alle donne il titolo femminile, si trasgredisce ai principi di accordo e assegnazione di genere che invece permettono di riconoscere, disambiguare e anche valorizzare le donne, dando inoltre un’immagine della realtà conforme a quella che è ora, non cinquant’anni fa».

Se si usano per le donne termini maschili, si usa un italiano in modo scorretto e proprio per questo «non è opportuno né permesso chiedere alla persona con cui si parla come vuole essere chiamata. Se è donna – incalza la professoressa – è ministra, avvocata, direttrice di orchestra». E se qualcuna dice di voler essere chiamata al maschile? «La risposta deve essere “no” – conclude la professoressa Robustelli – Non lo chiedo io ma la lingua italiana. A nessuna persona si può chiedere di contravvenire alle regole della sua lingua e di esprimersi in modo non chiaro. Specialmente in campo istituzionale».

Il caso del liceo Cavour di Torino e la nuova versione del dizionario francese

La professoressa ha anche commentato con noi la decisione del preside del liceo Cavour di Torino di sostituire, nelle comunicazioni ufficiali della scuola, le desinenze con l’asterisco: «Se proprio lo si vuole usare, un simbolo al posto di una desinenza può essere permesso in frasi brevissime, nelle formule di apertura o di chiusura di una comunicazione, e allora ha funzione identitaria, di riconoscimento all’interno di un gruppo, un po’ come avviene nei gerghi. Ma proprio per questo non è accettabile il suo uso da parte di una istituzione. Il linguaggio istituzionale ha come caratteristica precisa la chiarezza e la trasparenza, deve essere capito da tutte le persone che parlano una determinata lingua, che ne condividono il “codice”. Anche per questo esistono le lingue nazionali, e si spiega perché le comunicazioni istituzionali non si scrivono in dialetto», ha chiarito Robustelli. Più cauta, invece, sulla decisione del dizionario francese Petit Robert di introdurre, nella versione online del 2022, il pronome neutro iel (nato dalla fusione tra il e elle), che in Francia sta facendo molto discutere: «Il direttore di Le Robert sostiene che l’uso di questo pronome sia in crescita e che darne una definizione possa aiutare a capirne il significato, ma io sono perplessa perché normalmente per l’inclusione di nuovi termini si aspetta che essi si siano acclimatati. In questo caso si è voluta registrare la vitalità di una lingua».

Come cambia una lingua?

Non è vero che la lingua è creativa e può, anzi deve, cambiare?

«Certo – ci ha risposto Robustelli – e infatti la lingua cambia ogni giorno, ma impercettibilmente e in un preciso settore: quello lessicale, attraverso l’ingresso di nuove parole che cambiano, muoiono, entrano sulla spinta dei mutamenti culturali, sociali, tecnologici, basti controllare i neologismi che entrano ogni anno nei dizionari e le parole che diventano rare, desuete. Ma non cambia, o molto lentamente, per quanto riguarda la morfologia, la sintassi. Ad esempio, per rimanere in tema – ha concluso la professoressa – nel lunghissimo passaggio dal latino all’italiano il genere grammaticale neutro piano piano se ne è andato, il sistema dei casi latini è scomparso, la funzione di soggetto e oggetto non è stata più determinata dalla desinenza ma dalla posizione rispetto al verbo, eccetera. Ma tutto questo ha richiesto secoli».


(Agenzia DiRE – www.dire.it, 1° dicembre 2021, pubblicato con il titolo: ‘Schwa’ per un italiano più inclusivo? La linguista: “Inaccettabile, le desinenze indicano il sesso non il genere”)

di Lucetta Scaraffia


Abbiamo visto le immagini delle manifestazioni svoltesi nelle principali città per la giornata contro la violenza sulle donne, abbiamo letto gli slogan, che sono anche diventati titoli dei principali quotidiani: contro «la violenza di genere», contro «il femminicidio», contro la «cultura patriarcale», contro la «mascolinità tossica». Non voglio discutere la sostanza del messaggio su cui ovviamente sono d’accordo. Ma, mentre leggevo e ascoltavo, mi ponevo una domanda: tutte le manifestazioni dei giorni scorsi evocavano una lotta in corso fra uomini e donne, parlando addirittura di femmine e maschi. Questo linguaggio così esplicito, che non esita a citare esseri umani definiti biologicamente come una realtà di fatto, non costituisce forse una smentita alla tendenza ispirata al politicamente corretto che considera l’umanità non più divisa e auspicabilmente non più divisibile in due sessi opposti, ma composta da persone non definite dal punto di vista dell’identità sessuale? Cioè alla visione che ispira la legge Zan? Le manifestazioni di cui stiamo parlando ci hanno ricordato un fatto decisivo per la storia del ’900 e forse ancora di più del secolo in corso, e cioè che proprio la guerra fra i sessi è stato ed è ancora il motore di un mondo nuovo, di una nuova moralità, di un nuovo senso di giustizia nato dalla realtà esistente fino a oggi di una società divisa in due campi ben definiti, le donne e gli uomini, in cui le donne erano e sono potenziali vittime e gli uomini potenziali carnefici. Questa realtà e la sua rappresentazione sono il residuo di un passato da cancellare? Niente affatto. È proprio la dialettica fra donne e uomini – e non la sua negazione – da quando è diventata vivace confronto e in alcuni casi scontro, che ha prodotto e continua a produrre nuovi orizzonti di maggiore giustizia e libertà. La profonda trasformazione culturale avvenuta in tutte le società occidentali grazie alle innovazioni scientifiche e alle rivoluzioni sessuale e femminista, che hanno cambiato le nostre società nella seconda metà del Novecento, hanno permesso infatti alle donne di tenere un comportamento sessuale libero, come era sempre stato possibile per gli uomini, dando il via tra mille altre cose anche ad un processo di cambiamento legislativo che ha portato a punire con severità stupro e femminicidio. È stato proprio il nodo della violenza e dell’abuso che, una volta sciolto, ha permesso la liberazione femminile. La conseguenza positiva più evidente della rivoluzione sessuale infatti è stata quella di liberare le donne da un giudizio su di loro limitato al solo comportamento sessuale, qualunque fossero le loro qualità e competenze. Così esse hanno potuto parlare, denunciare abusi sessuali senza venirne immediatamente “sporcate”, moralmente condannate. Si assiste così all’introduzione della pietà nel dibattito pubblico, aprendo nuove dimensioni alla comunicazione, quelle legate alle emozioni e all’indignazione, che impongono che venga segnalato un persecutore: in questo caso lo stupratore, il violento. È stato dunque proprio l’esistenza di un conflitto tra uomini e donne, cioè dello scontro fra due sessi diversi e biologicamente distinti, che ha consentito questo insieme di radicali trasformazioni che ha creato uno spazio pubblico per il riconoscimento del crimine, in una situazione in cui abitualmente niente era detto in modo aperto. È stata la lotta delle donne contro il maschilismo e il patriarcato che ha consentito la profonda trasformazione della morale pubblica di cui ha parlato Marcel Gauchet, nel suo saggio sulla fine del patriarcato, consistente nell’affermazione dell’autorità del materno. All’autorità pubblica maschile si sostituisce così una diversa autorità, quella del materno, che continua a prescrivere e a vietare, ma la cui stella polare è il principio di legittimità generale che garantisce l’uguaglianza fra i sessi, quindi i diritti degli individui. Un’autorità che assume come simbolo fondante la preoccupazione per l’altro, che si prende cura delle persone e della loro vita. Le donne quindi – le donne o forse dobbiamo dire le persone con utero e mestruazioni come vorrebbero gli ultrà del politicamente corretto – stanno imponendo nella vita quotidiana una nuova morale, che porta con sé il riconoscimento dei diritti di tutte le vittime. Ne è una prova la nuova attenzione e la severità con cui vengono affrontati i casi di abuso sessuale sui minori e l’attenzione verso i diritti dei portatori di handicap. Di fronte a questa prospettiva, che nasce dal conflitto ma mira al suo superamento in nome del punto di vista femminile, le rivendicazioni dei transgender e degli omosessuali a favore dei loro diritti appaiono quasi delle rivendicazioni corporative, che non segnano ma dipendono da un movimento storico di liberazione ben maggiore e ben più ampio, che in definitiva è ciò che garantisce anche la loro libertà. Il conflitto fra donne e uomini reale e indiscutibile rappresentazione di una umanità composta da due sessi non è qualcosa che possa essere negata o da superare come un deplorevole residuo del passato. È stata e continua ad essere uno dei presupposti per il progresso della libertà umana. Perché questi cambiamenti aprono orizzonti nuovi anche per i transgender, gli omosessuali e qualsiasi minoranza voglia conquistare la propria libertà e il proprio rispetto. Ma non si deve dimenticare che questo grande passo in avanti è stato fatto proprio a partire da un conflitto fra donne e uomini, all’interno di una rappresentazione dell’umanità divisa in due, che quindi non è qualcosa da buttare via, ma una base fertile per il progresso dell’umanità.


(La Stampa, 1 dicembre 2021)

di Alberto Leiss


Il molestatore di Greta Beccaglia ha perso un’occasione per rendere appena un po’ meno deprimente, odioso, il comportamento di noi uomini. E con lui anche Giorgio Micheletti («non te la prendere…»).

Il primo, anche se distrutto dalla sconfitta della squadra del cuore, quando la giornalista appena rudemente sculacciata gli ha urlato «non lo puoi fare!…» avrebbe dovuto trasalire, capire di avere fatto un inammissibile gesto violento, tornare indietro e scusarsi subito di fronte a lei e ai telespettatori. Invece le scuse sono venute solo dopo che le onnipresenti telecamere lo hanno incastrato.

