di Silvia Baratella


«Neve testimonia dunque che anche le femmine più giovani erano riconosciute come persone a pieno titolo in queste antiche società». “Neve” è il nome dato alla neonata di 40/50 giorni sepolta nel Mesolitico e scoperta di recente nel sito archeologico ligure di Arma Veirana, in Val Neva. La frase che cito viene dalla notizia apparsa il 14 dicembre ’21 su Metronews.it (vd. articolo riportato in calce).

A parte quell’“anche”, la definizione di Metro è la migliore che ho trovato sulla stampa, le altre parlano di “trattamento egualitario”. La piccola Neve, sepolta amorevolmente con un corredo ricco di ornamenti, alcuni già portati da membri della comunità di sua madre e offerti per il suo funerale, prova che le bambine erano amate e rimpiante, «riconosciute come persone a pieno titolo» appunto. Ma senza “anche”. Essendo l’unica sepoltura ritrovata di creatura piccola di quella civiltà, nulla è dato di sapere sui bambini maschi. E poco si sa anche su adulte e adulti. Tuttavia la stampa, forse anche in base alle parole del direttore degli scavi, l’ha unanimemente comparata a un maschio che non c’è, decretando pure che non può essere stata trattata meglio di lui.

Gli archeologi e le archeologhe del team parlano di “uguaglianza” anche tra generazioni: non è scontato infatti che ogni civiltà attribuisca alle creature piccole lo stesso valore, e grazie a Neve ora sappiamo che quella società gliene dava tanto.

Ma poiché il discorso poi slitta sul rapporto tra i sessi, non ha senso presumere che il trattamento riservato alle femmine potesse essere solo egualitario o al di sotto rispetto ai maschi. A fronte di un corredo funebre così ricco, nulla vieta di ipotizzare che le bambine fossero tenute in maggior conto dei bambini. Non ci sono prove, neanche in questo caso (ma gli studi dell’archeologa Marija Gimbutas dovrebbero averci insegnato che i rapporti tra i sessi nella preistoria non hanno nulla di scontato e che ci sono prove di un principio di civiltà femminile), ma è un’idea utile a superare l’orizzonte ristretto del maschile come misura dell’umano. C’è una misura femminile del mondo, e non è speculare al maschile. Per esempio, la civiltà di Neve avrebbe potuto anche basarsi su un ordine simbolico materno, e dare grande valore sia alle bambine che ai bambini in quanto nate e nati di donna.


(www.libreriadelledonne.it, 24 dicembre 2021)



metronews.it, 14 dicembre 2021

La piccola Neve, in Liguria la più antica sepoltura di una neonata

di Osvaldo Baldacci


L’hanno chiamata Neve. È stata scoperta in Liguria la più antica sepoltura di una neonata in Europa risalente a 10.000 anni fa: si tratta di un’eccezionale testimonianza del Mesolitico e rivela una società di cacciatori-raccoglitori che teneva in particolare considerazione anche i suoi membri più giovani. Il ritrovamento è avvenuto nel sito dell’Arma Veirana, in provincia di Savona ed è oggi pubblicato su “Scientific Reports”, rivista del gruppo “Nature”.

I ritrovamenti e la più antica sepoltura di una neonata

Scavando in una grotta del comune di Erli, nell’entroterra di Albenga, un team internazionale di ricercatori ha scoperto la più antica sepoltura fino ad oggi mai documentata in Europa relativa a una neonata mesolitica. Le attività di scavo e di ricerca sono state condotte in regime di concessione da parte del Ministero dei Beni Culturali, per conto della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Imperia e Savona, rilasciata al professor Fabio Negrino, in quanto coordinatore e responsabile scientifico del progetto.

Un antichissimo rito funebre per la sepoltura di una neonata

La scoperta permette di indagare un eccezionale rito funerario della prima fase del Mesolitico, di cui sono note poche sepolture, che testimonia un trattamento apparentemente egualitario di un loro giovanissimo membro. La comprensione di come i nostri antenati trattassero i loro morti ha un enorme significato culturale e consente di indagare sia i loro aspetti comportamentali sia quelli ideologici.

Esiste una buona documentazione di sepolture riferibili alla fase media del Paleolitico superiore (Gravettiano), nonché alle sue fasi terminali (Epigravettiano recente). Non frequenti sono le sepolture riferibili al Mesolitico e particolarmente rare, per tutte le epoche considerate, quelle attribuibili a soggetti infantili. La scoperta di Neve è quindi di eccezionale importanza e ci aiuterà a colmare questa lacuna, gettando luce sull’antica struttura sociale e sul comportamento funerario e rituale di questi nostri antenati.

Lo studio delle gemme dentarie

L’istologia virtuale delle gemme dentarie della neonata, realizzata presso il laboratorio di luce di sincrotrone Elettra a Trieste, ha stabilito la sua età di morte, avvenuta 40-50 giorni dopo la nascita; ha inoltre evidenziato come la madre di Neve avesse subito alcuni stress fisiologici, forse alimentari, che hanno interrotto la crescita dei denti del feto 47 e 28 giorni prima del parto. L’analisi del carbonio e dell’azoto, sempre estratto dalle gemme dentarie, ha inoltre evidenziato che la madre si nutriva seguendo una dieta a base di prodotti derivanti da risorse terrestri (come ad esempio animali cacciati), e non marine (come la pesca o la raccolta di molluschi).

Gli ornamenti

La sepoltura ha restituito, insieme ai resti del piccolo corpo, un corredo formato da oltre 60 perline in conchiglie forate (Columbella rustica), quattro ciondoli, sempre forati, ricavati da frammenti di bivalvi (Glycimeris glycimeris) e un artiglio di gufo reale. Lo studio degli ornamenti, costituiti da conchiglie cucite su di un abitino o un fagotto in pelle, ha evidenziato la particolare cura che era stata investita nella loro produzione; inoltre, diversi ornamenti mostrano un’usura che testimonia come fossero stati prima indossati per lungo tempo dai membri del gruppo e che solo successivamente fossero poi stati impiegati per adornare la veste della neonata. Neve testimonia dunque che anche le femmine più giovani erano riconosciute come persone a pieno titolo in queste antiche società.


(https://metronews.it/2021/12/14/la-piccola-neve-in-liguria-la-piu-antica-sepoltura-di-una-neonata/)

di Simona Maggiorelli


La crisi umanitaria afgana è la peggiore che si sia mai vista, ammettono le Nazioni unite: «Un milione di bambini rischia di morire di fame nei prossimi mesi».

Dopo 40 anni di guerra e cinque mesi di governo talebano l’Afghanistan è al collasso sanitario, economico, politico. Povertà, fame, mancanza di servizi essenziali, violenza quotidiana contro le donne alle quali è impedito studiare e lavorare liberamente, violenze e abusi sui bambini venduti come merce, repressione di ogni dissenso e persecuzione di giornalisti e attivisti…

Gli unici ad avere mani libere sono i trafficanti di droga. Quando lo scorso 15 agosto i talebani hanno preso il potere, di fronte alla strage all’aeroporto, e alla rappresaglia in cui hanno perso la vita anche bambini e civili colpiti dal fuoco amico Usa, abbiamo detto mai più! Ma ben presto su questo martoriato Paese si sono spenti i riflettori internazionali e in questo rigido inverno la popolazione si trova ad affrontare una situazione drammatica, con disoccupazione e prezzi degli alimenti alle stelle, con quotidiane e gravi violazioni dei diritti umani, come denuncia su Left la ex parlamentare, insegnante e attivista Malalai Joya, ora costretta a vivere in clandestinità. Ne raccoglie il testimone in Italia, dove ha trovato rifugio, la giovane giornalista afgana Maryam Barak. Come raccontiamo nella storia di copertina il suo doloroso percorso ha molte affinità con quello dello scrittore Alì Ehsani, che dall’Afghanistan fu costretto a scappare nel 1997 a soli 8 anni, con il fratellino, dopo aver perso i genitori e la casa in un bombardamento. Due storie che ci dicono quanto poco la situazione sia cambiata negli ultimi vent’anni, nonostante tanta retorica sull’esportazione della democrazia.

«L’occupazione militare delle forze Nato (2001 – 2021) ha prodotto centinaia di migliaia di vittime dirette e indirette, a causa degli scontri a fuoco e dei bombardamenti, ma anche della fame, della mancanza di acqua e di infrastrutture», denuncia la Coalizione della società civile afgana per la laicità e la democrazia in un documento rivolto ai governi e alle istituzioni europee.

Una sciagura sono state anche la coltivazione e il commercio dell’oppio. Un ulteriore impoverimento della popolazione è stato provocato «dalla riconversione forzata delle coltivazioni, della trasformazione dei contadini proprietari in manodopera costretta a lavorare sotto minaccia», si legge nel documento della Coalizione rilanciato dal Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afgane). «Avviata dai signori della guerra già ai tempi dell’invasione sovietica, la coltivazione di oppio ha registrato un’impennata nel corso del ventennio dell’occupazione occidentale». La responsabilità è stata del governo afgano sostenuto dagli americani e ora è dei talebani dell’Emirato islamico, «tra i narcotrafficanti più potenti al mondo».

Ma il Paese è anche profondamente segnato dalle guerre per procura. Gli Stati Uniti hanno agito sul territorio attraverso Pakistan e Arabia Saudita e, anche dopo la loro ritirata, continuano a contendersi questa area geopolitica con Cina, Iran, Russia e Pakistan. Come abbiamo scritto in altri due numeri dedicati all’Afghanistan, con gli accordi di Doha, gli Usa di Trump strinsero un patto con i fondamentalisti, finanziandoli mentre pubblicamente lanciavano la guerra al terrore. Questo doppio gioco ha di fatto bloccato l’avvio del processo democratico e dell’emancipazione femminile, denuncia Malalai Joya. Dopo il ritiro degli Usa e delle altre forze Nato la popolazione afgana si è trovata consegnata a Russia, Cina, Turchia e Iran, potenze che violano i diritti umani e disposte ad allearsi con i Talebani. Intanto dal Pakistan si fa avanti l’Isis-Khorasan che predica il jihad a livello mondiale. In tutto questo l’Unione europea non fa sentire una propria voce, se non cercando di bloccare il flusso delle migrazioni forzate dall’Afghanistan.

Che fine hanno fatto i valori di laicità, democrazia e rispetto dei diritti umani di cui l’Europa si fa vanto? Da convinti europeisti constatiamo con dolore come l’Ue stia abdicando a se stessa lasciando che migliaia di profughi siano stretti nella morsa della neve lungo la rotta balcanica e al confine fra Bielorussia e Polonia.

Schiere di politici italiani di destra si sono lanciati in una crociata in difesa degli auguri di «Buon Natale», che la Commissione europea chiedeva di sostituire con un più inclusivo «Buone feste», ma non muovono un dito per chi, in carne ed ossa, oggi si trova senza soccorsi al freddo e al gelo. Si preferisce salvare il rito, infischiandosene delle persone.

Ribellandoci a questa logica disumana e ipocrita torniamo a dare voce a chi difende i diritti umani e rivendica il “diritto di non credere” e che – come documenta il Rapporto sulla libertà di pensiero realizzato da Humanists international – ancora oggi è discriminato e oppresso in molti parti del mondo.

In Afghanistan in particolare le forze laiche e progressiste (molte guidate da donne) sono gravemente minacciate. Eppure come Malalai Joya continuano a lottare contro l’Emirato Islamico, costruendo reti di scuole clandestine per le ragazze, aiutando le donne che sono vittime di violenza, impegnandosi a sostenere l’autodeterminazione del popolo afgano, attivando reti internazionali di sostegno in Europa. «Il coraggio e la resistenza delle donne contro i misogini talebani sono una fonte di speranza per il futuro dell’Afghanistan», dice Malalai, la nostra “donna dell’anno”. Ci uniamo alla sua voce e a quella delle donne di Rawa-Revolutionary association of the women of Afghanistan. Sosteniamole.


(Left, 23 dicembre 2021)

di Luca Martinelli


Nel 2021 è uscito uno di quei libri che il lettore dell’ExtraTerrestre dovrebbe tenere sempre a portata di mano, nella libreria o sul comodino. S’intitola Il profitto e la cura e lo ha scritto Cinzia Scaffidi per Slow Food Editore, con prefazione firmata da Luciana Castellina (208 pp., 16,50 euro).

La mia copia, quella che ho letto per preparare l’intervista, è piena di occhielli, tanti sono i rimandi a concetti-da-ricordare-assolutamente. Sono tante, tra questi, le citazioni da testi del passato scritti dalle «voci che non abbiamo ascoltato», come spiega il sottotitolo del libro di Scaffidi, che ha il merito di far dialogare tra loro la Bibbia e lo scrittore Italo Calvino, il poeta inglese William Wordworth e Don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi di Barbiana, la Nobel per l’Economia Elinor Ostrom e Justus von Liebig, padre dei fertilizzanti e dell’agricoltura intensiva. Sono le voci di chi ha avviato e portato avanti riflessioni sulla sostenibilità, sul conflitto tra (ricerca del) profitto e (tensione alla) cura, senza riuscire a influenzare o impattare gli effetti avversi che modello capitalistico applicato all’agricoltura stava producendo, su tutti la perdita di fertilità del suolo, nonostante fossero palesi fin dall’Ottocento.

