di Pat Carra

(Erbacce, 17 gennaio 2022)

di Paola Del Vecchio


L’ha inventato la microbiologa di origini italiane Maria Elena Bottazzi: è efficace all’80% con Delta (studi su Omicron sono in corso) e sarà accessibile a tutti, visto che una dose costerà 1,5 euro.


È stato ribattezzato «il vaccino anti Covid-19 per il mondo». E impiega una tecnologia tradizionale a base di proteine ricombinanti che ne fa possibile la produzione su vasta scala, rendendola accessibile alla popolazione globale. Ad annunciarlo in un comunicato è stata la microbiologa italo-honduregna Maria Elena Bottazzi, co-direttrice del Centro per lo Sviluppo di Vaccini del Texas Children’s Hospital e Baylor College of Medicine, istituzioni private e senza scopo di lucro a Houston, negli Usa. Libero da patenti, il Corbevax – com’è denominato – è già stato autorizzato in India come vaccino di emergenza. E Bottazzi prevede che sarà approvato a breve anche in Indonesia, Bangladesh e Botswana. «È il primo passo per affrontare la crisi umanitaria in corso, vale a dire la vulnerabilità dei paesi a basso e medio reddito nei confronti della variante Delta» ha assicurato la ricercatrice, nata 56 anni fa a Genova e cresciuta in Honduras. «I vaccini a base di proteine sono stati ampiamente utilizzati per prevenire molte altre malattie, hanno un comprovato record di sicurezza e utilizzano economie di scala per ottenere una disponibilità a basso costo in tutto il mondo» ha aggiunto la docente e preside associato della National School of Tropical Medicine alla Baylor. Il Corbevax può essere la svolta lungamente attesa per sconfiggere la Covid-19 a livello mondiale, perché «colmerà il divario di accesso creato dalle più costose e nuove tecnologie di vaccini e che oggi non sono ancora in grado di essere rapidamente diffuse per la produzione globale».

L’iniezione ha un’efficacia superiore al 90% rispetto al coronavirus originario di Wuhan e superiore all’80% per la mutazione Delta, come segnala un comunicato del Texas Children’s Hospital. «Ora stiamo confermando l’adeguatezza in relazione alla variante Omicron, ma crediamo che manterrà una buona protezione», ha assicurato Bottazzi al quotidiano El País. La sua produzione su larga scala, accessibile a «ogni fabbricante che può produrre un vaccino per l’epatite B», sarà possibile a un costo di circa un euro e mezzo per dose, a fronte dei 21 euro del siero di Moderna, dei 15 euro di quello di Pfizer e dei 3 euro di AstraZeneca. «È questo il concetto di vaccino per il mondo» ha rilevato la Bottazzi. «Ciò che abbiamo visto con gli altri sieri è che, sebbene l’intenzione è che tutti possano accedervi, ci sono limiti per la fabbricazione a grande scala, per l’immagazzinamento, per la proprietà intellettuale. Molti ostacoli, che stanno impedendo di ricevere o produrre le vaccinazioni per tutti».

Nel caso del Corbevax, sembrano superati. Il processo vaccinale sviluppato dal Centro guidato da Maria Elena Bottazzi e Peter Hotez, dopo aver completato due studi clinici di fase III su oltre 3.000 soggetti, «è risultato sicuro, ben tollerato e immunogenico». Hotez stima che siano necessari 9 miliardi di dosi per immunizzare il mondo. «Questo vaccino può ridurre questo gap», ha assicurato la scienziata. «Può alleviare economicamente i Paesi che non hanno fondi per continuare ad acquistare vaccini ad alto costo». E sarà «essenziale in America», per i richiami di vaccini che «non hanno una buona durata dell’immunità, soprattutto in un contesto di nuove varianti». Ma non solo. Corbevax è un vaccino halal, adatto all’uso da parte di persone di religione islamica. «Abbiamo cominciato a lavorare con il Medio Oriente e abbiamo visto che per loro è molto importante» ha spiegato Bottazzi. «Ci assicuriamo di non utilizzare nessun reagente derivato da animali. Tutto è con processi sintetici o vegetali».