Troppo facile. Giustamente Greta Beccaglia ha reagito denunciandolo per la violenza subita.

Il secondo, Micheletti, doveva capire che la notizia, rispetto all’esito della solita partita, era diventata improvvisamente un’altra. La collega era stata molestata, e più di una volta: il discorso andava riorientato, lo spettacolo non doveva andare avanti come se niente fosse.

Non voglio ergermi a giudice. Faccio queste osservazioni perché conosco bene inerzie, blocchi, ottusità – derivanti da una cultura profondamente introiettata – che hanno impedito anche a me tante volte di «fare la cosa giusta» nella relazione con una donna, causando ferite e risentimenti, conflitti che avrebbero potuto, dovuto essere evitati.

Mariangela Mianiti ha scritto ieri su queste pagine qualcosa di essenziale: «Serve che i maschi compiano una rivoluzione emotiva, sentimentale e culturale verso se stessi e nei confronti dei propri simili che scambiano il corpo di una donna, e quindi la donna, come un oggetto a loro disposizione».

Per questa «rivoluzione maschile» dovremmo saper provare un nuovo desiderio.

Non bastano certo i pur doverosi e in questo caso molto numerosi attestati di solidarietà. Quelli venuti dal mondo politico mi hanno anche un po’ irritato. Su questo piano alle parole non sembrano seguire mai fatti simbolicamente rilevanti.

Ieri sulla Stampa c’erano tre commenti in fila: Annalisa Cuzzocrea indicava 12 nomi di donne candidabili alla presidenza della Repubblica. Michela Marzano criticava i singolari consigli linguistici della Commissione Europea (non dire «buon Natale», oppure «signore e signori»…). Simonetta Sciandivasci a proposito delle molestie a Greta Beccaglia spiegava perché «scusarsi non basta».

Che cosa di diverso e di più incisivo fare? Ecco una, forse stravagante, modesta proposta.

Gli uomini politici, se pensano davvero che il maschilismo non sia più sopportabile, non potrebbero dimostrarlo facendo un passo indietro e pronunciandosi in via definitiva per una donna al Quirinale? Non sarebbe un buon segnale? Non potrebbe dirlo lo stesso autorevole Mattarella? O Draghi, al quale sono bastate due o tre parole per salvare una moneta? «Faremo tutto quello che è necessario per eleggere finalmente una signora!». E i “leader” in Parlamento tutti d’accordo, che affermano come moltissime donne in Italia hanno tutte, ma proprio tutte le carte in regole per svolgere quella funzione.

Infine, il linguaggio. Michela Marzano nel commento citato un po’ difende le intenzioni della Commissione Europea, ma poi denuncia il rischio che per rendere il linguaggio più «inclusivo» si adottino criteri che, paradossalmente, espungono tutte le differenze.

Per non offendere nessuno si cancellano tutte, tutti, tutt* e quant’altro. Un linguaggio inclusivo dovrebbe al contrario nominare e riconoscere tutte le differenze. A cominciare da quella femminile.

A meno che non vinca una inconscia (?) pulsione maschile a cancellare nuovamente quel perturbante “altro” che ci ha messo al mondo. E che pretende perfino di non essere palpeggiato in pubblico.


(il manifesto, 1° dicembre 2021)

di redazione del sito


Stupro a pagamento è il titolo dell’ultimo numero di “Solidarietà internazionale”, Rivista bimestrale di Solidarietà e Cooperazione CIPSI (a. XXXII, n. 5 – settembre-ottobre 2021). Il CIPSI, Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale, unisce 38 associazioni che operano nei paesi impoveriti con un approccio di partenariato ed è indipendente da qualsiasi vincolo di carattere politico o ecclesiale.  
«Questa copertina di “Solidarietà internazionale” nasce da un’idea accolta dalla rivista e condivisa nel gruppo prostituzione dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (O.I.V.D.), un laboratorio nel quale donne di diverse culture religiose e laiche sono accomunate dal contrasto alla violenza più antica perpetrata sulle donne. Esce in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre).»  
Indice dei contributi:  
Stupro a pagamento di Laura Caffagnini 
Sporcarsi le mani nella prostituzione di Paola Cavallari  
La mia storia di sopravvissuta di Liliam Altuntas  
Abolizionismo: la storia e le leggi in Italia di Grazia Villa  
Insieme per eliminare lo sfruttamento sessuale di Doranna Lupi 
Pornografia, il laboratorio della violenza di Ilaria Baldini  
Una questione maschile di Marco Deriu  
Talitha Kum, una rete contro la tratta di persone di Laura Caffagnini.


Per ogni informazione, vai a: https://www.cipsi.it/2021/11/stupro-a-pagamento-e-uscito-il-n-5-di-solidarieta-internazionale/


(www.libreriadelledonne.it, 30 novembre 2021)

di Mariangela Mianiti


Sei in diretta televisiva, fuori da uno stadio per commentare la partita Empoli-Fiorentina finita 2 a 1. Hai il microfono in mano, attorno a te sciamano i tifosi a cui devi chiedere commenti e pareri. Sono trascorsi nemmeno tre giorni dalla giornata contro la violenza sulle donne, ma qui deve essere un argomento poco sentito soprattutto dal tipo che, passandoti dietro, preso da un raptus (ah, l’eterno raptus), paffete, mentre tu parli ti schiaffa una manata sul sedere e se ne va tutto contento. Tu gli gridi «Non puoi fare questo», ma figurarti se quello torna indietro a scusarsi, soprattutto dopo un rimprovero così gentile. Dallo studio il collega che sta parlando con te, invece di indignarsi con l’altro per l’evidente violenza, d’istinto raccomanda a te, la molestata «Non te la prendere, non te la prendere». Dirà dopo, per giustificarsi: «Il mio intento era quello di alleggerire per aiutare Greta a gestire una situazione difficile. Ho pensato prima a lei lavorativamente parlando, perché aveva la pressione psicologica di una diretta. Ho provato a tranquillizzarla, non volevo minimizzare l’accaduto, ma evitare che potesse accaderle qualcosa di peggio».

Il tutto è successo davanti alle telecamere di Toscana TV, domenica 28 novembre 2021, a Greta Beccaglia. Il collega da studio così premuroso con lei è Giorgio Micheletti. Il tifoso è stato identificato e lei lo denuncerà per molestie. Questa è una tipica situazione che migliaia di donne incontrano ogni giorno sui mezzi, per strada, in ufficio, in fabbrica e che svela i due pilastri del problema, tutto e solo maschile: la molestia e il silenzio. Serve che i maschi compiano una rivoluzione emotiva, sentimentale e culturale verso se stessi e nei confronti dei propri simili che scambiano il corpo di una donna, e quindi la donna, come un oggetto a loro disposizione. Non sono le donne a dover cambiare modo di vestire, comportarsi, parlare.

Non sono loro a doversi difendere o far finta di niente. È il maschio predatorio che deve sentire attorno a sé il dissenso degli altri uomini, la condanna, la presa di distanza, la censura dei propri simili. In tanti già lo fanno, ma non basta. Serve un movimento diffuso e convinto. Per queste ragioni quel «Non te la prendere» ci ha urtato. Il primo pensiero, quindi l’istinto, del giornalista non è stato scagliarsi contro il cretino autore della molestia, ma salvare la diretta andando avanti quasi come se nulla fosse successo. Far finta di niente rende complici anche se nel proprio intimo la si pensa diversamente e quel gesto non lo si farebbe mai. Che cos’era più importante, in quel momento? Parlare della partita o condannare il gesto di quel tifoso? Dare agli spettatori il pane che si aspettavano o imprimere alla diretta una svolta che mostrasse lì, sul momento, che cosa davvero vuol dire essere contro la violenza sulle donne? Invece di raccomandare alla giornalista «Non te la prendere» avrebbe potuto dire un sacco di altre cose. Avrebbe potuto interrompere la diretta per solidarietà con Greta Beccaglia, avrebbe potuto dire al pubblico «Questo non si deve fare mai, è un atto di violenza, è un gesto schifoso». Avrebbe potuto aprire una discussione con i tifosi proprio su quel modo di fare e di pensare.

Poiché l’imparabilità è infinita, confidiamo che anche negli stadi e dintorni si cominci a discutere di chi siamo davvero quando ci confrontiamo con una donna. E magari si sottolinei che una manata sul culo non ti ripagherà mai di una sconfitta, ma mostra solo quello che sei, un poveraccio frustrato. Detto ciò, io, che sono meno pacata di Greta, sarei corsa dietro al deficiente e gli avrei dato il microfono in testa. Altro che «Non te la prendere».


(il manifesto, 30 novembre 2021)

di Doranna Lupi


Alla Libreria delle donne di Milano


Vi inviamo il Testo Visitazioni frutto del lavoro di un gruppo di donne su mandato del Collegamento Nazionale delle donne CdB e Le molte altre.


In questo tempo di pandemia sono incredibilmente fiorite o rifiorite tante relazioni che in parte hanno attutito, a volte persino accorciato il peso della distanza. Abbiamo avuto l’occasione di conoscere tante donne con le quali difficilmente ci saremmo potute incontrare in presenza, né mai avremmo potuto intessere relazioni così intense e frequenti, dalle quali sono scaturite nuove esperienze, nuovi pensieri e grandi possibilità di scambio.

Da questa inattesa possibilità di incontro è scaturito il desiderio di raccontare il pluridecennale cammino della nostra esperienza di Gruppi di donne della Comunità di base e le molte altre.