La figura di Liebig è importante, perché nel 1861, quindi centosessant’anni fa, riconobbe che le sue pratiche si sono rivelate dannosissime: «Confesso volentieri che l’impiego dei concimi chimici era fondato su supposizioni che non esistono nella realtà. Avevo peccato contro la saggezza del Creatore e ho ricevuto la dovuta punizione» scrive.

La sua “scoperta” aveva permesso di avviare un business con un margine di profitto pazzesco, perché la materia prima dei fertilizzanti è l’aria. Il profitto e la cura è nato a margine dei miei corsi all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Cuneo), a partire dall’idea di mettere a disposizione del lettore una mappa dei classici, dei punti di riferimento che si possono avere quando si ragiona intorno ai temi dell’agricoltura e della sostenibilità. Non è vero che le cose esistono nel momento in cui le scopriamo ed è importante conoscere gli argomenti facendo sempre riferimento a quanto si è detto e scritto su questi temi a partire da epoche ormai quasi completamente lasciate fuori dal discorso pubblico. Trovo eccezionale che mentre Alexander von Humboldt (che è vissuto tra 1769 e il 1859, ndr) stava parlando di cambiamento climatico nel 1802, ancora pochi anni fa c’era qualcuno che sosteneva che il fenomeno non esistesse e dopo 200 anni siamo riusciti a eleggere Donald Trump presidente degli Stati Uniti d’America. L’evoluzione della specie è troppo lenta.

Perché nel saggio ha scelto di far dialogare le voci di un passato più o meno lontano con quelle che ascoltiamo ancora nel presente, come Greta Thunberg, Carlin Petrini o Papa Francesco?

Oggi è il papa ad aver evidenziato che i problemi ecologici si abbattono innanzitutto sui più deboli e se non ne avesse parlato lui, il tema non sarebbe in agenda, tuttavia c’è stato un Alexander Langer che senz’altro ha avuto meno eco ma ha detto esattamente quelle cose lì e quasi esattamente con le stesse parole. Il mio obiettivo non è riconoscere la paternità di un pensiero, che non è mai il problema, ma far sapere che qualcuno ha iniziato a ragionare su queste cose tanto tempo prima dà il senso di come siano maturate. Il papa per sua stessa ammissione ci ha messo un po’ a capire questa situazione, in uno dei suoi dialoghi con Petrini afferma di non aver creduto nella Teologia della Liberazione, nella Chiesa sudamericana che a partire dagli anni Settanta aveva scelto l’opzione per i poveri.

In quali ambiti immagina che possa essere utilizzato «Il profitto e la cura»?

Credo che sia uno strumento di formazione, che potrebbe essere molto utile in ambienti nei quali queste riflessioni trasversali sui temi della sostenibilità non arrivano, come quello legato alla formazione dei docenti, che non sono preparati e non hanno testi di riferimento per presentare l’ecologia a scuola collegandola alle diverse materie. La divulgazione scientifica è un elemento chiave e anche nobile della scrittura, perché se vogliamo che le cose cambino attraverso i comportamenti dei cittadini non possiamo immaginare di raggiungerli solo con liste di “così si fa” e non con spunti di riflessione.

Tra le voci non ascoltate c’è quella di Laura Conti, partigiana, medico, parlamentare per una legislatura, tra i fondatori di Legambiente. Perché ha scelto di dedicarle tanta attenzione?

Anche se è morta meno di trent’anni fa, il suo pensiero non è più riconosciuto tra quelli che hanno ispirato l’ambientalismo italiano. Abbiamo scelto di riportare in quarta di copertina una sua frase: «L’intima logica del capitalismo confligge ormai apertamente con i limiti naturali che l’agricoltura non può valicare». Questo significa che il capitalismo non si cura del domani, ma anche che non è possibile scegliere tra profitto e cura, perché non sono due temi alternativi: il problema è qual è il tuo obiettivo, perché si può costruire un’impresa solida se l’obiettivo è la cura. Il contrario non vale: se cerchi il profitto, sei portato ad abbandonare la cura. La società è arrivata a pensare che chi mira al profitto è in qualche modo giustificato a non avere attenzioni verso l’ambiente. Che il mestiere dell’azienda sia l’utile. Questo però non è vero e preso non sarà più così nemmeno nella Costituzione, perché la modifica dell’articolo 41 (verrà votata in via definitiva entro la fine di gennaio, ndr) prevede che l’iniziativa economica non possa svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini ambientali. A quel punto non sarà più giustificato né giustificabile l’imprenditore che lavori senza ricercare un miglioramento per tutta la società.

L’autrice sottolinea che forse «questo libro non servirà agli esperti di ecologia e di sostenibilità», ma non è vero: non ne esistono altri capaci di tracciare in modo così evidente il filo rosso che lega riflessioni sviluppate in momenti storici diversi, da pensatori che mai hanno potuto dialogare tra loro. Tra le voci quasi dimenticate c’è quella di Sir Albert Howard, morto nel 1947, botanico, precursore e fondatore indiscusso del movimento dell’agricoltura biologica (nel 2021 Slow Food Editore ha ristampato il suo libro I diritti della terra, pubblicato per la prima volta nel 2005). «È commovente – conclude Scaffidi – leggere ciò che scrive negli anni Trenta del Novecento, quando dà per spacciata l’agricoltura industriale. È convinto che tutti abbiano capito che “quella cosa lì non funziona”, che ha fallito, ed è convinto che si andrà verso un’agricoltura sostenibile. Meno male non ha visto ciò che è successo dopo».


(ExtraTerrestre – il manifesto, 23 dicembre 2021)

di Alessandra Fabbretti


Nei gelidi boschi che ricoprono le frontiere tra Polonia e Bielorussia al dramma dei migranti che da settimane sono accampati tra la neve si aggiunge quello dei minori. Tra loro alcuni viaggiano addirittura senza famiglia, come nel caso di Ali, un quindicenne dell’Iraq. «Sono stati i genitori a farlo partire via dopo che una delle tante milizie armate locali ha ucciso uno dei suoi fratelli. Ce lo ha spiegato al telefono il padre, che fa da tramite con Ali che non parla ancora bene inglese».

A riferire questa storia è Ewa, una volontaria polacca che da mesi raccoglie le richieste di aiuto che giungono dai profughi bloccati in questo angolo di Europa. Fa parte di una delle associazioni dell’alleanza «Grupa Granica» che da agosto si è costituita per rispondere alla crisi umanitaria innescata da un inedito aumento negli arrivi di profughi mediorientali e africani dalla Bielorussia e che il governo di Varsavia sta gestendo come una minaccia alla sicurezza interna. Raggiungiamo Ewa telefonicamente e ci risponde col tono di chi va di fretta: «Devo dedicarmi agli Sos che ricevo dal confine», dice. Tra le persone da assistere, però, Ali è in cima alla sua lista: «Sono sempre in pensiero – continua- me ne occupo da settimane. Qualche notte fa non sono riuscita a chiudere occhio perché non ci rispondeva al cellulare».

Ewa riferisce che il quindicenne ha vagato da solo per giorni prima tra le foreste sul lato bielorusso del confine, poi una settimana fa è entrato in Polonia dove ha continuato il viaggio con un migrante più grande. «Stando al suo racconto- prosegue Ewa- sono stati i militari bielorussi a costringerlo ad attraversare il confine ed entrare in Polonia. Qualche giorno fa però è stato trovato dagli agenti di frontiera che invece di accoglierlo, lo hanno respinto di nuovo verso la Bielorussia. Ora è laggiù, ha la febbre». A Ewa, il papà di Ali ha detto che «gli agenti polacchi avrebbero riso tanto quando il figlio, piangendo, li ha supplicati di non respingerlo».

Da quando è iniziata l’emergenza umanitaria alle frontiere bielorusse si sono creati vari gruppi sui social network per mettere in contatto i profughi con i volontari. Scorrendo i vari post, racconti come quelli di Ewa sono frequenti ma non verificabili fino in fondo perché da settembre solo i militari e i media di Stato hanno accesso alla zona di confine e chiunque voglia avvicinarsi – che si tratti di politici, giornalisti o operatori umanitari – rischia una multa fino a 500 zloty (in un paese dove il salario medio si aggira intorno ai 2.000-3.000 zloty) e l’arresto.

Tra le varie storie che viaggiano in rete si trova quella di Eileen, una bambina irachena di quattro anni che sarebbe rimasta da sola sul lato polacco del confine nella notte tra il 6 e il 7 dicembre. A Grupa Granica i genitori hanno denunciato di aver perso la figlioletta quando gli agenti polacchi sono intervenuti per respingere il loro gruppo. Le ricerche dei volontari sono state infruttuose mentre il 10 dicembre la polizia di Byalistok ha fatto sapere di aver intercettato anche dei bambini senza chiarire se Eileen fosse tra loro. E in quella foresta – evidenziano i media polacchi – ci sono i lupi. «Questa crisi umanitaria è di dimensioni enormi» riferisce Anna, volontaria polacca indipendente, «non abbiamo stime esatte ma sappiamo che ci sono centinaia di persone nascoste nelle foreste, tra cui anche alcuni adolescenti senza famiglia».

Se il diritto internazionale vieta i respingimenti forzati di profughi che fuggono da guerre o situazioni di pericolo, esistono ancora più responsabilità in capo agli Stati quando si tratta di un Msna, un minore straniero non accompagnato. Ma la presenza dei minorenni, che siano soli o con le famiglie, piccoli o adolescenti, non ridurrebbe il rischio dei respingimenti: «La polizia polacca di frontiera qualche settimana fa ha garantito l’accoglienza alle mamme con bambini – prosegue Anna – ma non abbiamo modo di verificarlo. Da un lato speriamo che questo sia il motivo per cui stiamo ricevendo meno chiamate da parte di famiglie con bambini piccoli, potrebbero aver deciso di non avventurarsi nei boschi con queste temperature. Ma temiamo anche un’altra spiegazione».

Alcuni volontari, dice Anna, hanno riferito di essere stati pedinati da agenti a bordo di auto civili. «Se è già capitato che i volontari a loro insaputa abbiano guidato gli agenti dai migranti, e questi poi sono stati arrestati o respinti, è normale che ora gli altri abbiano paura a contattarci». D’altronde coi bambini è più complicato scappare. Ma anche i volontari vivono nel timore di essere «tenuti d’occhio dai militari»: è il motivo per cui sia Ewa che Anna non rivelano né il loro cognome né l’area in cui operano.


Agenzia Dire

(il manifesto, 21 dicembre 2021)

Dialogo fra Alexandria Ocasio-Cortez e Noam Chomsky

a cura di Laura Flanders


Ci troviamo in un momento della storia statunitense in cui tutte le previsioni di lungo periodo sui mercati e sul sistema politico, persino sul nostro rapporto tra di noi e con la natura, sembrano perdere colpi. I produttori di consenso non sembrano più avere il controllo sulle persone comuni. Per discutere del nostro nuovo ambiente, la scrittrice e giornalista Laura Flanders ha incontrato Noam Chomsky, 93 anni e uno dei più importanti intellettuali viventi, e Alexandria Ocasio-Cortez, 32 anni, una delle principali deputate della sinistra Usa. Quello che segue è un breve stralcio della loro conversazione.

La trascrizione integrale si trova al link https://jacobinitalia.it/pensare-limpensabile

[…]


Noam, io e te discutiamo di tanto in tanto da circa trent’anni. Periodo durante il quale negli Usa è andata componendosi, come dici tu, una lunga lista di cose impensabili. Eppure di recente ho letto sul quotidiano per antonomasia, il New York Times, che i lavoratori hanno un potere reale, che l’economia potrebbe aver bisogno di una sorta di pianificazione e che, forse, lasciare tante cose in mano ai mercati non è l’idea migliore, soprattutto quando si tratta di ambiente e assistenza sanitaria. Qualcosa sta cambiando? E a proposito delle cose «impensabili», cosa è cambiato secondo te?

NC: Dovremmo, prima di tutto, riconoscere che abbiamo vissuto circa quarantacinque anni in un sistema politico socioeconomico ben preciso, il neoliberismo. Alcuni pensano che «neoliberismo» significhi una società completamente in mano al mercato. Ma non è mai stato così. Quello che abbiamo avuto per quarantacinque anni è ciò che tanti economisti hanno chiamato «economia di salvataggio di mercato». Ecco dunque le ovvie conseguenze, crisi finanziaria dopo crisi finanziaria. E ogni volta che accade, c’è un salvataggio finanziato dai contribuenti. L’accordo Tarp [Troubled Assets Relief Program] sotto George W. Bush, per esempio, conteneva due elementi. Uno consisteva nel salvare gli autori della crisi: le persone che concedevano prestiti predatori. L’altro nel fornire sostegno alle vittime della crisi, persone che avevano perso la casa, il lavoro. Puoi indovinare quale dei due è stato messo in pratica sul serio.

Noam, anni fa non potevi nemmeno pronunciare la parola «neoliberismo», figuriamoci «socialismo». Non parlavamo di sistemi in relazione alla nostra economia. Oggi lo facciamo.

NC: Lo facevamo anche sessanta, settant’anni fa. Dwight D. Eisenhower, che non aveva la fama di essere un fiammeggiante liberal, diceva che chiunque non accettava le politiche del New Deal, chiunque non credeva che i lavoratori avessero il diritto di organizzarsi liberamente senza repressione, non era parte del nostro sistema politico. Erano gli anni Cinquanta. È cambiato un po’ con Jimmy Carter, poi tutto è saltato con Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Da allora, abbiamo vissuto nel sistema che hai descritto, una guerra di classe unilaterale: mercato per i poveri, protezione per i ricchi.