(Avvenire.it, 17 gennaio 2022)

di Laura Fortini


È così difficile scrivere di felicità in questi tempi tanto complessi e agitati che si può solo comprendere Rossana Rossanda quando all’incontro del Seminario Estivo della Società italiana delle letterate nel luglio 2006 a Frascati, in cui parlammo insieme de La ragazza del secolo scorso, disse che era felice di essere lì, invitata da quelle sorelle pazze del libro Movimenti di felicità, pubblicato da manifestolibri nel 2004.

Il seminario era dedicato a «Eccesso e misura. Al crocevia della scrittura» e molto discutemmo di che cosa significasse per ognuna l’eccesso e la misura della politica e della polis (l’incontro è stato poi pubblicato nel febbraio 2008 su Leggendaria e ricordato nelle pagine dedicate a Rossana Rossanda sempre da Leggendaria nel 2020). Rossanda vi partecipò con la consueta schietta e rigorosa generosità, grazie a Doriana Ricci che era con lei e l’accompagnò, come sempre. Nonostante si sia in quell’incontro parlato a lungo di molte questioni e al tema avessimo dedicato un seminario e poi un libro, la parola «felicità» non appare nel corso del dibattito se non in forma antifrastica, troppe altre questioni erano urgenti: il femminismo, il comunismo, il Sessantotto, il corpo, anche nella vecchiaia.

Eppure lei stessa aveva parlato e a lungo di felicità con Christa Wolf, mescolata però al capitalismo e la cosa non era più facile, anzi, come non lo è neanche adesso: chi ha partecipato all’incontro che si svolse a Roma il 21 marzo 1992 promosso dal Centro Culturale Virginia Woolf – Gruppo B con il titolo “Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna” (pubblicato l’anno stesso dalle Edizioni del Centro e riproposto da VandA edizioni) ricorda benissimo il silenzio teso e concentrato di un numero imprevisto di donne che riempirono all’inverosimile il teatro Avila e che ascoltarono a lungo dialogare con la franchezza e sincerità dei pensieri acuminati due donne del calibro e della levatura di Christa Wolf, della quale erano state tradotte in Italia da Anita Raja per e/o Cassandra (1984), Guasto (1987), Recita estiva (1989), mentre Trama d’infanzia, del 1976, era stato appena pubblicato in Italia nel 1992, e ogni opera letta con attenzione, meditata, discussa nei gruppi femministi, e Rossana Rossanda, che gli editoriali fulminanti e le splendide recensioni, insieme alla successiva narrazione autobiografica, consegnano anche alla definizione di scrittrice, pure se molto altro è stata.

Il tema, lo ricorda Alessandra Bocchetti che coordinò l’incontro e ne ha scritto la premessa all’edizione VandA, è «la felicità delle donne come strumento per una rivoluzione contro il capitalismo»: «non la lotta di classe ma la felicità delle donne per cambiare veramente». Tema ardimentoso quant’altri mai, ma che al tempo stesso risuona vicino, vicinissimo ad ogni soggettività, perché è il desiderio a muovere le rivoluzioni: motore il bisogno di giustizia di contro all’ingiustizia sociale, certo, il bisogno di pane e lavoro ma anche delle rose, perché senza la vita non ha significato. Tutto questo allora agiva e tutt’oggi agisce sottotesto alla vita di ognuna e ognuno, anche se pandemia e capitalismo selvaggio – difficile dire dove inizia l’uno e finisce l’altro, spesso strettamente irrelati – pongono l’età presente sotto scacco.