Lo strumento è un testo che, attraverso la storia dei nostri gruppi, prova a narrare il confronto tra donne credenti e non credenti sulla spiritualità, sulla ricerca teologica femminista, sul divino e sul sacro e sul ruolo delle donne nella comunità di fede, l’intreccio delle relazioni con altre donne cattoliche, evangeliche, e di altre fedi religiose.

Sia la versione breve, una sorta di abstract che speriamo possa suscitare l’interesse ad approfondire la lettura della versione integrale, sia il testo più ampio e completo, corredato di fotografie e di immagini, sono pubblicati sul sito delle Cdb italiane, che gentilmente ci ospita (https://www.cdbitalia.it/gruppi-donne/visitazioni/).

Siamo contente, quindi, di poter mettere a disposizione in un incontro molto più vasto, le nostre relazioni, le nostre riflessioni, il nostro impegno, i nostri “talenti” e le nostre competenze, nella speranza di poterci incontrare e scoprire le strisce di futuro che potremmo aprire insieme.

Vorremmo organizzare un evento nel quale riprendere a più voci queste nostre Visitazioni, arricchite dalle vostre reazioni, critiche, desideri, abbracci, contributi e altre differenti fioriture!

È possibile che il nostro scritto vi sia giunto per altre vie, vorrete considerarlo non come un… doppione, ma come il frutto degli intrecci delle nostre relazioni.


Grazie per la vostra generosa attenzione. Restiamo in contatto.


Lupi Doranna per “Il gruppo comunicazione Visitazioni”


Pinerolo 29/09/2021


(www.libreriadelledonne.it, 29 settembre 2021)

Un’eretica del secolo scorso cui Valeria Fieramonte dedica un’accurata biografia dal titolo La via di Laura ContiEcologia, politica e cultura a servizio della democrazia, ed. enciclopediadelledonne.it, 2021. Con l’autrice, giornalista scientifica che l’ha conosciuta, e attraverso alcune immagini, riscopriamo l’attualità della scienziata fondatrice di Legambiente, partigiana, ecologista, scrittrice, saggista e divulgatrice. Introducono Marina Santini e Luciana Tavernini.

Accesso con  Green Passdocumento d’identità mascherina

Per acquistare online La via di Laura Contihttps://www.bookdealer.it/goto/9788899270377/607

di Pinella Leocata


Un 25 novembre “di rabbia e di coraggio” in memoria di Vanessa Zappalà, la ragazza trucidata dall’ex fidanzato mentre passeggiava per strada ad Acitrezza. Per celebrarlo le associazioni La Ragna-Tela, UDI, La Città Felice, Comitato Popolare Antico Corso, Sunia Sicilia, Iniziativa Femminista, Sezione Olga Benario PCI, La Comune, Animal Theatron, Anpi Catania, ProMueveRD, Rivoluzione Materna e Generazioni Future hanno organizzato, nella sede della Cgil, un convegno sui vari e sempre nuovi modi in cui si esprime la violenza sulle donne, sui loro corpi, sulla loro soggettività.

A introdurre l’incontro Anna Di Salvo che ha affrontato i tanti, complessi e aggrovigliati nodi che segnano “Il filo nero della violenza” – il titolo dato al convegno – a partire da quello, terribile e in costante crescita, del femminicidio e della violenza sessista psicologica maschile nei confronti delle donne e delle bambine. E sono nodi da affrontare e da sciogliere anche quello dello stravolgimento del linguaggio con cui si cerca di cancellare la differenza sessuale e lo stesso termine donna, quasi a nasconderne e negarne la potenza generativa, e quello del linguaggio misogino dei mass media. Ed è violenza quella del fenomeno della vendetta attraverso la pubblicazione di immagini e video intimi della ex compagna, e quella del rifiuto dei medici di rispettare la legge sull’interruzione di gravidanza presentandosi, per il 70%, come obiettori di coscienza. Violenza è quella per cui donne in condizioni di bisogno vengono spinte a vendere il proprio utero, a darlo in affitto, come fossero meri contenitori. Violenza è considerare la prostituzione un lavoro come un altro, da regolamentare, mentre è mercificazione, spesso forzata, del corpo delle donne.

Tutti nodi da sciogliere intrecciando reti e relazioni significative nella consapevolezza della complessità di questo percorso di fuoriuscita dalla millenaria cultura patriarcale che coniuga potere e violenza. In questa prospettiva – come ha sottolineato José Calabrò – essenziale è il compito della scuola di educare alla gestione non violenta dei conflitti facendo sperimentare come esiste un’aggressività positiva che può andare insieme con la ragione. Ed essenziali sono i centri antiviolenza a supporto delle donne che vogliono liberarsi da partner violenti e svalutanti. Se il 65% delle donne che subiscono violenza non denuncia è per la vergogna di rivelare di essere vittime del compagno o marito e perché non hanno sponde su cui contare. Il centro antiviolenza Thamaia – che opera a Catania da 20 anni garantendo anonimato, riservatezza e gratuità del servizio, e cui si rivolgono ogni anno oltre 250 donne – va avanti senza finanziamenti stabili, contando sulla propria partecipazione ai progetti nazionali e regionali. Ma – come ha denunciato la presidente di Thamaia Anna Agosta – gli ultimi bandi del Dipartimento della Pari Opportunità risalgono al 2017, il bando nazionale antiviolenza è appena stato pubblicato con oltre un anno di ritardo, né la Regione ha pubblicato quello a sostegno dei centri antiviolenza con i fondi nazionali della Conferenza Stato-Regione, eppure quelle ipotetiche somme, 20.000 euro, Thamaia le ha già anticipate e spese perché per legge bisogna rendicontarle entro ottobre. Inoltre il centro non può contare neppure su una sede messa a disposizione dall’amministrazione o dallo Stato, magari in uno dei beni confiscati alla mafia. Per questo Thamaia può assicurare il servizio di accoglienza telefonica per sole 16 ore settimanali ed è costretta a fissare gli appuntamenti in presenza dopo un mese, un tempo lunghissimo per chi è a rischio.

A essere denunciata è anche la violenza istituzionale, quella per cui – come spiega Anna Consoli delle associazioni “Movimentiamoci” e “Maternamente” – si impone, attraverso la legge dell’affido condiviso, la bigenitorialità, cioè tempi uguali di permanenza dei figli da madri e padri separati, anche in presenza di violenze domestiche. Che significa che “anche i padri violenti sono considerati buoni padri”. Viene denunciato anche l’uso che viene fatto della psicologia forense, il prelievo coatto dei figli e il business delle case-famiglia in cui sono ricoverati, con un costo di 400 euro al giorno, i bambini sottratti alle madri. Di qui la campagna “Rivoluzione materna”, i presidi davanti le Procure, la richiesta dell’immediato blocco dei prelievi forzati dei bambini e dell’abolizione dell’affido condiviso.

Infine Yanela Grano De Oro Ramírez ha ricordato la storia delle sorelle domenicane Mirabal, “le Farfalle”, oppositrici della dittatura di Rafael Trujillo, torturate, violentate e uccise il 25 novembre 1960 per la loro lotta per la democrazia. Un eccidio che risvegliò le coscienze nella Repubblica Domenicana e portò, pochi mesi dopo, alla caduta del dittatore. In loro onore l’Onu, nel 1999, indicò il 25 novembre come “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.


(La Sicilia, 26 novembre 2021)

di Franca Fortunato


Un bambino di appena un anno muore di freddo nella foresta al confine tra Biolorussia e Polonia. La famiglia era nel bosco da un mese e mezzo, dopo essere scampata ai militari polacchi che avevano ferito madre e padre nel tentativo di respingerli al di là del recinto di filo spinato. Vivevano nascosti nella foresta. Se i soldati polacchi li avessero trovati l’avrebbero arrestati, come hanno fatto con altri, violando la Convenzione internazionale sull’asilo e la protezione umanitaria. Il tutto con la complicità di un’Europa dei respingimenti che ipocritamente, per bocca del suo presidente David Sassoli, nel mentre dice essere “straziante vedere un bambino morire di freddo alle porte dell’Europa” con i Paesi del G7, tra cui l’Italia, esprime solidarietà alla Polonia “colpita (da Lukashenko) da un uso provocatorio della migrazione irregolare come tattica ibrida”, recitando la sua parte nel gioco sporco geopolitico con la Bielorussia. Solidarietà alla Polonia i cui soldati usano lacrimogeni e getti d’acqua gelata contro i profughi nel tentativo di allontanarli dal filo spinato e lascia morire nella foresta quei pochi che riescono ad attraversare la frontiera. I 15mila soldati schierati in difesa dei confini contro donne, uomini, bambine/i inermi, impediscono ai volontari di portare loro cibo, acqua, vestiti, scarpe, medicine. Cosa c’è di più criminale? I volontari e i medici della Ong polacca che hanno trovato e soccorso la famiglia siriana lo hanno fatto clandestinamente. Il piccolo, di cui non conosco il nome, bimbo senza nome come i tanti che continuano ad annegare nel Mediterraneo, giace sotto terra nella foresta, che con la sua fitta vegetazione veglierà su di lui da morto, non avendolo potuto fare da vivo. In quel mese e mezzo sua madre ha cercato di scaldarlo con il suo corpo, ma i suoi abiti erano sempre fradici per la fitta nebbia che ogni notte scende nella foresta, con temperature fino a -7°. Il padre gli aveva dato tutto il poco cibo che avevano. Non poteva accendere un fuoco, i soldati li avrebbero scoperti. Quando gli era stato proposto da un’agenzia un volo diretto da Damasco a Minsk pensava che raggiungere l’Europa sarebbe stato facile. Voleva andare in Germania, come molti degli esseri umani ammassati alla frontiera polacca. Ha pagato il biglietto aereo e poi hanno raggiunto la frontiera in pullman. I bielorussi gli avevano detto che in dieci minuti sarebbero arrivati in Polonia, invece, attraversato il confine, avevano vagato per settimane nella foresta, feriti e col figlioletto in braccio. Quando ho sentito della morte del piccolo mi sono accorta di non avere più parole per dire il mio sgomento e dolore, le ho consumate tutte negli anni per dire l’orrore, la disumanità in cui stava precipitando l’Europa, un buco nero che evoca fantasmi di un passato recente. Ma nel buio so che c’è sempre la speranza e io l’ho cercata dentro la Polonia. L’ho trovata nelle donne che illuminano di verde le loro case in segno di accoglienza. Nelle madri scese in piazza a Varsavia per manifestare solidarietà ai profughi e profughe e chiedere l’apertura di corridoi umanitari. Nei tanti volontari che vivono nella foresta, in case diroccate e capanne, e ogni giorno di nascosto pattugliano la frontiera, alla ricerca di migranti da aiutare, soccorrere e accogliere. Vivono nel bosco dal 2017 per impedire la distruzione di uno degli ultimi tratti della foresta che un tempo copriva l’intera Europa orientale. Ma l’Europa non dà voce alla speranza e, nell’indifferenza dei più, alla frontiera polacca si sta consumando il senso dell’umano.