Arrivo da te su questo punto, Alexandria. Ti ho intervistato quando eri candidata, in occasione di un programma sui giovani in politica. Ricordo con dispiacere che anche io, un’ottimista convinta, conclusi quell’intervista dicendo: «Ma se non vinci questa volta, correrai di nuovo?». Pensavo fosse probabile che tu non avresti vinto contro il potente Joe Crowley quella prima volta, ma è successo, e non sei la sola. È saltata una diga, secondo te?

AOC: Penso che un argine abbia ceduto, nella politica elettorale ma anche nell’organizzazione al di fuori del nostro sistema elettorale, come stiamo vedendo con gli scioperi, su una scala che non si vedeva da molti anni. È un po’ una situazione da «il re nudo» per il nostro sistema politico e per il sistema capitalista. La gente sta cominciando a rendersi conto che possiamo dare un nome a questi sistemi e descriverli, che l’acqua in cui le persone hanno nuotato in realtà ha un nome e che ci sono modi alternativi di fare le cose. Dopo che ho vinto, c’è stato un tentativo così grande e concertato da parte dei media di ridimensionare la mia vittoria come un colpo di fortuna. L’allora governatore di New York Andrew Cuomo disse, pochi giorni dopo, che si trattava di un incidente. Tutti i principali funzionari eletti e membri del Partito democratico cercavano di rimuovere quello che era successo. Ma non lo hanno fermato. Se la mia fosse stata una vittoria isolata avrebbero avuto altri argomenti. Ma semplicemente non è andata così. Abbiamo visto l’elezione di altre persone che nominavano i sistemi e parlavano di quelli che in precedenza erano tabù politici: l’elezione di gente come Ilhan Omar, Rashida Tlaib, Ayanna Pressley. E il ciclo successivo con Cori Bush, Jamaal Bowman e Mondaire Jones. Sembra che ci sia una crepa. Stiamo iniziando a vederla con le persone che riconoscono il potere di astenersi dal lavoro o di scendere in piazza.

[…]

Abbiamo sentito spesso la frase «Un altro mondo è possibile». In questo programma cerchiamo di parlare concretamente dei momenti in cui quell’altro mondo ci sembra non solo possibile ma palpabile. Qualcuno che hai incontrato, qualcosa che hai fatto, qualcosa di cui sei stato testimone o in cui sei stato coinvolto, qualcosa che ti ha dato la sensazione che questi enormi cambiamenti di cui stiamo parlando possano accadere, forse stanno accadendo. Noam, cosa ti porta a pensare che possiamo arrivarci?

NC: È iniziato negli anni Trenta. Sono abbastanza grande per ricordarmelo. La mia famiglia era composta da immigrati di prima generazione, della classe operaia, perlopiù disoccupati, ma pieni di speranza. Non era come adesso in termini assoluti – era molto peggio di adesso – e in termini psicologici era molto diverso. C’era la sensazione che stessimo lavorando insieme. Possiamo uscire da condizioni pessime, ma stiamo insieme. Abbiamo la capacità. Abbiamo azioni sindacali, organizzazioni politiche, abbiamo i nostri gruppi, associazioni che lavorano con un’amministrazione un po’ solidale. Possiamo unirci e combattere per uscire da questa condizione. E avevano ragione. Prendiamo questo esempio: intorno al 1960, un paio di ragazzini neri sedevano a un bancone della mensa a Greensboro, nella Carolina del Nord, a un bancone di una mensa riservata ai bianchi. Ovviamente sono stati immediatamente arrestati e cacciati. Poteva finire qui. Ma il giorno dopo, un altro paio di ragazzi è tornato. Ben presto, ci sono state persone che venivano dal nord a unirsi a loro. Ben presto, ci sono stati lavoratori del Comitato di coordinamento nonviolento studentesco che guidavano autobus per la libertà attraverso il sud, cercando di incoraggiare un contadino nero a prendere la vita nelle sue mani e andare a registrarsi per votare. In poco tempo, si è creato un enorme movimento. Sono sempre le persone che fanno accadere le cose. Dovremmo onorare le innumerevoli persone sconosciute; sono loro che ispirano. Sono quelli che dovremmo onorare e rispettare.

AOC: È una trasformazione della nostra comprensione di come accade la storia, di come avviene il cambiamento: [fatto da] da un numero di individui notevoli che negoziano per conto di tutti gli altri, alla rappresentazione più accurata della storia, che riguarda la mobilitazione di massa. Tutto questo è spesso cancellato e sottovalutato, proprio a causa del fatto che è potente ed efficace. Arundhati Roy ha scritto che un altro mondo non solo è possibile, è già qui. Trovare le forme in cui questo mondo è vivo è ciò che mi dà speranza. Il Bronx ha uno dei tassi pro-capite di cooperative di lavoro più alti al mondo. È una nuova economia nel nostro distretto in cui vivono milioni di persone. Che sia questo, che si tratti di discussioni sull’incarcerazione di massa, degli abolizionisti. Non si tratta solo chiedersi cosa significhi smantellare una prigione, ma cosa significa riorganizzare la società in modo che non ci siano persone impegnate in comportamenti antisociali come accade oggi, o che non abbiamo sistemi antisociali. Queste non sono solo conversazioni teoriche; ci sono comunità che stanno attivamente sperimentando e sviluppando soluzioni. Anche nel Bronx, abbiamo programmi di intervento antiviolenza, dove abbiamo preso persone che una volta erano incarcerate e sono pagate per fare da tutor a giovani che rischiano di commettere un crimine che li mette in un sistema che li incarcera per la vita. E abbiamo ridotto la violenza di oltre il 50%. È più efficace di qualsiasi intervento della polizia di cui siamo a conoscenza. Quello su cui lavoro non è «Come troviamo soluzioni?» ma «Come possiamo modulare le soluzioni che abbiamo già sviluppato per trasformare la nostra società?». E questo è il tipo di lavoro che rompe il cinismo. Il cinismo è un nemico della sinistra molto più grande di tanti altri perché è lo strumento che ci viene dato per farci del male. La speranza crea azione e l’azione crea speranza. Così possiamo andare avanti.


*Alexandria Ocasio-Cortez è la rappresentante alla Camera del 14° distretto congressuale di New York. Noam Chomsky è professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology. Laura Flanders conduce The Laura Flanders Show.


(jacobinitalia.it, 20 dicembre 2021)

di Francesca De Sanctis


Figlia di contadini, partigiana, cronista. Sull’Unità la giornalista aveva previsto il disastro e denunciato i responsabili. Il ricordo a trent’anni dalla morte


Fu fin troppo facile soprannominarla “la Cassandra del Vajont” quando il 9 ottobre del 1963 una frana fece esondare la diga causando la morte di oltre duemila persone. Tina Merlin, giornalista de l’Unità, aveva previsto tutto. Così come Cassandra aveva preannunciato il rapimento di Elena e la successiva caduta di Troia, lei aveva scritto che il monte Toc avrebbe ceduto e che tutta la valle era in pericolo. Ma a differenza della sacerdotessa di Apollo, Tina Merlin, che in realtà detestava essere chiamata “la Cassandra del Vajont”, non aveva il dono della preveggenza. Quella del Vajont non fu una “tragedia naturale”, come scrissero Montanelli, Bocca, Buzzati. Per quattro anni Tina Merlin aveva denunciato gli affari della Sade (la società elettrica che progettò la diga), aveva raccontato del ventre marcio di una «montagna che cammina», aveva scritto del terreno argilloso, dei boati, dei sismi e delle frane, aveva ascoltato gli abitanti di Erto, Casso, Longarone, aveva dato voce alle loro proteste e alle loro paure. Articolo dopo articolo, per quattro anni. Tutti sapevano, ma nessuno fece nulla. Certo, la Sade era il potere, e come diceva Tina Merlin, il potere comanda. Altro che fatalità, dunque. Mai tragedia fu più annunciata. Ma non era facile per una donna, comunista, corrispondente (precaria) dell’Unità dalla provincia di Belluno, farsi ascoltare. Persino convincere i suoi colleghi romani ad ottenere la prima pagina era un’impresa.

Tina Merlin però un dono ce l’aveva, e non era quello della preveggenza, come dicevamo: lei sapeva stare in mezzo alle persone. Aveva a cuore la sorte della sua gente ed era animata da un forte sentimento di ribellione contro ogni forma di ingiustizia, un istinto indomabile in difesa di operai, emigrati e soprattutto donne, considerate inferiori senza che lei riuscisse a capirne il perché. Nelle fotografie in bianco e nero, la vediamo spesso con i suoi strumenti di lavoro inseparabili: penna e taccuino, in mezzo al fumo delle sigarette. Era molto bella, ma non aveva un carattere facile. La sua durezza le derivava probabilmente dalla vita difficile che aveva avuto, scandita da sacrifici, povertà e lutti. Aveva tanti amici, certo. Ma anche tanti nemici, proprio per questo suo voler sempre manifestare apertamente ciò che non le andava giù, dai tedeschi ai burocrati del Pci.

Le sue battaglie contro le ingiustizie della vita aveva iniziato a combatterle molto presto, dopo aver vissuto sulla sua pelle brucianti umiliazioni. Era nata il 19 agosto del 1926 a Trichiana, in provincia di Belluno, da una famiglia di contadini, e aveva capito sin da piccola cosa significava l’emarginazione. Aveva imparato a pascolare le mucche dopo la scuola, a zappare la terra, a fare da cameriera per le famiglie benestanti di Milano. E a 17 anni divenne staffetta nella brigata partigiana “7˚ alpini”. La Resistenza per lei non fu mai un capitolo chiuso, semmai una porta aperta verso la conoscenza del mondo. Sposò un partigiano, Aldo Sirena, con il quale ebbe un figlio che chiamò Toni, come il fratello anche lui partigiano che lei stimava tanto e che fu ucciso a poche ore da quel 25 aprile del 1945, giorno della Liberazione.

La vita stessa di Tina Merlin, dunque, è un racconto epico straordinario, documentato dal romanzo pubblicato postumo, La casa sulla Marteniga (Il Poligrafo di Padova, 1993), grazie all’aiuto di Mario Rigoni Stern. Tina frequentava anche altri scrittori, da Goffredo Parise a Gianni Rodari. D’altra parte amava scrivere – racconti, filastrocche, poesie – e fu proprio grazie a un premio letterario che arrivò all’Unità nel 1951.

Quando iniziò la sua collaborazione con il quotidiano fondato da Gramsci scriveva per la “Pagina delle donne” e correva su e giù per la provincia di Belluno a caccia di notizie. Era quasi una missione per lei. In quell’ambiente provinciale appariva rivoluzionario per una donna fare quel mestiere che era sinonimo di libertà, di indipendenza e quasi di libertinaggio. Del Vajont scrisse tanto. Prima, durante e dopo la tragedia. Fu perfino denunciata dalla Sade per uno dei suoi primi articoli e poi assolta. L’11 ottobre del 1963 sull’Unità parlò di «genocidio». Le tv straniere la intervistavano mentre in Italia continuavano a ignorarla. Solo 20 anni dopo riuscì a pubblicare il libro in cui raccontava nel dettaglio quello che era accaduto: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont (La Pietra, 1983). Nell’edizione del 2001 (Cierre Edizioni) firmano la prefazione Giampaolo Pansa e Marco Paolini, che rimase folgorato dalla lettura di questo libro e diede vita allo spettacolo-capolavoro Il racconto del Vajont. In effetti fu grazie al suo monologo, al film di Renzo Martinelli Vajont – La diga del disonore (con Laura Morante) e agli spettacoli di Patricia Zanco (A perdifiato, ritratto in piedi di Tina Merlin e Il Vajont dopo il Vajont) che la storia di Tina Merlin è diventata finalmente nota al pubblico.

Eppure, lei, della faccenda del Vajont non ha mai fatto una bandiera. Ricordo quando iniziai a lavorare all’Unità e mi presentarono Toni De Marchi. Mi dissero: «Lui ha lavorato con Tina Merlin». Fianco a fianco per lungo tempo. «Mi assunse nel 1975, negli anni in cui coordinava la redazione veneta», racconta De Marchi: «Stava cercando dei giornalisti e da comunista convinta ma insofferente alle logiche di partito, per evitare che le venissero imposti dei piccoli funzionari, chiese alle sezioni del Pci di Venezia se c’erano giovani interessati a intraprendere la strada del giornalismo. Il mio segretario segnalò me. Così mi ritrovai a lavorare con Tina Merlin senza sapere minimamente chi fosse. Mi sono sempre chiesto perché non veniva ben vista dal partito, poi ho capito: non faceva sconti a nessuno, si incavolava quando qualcosa non le piaceva, non era diplomatica. Era una donna dal carattere complicato e dalla vita straordinaria, che ho scoperto anni dopo perché ne parlava poco. Tina Merlin, più che una brava giornalista è stata una giornalista militante: si poneva problemi seri, dalle lotte operaie alla conquista dei diritti femminili».