Sullo sfondo allora la caduta del muro di Berlino, e un senso malcelato di malessere per un ideale e un’utopia – il sogno di un mondo migliore, comunista – che si erano mostrati vani e fallaci: se le prospettive erano allora opache, però, la capacità di analisi delle due donne non lo era affatto, sia nel confronto tra loro che nelle risposte alle domande nel corso del dibattito, la cui chiarezza risulta a oggi ancora sbalorditiva per la capacità di analisi e di prefigurazione di quello che è attualmente il presente.

A partire dalla definizione di Christa Wolf per la quale «essere viva con ogni fibra del mio corpo, della mia anima e della mia mente: questo è per me felicità», «agire, sentire, pensare, magari contemporaneamente»: quanto di questa definizione potremmo fare nostro oggi? Tutto, direi, tanto più in un periodo storico in cui agire, sentire, pensare contemporaneamente sembra quasi impossibile, ottusi come siamo dai dispositivi della fragilità e della vulnerabilità che non riescono a divenire forza creatrice tra le nostre mani. Vi è sì, lo riconoscono entrambe, una felicità nella scrittura, ma come non condividere quanto osserva Rossana Rossanda a proposito della libertà: «Libertà significa essere in condizioni di realizzare se stessi, di vivere con tutte le proprie fibre, e questo dipende molto, direi quasi esclusivamente, invece, dalle condizioni sociali, dai rapporti sociali che ci sono dati».

E prosegue «Questa è la ragione per la quale io continuo a fare politica: perché penso che ci sia un’illibertà diffusa e che questa illibertà per le donne sia ancora maggiore. Occorre molto sforzo, molta capacità di costituirsi in soggetto autonomo per dichiararsi libere, per volersi libere, per sentirsi libere».

Pesava la sconfitta del sogno di rivoluzione comunista allora nel 1992 e ancora nel 2022, a trenta e più anni di distanza da quell’incontro. Rossanda tornò poi nel corso del dialogo sulla questione, ponendo la domanda «Si può essere felici senza sapere?» a proposito di quando nel 1943 studiava al Castello Sforzesco di Milano e intravide una possibilità di felicità personale in quello che lei definisce «il luogo della mia quiete». Ma non della libertà, aggiunge, e l’osservazione che l’accompagna è ciò che meglio rende la motivazione all’impegno politico di tante e di tanti: «io non voglio essere quieta in un mondo di ingiustizie».

Vi è una politica delle donne e più ampiamente di tutte le soggettività che non chiede né cerca quiete, allora come oggi, che critica il capitalismo e che è soggetto politico in divenire. Ben chiaro, allora come oggi, che la questione non è quella della sola emancipazione ma di una critica al sistema capitalistico delle merci, rispetto al quale la subordinazione è degli uomini come delle donne e di tutte le soggettività che vedono nel patriarcato la forma archetipica del capitalismo.

Nel corso del dibattito, assai vivo e vivace, Rossanda osservò che «le donne, per essere state oggetto più di un uomo, merce più di un uomo, bene di scambio più di un uomo» possono essere più di altri ribelli all’idea di mercificazione totale; ma già allora notava come le algerine appena uscite di casa rischiavano di dover rimettere il velo e altrettanto lucidamente Christa Wolf si chiedeva se fosse possibile invertire l’andamento per il quale i paesi poveri divenivano sempre più poveri e che «certamente le masse affamate verranno a bussare alla porta dell’Europa occidentale! E che faremo? Li rispediremo a casa sulle navi? Li fucileremo? O che altro?». Sullo sfondo, non nominata ma incombente, la nave albanese Vlora che nel 1990 trasportò in Italia 20.000 albanesi, il più grande sbarco di migranti da un’unica nave. Sul tavolo le domande irrimandabili ancora e sempre: sono possibili altre economie di mercato? O occorrerà scardinare l’intera economia mondiale perché cessi il sistema di sfruttamento capitalistico?