(Il Quotidiano del Sud, 26 novembre 2021)

di Silvia Marastoni


«In data 22-23 novembre 2021 il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bologna hanno convenuto di archiviare l’accusa fatta nei nostri confronti “non emergendo elementi che consentano la sostenibilità dibattimentale dell’accusa”» stessa. Inizia così il comunicato con cui Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi hanno annunciato la conclusione della vicenda processuale che – dal febbraio 2019 – li ha assurdamente coinvolti. Accusati (prima lui, poi anche lei, e indirettamente pure l’Associazione Linea d’Ombra, che insieme hanno fondato a Trieste) di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a scopo di lucro, in concorso con una “cellula triestina” composta da decine di persone, “con le aggravanti ad effetto speciale del concorso di tre o più persone e dell’uso di documenti contraffatti […]” e “con l’ulteriore aggravante d’aver commesso il fatto al fine di trarre profitto”.

Come in molti altri casi – in Italia e non solo –, all’origine di queste imputazioni insensate, per non dire persecutorie, c’è la solidarietà con le persone migranti: l’aver ospitato due notti nella propria casa una famiglia iraniana di origine curda (padre, madre e due bambini), aiutandola anche a recuperare le poche centinaia di euro inviate da un fratello lontano attraverso un servizio di money transfer.

Nata – val la pena di ricordarlo – per iniziativa di un pubblico ministero già in precedenza tra gli “inquisitori” dei volontari dell’associazione Ospiti in Arrivo di Udine (anch’essi poi tutti prosciolti), l’inchiesta, ricorda il comunicato, è stata in seguito trasferita ad altra sede, «dato che Lorena, giudice onorario presso il tribunale dei minori di Trieste, rientra nei ranghi della magistratura per la quale è competente appunto il tribunale bolognese. Il procedimento giunge quindi nelle mani di un magistrato non interessato a un’intenzione politica punitiva nei confronti di chi agisce solidalmente con i migranti, il quale non ha difficolta a ravvisare il carattere artificioso della presunzione di collegamento fra Gian Andrea, Lorena e la cosiddetta cellula triestina e, ancor più, lo scopo di lucro», e «chiede quindi l’archiviazione che il giudice per le indagini preliminari conferma».

«Il succo di questa vicenda», sottolineano Gian Andrea e Lorena, «sta appunto nel rendere ancora una volta evidente il carattere politico delle denunce nei confronti degli attivisti solidali con i migranti: così è caduta la denuncia contro Mediterranea e prima ancora quella contro Carola Rackete. Crediamo che cadrà anche quella di Andrea Costa di Baobab di Roma. Diverso è caso di Mimmo Lucano perché gli inquirenti ritengono che si tratti di un esempio pericoloso in quanto avrebbe potuto diffondersi presso altri piccoli comuni spopolati come esempio di rinascita sociale».

Di Lorena, Gian Andrea e Linea d’Ombra, dell’impegno con cui quotidianamente, da anni, accolgono in Piazza della Libertà (da loro rinominata Piazza del Mondo) chi transita da Trieste in arrivo dall’infernale viaggio lungo la rotta europea dei Balcani, della pratica politica a matrice femminile e materna fondata sulla relazione e la cura dei corpi che Lorena ha “inventato”, dei loro periodici viaggi solidali oltre il confine e delle tante altre iniziative che nel tempo hanno promosso (tra cui ricordo in particolare Un Ponte di Corpi) su questo sito abbiamo più volte parlato*.

Con loro, “amici politici” della Libreria e della rete delle Città Vicine, abbiamo discusso dell’esperienza di Linea d’Ombra in un ricco, intenso incontro “virtuale” nel maggio scorso**, e speriamo di poterlo rifare presto in presenza.

Oggi, mentre ai confini europei (e non solo) si ripetono ancora quotidianamente respingimenti, naufragi e altre inaccettabili violenze, in molte-i festeggiamo almeno questa buona, attesa notizia: come tante-i in questi giorni hanno scritto, per Lorena e Gian Andrea “giustizia è fatta”.


* Vedi ad esempio:


https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/la-carrettina-verde-e-il-ponte-di-corpi/
https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/solidarieta-e-umanita-non-sono-reato
https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/la-solidarieta-diventa-reato-irruzione-a-linea-dombra
** Vedi il video: https://youtu.be/-Ng9O5Pwbtk


(www.libreriadelledonne.it, 26 novembre 2021)

di Monica Ricci Sargentini


Oggi è la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La Polizia di Stato ha colorato il proprio sito di arancione, la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti ha promesso un piano di finanziamenti per i centri che assistono le donne in pericolo e la stampa è piena di proclami e annunci su future strategie per combattere quella che è ormai una strage quotidiana. […] I dati dicono che in Italia dal primo gennaio al 21 novembre quest’anno c’è stato un femminicidio ogni 72 ore, l’8% in più rispetto all’anno scorso, e che le donne vittime del partner o dell’ex sono il 7% in più. L’emergenza, dunque, aumenta e non si corre ai ripari.

Ma non è questa l’unica violenza che subiscono le donne. «È violenza anche considerare la prostituzione un lavoro e pensare di regolarizzarla come è successo in Germania dove ti offrono gli addii al celibato nei bordelli cena compresa. O la pornografia, ormai accessibile ovunque, che veicola l’idea che lo stupro sia una performance sessuale. Pagare una donna perché porti avanti una gravidanza e poi consegni il bambino al committente è violenza. Pagare le ragazze perché vendano i propri ovociti è violenza». Questo il punto di vista della Rete per l’Inviolabilità del Corpo Femminile ,che riunisce molti gruppi e associazioni (Udi, RadFem, Se Non Ora Quando Sisters e tante altre ) che insieme con la rete mondiale Whrc (Women’s Human Rights Campaign) indice un presidio sabato 27 novembre, 14.30, San Babila, Milano.

Per le organizzatrici del presidio sarebbe violenza anche somministrare i bloccanti della pubertà alle bambine e ai bambini che non rispecchiano gli stereotipi di genere. Una piazza, quella di Milano, che intende differenziarsi da quella del movimento Non Una di Meno che propone, per esempio, lo smantellamento della legge Merlin e la depenalizzazione dello sfruttamento e sostiene l’identità di genere, ovvero la possibilità di dirsi donne con un semplice atto all’anagrafe.

Il 22 novembre la rivista scientifica The Lancet ha parlato di «mestruatori» riferendosi alle donne che hanno il ciclo mestruale, qualche mese aveva definito le donne «corpi con vagina». «In nome dell’inclusività – dicono ancora le organizzatrici del presidio milanese — non possiamo più dirci donne. E se qualcuna di noi osa dire che il sesso è reale come è accaduto alla scrittrice J.K.Rowling o alla docente di filosofia Kathleen Stock viene immediatamente attaccata, minacciata di morte, costretta al silenzio». Ma secondo la Rete le donne subiscono violenza proprio i loro corpi sessuati, come capita alle spose bambine, alle ragazze sottoposte a mutilazioni genitali, al le donne costrette al burqa che rende invisibili allo sguardo.

Quando Oriana Fallaci contestò l’uso del chador all’ayatollah Khomeini. Lui le risponde: «Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché il chador è per le donne giovani e perbene».

Recentemente un liceo di Torino ha deciso di adottare l’asterisco nei documenti ufficiali e di non usare più il maschile e il femminile in nome dell’inclusività. Ma secondo le organizzatrici del presidio, «nei Paesi in cui il neutro ha preso piede abbiamo assistito ad un aumento della violenza sulle donne e sulle bambine, gli spazi riservati alle donne si sono ridotti. In Canada i centri di aiuto per le donne maltrattate che non aprivano le porte a chi aveva un corpo maschile hanno dovuto chiudere. Recentemente il Comitato Olimpico ha deciso che i trans MtF (da uomo a donna) potranno partecipare agli sport femminili senza nemmeno il controllo del livello di testosterone».