Era una donna contro, come suggerisce anche il titolo della sua biografia, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, scritto da Adriana Lotto con la prefazione di Toni De Marchi (Cierre Edizioni, 2011). Oggi Adriana Lotto dirige l’associazione culturale intitolata alla giornalista, che a gennaio pubblicherà un Quaderno in cui verranno raccolte tutte le testimonianze di chi l’ha conosciuta. «Tina conservava una brutta copia di qualunque cosa scrivesse», racconta: «E noi abbiamo acquisito il suo archivio così come era, dai racconti scritti per il Pioniere alle lettere private. Le piaceva ascoltare gli altri, stare in mezzo alle persone, agli operai. Era la sua gente e lei era una di loro. Certo, pagava il fatto di essere donna e di essere una giornalista dell’Unità. Ma è sempre stata una donna contro le ipocrisie e la stupidità, per la giustizia». Chissà se il Comune di Belluno le dedicherà una statua come è stato proposto di recente dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. Una cosa è certa, oggi, a 30 anni dalla sua scomparsa avvenuta il 22 dicembre del 1991 in un letto di ospedale dopo un anno di malattia, vale la pena ascoltarla ancora la sua storia, la storia di una donna libera e ribelle che ha attraversato il Novecento senza stancarsi mai di lottare contro il potere, i pregiudizi e i diritti negati.


(L’Espresso, 19 dicembre 2021)

di Valeria Palumbo


Guardano in «macchina», le pittrici e le fotografe che si ritraggono. Perfino, come fa coraggiosamente Paula Modersohn Becker nel 1906, quando si ritraggono nude e non belle o anziane. Impietose, direbbe qualcuno che ritiene che le donne, come ci si ostina a credere per la Contessa di Castiglione, si facciano ritrarre o si ritraggano soltanto per offrirsi a uno sguardo compiaciuto. Non necessariamente maschile, ma altrui. Che l’unico scopo del loro «mettersi in posa» sia il farsi guardare e ammirare. Passive. Perfino nella seduzione. Ribalta quest’ottica una bella mostra aperta fino al 2 gennaio alla Fondazione Beyeler a Riehen, appena fuori Basilea in Svizzera. Si intitola Close up [da vicino, n.d.r.] e raccoglie le opere di nove artiste, in particolare i loro autoritratti, tra Ottocento e giorni nostri. Non a caso, nel recensire la mostra, il celeberrimo quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung o Nzz mette in apertura proprio l’autoritratto di Modersohn-Becker: un capolavoro di ironia. Superato solo dal sarcasmo di Frida Kahlo. Per inciso Paula Modersohn-Becker, esponente di punta del primo Espressionismo, in 31 anni di vita e 14 di attività, realizzò 750 dipinti e mille disegni. Morì per le complicazioni del parto, dopo aver dato alla luce la prima figlia, Mathilde. In un’illuminante lettera del 17 febbraio 1906 al poeta Rainer Maria Rilke, oggi ben più famoso di lei e piuttosto bizzarro (già celebre per il triangolo con Lou Andreas-Salomé, si innamorò di Paula al primo incontro, ma poiché lei si era appena fidanzata, sposò, brevemente, la sua migliore amica, la scultrice Clara Westhoff), Paula scrisse: «Io sono io, e spero di diventarlo sempre di più, Ich bin ich, und hoffe es immer mehr zu werden».

Problemi di identità

Non che gli artisti uomini non abbiano mai avuto problemi di identità. Anzi. Il punto è che alle donne, sempre, anche quando avevano idee chiarissime su chi fossero, qualcuno ha cercato di spiegarlo. Meglio, di imporlo. E guarda caso erano identità piccole piccole, ben calibrate sui desideri, le esigenze, le paure e, a volte, le perversioni dei maschi. Perfino sulle loro idealizzazioni: e in questo caso le identità, più che piccole, risultavano poco adatte a un essere umano, tra muse angelicate, madri-martiri, belles dames sans merci e mogli kamikaze. In questa costruzione di identità altrui, le arti visive hanno svolto un ruolo fondamentale (e continuano a svolgerlo, cinema in testa). Eppure, è proprio nella pittura e nella fotografia che le artiste hanno avvertito da subito che no: così non era. Loro non si vedevano, e non volevano essere viste, come gli altri le disegnavano. Hanno cominciato le pittrici del Rinascimento, Sofonisba Anguissola Artemisia Gentileschi in testa. Una con l’autoritratto più fiero, sereno e severo di donna che il Cinquecento ricordi. L’altra con quella sua esuberanza quasi ingombrante (come Allegoria della pittura), che così bene sintetizza un secolo complicato come il Seicento. E hanno proseguito le altre: dalla francese Elisabeth Vigée Lebrun che si ritrae in mille modi, pittrice, madre autonoma ed erede di Rubens, alla britannica Elizabeth Siddal, che il marito, Dante Gabriele Rossetti, chiude nello stereotipo della vergine sognante, spaventata e anche stordita di droga. E che invece si auto-ritraeva triste e anche piuttosto arrabbiata.

Vittime dei pregiudizi

Nella mostra di Basilea, Close Up, il racconto comincia con le impressioniste. In particolare Berthe Morisot e Mary Cassatt, vittime entrambe non solo dei pregiudizi di un’epoca tanto pruriginosa e severa con le donne libere, quanto (ancora oggi) scandalosamente deliziata dagli eccessi maschili. Alle pittrici non era concesso riprendere modelli dal vero. Neanche un braccio nudo di maschio. Nemmeno mucche all’aperto, se è per questo: mica se ne potevano andare in giro da sole. Se poi, come Victorine de Meurent (celebre soprattutto come la “scandalosa” modella nuda di Edgar Degas), si prostituivano pur di continuare a dipingere, perché per loro non c’era mercato, affari loro. Neanche le accademie d’arte le volevano. E così Morisot, che pure viveva tra amici pittori tanto trasgressivi e all’avanguardia, scriveva sul suo Carnet, nel 1891: «Non credo che sia mai esistito un uomo che abbia trattato una donna da pari a pari, eppure è tutto quello che avrei voluto, perché so di valere, Je ne crois pas qu’il y ait jamais eu un homme traitant une femme d’égal à égal, et c’est tout ce que j’aurais demandé, car je sais que je les vaux».

Il dipinto di Marie Bashkirtseff

Non a caso la mostra alla Fondazione Beyeler termina con un magnifico dipinto dell’ucraina Marie Bashkirtseff (ma perché a scuola non abbiamo studiato neanche lei?), L’Académie Julian, del 1881, in cui un gruppo di sole pittrici ritrae un San Giovannino nudo che guarda perplesso verso la “macchina”. E ovviamente a nessuno può sfuggire l’ironia della scelta: San Giovanni è quello che ne disse tante contro la povera Erodiade che, grazie ai desideri espressi dalla figlia di lei, Salomé, dopo una celebre danza, si ritrovò senza testa. Osservatelo con attenzione quel quadro, se vi capita. Perché siamo talmente abituati a osservare scene in cui tutti gli artisti (magistrati, medici, scienziati, etc.) sono maschi vestiti e le donne, se ci sono, se ne stanno lì come agnellini sacrificali, o abbassando pudicamente lo sguardo oppure offrendosi esplicitamente, che vedere un luogo in cui contano solo le donne e l’unico uomo è l’agnellino di turno, ci crea ancora un certo disorientamento. Scriveva Marie nel suo Journal, il 1° maggio 1884: «Se non muoio giovane, spero di rimanere nella memoria come una grande artista; ma se muoio giovane, voglio far pubblicare il mio diario perché non può essere altro che interessante».

Sapere di valere

Ecco, qui la consapevolezza è piena: so chi sono. E so di valere. Magari ci rido su. È quello che fanno quasi tutte le artiste di Close Up, da Frida Kahlo, appunto, alla nostra contemporanea Cindy Sherman, con i suoi “finti” autoritratti che smontano gli stereotipi femminili. Non solo sanno di valere, ma sono appunto pronte a rovesciare lo sguardo. Non a farsi guardare. Ma a guardare e, in caso, a giudicare. A riscrivere la storia: Frida Kahlo ricostruisce il suo albero genealogico, con sua madre vestita di bianco ma con il suo feto già in pancia e il cordone ombelicale in vista, che porta dritto a lei. Non a un maschio. Ma a lei, Frida. Non credete che sia una banalità: nello scrivere il mio ultimo libro, sulla Contessa di Castiglione, avevo immaginato di inserire qualche albero genealogico seguendo le linee femminili per mostrare anche quanti figli naturali girassero nell’aristocrazia. Mi sono trovata davanti le solite linee di successione: nonno-padre-figlio. Fuori le donne e i “bastardi”.

La pittrice e il suo modello

La bravissima pittrice Lotte Laserstein (di nuovo: ho fatto le scuole sbagliate io? Perché non la ricordo mai citata), una “Neue Frau”, una donna emancipata, pure ebrea, che dovette rifugiarsi in Svezia per sfuggire al nazismo ma visse abbastanza per avere ragione (1898-1993), non solo si ritrasse con i capelli corti e modi “androgini”, come si continua a scrivere. Ma nel 1929-1930 intitolò un quadro: Ich und mein Modell, Io e il mio modello. Lei è la pittrice, più matura, ovviamente vestita e guarda, ancora una volta, davanti a sé. Lui è giovane, seminudo e la osserva con deferenza. Ruoli invertiti. Ci appaiono ancora irritanti? Pensate come apparissero due secoli fa, quando la Contessa di Castiglione si faceva fotografare i polpacci e i piedi nudi, gonfi. Si gridava alla follia: è pazza. Lo si dice ancora adesso. È pazza perché solo all’apparenza si sta facendo guardare. In realtà guarda. E giudica. E ironizza. E non ha paura. Lo ricordassero ogni tanto anche le ragazze che ammiccano dai selfie, saremmo a cavallo.


(27esimaora, 19 dicembre 2021)

di Elisa Cornegliani


L’associazione DonnexStrada, guidata da Laura De Dilectis, propone alcuni spunti per rendere il rientro a casa più sicuro per le donne. Fra questi anche l’idea di trasformare alcuni luoghi di frequentazione quotidiana – edicole, farmacie – in presidi territoriali formati al contrasto della violenza di genere. La fondatrice: “C’è una paura automatizzata e un conseguente grande bisogno di aiuto”


Carrozze di testa per sole donne su tutte le linee dei treni? Lo chiede una petizione lanciata nei giorni scorsi, che in poco tempo ha raggiunto quota 38mila firme. L’idea dopo due episodi di violenza sessuale – una tentata – ai danni di due ragazze ventenni che stavano viaggiando sulla linea Milano – Varese. La proposta ha innescato un dibattito: chi la sostiene, chi ne vede i limiti di fattibilità, chi non apprezza la scelta di agire sui comportamenti delle potenziali vittime tralasciando quelli dei potenziali aggressori. Non convince soprattutto l’ulteriore isolamento a cui andrebbero incontro le donne. “Soluzione efficace o no, il punto non è questo. Sono le firme che ha ottenuto: tantissime, in poco tempo. Significa che la gente vuole sicurezza e sa di non averla“, commenta Laura De Dilectis, presidente dell’associazione DonnexStrada. In pochi mesi hanno messo inventato qualcosa di nuovo: organizzano dirette Instagram per accompagnare le donne a casa se hanno paura e sono sole. “Abbiamo visto lo stesso con i follower sui nostri canali social. In due settimane 70mila. Da aprile, quando siamo partiti, 114mila”. Al di là della soddisfazione personale, spiega De Dilectis, questo è in realtà un dato forte: “Ci dice che le persone vivono una paura ormai automatizzata e normalizzata”. E quindi c’è una forte esigenza di aiuto. Non solo sui treni, ma in generale quando si tratta di mezzi pubblici o di rientri per strade solitarie. “La carrozza a parte non aiuterebbe, anzi, potrebbe indurre potenziali critiche nei confronti delle stesse vittime se decidessero semplicemente di sedersi nel vagone in cui ci sono tutti”, prosegue De Dilectis. L’associazione punta invece su quattro soluzioni: notturni sicuri, taxi sospeso, presidi antiviolenza sparsi sul territorio e – appunto, – le dirette via Instagram svolte con circa 40 volontari, per accompagnare a casa chi non si sente sicuro. Le prime tre sono proposte, l’ultima è realtà.

LA DIRETTA – “La prenotano oppure ci contattano tramite la nostra linea di emergenza. Chiediamo che la comunicazione si svolga senza auricolari, per renderla evidente, e con la videocamera accesa”. Un deterrente per gli aggressori: “Registriamo tutte le dirette, previo consenso. È necessario in caso di pericolo o di aggressione. Sono sia pubbliche sia private: in entrambi i casi dialoghiamo con la donna fino al portone di casa, omettendo riferimenti alla vita personale nel caso in cui il video sia pubblico. Garantiamo inoltre la chiamata al 112 in caso di necessità”. Da sottolineare, ricorda De Dilectis, che il servizio va contattato per prevenire eventuali aggressioni e non per gestire un pericolo già esistente: in quel caso vanno contattate le forze dell’ordine. Dall’inizio dell’attività, ad aprile 2021, l’associazione ha accompagnato a casa circa 700 persone.