Intanto alcuni Paesi pionieri dell’identità di genere stanno facendo marcia indietro. «Un contrattacco» come lo ha definito su The Guardian Judith Butler, massima teorica della gender identity. In Gran Bretagna, Svezia, Finlandia, Australia e Nuova Zelanda sono state riviste le norme sull’uso dei bloccanti della pubertà dopo i tanti casi di ragazze e ragazzi «pentiti». In Italia non ci sono dati sul numero dei minori avviati alla transizione da quando nel 2019 l’Aifa ha ammesso l’uso della triptorelina per bloccare la pubertà ai bambini e alle bambine che non si conformano agli stereotipi di genere.


(27esimaora, 25 novembre 2021)

di Vera Squatrito


Sono la madre di una ragazza che si chiamava Giordana e che mi è stata portata via da un uomo senza rispetto né cuore, la notte fra il 6 e il 7 ottobre 2015, a Catania. Nella narrazione generale della violenza di genere io sono una vittima collaterale. E lo è mille volte di più la bambina di mia figlia: si chiama Asia e cresce con me da quando aveva quattro anni.

In questi sei anni senza Giordana la ricorrenza del 25 novembre, com’è ovvio, ha per me un significato e un sapore amaro che credo possa essere condiviso soltanto da chi ha conosciuto il mio stesso dolore. Noto di anno in anno una partecipazione crescente, nei fatti e nelle teste delle persone, che mi fa sperare in un futuro migliore. Ma non posso non notare che poi, dal 26, tutte queste luci accese diventano fioche o si spengono del tutto. Le vite di noi vittime collaterali e quelle sospese delle donne che subiscono violenza, però, sono le stesse del 25.

E allora, a luci spente, la domanda è: cosa dobbiamo aspettarci dalle tante promesse che sentiamo nella giornata contro la violenza sulle donne? Cosa faranno la politica e le istituzioni, da qui al prossimo 25 novembre, per migliorare le nostre vite? Come hanno fatto tante madri prima di me, anch’io dopo Giordana ho raccolto tutta la forza che avevo e l’ho usata per fare, fare, fare nel nome di lei. Un’associazione, incontri nelle scuole, una borsa di studio, uno sportello di ascolto e una casa per ospitalità d’emergenza di donne e bambini in fuga dalla violenza. Lo dovevo a lei, che l’ultimo 25 novembre della sua vita aveva scritto su facebook: «Abbiate la forza di aiutare chi ha bisogno di essere aiutata. Forse è un sogno ma per realizzarlo bisogna agire». Ecco, amore mio: io agisco, e spero, come speravi tu, che riescano a farlo tutti.

La mia Giordana aveva 20 anni e con la bellezza e la potenza di quei 20 anni, con la forza che le dava la sua bambina, aveva agito, sì: aveva lasciato e denunciato il padre di Asia che era un violento. E lui come risposta aveva preso a tormentarla, la seguiva, le faceva agguati, aveva inserito nel suo telefono una app per conoscere i suoi spostamenti, aveva sfasciato una finestra per entrare in casa di notte, convinto di coglierla con un altro uomo… L’ha ammazzata il giorno prima che iniziasse il processo per stalking contro di lui, con 48 coltellate: 48, una crudeltà che va ben oltre quella che basterebbe a uccidere chiunque.

Quel soggetto, che mai ha detto un «mi dispiace» dopo quel che ha fatto e che non merita nemmeno di essere nominato, è sempre stato preda della rabbia.

Ed è su questo che vorrei concentrarmi: sulla rabbia che queste persone non sono capaci di controllare. Come osava, la ragazza che lui considerava sua, essere felice con un altro? Come osava la madre di sua figlia non ritirare la denuncia? Giordana ha passato gli ultimi due anni della sua vita ad addomesticare la paura. E non posso pensare a quanta ne ha avuta quella notte, mentre lui la colpiva 1, 2, 3… 48 volte.

La rabbia, dicevo. Forse è arrivato il momento di aiutare gli uomini violenti a contenerla. Forse è il tempo di pensare a loro, ai cosiddetti maltrattanti, molto più di quanto sia stato fatto finora. Davvero pensiamo che davanti ai potenziali rischi fisici per lei possa bastare il braccialetto elettronico o il divieto di avvicinamento per lui? Servono, certo. Ma sappiamo tutti che se un uomo vuole, fortissimamente vuole, uccidere una donna, quelli sono provvedimenti non sufficienti a scongiurarlo.

Diciamo sempre alle donne che subiscono violenza di denunciare. Bene. E se quando denunciano si facesse, per legge, una valutazione psicologica sul denunciato? Se si provasse a capire se e quanto potrebbe spingersi oltre? Io non sono una giurista né un’esperta di violenza. Ma una cosa la so: un uomo non diventa violento all’improvviso, per raptus. E so che una buona valutazione del rischio può salvare la vita. È banale dirlo ma il problema della violenza sulle donne è un problema degli uomini. È da quella parte che dobbiamo guardare. Lo dico pensando alla mia Giordana. 
Vedi amore mio? Ho imparato tutto questo per te.


(testo raccolto da Giusi Fasano)


(Corriere della Sera, Mia figlia uccisa con 48 coltellate, tocca a me crescere la sua bimba, 25 novembre 2021)

di Chiara Zamboni


Vorrei parlare di Laura Conti, perché la penso come la figura più importante dell’ecologia in Italia dagli anni Ottanta del Novecento. Considero essenziale riconoscere il sapere, l’impegno politico ed esistenziale di quella che potremmo chiamare una “madre di tutti noi”. Studiandola, leggendola, considerando la sua passione politica, si può comprendere ora dove ci collochiamo e qual è l’insegnamento che possiamo riprendere da ciò che ci ha lasciato in eredità.

Non è stata femminista in senso stretto in un periodo in cui il femminismo era diffuso, seguendo la sua seconda ondata. Ma ha avuto, come medica e scienziata, grande attenzione per la salute delle donne e la vita delle donne essendo una donna. E di questo aveva grande consapevolezza. Per me questo basta. Essere una donna e assumerlo orientandosi nella realtà, è il primo e più importante passo politico, se si parla di politica delle donne.

Prima però di parlare direttamente di lei, ricostruendo una genealogia che ci è necessaria, vorrei riprendere alcuni elementi della differenza sessuale. Potrebbe sembrare inutile e ripetitivo, ma altrimenti, mi sembra, perdiamo la misura di fronte alla miriade frammentata di temi, di questioni, di conoscenze, di informazioni, che la questione della natura e il dibattito ecologico portano con sé. È come camminare su sabbie mobili, tanto le posizioni si uniscono o si contrappongono, o si modificano. Quindi tenere ben stretto il filo della differenza sessuale ci aiuta a non sperderci. Ad orientarci nel grande mare di temi, informazioni, conoscenze, questioni che l’inquietudine per la natura, e l’attenzione all’ecologia suscitano.

In prima battuta quello che propongo è un’ermeneutica sessuata di queste questioni. Il che significa che noi leggiamo e patiamo questi temi a partire da una incarnazione sessuata. Ho visto quanto questa posizione sia facilmente travisata e ridotta ad una semplice simmetria tra il femminile e il maschile, le donne e gli uomini, un genere e l’altro. In definitiva, parlare di genere femminile e maschile riduce il tutto ad uno sguardo neutro e di sorvolo che da fuori e dall’alto vede la simmetria dei due generi distendersi nel mondo sotto di sé. Come ogni sguardo neutro, anche questo facilita un ragionare scorrevole e senza intoppi e l’azione politica diviene come pattinare su di una superficie liscia, su cui si può agire come su di una scacchiera, muovendo le pedine. Allo stesso tempo si ritiene che con leggi, decreti, consigli istituzionali, si possa cambiare la realtà dei generi o cancellarli.

Ma la prospettiva da cui si muove il pensiero della differenza è che essere una donna significa avere consapevolezza costitutiva dell’altro, che è l’uomo, e questo si accompagna allora alla consapevolezza degli altri esseri, del mondo.

Un’ermeneutica sessuata dell’altro, degli altri, del mondo implica un esserci, un patire la propria presenza in rapporto all’altro, indicarla a chi ci ascolta, sentirla, dargli parola senza uscire dal cerchio della relazione. Una donna trova in questo il proprio modo di fare teoria nel cerchio della relazione e così fa vedere cose che altrimenti non potremmo vedere. Senza uscirne. Esattamente qui e ora.

Il pensiero della differenza dà una impronta, che mi sembra inaggirabile, all’ecologia. Non si tratta infatti semplicemente di dire che il mondo è relazionale. L’ecologia mostra che tutto il cosmo è relazione. Questo è ancora uno sguardo neutro che si pone fuori dal cosmo e guarda dall’alto che tutto è relazione. Io parlo, piuttosto, a partire da una relazione incarnata e da lì posso dire qualcosa di vero che riguarda anche altri, il cosmo. Ma non posso mettermi dall’alto e guardare come se ne fossi all’esterno. Come se fossi sulla Luna a guardare la Terra. Sono qui e ora, sono una donna che parla all’interno di relazioni. Ciò che caratterizza questo gesto è una dimensione asimmetrica, squilibrata. Non sono un soggetto onnisciente. La posizione neutra è la posizione di chi si pone al posto di Dio, non dal punto di vista di chi patisce dall’interno una certa situazione.

Dove Laura Conti ha mostrato l’incarnazione della differenza sessuale, questo essere in una relazione incarnata? Asimmetrica. Dove e come ha mostrato di fare un discorso teorico mettendosi in gioco personalmente e non semplicemente di dare una conoscenza oggettiva, per cui lei dunque supera l’opposizione soggetto-oggetto? Lo ha mostrato quando ha parlato dell’amore per la Terra come leva fondamentale che l’ha portata all’ecologia. Ad occuparsi politicamente del nostro pianeta. È il suo punto incandescente in cui si nota più fortemente l’asimmetria. Non necessariamente per tutte è questa la via della differenza, ma questa donna offre qualcosa di vivente al processo di verità quando tocca questo punto asimmetrico vivente, fertile, generatore.

Vorrei spiegarmi, riprendendo alcune linee del pensiero di Laura Conti, per mostrare il modo di darsi di questo punto di incandescenza sessuato, che è nel suo percorso l’amore per la Terra. La sua affermazione, che si sente impegnata soggettivamente per la salute e il benessere di tutte le creature umane e non umane e per il pianeta e che fonda questo impegno nella conoscenza scientifica, rende la conoscenza scientifica non neutra. È non neutra perché inserisce i processi di sapere all’interno del campo più vasto del sentire soggettivo che impegnano più di qualsiasi scelta etica. Ed è anche non neutra perché dire che è l’amore che la spinge verso il conoscere il pianeta per renderne migliori le condizioni è qualcosa che per lo più sono le donne a dire nella nostra contemporaneità.

Molte sono le testimonianze di giovani scienziate, che dichiarano di aver iniziato studi lenti e faticosi di biologia, medicina, fisica ecc., in quanto guidate da amore per il mondo e la natura. Succede che poi non sanno esprimerlo all’interno della loro disciplina, prese dallo studio così come viene veicolato in paradigmi disciplinari. In questo senso c’è una loro differenza femminile che si esprime in questo e che viene avvertita come fuori posto dallo sguardo degli altri; loro stesse finiscono per autocensurarsi su questo tema con l’andare del tempo.

Laura Conti invece lo esprime, lo scrive. Come lo scrive anche Evelyn Fox Keller quando riporta la posizione di Barbara McClintock, la genetista che parlava di amore per la singolarità del gene del grano che stava studiando. È il passaggio da un’episteme fondata sulla contrapposizione soggetto-oggetto ad una nuova episteme legata alla relazione amorosa nella ricerca scientifica. Un’area di discorso che viene censurata accuratamente negli studi di allora. Come di oggi. Considerata superflua.

Mi fermo dunque su questo tema dell’amore per la natura, che è slancio, tensione, che Laura Conti sente vincolante per sé. Condizione di conoscenza scientifica della natura e leva per un’azione politica a favore delle creature e del pianeta.

Ci sono diversi modi in discussione oggi sul modo di rapportarsi alla natura. Mi fermo soltanto su due di questi. Quelli in cui si coglie maggiormente la differenza di posizione rispetto a Laura Conti. Dunque non voglio affatto essere esaustiva. Del resto so bene quanto le manifestazioni per la natura e il clima come Friday For Future siano fondamentali per una presa di coscienza collettiva. Lo slancio di fondo le accomuna al sentire e al pensiero di Laura Conti.

La prima posizione è quella che fa leva sull’interesse economico per una politica per la natura. Faccio riferimento alla green economy. È fondata sulla idea che il mercato e le aziende aumenteranno il profitto se verranno favorite le energie rinnovabili e le agricolture sostenibili. Viene coniugato l’interesse economico all’interesse per il pianeta attraverso schemi di ragionamento molto rigorosi. Tuttavia l’interesse non è sufficiente per creare una vera svolta di modo di sentire e di agire rispetto al pianeta. Lo si può notare dal fatto che ai diversi incontri per un accordo internazionale prevalga in molti casi il puro interesse economico a breve termine, facendo fallire le progettazioni a lungo termine, che richiedono un sacrificio immediato. Laura Conti ha sempre avuto molto chiara l’importanza dell’economia, ma in rapporto al lavoro, non al capitale. Lavoro che deve rimanere al centro e non va mai sacrificato. Ora contemporaneamente l’economia va vista nell’orizzonte più ampio di una effettiva politica per la natura.

Considero molto diversa la posizione di Laura Conti dalla concezione dell’antropocene, di cui non poteva sapere in quanto emersa come termine e progetto politico a partire dal 2000. L’idea alla base dell’antropocene è che la trasformazione provocata dall’essere umano al pianeta è così radicale che si può solo parlare di un pianeta umanizzato, che ha generato una nuova era geologica. Questa antropizzazione ha provocato tuttavia un tale disequilibrio da richiedere un suo superamento. Sull’idea di un diverso rapporto tra l’umano e la natura, per cui è bene che spostiamo il punto di avvistamento in modo da considerarci prima di tutto terresti, Laura Conti non avrebbe potuto che essere d’accordo. Ma la cultura dell’antropocene porta con sé posizioni anche più radicali di questa: il superamento dell’umanità stessa come dominante la Terra. Con la proposta della fine dell’antropocene, si allude alla fine della specie umana. In questo contesto paura della morte, fatalismo e desiderio del superamento dell’umano convivono. Laura Conti, guidata dall’amore per tutte le creature della terra, compresa la specie umana, ha invece sempre pensato ad azioni politiche locali avendo uno sguardo di sistema. Invitando a rendersi responsabili di questo. E avendo chiaro che la natura non è necessariamente a favore degli esseri umani. Riporto qui un suo esempio, su cui ritornerò, perché mi ha molto colpito: lasciando fare alla natura, le donne partorirebbero tantissimi figli, e questo esaurirebbe tutta la loro energia.

Si noti come le due posizioni che ho descritto cancellino la differenza sessuale.

Vorrei mostrare qui come Laura Conti coniughi amore per la natura e senso della giustizia. Dove per giustizia si intende che il deteriorarsi del clima colpisce automaticamente le popolazioni più povere.

Faccio emergere questo gioco tra amore e giustizia dal dialogo a distanza tra Laura Conti ed Elisabetta Donini, donna di riferimento nel dibattito italiano sulla filosofia della scienza negli anni dell’impegno di Conti.

Inizio da questa citazione di Laura Conti: «Che nella lotta per l’ambiente il fattore etico abbia larga importanza, può darsi. Dico “può darsi”, in quanto per me non ne ha: non mi ricordo di avere mai avuto preoccupazioni etiche nelle mie scelte di comportamento, che sono state sempre guidate solo dalla simpatia e dall’antipatia, dall’amore o dal furore. Altri sono diversi da me: per esempio, molti sono antinucleari per motivi etici, in quanto ritengono “immorale” risolvere i nostri problemi accollandoli ai posteri, e cioè disseminando il futuro di scorie radioattive che rimarranno pericolose per molte migliaia di anni, e insinuando nel patrimonio genetico della specie geni di malformazioni e malattie ereditarie. Per me invece la questione delle scorie radioattive non è una questione etica ma un problema di amore: non tanto verso i posteri quanto verso la vita nel suo insieme: amo il sistema vivente, voglio proteggerlo»[1].

Istruttiva in questo senso la discussione sulle argomentazioni dei vegetariani. Per lei il principio per il quale non vanno uccisi e mangiati gli animali è perché li si ama. Mentre rifiuta l’argomentazione che passa attraverso l’universale del diritto: gli animali hanno gli stessi diritti che abbiamo noi.

In Questo pianeta affronta dunque la posizione di Elisabetta Donini di Senza norma né legge[2]. Scrive: «Elisabetta propone un modo “etico” di porsi come ecologisti, diverso dalla “prospettiva scientista” che le appare “al tempo stesso una pretesa troppo arrogante e una semplificazione troppo ingenua”, e in fin dei conti un atteggiamento “imperialistico”, guidato dalla volontà di comprendere le interconnessioni del mondo per poterlo così padroneggiare»[3]. La posizione di Donini, qui riassunta, è fondata su una concezione armonica della natura senza nessuna perdita interna alla natura. A questa obietta Laura Conti che il darwinismo mostra la selezione delle specie e dunque non la crescita armonica di tutte le specie viventi, come invece sostiene il lamarkismo. Selezionare significa “acquisire, conservare, smarrire”[4]. Dunque anche perdere delle specie.

La natura dunque non è affatto armonica. Ad esempio, il rapporto con la natura da parte delle donne non è lineare, ma segnato da molte contraddizioni. Le più importanti riguardano la riproduzione senza sessualità che molte femministe chiedono: «Ci sono infatti nel movimento delle donne diverse contraddizioni, e una è questa: che mentre certi gruppi sostengono le tesi ambientaliste e criticano severamente il mito dell’onnipotenza tecnologica e l’ideologia del “dominio” sulla natura, altri gruppi invece sentono l’impegno fisiologico nella riproduzione come una grave limitazione, e chiedono l’aiuto della tecnologia»[5]. Fa riferimento qui anche soltanto ai contraccettivi.

Ritorno sulla posizione di fondo di Laura Conti, e cioè che la natura non è favorevole di per sé agli esseri umani. E proprio per questo non possiamo “lasciar fare alla natura”. Perché questo significherebbe non soltanto «l’eventualità che le donne generino sino a quindici figli, ma significherebbe anche, a rigor di logica, accettare che la maggior parte di essi sia condannata a morire di fame, di malnutrizione, di malattie infettive»[6].

Amare il sistema vivente significa allora affrontare queste contraddizioni, intervenendo sensatamente soprattutto a livello locale, e sapendo di non poter risolverle in generale.

La fiducia che lei ha riposto nel parlare con la gente di queste questioni, discutere assieme, prendere decisioni in situazioni contingenti qui e ora, mostra un amore per le donne e gli uomini con i quali entra in contatto e con i quali instaura un dialogo non solo di informazione ma profondamente politico[7].


[1] Laura Conti, Questo pianeta, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 233.

[2] Elisabetta Donini, Senza norma né legge, in SE, n. 40.

[3] L. Conti, Questo pianeta, cit., p. 242.