LE PROPOSTE – Se le carrozze dedicate non servono, allora, cos’altro è necessario per rendere i mezzi di trasporto più sicuri? “A livello globale si tratta di fare rete con le istituzioni e la Polizia di Stato. Nel concreto, noi abbiamo elaborato alcune proposte”, prosegue De Dilectis. “A cominciare dal notturno sicuro, che prevede per esempio la formazione e la sensibilizzazione alla violenza di genere per gli addetti di tutti i mezzi di traporto, l’aumento dei controlli e l’affissione di numeri specifici da contattare in caso di molestie”. C’è poi il problema dell’attesa durante la fascia serale, quando la frequenza dei mezzi cala quasi fino a scomparire. È necessario perciò intervenire anche sulle fermate stesse, con azioni mirate: “Per esempio, una presa per il telefono. Averlo carico è utile e induce sicurezza. L’alternativa è un rischio, soprattutto se si tratta di aspettare – al buio e senza batteria – un bus che non arriva”. Un’altra proposta è il taxi sospeso: funzionerebbe come il più celebre caffè. In questo senso Roma si è già mossa, proponendo uno sconto del 50% sul costo della corsa singola (fino a un massimo di 20 euro) per donne, uomini con più di 65 anni e disabili residenti in città. Qualcosa di simile ha fatto Firenze, dove dalle 22.00 alle 4.00, è attivo il TaxiRosa. “Il punto è l’accessibilità alla sicurezza, che in alcuni casi costa e compromette la libertà di spostarsi”. L’associazione sta pensando a vetture che siano riconoscibili tramite bollini colorati, segnalati su una piattaforma apposita dove potrà essere denunciato qualsiasi violazione degli standard (compreso l’eventuale comportamento molesto del conducente). E infine c’è la proposta più difficile da realizzare, i punti viola: “Presidi in ogni città, partendo da Roma, formati alla violenza di genere e consultabili tramite mappa. Una farmacia aperta 24 ore su 24, un’edicola già aperta alle 6 di mattina”. Posti cui le vittime possono rivolgersi in caso di necessità e dove sanno di poter trovare ascolto o solidarietà, attivando i cittadini a partecipare in prima persona partendo dagli ambienti lavorativi. All’ interno dell’attività brochure esplicative in merito alle risorse territoriali utili per contribuire al supporto della vittima. L’intenzione di Donnexstrada è ideare un protocollo da attivare in tutti i comuni. Fino ad allora, 24 ore su 24 e gratis, ci sono le dirette via Instagram.


(Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2021)

di Silvia Nugara


Muore all’età di 69 anni la scrittrice, teorica femminista e critica culturale, autrice di «Elogio del margine». Nata nel 1952 in Kentucky, lì dagli anni 2000 ha insegnato nel primo college interraziale del Sud. Il suo nome era Gloria Jean Watkins ma aveva scelto uno pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale e di omaggio a un continuum matrilineare. L’esperienza biografica si fa teoria: la violenza domestica, l’orrore di uno stupro, la fatica delle incomprensioni tra bianche e non bianche in contesto militante trovano un nome.


Dal Kentucky in ginocchio dopo il tornado che lo ha flagellato nei giorni scorsi, mercoledì è giunta un’altra notizia dolorosa, la morte di bell hooks. Per molte è come un lutto personale anche se magari non l’avevano neppure mai incontrata dal vivo perché, come Salinger faceva dire al suo giovane Holden, ci sono libri che ci lasciano senza fiato, che quando li hai finiti di leggere vorresti conoscere chi li ha scritti e potergli telefonare quando vuoi. E di libri così bell hooks ne aveva scritti, prima di tutto Elogio del margine, arrivato in Italia a fine anni ’90 nella traduzione di Maria Nadotti e di recente riedito (Tamu, 2020), oltre ad articoli e conferenze che hanno aperto gli occhi o cambiato la vita di tante persone, le hanno fatte sentire meno sole, le hanno sostenute, accompagnate, attrezzate teoricamente, fortificate in percorsi di apprendimento, di trasformazione, di attivismo sociale, di guarigione.

In bell hooks, infatti, teoria e guarigione erano connesse: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione». Tante persone sono giunte a bell hooks per guarire le ferite inferte loro dal sessismo, dal razzismo e dal classismo, bisognose di comprendere il perché di tanto male e come tentare di curarlo, come sopravvivere, come intraprendere un cammino di cambiamento a partire dal margine.

Per bell hooks, il margine non è solo un luogo di pena ma anche e soprattutto un luogo di resistenza, uno «spazio di possibilità e apertura radicale». La sua idea di margine non riguarda il ripiegarsi identitario in una compiaciuta marginalità ma la responsabilità e l’impegno etico che tocca a chi sta «là dove la profondità è assoluta». Nelle sue pagine, l’esperienza biografica si fa teoria: la violenza domestica, l’orrore di uno stupro, l’afflizione di fronte a un’immagine cinematografica stereotipata, la fatica delle incomprensioni tra bianche e non bianche in contesto militante trovano un nome, una spiegazione, un quadro interpretativo, delle categorie di analisi, la possibilità di una presa di distanza e la prospettiva di una trasformazione.

Capire, analizzare, teorizzare per spezzare le catene e cambiare la realtà. Questa è la teoria per bell hooks, una «pratica liberatoria», come nel titolo di uno dei suoi saggi di recente raccolti in Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà (Meltemi, 2020). Per questo quando la pandemia ha costretto all’isolamento in casa, c’è chi è andata a risfogliarsi il saggio «Casa. Un sito di resistenza» in Elogio del margine dove lo spazio domestico diventa un sito politico suscettibile di critica in termini di rapporti di forza e di lotta di liberazione. 
Da casa si lavora e si subisce sfruttamento, in casa si perpetua violenza patriarcale e violenza capitalista e dunque, perché la «casa» sia davvero tale, essa va pensata come «sito primario della sovversione e della resistenza», dove connettere il dentro e il fuori e ripensare un sistema di valori.

Era nata nel 1952 a Hopkinsville, in quello stesso Kentucky dove era tornata a insegnare nei primi anni 2000 al Berea College, il primo college interrazziale del Sud. Non uno di quei campus blasonati della Ivy League con rette stellari, bensì un work college a cui si accede con borse di studio e lavoro dedicate esclusivamente a una popolazione studentesca meritevole ma non abbiente. Lì, lo scorso autunno è stato aperto un centro che porta il suo nome dedicato agli studi femministi in un’ottica antirazzista poiché, come lei stessa ha insegnato, la gerarchia di genere è anche una gerarchia razzista. 
Il suo nome di battesimo era Gloria Jean Watkins ma aveva scelto quello pseudonimo minuscolo come atto di rivolta verso l’egocentrismo autoriale e di omaggio a un continuum matrilineare avviato dalla bisnonna materna Belle Blair Hooks e proseguito con la madre Rosa Bell Watkins. Questo tributo alle ave nella scelta di uno pseudonimo non è solo una pratica femminista in voga negli anni ’60-70 ma anche un gesto intellettuale e politico che dà visibilità e voce a esseri umani rimasti inascoltati, invisibili, cancellati dalla storia.

Come lo fu Sojourner Truth, la schiava liberata a cui hooks si ispira quando nel 1973, ancora studente, scrive Ain’t I a Woman. Black Women and Feminism, pubblicato solo nel 1981, un’analisi del dominio bianco e borghese che, come sottolinea Nadotti nell’introduzione di Elogio del margine/Scrivere al buio: «spacca il fronte apparentemente compatto del neofemminismo statunitense degli anni ’70 e infrange con parole fertili e audaci il silenzio e la tacita sottomissione che rendevano le donne nere invisibili tra gli invisibili».

Cresciuta in un contesto rurale e agricolo, hooks è parte di una generazione che deve imparare a essere libera e trova una via nell’istruzione. Così ricorda in Insegnare a trasgredire: «Per i neri, l’insegnamento – l’educazione – era fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come rivoluzione. Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare persone nere capaci di usare la ‘testa’. Comprendemmo presto che la nostra devozione verso l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale. All’interno di queste scuole per bambine e bambini neri, chi era considerato eccezionale, dotato, veniva trattato con particolare cura. Le insegnanti lavoravano con e per noi, per garantirci di realizzare il nostro destino intellettuale e, nel fare ciò, elevare la nostra razza. Le mie insegnanti avevano una missione». Forte di quell’esperienza, hooks svilupperà un approccio all’insegnamento vicino alla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire senza risparmiargli critiche.

Bell hooks ci ha insegnato che classismo, razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi di dominio fondati su una logica binaria oppositiva e gerarchizzante. Dunque, non è possibile una liberazione dal razzismo che non contempli anche una liberazione dal dominio maschile ed eterosessuale. Con approccio libero e interdisciplinare, ha studiato pratiche e prodotti culturali diversi, dal giornalismo alla letteratura, dalla musica pop al cinema con indimenticabili bordate a Madonna, Spike Lee o a documentari osannati come Paris is burning
Abbiamo sempre più bisogno di leggere bell hooks anche qui in Italia dove la scuola, l’università e gli spazi della democrazia fanno i conti tutti i giorni con storie e corpi che nulla hanno a che vedere con una vecchia e opprimente idea di «soggetto universale».


SCHEDA. Per una politica appassionata


Per le edizioni Tamu, nella traduzione di Maria Nadotti, è stato di recente pubblicato Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata («Feminism is for Everybody»), uscito per la prima volta nel 2000. Nella Prefazione alla nuova edizione (presente nel volume di Tamu), bell hooks dichiara il suo amore, incrollabile: «lavoro per condividere la gioia liberatrice che la lotta femminista produce nella vita di donne e uomini che continuano a operare il cambiamento, che continuano a sperare nella fine del sessismo, dello sfruttamento sessista e dell’oppressione». Dall’autocoscienza alla lotta di classe, dalla sorellanza al lavoro e alla maschilità, dal lesbismo alla riproduzione, i brevi capitoli che compongono Il femminismo è per tutti sono degli speciali intarsi di teoria e pratica, una miniera di spunti e sollecitazioni anche per l’oggi.


(il manifesto, 17 dicembre 2021)

Libreria delle donne di Milano riprende Quarta Vetrina, a cura di Francesca Pasini. Nel 2001 Corrado Levi ha l’idea di dedicare una delle quattro vetrine della Libreria alle artiste. E’ lui oggi a esporre tre quadri attraverso i quali racconta la sua passione per il colore: lo distende a pennellate luminose in accordo col cielo o in un amalgama mobile in sintonia con il corpo o facendolo sgocciolare come fosse vivo. Il colore non si descrive, si pronuncia e la pittura è una di queste pronunce.

Accesso con Green Pass, documento d’identità e mascherina

Donne di parola presenta la lettura scenica “Lo scialletto di Cherie.” L’opera, un adattamento del dramma L’invasore di Annie Vivanti del 1915, racconta lo stupro di guerra di due donne, Luisa e Cherie, e il trauma di un’adolescente, Mirella. La scena di violenza, rivissuta dopo anni, è accompagnata dal racconto storico di quell’epoca. Regia e adattamento di Donatella Massara con la partecipazione di Domitilla Colombo, Silvana Ferrari, Laura ModiniDiana Quinto. Supervisione di Marisa Guarneri.

Per prenotazione: donatella.massara50@gmail.com. I posti sono 25.

Accesso con Green Pass, documento d’identità mascherina

di Susanna Cielo


Nel 1981 la Legge 422 cancella dal codice penale italiano il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. Per il primo, Il danno all’onore di un uomo veniva considerato attenuante all’omicidio di una donna e di chi avesse avuto con lei condotta “disonorevole”. Per il secondo il reato di violenza carnale veniva estinto attraverso il matrimonio dello stupratore con la sua vittima, salvando così l’onore familiare. Nel 1966 Franca Viola, donna siciliana giovanissima, passa alla storia per il primo no al matrimonio riparatore. Sino ad allora un uomo può sposare una donna senza suo consenso: la rapisce, violenta e poi aspetta che la famiglia chieda di sposarla. Solo nel 1994 la Legge riconosce lo stupro come reato «contro la persona» e non «contro la morale». Nel 2019, la Legge 69, chiamata Codice Rosso, rinnova il Codice Penale rispetto alla violenza domestica e di genere. Ascoltiamo le parole di Lara in questa serata al cohousing dedicata alla Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, in memoria delle sorelle Mirabal. Nella Repubblica Dominicana, le tre sorelle, attiviste contro la dittatura presente, andando a visitare i loro mariti imprigionati per ragioni politiche vengono rapite da parte di agenti del regime di Rafael Leonidas Trujillo, stuprate e massacrate e viene simulato un incidente. È il 25 novembre del 1960, giornata celebrata dalle Nazioni Unite dal 1999 contro la violenza sulle donne, definita come «una delle violazioni dei diritti umani più diffuse, persistenti e devastanti…». Un coro femminile di secoli si intona in questa notte autunnale. Matilda evidenzia la disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, ancora presente. È sempre convinta, a 80 anni, che senza un cambiamento strutturale della società rispetto al potere maschile e al suo esercizio, non sia possibile emancipazione. Sono presenti anche uomini, anche l’Ernesto, pur critico con quelle che chiama «Le Giornatone bla-blà» di sole parole. Anna e Carlo si tengono per mano tutta la sera. Martina ha 20 anni – voglio dire questo – e legge un foglietto: parole scritte nella Rivista «Sottosopra» del 1983. «C’è dentro di noi una voglia di stare al mondo da signore, in grande, di avere con le cose una sicura familiarità, di trovare di volta in volta i gesti, le parole, i comportamenti conformi al nostro sentimento interno e rispondenti alla situazione, di andare fino in fondo nei pensieri, nei desideri, nei progetti. La chiameremo voglia di vincere. …Per cominciare vincere sulla paura della propria voglia di vincere.» Aggiunge – Me le ha lasciate nonna, come ricetta di cucina, la più buona da preparare: la ricetta delle donne per vivere con agio–. Grazie Martina, vai avanti.


(il manifesto – Alias, 11 dicembre 2021)

di Loredana Lipperini


Ho ricevuto un lungo messaggio. Non importa il nome né il luogo da cui proviene né altri dettagli. Chi lo ha scritto non chiede aiuto: ha chi la supporta ed è seguita sia a livello legale che psicologico. Se mi ha scritto, è stato per sensibilizzare su un punto, indispensabile: «Chi arriva alla decisione della denuncia e della separazione, deve poi attendere dei tempi biblici per la realizzazione della propria liberazione. È un doppio inferno. E io ho avuto mezzi e strumenti per “resistere”, ma molte non ce la fanno. E soccombono o fanno passi indietro».

Ecco cosa mi ha scritto. Vorrei che venisse meditato, molto.

«Ho pensato a lungo se scriverle o meno, perché la mia è una banale storia di violenza domestica, senza alcun tipo di colpo di scena (fino ad ora), uguale a mille altre storie seppur nella sua unicità. Le scrivo oggi, nel giorno dell’udienza presidenziale per la mia richiesta di separazione. Non le racconterò delle vicissitudini quotidiane, dello squallore degli ultimi anni, delle sofferenze subite da me e dalle mie figlie. Vorrei raccontarle del “dopo”, di quello che accade quando, grazie a tre anni di psicoterapia (e ventidue di abusi), una donna prende coscienza di sé e della sua situazione e decide di mettere la parola fine alla sua sofferenza gratuita quotidiana. Lei molto spesso ha scritto con pertinenza della difficoltà per una vittima di arrivare a riconoscersi come tale e poi del passo successivo che è quello di chiedere aiuto e denunciare. Io ho chiesto aiuto una prima volta nel 2011, ma forse i tempi non erano maturi e non ho avuto l’assistenza richiesta: non sono più andata agli incontri e loro non mi hanno più cercata. La prima querela contro mio marito per aggressione (tentò di strangolarmi) sempre del 2011 finì in un nulla di fatto: da vittima da manuale di un manipolatore maligno supplicai il giudice di archiviare il procedimento, dicendo che il comportamento di mio marito era solo conseguenza del fatto che io lo avevo provocato. E il giudice archiviò.

Quest’anno, a quarantasette anni, con due figlie vittime anch’esse della situazione (in cura presso uno psichiatra la grande e in terapia psicologica la piccola) ho trovato coraggio e risorse per voltare pagina: ho trovato un’avvocata seria e generosa che mi ha seguita passo dopo passo nel percorso per la separazione giudiziale (perché l’abusante non lascia andare facilmente la sua vittima e costringe alla strada più tortuosa per la separazione), ho avuto l’appoggio incondizionato della mia famiglia (che era del tutto ignara delle mie difficoltà e da cui mi ero parzialmente allontanata nel corso degli anni) e mi sono rivolta ai Carabinieri presentando tre denunce querele, corredate da materiale audio e da chat di WhatsApp. La prima denuncia che ha fatto attivare il Codice Rosso risale a metà settembre. Il brigadiere che ha raccolto la querela mi ha dedicato l’intera giornata, rinunciando alla sua pausa pranzo e andando oltre il suo turno di lavoro: il tribunale affida la delicata operazione di raccolta di notizie sommarie alle forze dell’ordine, riservandosi in un secondo momento di contattare la vittima. È stata una giornata estenuante, in cui ho dovuto raccontare e fare comprendere a un estraneo in poche ore tutto il mio dramma, producendo le prove audio che avevo a disposizione.

Da quel giorno a livello istituzionale non è successo nulla. Tanto che fino ad oggi ho dovuto sporgere altre due denunce, di cui l’ultima una settimana fa, con tanto di venuta dei carabinieri a casa mia e piena ammissione da parte di mio marito davanti ai militari delle minacce rivoltemi. E ancora nulla. E lui che, impunito, peggiora il suo comportamento giorno dopo giorno. E io sola, alla sua mercé, con il solo supporto del mio avvocato. Oggi all’udienza presidenziale al tribunale per il primo atto della separazione giudiziale sono entrata in una stanza anonima, con una presidente che scriveva al computer senza guardarmi in faccia e che trattava il voluminoso faldone con dentro gli ultimi vent’anni di vita e sofferenze miei e delle mie figlie come un atto burocratico da sbrigare al più presto perché avevamo superato l’orario del pranzo. Alla richiesta della mia avvocata di adottare delle misure di protezione per allontanare mio marito tempestivamente da me e dalle ragazze la presidente ha dato in escandescenze, affermando che se c’era già il Codice rosso della procedura penale allora ci avrebbe pensato il Pubblico Ministero a prendere quelle misure e che lei non aveva alcuna intenzione di emettere il provvedimento delle misure di protezione che avrebbe significato un’altra udienza tra quindici giorni “alla vigilia di Natale!”, non considerando che dalla prima attivazione del Codice rosso erano già trascorsi tre mesi senza che si muovesse nulla.

Ecco, cara Loredana, quello che succede dopo che una donna vittima di violenza denuncia: nulla. La macchina burocratica si inceppa, il meccanismo non è oliato, i compartimenti della giustizia civile e penale non collaborano e non dialogano (io oggi sono rimasta annichilita dalle urla stizzite della presidente, mi sono sentita svalutata, non creduta, mortificata e molto stupida nell’aver creduto nella giustizia). E noi “vittime” che abbiamo avuto il coraggio e la fortuna di riuscire a ribellarci restiamo sole con le nostre paure, fino a quando succederà qualcosa di più grave che ci farà finire sulle pagine dei giornali (cosa di cui farei volentieri a meno), date in pasto a un pubblico che ci farà violenza altre migliaia di volte».

Loredana Lipperini ha condiviso questa testimonianza sulla sua bacheca Facebook e ci ha autorizzati a riporla sul nostro sito. Il giorno dopo la pubblicazione di questo post ha poi scritto alla sua comunità sempre su Facebook questo:

Buongiorno. La donna che mi ha scritto il messaggio vi ringrazia tutte e tutti, tantissimo. Per quanto riguarda la sua vicenda personale, quella va avanti con il supporto importante che già è in corso. La vicenda comune, che riguarda il difficilissimo percorso delle denuncianti, è stata invece portata all’attenzione di chi se ne occupa istituzionalmente. Per ora, è tutto.

Aggiungo il mio ringraziamento, però: questa è una delle occasioni in cui i social diventano davvero comunità. Grazie, di cuore.


(valigiablu.it, 11 dicembre 2021)

di Marina Terragni


Le donne hanno molto lottato contro gli stereotipi, liberando tutte e tutti. Il self-id va nel senso opposto: ricostruisce le gabbie patriarcali. E il corpo femminile è sempre il campo di battaglia. Si deve tornare a quella lotta, per restituire a ragazze e ragazzi lo spazio della loro libertà. Contro il diktat transattivista che impone nuove norme che la imprigionano


La lotta contro gli stereotipi di genere è stata una lotta delle donne: il pensiero della differenza l’ha chiamata libera significazione della differenza sessuale.

Voleva dire, nella costruzione della propria vita, sottrarsi all’obbligo di corrispondere ai desideri e alle aspettative maschili, cristallizzate in immagini e ruoli a cui si è dato il nome di stereotipi di genere. Voleva dire, per una donna, potere studiare e lavorare, oppure no, essere madre o non esserlo, dire, fare, comportarsi, abbigliarsi secondo la propria vocazione e il proprio desiderio.

È stata una mossa importante che ha portato libertà a tutte e tutti. Anche un buon numero di uomini, infatti, ha approfittato di questa libertà inaugurata – quanto meno nella sua forma “di massa” – dal femminismo di Seconda Ondata.

Qualche esempio di quel tempo: un caro amico che significava la sua lotta contro la prigione degli stereotipi e la sua “diserzione” dal compito del dominio scrivendo un libro, L’Antimaschio. Critica dell’Incoscienza Maschile (era il 1977), dove si legge: «Per il maschio cosa sia la donna resta sostanzialmente un mistero, ma cosa invece debba fare una donna, in casa, per il marito, quello diventa chiaro prestissimo. Tutti i lavori di casa non sono per lui». E lavorando ostentatamente a maglia (performance) durante le riunioni politiche. Lui era eterosessuale, altri invece, omosessuali, significavano la loro lotta citando la donna nei modi e nell’abbigliamento per dire della comune oppressione da parte del patriarcato eterosessista. Questo era il queer, in radice (oggi è ben altro).

Altri ancora partecipavano silenziosi e a latere al “cerchio di carne” degli incontri fra donne, ponendosi in ascolto della sapienza femminile. O ancora, anche qui a metà tra azione politica e performance, davano vita a gruppi come il Movimento degli Uomini Casalinghi, che si sottraeva all’obbligo del dominio citando un ideale mondo matrilineare, in cui il compito di governare la convivenza umana toccava alle donne.

Nessuno di questi uomini “autocoscienti” affermava di essere una donna e di volerla sostituire. Il movimento, anzi, era l’opposto: fare spazio alle donne, là dove la mossa inaugurale del patriarcato dal quale intendevano disertare era stata sottrarre spazio alle donne, spingerle ai margini, renderle oggetti da possedere e dominare, istituire l’ordine simbolico maschile come l’universale di cui le donne erano l’eccezione. In una parola, prenderne il posto.

La cosiddetta identità di genere fa un lavoro nella stessa direzione del fallogocentrismo sessista: ne prende il posto. Sottraendo alle donne perfino la possibilità di nominarsi donne, rendendo insignificanti i loro corpi e la potenza materna, re-imponendo il primato di una nuova anima impalpabile – l’identità, l’inner feeling – sulla materia, ri-sospingendole ai margini, sostituendole, rendendole il lumpenproletariat della donnità.

E restituendo forza a quegli stereotipi di genere che rientrano prepotentemente e rovinosamente in campo.

Mi vesto “da donna”, mi muovo “come una donna”, intervengo cosmeticamente, chimicamente e chirurgicamente sul mio corpo per renderlo più simile possibile a quello di una donna – in funzione dello sguardo e del desiderio eterosessuale maschile – e questo fa di me una donna più donna delle donne bio o “cis” proprio perché l’ho scelto, perché è un mio gesto libero e non un “privilegio” che mi è toccato senza alcun impegno per conseguirlo.

È proprio su questa parola, “privilegio”, che va messo il più dell’attenzione per inventarsi nuove pratiche politiche di liberazione (vedere qui).

La giusta lotta contro gli stereotipi di genere e il destino obbligato in base al sesso di nascita non ha niente a che vedere con la “libera” identità di genere e il self-id.

L’identità di genere ricostruisce la gabbia degli stereotipi.

Si tratta di restituire alle giovani e ai giovani e anche alle bambine e ai bambini, target bombardato dalla transpropaganda soprattutto nelle scuole e nelle università, il senso libero della differenza sessuale e la libertà dagli stereotipi tossici. È un lavoro difficilissimo, tra Scilla e Cariddi, ma indispensabile.

Nelle scuole si dovrebbe mostrare l’ottima serie sulla vita di adolescenti fluidWe are who we are di Luca Guadagnino, regista omosessuale. Che dice: «Credo che a 15 anni sia difficile pensarsi in un certo modo per sempre. Cambiamo costantemente, figuratevi se non cambia una persona di 15 anni che sogna di diventare maschio pur essendo femmina. Lo desidera davvero? Forse, o forse no… Molti miei amici Lgbt+ non contemplano la possibilità del dubbio. Di fronte alla sofferenza della discriminazione e dell’emarginazione, realtà che conosco e hanno tutta la mia solidarietà e compassione, la risposta è spesso paradossalmente normativa, assertiva e apodittica…».

La disforia di genere è una condizione minoritaria – per fortuna – e dolorosa e non il paradigma della libertà umana.

Per il maggior numero si tratta di praticare la libera significazione di se stessi – e del proprio orientamento sessuale – nel proprio corpo di donna o di uomo, che molto raramente è sbagliato. O forse mai del tutto.


(Feministpost.it, 8 dicembre 2021)


di Chiara Zamboni


Mi aggiungo al dibattito su La differenza sessuale non è un contenuto. L’ostacolo del gender. La mia riflessione riguarda la difficoltà a capirsi tra posizioni diverse e la necessità di chiarire i concetti in gioco. Quale storia hanno i concetti di genere, gender, e differenza sessuale? Come vengono usate queste parole?

Il primo grande inciampo è un certo modo comune di intendere differenza sessuale e differenza di genere, che vengono per lo più sovrapposti e identificati con il binarismo, cioè riportati ai luoghi comuni della lingua condivisa su che cosa significhi essere donna ed essere uomo, in termini simmetrici e contrapposti. Il binarismo è sostenuto da una cultura antica, rinforzata nelle lingue romanze dai generi grammaticali del femminile e del maschile. Così in italiano la luna è femminile e il sole maschile e ciò porta con sé significati radicati in strati profondi dell’immaginario collettivo.

Abbiamo portato critiche al binarismo, perché, sappiamo, la differenza sessuale non è un contenuto. Il femminismo ha criticato i modelli femminili insiti nel binarismo dei luoghi comuni. Si è detto: donne sì, ma senza coincidere con il femminile stereotipato. Donne, piuttosto, il cui significato è tutto da trovare nel corso di una vita e confrontandosi con altre donne.

Diverso il modo di accostarsi alla questione della normatività dei generi linguistici da parte del mondo anglosassone. Negli anni Settanta e Ottanta è arrivata dal femminismo americano la proposta che, facendo riferimento alla distinzione sex e gender (sesso biologico e genere come costruzione culturale), chiamava all’impegno di lottare politicamente per trasformare il piano del linguaggio stereotipato. Rompendo così con la normatività del simbolico dominante. In questo c’è stata una grande sintonia con il femminismo europeo: la stessa critica agli stereotipi e l’affidare al conflitto nel linguaggio una parte importante della trasformazione della relazione delle donne con il mondo.