[4] Ivi, p. 243.

[5] Ivi, pp. 248-249.

[6] Ivi, p. 247.

[7] Su questo entra in merito l’articolo di Maria Teresa Muraca qui presente.


(www.diotimafilosofe.it, Rivista n. 17/2020)

di Marinella Correggia



Ieri i contadini mobilitati da un anno alle porte di New Delhi si passavano bocconi di cibo l’un l’altro (e anche ai soldati), mentre i più giovani esultavano sui trattori celebrando la prima, storica vittoria. Infatti il primo ministro dell’India Modi ha annunciato la decisione del governo di abrogare le tre leggi che liberalizzavano il mercato agricolo a favore delle grandi imprese e a scapito del mondo rurale. È avvenuto «nel 358esimo giorno di una lotta unita, pacifica e perseverante per il ripristino della democrazia nel paese», come ha precisato il coordinamento di quaranta organizzazioni contadine Samyukt Kisan Morcha (Fronte unitario contadino).

Dal 26 novembre 2020, sotto gli occhi distratti del mondo, si è svolta una lotta oceanica e incessante che sembrava di altri tempi, con la presenza alle porte di Delhi (Singhu border) di decine di migliaia di contadini, barbe bianche o nere, donne di ogni età, ragazzi provenienti dai villaggi di diversi Stati, organizzati con tende, cucine da campo solidali, presidio medico. Hanno sopportato il freddo, poi il caldo, gli assalti cruenti della polizia. Nel mese di gennaio 2021, decine di milioni di contadini sono scesi nelle strade indiane per lo sciopero di protesta (Bandh), riconvocato a settembre. Movimenti di donne, tribali, lavoratori hanno offerto appoggio.

Gioia ma anche cautela fra gli attivisti: «Torneremo a casa solo quando vedremo risultati concreti», ha detto Kamdan, piccolo agricoltore dello Stato dell’Haryana, mentre per la contadina Parminder Kaur «ha vinto la nostra pazienza».

«La lotta paga», sottolineano le organizzazioni che fanno parte del movimento internazionale La Vía Campesina. Sintetizza l’Associazione rurale italiana (Ari): «Dopo un anno di mobilitazione ininterrotta, il governo nazionalista e neoliberista ha ritirato le tre controverse leggi che colpivano il mondo contadino. Complimenti ai contadini e alle contadine indiani». Di «vittoria massiccia» parla La Vía Campesina.

Giorni fa il movimento, presente in oltre 80 paesi, aveva lanciato l’idea di internazionalizzare l’anniversario della lotta, il prossimo 26 novembre: «Chiediamo ai nostri aderenti di realizzare azioni di solidarietà e diffonderne le immagini, con l’hastag #SaluteToIndiasFarmers, spiegando come la privatizzazione e liberalizzazione colpiscano i contadini anche negli altri paesi. Quella in India è una mobilitazione storica, la più grande dei tempi recenti (…), malgrado l’oppressione e i tentativi di criminalizzare il movimento. Almeno 650 contadini hanno perso la vita in questi mesi». In ottobre, cinque attivisti sono stati uccisi da un’auto guidata dal figlio di un ministro.

La protesta contro Modi è andata in scena anche a Glasgow alla Cop26 sul clima, grazie alla diaspora indiana che ha manifestato con lo slogan «La lotta dei contadini indiani è la nostra lotta». Ma che questo movimento «storico e nonviolento» (così l’ha definito Ashish Mittal, uno dei principali promotori del gruppo All India Kisan Mazdoor Sabha) non debba interrompersi appare chiaro nella cautela del coordinamento Samuykt Kisan Morcha che, rendendo «umile omaggio» agli agricoltori morti, avverte: «Aspettiamo che l’annuncio del primo ministro abbia seguito in Parlamento. E ricordiamo che la nostra agitazione riguarda anche la garanzia legale di prezzi remunerativi per tutti i prodotti agricoli e per tutti gli agricoltori».

Rakesh Tikait, leader del sindacato Bhartiya Kisan Union (Bku), ha avvertito che l’annuncio di Modi potrebbe essere una manovra elettorale, visti i timori del suo partito per le prossime elezioni in vari Stati.


(il manifesto, 20 novembre 2021)

di Luca Ricolfi


In Italia se ne è parlato poco, ma il caso Stock merita una riflessione. Kathleen Stock è (anzi era) una docente di filosofia dell’Università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’ordine dell’impero britannico per i suoi meriti accademici.

Qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce, intimidazioni, persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di genere. Non si pensi, però, alle solite campagne denigratorie, basate su tweet e cancelletti, di cui ci dilettiamo in un paese comparativamente mite e tutto sommato ancora bonaccione come l’Italia: le cronache raccontano che le intimidazioni verso la professoressa Stock erano giunte a un punto tale da indurre la polizia a farle   ingaggiare una guardia del corpo, installare camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché ricorrere a un numero di emergenza in caso di pericolo.

Il caso della Stock è solo l’ultimo di una serie impressionate di episodi di censura e di intimidazione che, specie nel mondo anglosassone e con crescente frequenza negli ultimi anni, hanno colpito la libertà di espressione nelle università, nelle scuole, nei giornali, nell’editoria, nella televisione, nel cinema, nello spettacolo.

Ma la libertà di espressione di chi?

Un po’ di tutti, a quel che si apprende dalle cronache. Ma in misura assolutamente preponderante la libertà delle donne, specie se femministe e impegnate in lavori intellettuali, come scrittrice, giornalista, professoressa universitaria. La ragione di tale accanimento è semplice: i più radicali tra gli attivisti LGBT+, che legittimamente propagandano le proprie idee e rivendicazioni in materia di sesso e di genere, non tollerano che le donne si facciano portatrici di idee diverse, o opposte, rispetto a quelle prevalenti nei segmenti più estremi del loro mondo. Materia del contendere, soprattutto, la richiesta degli uomini che si sentono donne di accedere agli spazi tradizionalmente riservati alle donne, come bagni, spogliatoi rifugi/centri anti-violenza, reparti femminili nelle carceri, competizioni sportive fra donne. Chiunque osi difendere tali spazi, è bollata come TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist), un acronimo usato quasi sempre in chiave denigratoria e dispregiativa.

Di qui tutta una serie di insulti, minacce, aggressioni, cancellazioni di conferenze, richieste di dimissioni o di licenziamento che hanno colpito, in particolare, tre categorie: scrittrici celebri, come Margareth Atwood e Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter; giornaliste come Suzanne Moore, Julie Bindel, Marina Terragni; ma soprattutto una schiera di professoresse universitarie, specialmente britanniche: Rosa Freedman, Germaine Greer, Kate Newey, Jo Phoenix, Janice Raymond, Selina Todd, solo per citare i casi più noti.

Questa vicenda presenta, a mio parere, due aspetti sociologicamente interessanti. Il primo è che l’attacco alla libertà di espressione, pur minacciando tutti (se non altro come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne, specie se   femministe e/o impegnate in una professione intellettuale. Ed è paradossale che questo attacco alla libertà delle donne, tradizionalmente descritte come discriminate, avvenga proprio in nome dei diritti di una minoranza a sua volta discriminata.

Il secondo aspetto interessante è il fatto che l’accusa di transfobia, fuori luogo quando viene rivolta a donne che esprimono la loro opinione in materia di identità di genere, finisca per funzionare come una profezia che si auto-avvera. Etimologicamente, transfobia non significa odio per i trans, ma paura (dal greco phobos) nei loro confronti, ed è quantomeno curioso che sia invalso l’uso di dire ‘paura’ e intendere ‘odio’. Ma nel momento in cui una donna viene minacciata, fisicamente e moralmente, in nome dei diritti di una comunità (in questo caso quella trans), è normale che la medesima donna cominci davvero, quali che fossero i suoi sentimenti precedenti, a provare paura dei membri di quella comunità. Una paura che prima non provava, e che è stata suscitata dalle intimidazioni cui è stata sottoposta. La professoressa Stock ha lasciato l’università precisamente perché aveva paura degli studenti, dei colleghi e degli attivisti che la minacciavano per le sue idee. Con un singolare contrappasso: la lotta al fantasma della transfobia finisce per secernere transfobia vera e letterale, pura e semplice paura fisica dei membri di una comunità.

Come se ne esce?

Dipende da dove si vive. Nel Regno Unito è il Governo stesso, anche sotto la pressione del caso Stock, che si sta interrogando su come garantire i diritti delle donne e la libertà di espressione nelle università esistenti, proteggendo professori e studenti dalla prepotenza degli attivisti.

Negli Stati Uniti molti professori ormai pensano che la battaglia per ripristinare la libertà di espressione nelle loro università sia perduta, e che per cambiare le cose occorrerebbe troppo tempo. Quando un’istituzione come un grande e prestigioso ateneo comincia a credere che la sua missione sia la “giustizia sociale”, anziché la ricerca disinteressata della verità, della conoscenza, della cultura, è inutile sperare che sia in grado di proteggere la libertà di pensiero. Di qui l’idea di fondare università libere, in cui professori e studenti possano esprimere senza timore le loro idee, anche se radicali, eterodosse, controcorrente, abrasive. Sta succedendo a Austin, in Texas, e forse la professoressa Stock troverà rifugio proprio lì.

E nell’Unione europea? E in Italia?

Vedremo. L’importante è che non si metta la testa sotto la sabbia, e si affronti il problema. Senza paura.