Ciò che ha marcato la differenza rispetto al femminismo europeo è stata la divisione netta operata da quello anglosassone, che ha distinto tra sesso biologico (sex) e lingua (gender). Questo ha a che fare in parte ancora una volta con le forme grammaticali della lingua. Sappiamo che le lingue anglosassoni non hanno il femminile e il maschile per i sostantivi e gli aggettivi. Per cui la luna non ha sesso. Hanno sesso gli animali e dunque gli umani in quanto animali. Hanno sesso la maggior parte dei vegetali. Per cui il sesso è una questione solo biologica. Le finestre non hanno sesso.

Io credo che l’aver isolato il sesso biologico dalla lingua abbia portato a delle divaricazioni di cui sentiamo fortemente le conseguenze oggi.

Ora, invece, la sessualità è intrecciata fin dall’inizio con le parole. Per noi è più evidente quello che è vero in generale: c’è porosità tra il piano delle parole e il piano della sessualità. In altri termini c’è porosità tra natura e cultura.

Nel conflitto oggi aperto sulla questione dell’identità di genere e della differenza sessuale uno dei punti centrali è proprio questo: il poter pensare di separare sesso biologico dal piano del linguaggio.

Certo ci accomuna con i diversi movimenti, che fanno capo alla sigla LGBTQI+, la critica ai luoghi comuni binari del maschile e femminile normativi, ma ci separa questa distinzione tra sesso biologico e linguaggio. Per noi essere donna non è riducibile a biologia naturale né identità linguistica. Non abbiamo cercato identità né separato il sesso dalla sessualità e dalla ricerca di senso e da forme politiche di vita in comune. Non abbiamo mai parlato di corpo oggettivo, ma abbiamo parlato di corpo vivente inscritto di parole, aperto a un movimento trasformativo, in cui la sessualità è coinvolta, e che è via per scoperte soggettive in uno scambio con altre e altri.

Venendo al mondo, noi non partiamo da un’identità, bensì siamo accolti da una culla di parole. Mi riferisco ai pensieri, alle fantasticherie, all’immaginario di nostra madre su di noi. Il che significa che il nostro è un corpo “vestito” di parole, perché immaginato nella sua sessualità ancor prima della nostra nascita. Il sesso del corpo lo veniamo a conoscere pian piano, toccandoci e guardandoci, ma lo sperimentiamo da subito “vestito” di parole. Infatti per tutta la vita ci troviamo a fare i conti con l’immaginario di nostra madre, che ha avvolto di parole la nostra sessualità e più in generale la nostra vita di cui la sessualità è uno degli aspetti. Non a caso per tutta la vita cercheremo la nostra via desiderante, differenziandoci da quella prima culla che ci ha accolto. Ma per fortuna che l’abbiamo avuta – e di questo è bene essere grati –, perché altrimenti non potremmo scoprire il singolare desiderio che ci guida e saremmo alla deriva.

Un altro importante elemento di differenza sta nel fatto che il movimento LGBTQI+ ha posto al centro l’eterosessualità normativa, o meglio il maschio bianco, adulto, eterosessuale e tutto il resto sono differenze: la donna eterosessuale, bianca, nera, il gay, la lesbica, il trans nelle sue declinazioni, l’intersessuale. Tutte differenze intese come minoranze. Ora questo è stato un punto molto chiaro nel femminismo italiano: le donne non sono minoranza. Di conseguenza il mio invito a quelle che il movimento LGBTQI+ chiama differenze è di non ridursi a posizione di minoranza, ma di rilanciarne il valore e la forza creatrice degli stili di vita a cui stanno dando forma.

Credo che chiarire sia da parte nostra sia da parte del movimento LGBTQ+ l’uso diverso delle parole e il significato di politica come creazione di modi di vivere assieme, possa liberare energia per il formarsi di alleanze su particolari questioni che si presentano nel nostro paese. Del resto mi interessa quando vedo una loro ricerca di verità soggettiva in rapporto alla sessualità, e sento che in questo ci sono semi trasformativi potenzialmente arricchenti per tutti.


(#ViaDogana3, www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2021)


Alcuni stralci dalla recensione di Nadia Lucchesi al libro María Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, traduzione di Barbara Verzini, Edizione indipendente, Collana A mano, 4, Madrid e Verona 2021


Il testo integrale si trova in https://www.autricidicivilta.it/maria-milagros-rivera-garretas-il-piacere-femminile-e-clitorideo-nadia-lucchesi


[…]


Recuperare per la politica il vincolo millenario tra il sentire, l’anima e il piacere femminile: questo è lo scopo dichiarato del libro di María Milagros Rivera Garretas (p. 17), che dimostra come la sessualità femminile sia stata colonizzata attraverso l’invenzione perversa della vagina nel XVII secolo, tristemente famoso perché fu l’apice della caccia alle streghe, e dell’orgasmo vaginale, letteralmente progettato dal nulla dalla medicina maschile e dalla psicoanalisi dal XVIII secolo in poi. Lo scopo di questa “trovata” era legittimare la penetrazione, una pratica spesso pericolosa e rischiosa, che porta con sé gravidanze indesiderate, dunque aborti, infezioni e malattie mortali come la sifilide. […]

M.M. Rivera Garretas ha preso sul serio le parole di suor Juana Inés de la Cruz, senza curarsi di come sono state interpretate da altri, fidandosi invece solo del piacere, del godimento e della felicità che la lettura delle sue opere le suscitava. Questa donna portò al suo massimo sviluppo in America le tematiche della Querelle des femme. […]

M.M. Rivera Garretas ha conosciuto la figura e l’opera di suor Juana fin da quando era bambina e ne ha scritto una biografia, mossa solo da un piacere profondo di studiarla contemporaneamente studiando se stessa (p. 64) e facendone emergere un ritratto completamente diverso da quello del suorjuanismo accademico: il ritratto di una donna innamorata di un’altra donna, una donna che riconosce l’eccellenza femminile ed esalta il piacere di essere donna, scegliendo come oggetto di devozione l’Immacolata Concezione, colei che è capace di concepire corpi senza coito e concetti senza fallo (p. 86).

Di fronte all’Immacolata Concezione il pensiero del pensiero tace, la clitoridectomia simbolica si ferma, la violenza ermeneutica perde il suo potere. Juana seppe conservare la sua fedeltà al piacere originario, restando una donna “clitoridea”, che, come scriveva Carla Lonzi, «non ha nulla di essenziale da offrire all’uomo e non si aspetta da lui nulla di essenziale».

E tuttavia questo rifiuto di assoggettarsi alla vaginalità, fisica o simbolica che sia, e all’«ordine simbolico della spada» non allontana dall’esperienza della fusionalità amorosa, che la mistica, la poesia, l’arte femminili hanno sempre comprovato (p. 96).

Da Saffo a Margherita Porete, da Suor Juana e Teresa d’Avila a Emily Dickinson: in una ricerca compiuta sulle parole di queste straordinarie autrici, M.M. Rivera Garretas evidenzia la descrizione del “ratto”, del trasporto amoroso, che caratterizza l’orgasmo femminile. L’estasi che santa Teresa ha così magistralmente descritto si ritrova anche nel racconto di María Zambrano riguardo all’esperienza dell’azione vera, del piacere che si trova nella capacità di trasformare il mondo (p. 113).

Il trasporto amoroso ci colloca nella dimensione del cielo, ci mostra come sia possibile tenere insieme trascendenza e immanenza, il dentro e il fuori. Il piacere clitorideo ha un andamento spiraliforme, partendo da un centro si irradia alla matrice intera e a tutto il corpo, a tutta l’anima. Non è un caso se la spirale è uno dei simboli più antichi, la sua presenza si riscontra fin dal Neolitico (10000-3500 a.C.) e Marija Gimbutas l’ha collegata alla Dea, senza però associarla all’orgasmo femminile.

Un altro simbolo che lo richiama è la conchiglia, nella quale si trova la perla, uno dei nomi della clitoride. Suor Juana ne inviò una in regalo alla sua amata, Emily Dickinson propose che la perla e la conchiglia facessero epoca, periodizzassero la storia (p. 24) e le vite, come era accaduto a lei stessa. Entrambe, conchiglia e perla, sono associate all’acqua, che accompagna il piacere femminile puro. Anche la rosa è da sempre un nome della vulva e il rosario è frutto dell’amore per la rosa; la devozione al rosario, sottolinea Maria Milagros, è il culto alla vulva immacolata di Maria di Nazareth (p. 128).

Le donne hanno sempre coltivato la libertà amorosa e tra loro si sono sempre sviluppate relazioni molto forti, soprattutto nei monasteri medievali, dove si realizzava quella capacità mistica che è l’amore “platonico”, o meglio quello che Socrate ha imparato da Diotima, di cui quello carnale è solo una copia, come affermava María Zambrano (p. 137). Gli uomini non solo non hanno compreso questa forma d’amore, ma l’hanno temuta e svilita, condannandola e punendola duramente.

L’autrice ricorda in particolare il caso di suor Bartolomea Crivelli e di suor Benedetta Carlini che, dopo una condanna alla reclusione che si protrasse per 35 anni, morì senza tradire la fedeltà a se stessa e il popolo ne venerò le reliquie, senza tenere in alcun conto il giudizio espresso dagli inquisitori.

Se una donna mantiene la propria indipendenza simbolica, può concepire corpi senza coito (pp. 151-152), come è accaduto a Maria e a Elisabetta (ma anche ad Anna, aggiungo io), e concetti senza fallo, come sanno tutte le donne che pensano senza perdere il loro sentire originario, senza tralasciare il piacere e prescindendo dalla violenza ermeneutica maschile: Saffo, Roswitha di Gandersheim, santa Teresa di Gesù, suor Juana, Emily Dickinson, ne sono alcuni esempi di straordinario valore.

I misteri dell’Immacolata Concezione comprendono anche la rifondazione, da parte di Anna, la madre di Maria, della genealogia femminile matrilineare delle tre madri, che il Cristianesimo avrebbe, secondo María Milagros, troncato sostituendo il figlio alla figlia.


[…]


Nelle ultime pagine del suo libro M.M. Rivera Garretas confida di essere solo ora pienamente libera da ogni violenza ermeneutica e di sapersi connettere con il proprio piacere e sentire originari, che hanno radici con la lingua materna e con la relazione, l’abbraccio con la madre, quella reale che le è stata anche maestra e le ha indicato con chiarezza il proprio piacere, la propria allegria nello svolgimento del suo lavoro di docente. La madre le ha insegnato a toccare la quintessenza della materia, la tessitura e l’anima della parola e della sintassi, forse anche per questo l’autrice ha sviluppato una particolare attenzione per il lavoro delle tessitrici, per la loro capacità di “fare la lana”, quindi di creare qualcosa di nuovo, e di essere caste: qualità che appartengono alle donne clitoridee.

Mi fermo qui, consapevole che non è possibile riprodurre appieno la ricchezza di questo saggio: occorre leggerlo e seguire passo passo gli innumerevoli riferimenti alla poesia, all’arte figurativa, alla narrativa, alla saggistica.

Io ho imparato moltissimo e me ne sono veramente deliziata, anche se non tutte le affermazioni dell’autrice coincidono con le mie modalità di espressione e di percezione. Ad esempio, io interpreto la raffigurazione di Anna, Maria e Gesù in quella che chiamo la Trinità della gioia, non come una vittoria del pensiero dominante maschile, anche nel Cristianesimo, o della violenza ermeneutica, ma come una sua sconfitta. Benché Anna non compaia in nessuno dei testi canonici, benché Maria vi sia ridotta a una figura subordinata al figlio, gli uomini non sono riusciti a cancellare la consapevolezza che il figlio maschio è radicato nella genealogia femminile. La nonna e la mamma che lo abbracciano allontanano dalla nostra visione del mondo l’idea mortifera di un padre che mette in croce il proprio figlio, di un divino che si realizza pienamente solo attraverso il martirio. Sarà quel figlio cresciuto alla scuola dell’autorità femminile, della sua sovranità, a trasformare, quasi per effetto di quella che Mary Daly indicava come risonanza morfica, l’intero universo maschile e insegnerà la tenerezza e la gratitudine verso l’opera ininterrotta della Madre, come l’autrice stessa sa che sta già accadendo (p. 158).

È merito delle donne, di quelle che, come questo libro insegna, hanno saputo ritrovare la strada di casa, collegarsi con le loro radici più profonde, salvaguardare la loro anima, insieme ai loro corpi, e fermare la tracotanza di origine patriarcale, per riportare al mondo il piacere.


(Autrici di civiltà – Rivista Online, 6 dicembre 2021)

di Elvira Reale


Il 3 dicembre il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge “per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica”

Non possiamo che accogliere con interesse questa novità legislativa, pur con qualche possibile riserva critica – per esempio, sulla procedibilità d’ufficio sarebbe da ricordare l’importante discussione di anni fa -.

Quindi bene questo passo avanti della legge, con l’amarezza di sapere che non sarà né l’inasprimento delle pene né altro giro di vite a risolvere il problema della violenza sulle donne -anche se forse per questa strada una “riduzione del danno” si potrebbe conseguire.