(la Repubblica, 20 novembre 2021)


fuoriregistro quaderno di pedagogia e arte contemporanea, edizioni Boîte, dedica il secondo numero  “al bene comune, inteso come abitare il linguaggio dell’altro/a per dare forma a nuove declinazioni.” Include il progetto Perla Gina, realizzato dal gruppo di artiste e lavoratrici dell’arte Gina X, e illustrato dal fotografo Marco Passaro che sarà presente. Ne discutiamo con le artiste della redazione, Paola Gaggiotti e Donata Lazzarini. Introduce Francesca Pasini, critica d’arte.

Accesso con  Green Passdocumento d’identità mascherina

di Franca Fortunato


«All’età di diciassette anni e mezzo venni sequestrata a forza e portata in un bunker. Fui violentata e poi portata in una casa e poi in un campeggio delle torture e degli stupri. Mi hanno venduta di banda in banda con destinazione prostituzione in Italia dove sono arrivata nel 1996 a bordo di un gommone, sul quale c’erano tantissime altre ragazze. Io sono finita a prostituirmi nel Varesotto. Ho subito l’inferno. Un giorno decisi di ribellarmi. Lo feci dopo quattro anni. Grazie alla mia denuncia sono state liberate 10 ragazze, 40 sono stati arrestati, 70 i denunciati, tutti condannati», sono parole di Alma Sejdini, Adelina, la donna che ha avuto il coraggio di mettersi contro la mafia albanese del racket della prostituzione e della tratta di esseri umani. Mafia non meno pericolosa di quella italiana. Adelina non viene considerata una testimone e collaboratrice di giustizia, per cui non entra in nessun programma di protezione. Non le viene data una casa, un lavoro, non le viene concessa la cittadinanza italiana nonostante continui la sua “missione” di liberare dalla schiavitù altre ragazze, convinta, come tante altre sopravvissute, che la prostituzione non è un lavoro, una libera scelta, meno che mai per donne vittime di tratta. La prostituzione è “abuso”, “violenza”, che le donne si trovano a subire da parte di uomini che pagano per avere accesso al loro corpo. Nella sua audizione alla Commissione parlamentare sull’indagine conoscitiva sulla tratta, a cui andò nonostante si stesse curando un cancro, si appellò a tutti perché fermino «la domanda, sanzionando i clienti. Nessuna donna si può prostituire da sola neanche se lo vuole. In Italia sono più di 120mila le donne vittime di tratta. Fate qualcosa per queste ragazze, non permettete che venga legalizzata la prostituzione, che vengano aperti i bordelli o le cosiddette zone rosse, non abolite il reato di favoreggiamento della prostituzione. Se oggi fossi ancora schiava starei dentro a quel bordello, così gli sfruttatori prenderebbero i soldi mentre lo stato incasserebbe le tasse». La sua è la stessa lotta di tante sopravvissute come Rachel Moran, autrice del libro Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, che puntano all’abolizione della prostituzione con la criminalizzazione dei clienti. Donne avversate dalla lobby dell’industria del sesso che, come anche tante donne, parla della prostituzione come sex-work e ne chiede la regolamentazione. Dopo la morte di Adelina, molte avrebbero fatto bene a tacere.

Adelina chiedeva la cittadinanza italiana per sentirsi al sicuro.

Il 28 ottobre si era presentata davanti al Viminale e in un atto estremo si era data fuoco. Il 6 novembre è tornata, allontanata dalla polizia, si è diretta verso il Ponte Garibaldi e si è gettata di sotto. «Questa notte mi troverete dentro una tomba. Fate quello che vi ho detto, diventate la mia voce, morta per morta, spero che altre Adelina avranno quello che non ho avuto io», è il suo messaggio di addio. Aveva lottato contro il cancro, contro la mafia albanese, non aveva una casa, era ospite di un prete, le amiche le pagavano il taxi per andare a farsi la chemioterapia, le avevano tolto lo status di apolide, le avevano assegnata la cittadinanza albanese ma lei non voleva tornare in Albania, sapeva che la mafia l’avrebbe uccisa. Andava ascoltata, protetta, aiutata e non abbandonata. E pensare che Mimmo Lucano, che ha accolto, protetto, dato una casa, un lavoro, un’identità, una speranza alle tante migranti approdate a Riace, è stato condannato dal tribunale di Locri. Quale tribunale giudicherà chi ha spinto Adelina verso l’abisso?


(Il Quotidiano del Sud, 19 novembre 2021)

di Alessandra Pigliaru


Verso il 25 novembre. Ieri Di.Re. ha presentato i dati sul 2020: «oltre 20mila le donne che si sono rivolte ai nostri centri, ma i fondi sono scarsi». Intanto, nelle ultime ore, salgono a tre i femminicidi. Autori sono partner o ex. Spesso uccidono anche i figli


L’ultimo femminicidio è avvenuto poche ore fa, a Montese, sull’Appennino modenese. Un uomo ha accoltellato la moglie e in seguito ha cercato di togliersi la vita. Poco distante da lì, a Sassuolo, un altro uomo, ex partner di Elisa Mulas, ha ucciso ieri l’altro lei, la ex suocera e i due figli di 2 e 5 anni.

Quante donne muoiano per mano maschile ce lo raccontano le cronache, quasi ogni giorno (alcuni dati si trovano nel sito del Ministero dell’Interno che stila un report settimanale). Che l’intensificarsi di questo fenomeno, strutturale e sistemico, coinvolga sempre più spesso i bambini e le bambine lo rammentano le storie, come quella di Vetralla, nel viterbese, quando un uomo, che aveva il divieto di avvicinamento alla sua ex e al figlio, ha ucciso il bambino di 10 anni.

C’è un denominatore comune in queste vicende, ovvero la volontà deliberata delle donne di fuoriuscire da una condizione di violenza mettendo dunque fine alla relazione. In più di un caso, gli individui che le hanno uccise, o hanno ucciso i figli, hanno contravvenuto a ordinanze e, senza apparente difficoltà, hanno raggiunto le proprie vittime. Qualcosa non sembra funzionare, ed è un fatto di cui si discute da tempo. Lo fanno anche i centri antiviolenza, come quelli della rete Di.Re. che ieri hanno presentato alcuni dati (relativi al numero di donne che si rivolge ai Centri) insieme alle iniziative in vista del 25 novembre (giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne) e della manifestazione organizzata da Non Una Di Meno di sabato 27.

La rilevazione presentata ieri, curata da Sigrid Pisanu e Paola Sdao, copre l’intero 2020. Hanno partecipato 81 organizzazioni aderenti a Di.Re per un totale di 106 centri antiviolenza di cui il 60% può contare su almeno una struttura di ospitalità, cioè le case rifugio strutture essenziali in casi di allontanamento necessario dall’abitazione famigliare, non solo per le donne ma anche per i figli. Che le case rifugio (insieme alle case di semi-autonomia), 64 in totale, siano in numero insufficiente in tutto il territorio nazionale è un dato che colpisce ma non sorprende, non si possono fare miracoli con pochi fondi distribuiti in maniera eterogenea. Il 72% dei centri usufruisce di finanziamenti pubblici di fonte regionale (i fondi più consistenti in Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Toscana), oltre la metà beneficia di finanziamenti comunali (l’Emilia Romagna è la più virtuosa) e circa un terzo dal Dipartimento pari opportunità. Ci sono poi i finanziamenti privati che sono una fonte per il 75% dei centri. Il lavoro di Di.Re., che fa accoglienza, offre consulenza legale, psicologica e percorsi di orientamento al lavoro, insieme a consulenze genitoriali, gruppi di auto-aiuto e consulenza alle donne immigrate, è dunque su base largamente volontaristica. Anche nel 2020, con 20mila donne accolte, di cui 13mila al primo contatto (dunque accolte per la prima volta), sono le volontarie a sostenere le attività dei centri, soltanto il 32% delle oltre 3mila viene retribuita.

Il dato relativo ai profili delle donne che si rivolgono a un centro antiviolenza è omogeneo rispetto agli anni precedenti, il 54,7% ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, la maggior parte è di nazionalità italiana e una donna su tre non ha reddito. I tipi di violenza vanno da quella psicologica a quella economica, dalla violenza sessuale allo stalking cui le prime due forme spesso si appaiano.

Anche l’autore della violenza è della stessa tipologia: nel 76,4% dei casi è di nazionalità italiana, un’età compresa tra i 30 e i 59 anni, la metà ha un lavoro stabile e nel 60% dei casi sono partner, nel 22,1% sono invece ex.

Punto importante della conferenza stampa di ieri è l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria, ne ha parlato Nadia Somma ponendo l’accento sulle «conseguenze più dolorose dei percorsi giudiziari che le donne affrontano per porre fine alla violenza che subiscono, ovvero l’essere rese nuovamente vittime a causa di procedure e approcci che non riconoscono o minimizzano la violenza subita, mettono in dubbio la loro credibilità, le colpevolizzano per la stessa violenza subita, sottovalutano l’impatto della violenza assistita da figli e figlie e impongono forzatamente forme di bigenitorialità che consentono agli uomini maltrattanti di reiterare comportamenti abusanti nei loro confronti».

Ieri, una nota di Donatella Conzatti, segretaria della commissione d’inchiesta sul femminicidio, fa sapere che è stato approvato in Consiglio dei ministri il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il triennio 2021-2023. L’ultimo era scaduto nel gennaio 2021, lamentano i centri antiviolenza che, pochi giorni fa, in una lettera aperta alla ministra Bonetti dal titolo «Forma e sostanza, i finti percorsi partecipati» specificavano come non vi sia stato ascolto e condivisione nel metodo e in alcuni contenuti, augurandosi di essere smentite quando si conosceranno meglio i dettagli.


(il manifesto, 19 novembre 2021)