Finché la prostituzione sarà intesa come un male necessario, o peggio un “lavoro”; finché vi saranno donne povere che mettono a disposizione le loro capacità riproduttive costrette dalle diseguaglianze economiche; finché le donne scompariranno perfino dal simbolico e a loro sarà impedito di significarsi con il nome di donna, come imposto dalle gender identity politics, nuovo dispositivo del patriarcato; finché, insomma, la perversione del dominio di un sesso sull’altro non avrà termine e non sapremo edificare una civiltà a radice femminile – significativamente nelle poche enclave matrilineari sopravvissute la violenza maschile sulle donne non esiste – qualunque novità legislativa sarà solo un palliativo e difficilmente scalfirà il fenomeno globale della violenza.

In ogni caso, queste le principali novità del ddl, illustrate da Elvira Reale.


Il testo è frutto del lavoro delle ministre Elena Bonetti, Luciana Lamorgese, Marta Cartabia, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Fabiana Dadone ed Erika Stefani.

La prima cosa importante da sottolineare è che nel titolo del disegno di legge scompare la parola genere e si parla solo delle donne.

Nel merito: l’obiettivo del ddl è prevenire e contrastare la violenza contro le donne e mette in campo una serie di misure per proteggere le vittime. Si va dall’estensione dei casi di procedibilità d’ufficio, senza cioè bisogno della denuncia, al fermo immediato di stalker e violenti in caso di imminente pericolo per la donna e all’aumento delle pene per chi è già stato ammonito per violenza domestica.

«In caso di atteggiamenti violenti si potrà procedere di ufficio» ha spiegato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Ha aggiunto che con le nuove norme ci sarà “un aiuto economico immediatamente nella fase delle indagini”. «Abbiamo esteso a questa fattispecie quello già previsto in materia di estorsioni: le donne potranno avere un terzo dell’indennizzo totale. Credo sia un grande passo avanti, è un grande aiuto alle donne che sono state oggetto di violenza, che tante volte non denunciano perché si trovano in una condizione economica difficile».

Nel dettaglio dei 10 articoli proposti abbiamo le seguenti misure principali:

– Subito il fermo dell’indiziato anche al di fuori dei casi già previsti (come la flagranza di reato): «il fermo della persona gravemente indiziata» di maltrattamenti in famiglia, lesioni personali e atti persecutori o di un «delitto consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza» (per cui la legge prevede «ergastolo o reclusione superiore nel massimo a tre anni») se «sussistono specifici elementi per ritenere grave e imminente il pericolo», quando «non è possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del giudice».

– Rafforzato l’uso del braccialetto elettronico. Si introduce una stretta sull’uso del braccialetto elettronico per chi minaccia o maltratta, quale strumento di tutela delle donne. L’art. 3 del testo in particolare, prevede l’applicazione della misura cautelare in carcere «nel caso di manomissione dei mezzi elettronici e degli strumenti tecnici di controllo disposti con la misura degli arresti domiciliari o con le misure di cui agli artt. 282-bis cod. proc. pen. (obbligo di allontanamento dalla casa familiare) o 282-ter cod. proc. pen. (divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa)».

– Possibile “vigilanza dinamica” della vittima. Un’altra delle novità previste dal testo è l’ipotesi di una vigilanza dinamica della vittima. L’organo di polizia che procede a seguito di denuncia o querela in ambito di violenza domestica, «qualora dai primi accertamenti emergano concreti e rilevanti elementi di pericolo di reiterazione della condotta», lo comunica al prefetto competente il quale può adottare «misure di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela della persona offesa».

– Si potrà procedere d’ufficio e pene aumentate se “soggetto già ammonito”: «In caso di atteggiamenti violenti si potrà procedere di ufficio». E inoltre si prevede un aggravamento delle pene per i reati di percosse, lesioni, minacce, violazione di domicilio e danneggiamento. Queste sono aumentate «se il fatto è commesso nell’ambito di violenza domestica da soggetto già ammonito».

– La persona offesa sarà informata su scarcerazione. Sull’uscita dal carcere del condannato o dell’indagato saranno avvisati anche Questore e Prefetto, per valutare eventuali misure di prevenzione e/o protezione della vittima.

– Subito aiuti economici a donne e orfani. La provvisionale arriverà nella fase delle indagini, senza dover attendere l’esito del processo. E potrà essere pari a un terzo dell’indennizzo totale.


QUI IL DDL INTEGRALE


Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica

Articolo 1

(Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto della violenza domestica)

1. All’articolo 3 del decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, sono apportate le seguenti modificazioni:

– al comma 1, primo periodo, le parole da «581» a «consumato o tentato» sono sostituite dalle seguenti «581, 582, 610, 612, secondo comma, 614 e 635, consumati o tentati», e, al secondo periodo, dopo le parole «non episodici», sono inserite le seguenti: «o commessi in presenza in minorenni»;

– al comma 5, le parole «581 e 582 del codice penale» sono sostituite dalle seguenti: «581, 582, 583-quinquies, 610, 612, secondo comma, 614 e 635, nonché del reato di cui agli articoli 56 e 575 del codice penale, commessi»;

– dopo il comma 5-bis, sono inseriti i seguenti:

«5-ter. Le pene per i reati di cui agli articoli 581, 582, 610, 612, secondo comma, 614 e 635 del codice penale sono aumentate se il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo.

«5-quater. Si procede d’ufficio per i reati previsti dagli articoli 581, 582, secondo comma, 612, secondo comma, prima ipotesi, 614, primo e secondo comma, del codice penale quando il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo.»

Articolo 2

(Modifiche all’articolo 8 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38)

1. All’articolo 8 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1 le parole «il reato di cui all’articolo 612-bis del codice penale, introdotto dall’articolo 7» sono sostituite dalle seguenti «i reati di cui agli articoli 609-bis, fuori dai casi previsti dall’articolo 609-septies, quarto comma, e 612-bis del codice penale»;

b) al comma 3, le parole «La pena per il delitto di cui all’articolo 612-bis del codice penale è aumentata» sono sostituite dalle seguenti «Le pene per i delitti di cui agli articoli 609-bis e 612-bis del codice penale sono aumentate»;

c) al comma 4, le parole «per il delitto previsto dall’articolo» sono sostituite dalle seguenti «per i delitti previsti dagli articoli 609-bis e».

Articolo 3

(Modifiche agli articoli 282-bis e 282-ter del codice di procedura penale)

1. Al codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all’articolo 276, al comma 1-ter, dopo le parole: «privata dimora» sono inserite le seguenti: «e, comunque, in caso di manomissione dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all’articolo 275-bis, anche quando applicati ai sensi degli articoli 282-bis e 282-ter»;

b) all’articolo 282-bis, comma 6, dopo le parole «572,» sono inserite le seguenti: «56 e 575,» ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Con lo stesso provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prevede l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo anzidette.»;

c) all’articolo 282-ter, comma 1, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Nei casi di cui all’articolo 282-bis, comma 6, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280. Con lo stesso provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prevede l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis.».

Articolo 4

(Modifiche all’articolo 391 del codice di procedura penale)

1. All’articolo 391, comma 5, secondo periodo, del codice di procedura penale dopo le parole: «per uno dei delitti indicati» sono inserite le seguenti: «nell’articolo 380, comma 2, o» e, dopo le parole: «anche fuori dai casi di flagranza,» sono inserite le seguenti: «o quando il fermo è stato eseguito nei casi previsti dall’articolo 384, comma 1-bis,».

Articolo 5

(Modifiche al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 per la prevenzione di reati commessi in ambito di violenza domestica)

1. Al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, sono apportate le seguenti modificazioni:

all’articolo 4, comma 1, lettera i-ter), dopo le parole «612-bis del codice penale» sono aggiunte le seguenti: «o dei delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 609-bis, 575, 583-quinquies del codice penale, nonché ai soggetti che, già ammoniti ai sensi dell’articolo 3 del decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, sono indiziati dei delitti di cui agli articoli 581, 582, 610, 612, secondo comma, 614 e 635 del codice penale, commessi nell’ambito di violenza domestica, come definita dall’articolo 3, comma 1, secondo periodo, del decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119»;

2. all’articolo 6, comma 3-bis, è aggiunto, infine, il seguente periodo: «Quando la sorveglianza speciale è applicata ai soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera i-ter), qualora l’interessato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo anzidette, alla misura sono aggiunte le prescrizioni di cui all’articolo 8, comma 5».

Articolo 6

(Modifiche in materia di informazioni alla persona offesa dal reato)

1. Al codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all’articolo 90-ter, al comma 1, dopo le parole: «i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva» sono aggiunte le seguenti: «emessi nei confronti dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato o dell’internato,»;

b) all’articolo 659, il comma 1-bis è abrogato.

Articolo 7

(Misure in materia di fermo di indiziato di delitto)

1. All’articolo 384 del codice di procedura penale, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) dopo il comma 1 è inserito il seguente:

«1-bis. Anche fuori dei casi di cui al comma 1 e di quelli di flagranza, il pubblico ministero dispone, con decreto motivato, il fermo della persona gravemente indiziata di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 582, 612-bis del codice penale o di delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona per il quale la legge prevede la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, quando sussistono specifici elementi per ritenere grave e imminente il pericolo che la persona indiziata commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, quando non è possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del giudice»;

b) al comma 2, le parole: «dal comma 1» sono sostituite dalle seguenti: «dai commi 1 e 1-bis»;

Articolo 8

(Modifiche in materia di sospensione condizionale della pena)

1. All’articolo 165, comma quinto, del codice penale, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Al fine di individuare gli enti o le associazioni e gli specifici percorsi di recupero di cui al periodo precedente, il giudice si avvale degli uffici di esecuzione penale esterna.»;

2. All’articolo 18-bis del regio decreto 28 maggio 1931, n. 601, recante disposizioni di coordinamento e transitorie per il codice penale, dopo il primo comma è aggiunto il seguente: «Nei casi di cui all’articolo 165, quinto comma, del codice penale, la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza la trasmette, al passaggio in giudicato, all’ufficio di esecuzione penale esterna, che accerta l’effettiva partecipazione del condannato al percorso di recupero e ne comunica l’esito al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza. Allo stesso pubblico ministero l’ufficio di esecuzione penale esterna dà immediata comunicazione dell’inadempimento del condannato ad uno qualsiasi degli obblighi imposti».

Art. 9

(Modifiche in materia di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa)

1. Al codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:

– all’articolo 387-bis, dopo il primo comma, è aggiunto il seguente: «La stessa pena si applica a chi elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter, primo comma, del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio».

– all’articolo 388, secondo comma, le parole da «l’ordine di protezione» fino ad «ancora» sono soppresse.

Articolo 10

(Disposizioni urgenti in materia di comunicazione dei provvedimenti di estinzione, revoca o sostituzione delle misure coercitive)

1. Nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 4, lettera i-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, l’estinzione o la revoca delle misure coercitive previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286 del codice di procedura penale o la loro sostituzione con altra misura meno grave sono comunicati al questore, per le valutazioni di competenza in materia di misure di prevenzione,

2. Nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 362, comma 1-ter, del codice di procedura penale, l’estinzione o la revoca delle misure coercitive di cui al comma 1 o la loro sostituzione con altra misura meno grave sono comunicate al prefetto che, sulla base delle valutazioni espresse nell’ambito delle riunioni di coordinamento di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 6 maggio 2002, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 luglio 2002, n. 133, può adottare misure di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela della persona offesa.


(https://feministpost.it/magazine/primo-piano/violenza-sulle-donne-ecco-le-novita-legislative/, 5 dicembre 2021)

Nell’ultimo libro, Sotto la montagna Sopra la montagna, edizioni nottetempo, 2021 (parte del progetto VIP Violation of the Pauli exclusion principle, prodotto da Xing, con il sostegno di Italian Council), Margherita Morgantin, alternando parole e formule della scienza ai suoi disegni, ci avvicina alle domande sulla materia oscura che si studia nei Laboratori di Fisica Nucleare del Gran Sasso. Sotto la montagna, le sintesi teoriche funzionano come scintille di conoscenza non immediata. Sopra la montagna, i disegni indicano l’altrettanto misteriosa consistenza della vita. Margherita Morgantin dialoga con Antonietta Potente, teologa e Italo Zuffi, artista. Presenta Francesca Pasini, critica d’arte.  

Accesso con Green Pass, documento d’identità e mascherina

Per acquistare online Sotto la montagna Sopra la montagna https://www.bookdealer.it/goto/9788874528905/607

di Stefano Sarfati Nahmad


Tra i tanti uomini che soffrono perché sono stati lasciati da una donna, quelli violenti che la uccidono, quelli che la perseguitano sui social network, quelli che banalmente vanno in depressione, ce n’è uno che ha fatto pubblica autocoscienza scrivendo su un muretto in piazza San Babila: «Io insieme a lei ero un uomo!»

Mi piace vedere quella scritta come una poesia dove nel primo verso c’è la vita com’era prima: «Io insieme a lei». Bello, tondo, solido. «Io insieme a lei»: soggettività, rapporto duale, differenza sessuale. Così era la vita prima.

Il muretto scende e cambia inclinazione: «Ero un uomo». Via la differenza sessuale, via il rapporto duale e, come in un effetto domino, via l’uomo.

Ma l’uomo che non è più un uomo prende lo spray e scrive la sua poesia sul muretto.

C’è dunque vita (e pensiero) nel post-uomo?


(www.libreriadelledonne.it, 3 dicembre 2021)