In altre parole: è possibile l’utopia? Sulla possibilità di scrivere dell’utopia confidando che cessi di essere utopia e diventi – vogliamo dirlo? – rivoluzione (parola che però non si pronunciò), si chiuse allora l’incontro tra Rossanda Rossanda e Christa Wolf coordinato da Alessandra Bocchetti e le questioni sono e rimangono assai aperte, sia nelle forme delle conseguenze a quanto allora avvenne: la caduta del muro di Berlino e dei paesi del socialismo reale, le guerre su vari fronti del mondo con tutto quello che ne è venuto poi; la radicalità selvaggia del capitalismo e del sistema delle merci che certo non sono stati e non sono estranei a quanto sta avvenendo nel mondo.

Vale rileggere perciò quanto allora donne di tanto calibro si dissero – oggi sì utopia la partecipazione così affollata a un dibattito – per continuare a pensare utopia e farla diventare mondo reale: dati i tempi, impossibile morire per troppa felicità come accade alla protagonista del racconto omonimo di Alice Munro.


(il manifesto, 16 gennaio 2022)

di Ida Dominijanni


Era successo a Colonia, in Germania, la notte di capodanno del 2014. Sei anni dopo, succede ancora e uguale a Milano, la notte di capodanno del 2022. Stessa notte, stessa festa, quest’anno ammaccata e immalinconita dalla pandemia, stesse molestie, stesso branco. Giovani uomini “di aspetto arabo e nordafricano”, come si scrisse allora, immigrati di seconda generazione, “manovali di periferia in cerca di una notte da padroni” come si scrive oggi (su Repubblica) aggiungendo un accento classista a quello razzista. E giovani donne – come definirle, “native”? – aggredite, circondate, palpeggiate, denudate, molestate, derubate.

Gadget da supermercato

Cambio di contesto però nella ripetizione del fatto: nel 2016 l’opinione pubblica tedesca era alle prese con l’apertura di Angela Merkel al flusso di migranti siriani, e la destra approfittò dei fatti di Colonia per attaccare la cancelliera insistendo sulla matrice razziale dell’aggressione. Oggi l’opinione pubblica italiana è alle prese con la variante omicron, e i tentativi della destra nostrana di battere sullo stesso tasto hanno meno risonanza; meglio il disprezzo pietistico dei manovali di periferia della stampa progressista.

Allora come oggi però stenta a imporsi l’evidenza ovvia, palmare, lapalissiana che la violenza maschile sulle donne non ha né colore né ceto: non sono femministerie i discorsi sulla matrice patriarcale che accomuna culture e società diverse e rende i comportamenti violenti degli “invasori” nordafricani sinistramente simili a quelli di tanti oriundi europei, come in un gioco di specchi che la globalizzazione dei consumi, dei costumi e dell’immaginario moltiplica all’infinito.

Del resto a capodanno del 2021, quando c’era il coprifuoco alle 22 ed era vietano riunirsi in piazza più di sei a causa del covid, in una villa perbene di Roma nord appositamente affittata, la cena di San Silvestro a base di cocaina, hashish alcol e Rivotril fu coronata dallo stupro di gruppo di una ragazza di 16 anni, abusata da cinque insospettabili vicini di casa tra i 16 e i 20.

E bastava uno sguardo ai quotidiani dell’altro ieri, tutti con due pagine affiancate, una sui fatti di Milano l’altra sul processo al duca di York coinvolto nei traffici sessuali di Jeffrey Epstein, per farsi un’idea di come i manovali di periferia possano riflettersi nei rampolli della high society e viceversa, uniti dalla convinzione che del corpo femminile si dispone come di un gadget da supermercato, e se non se ne dispone lo si compra, e se non lo si può comprare in una residenza lussuosa di Manhattan lo si prende con la forza in una pubblica piazza; casualmente nella stessa città dove dieci anni fa si svolgevano le “cene eleganti” di un presidente del consiglio miliardario che all’epoca pagava prestazioni sessuali con soldi e posti di lavoro e oggi si candida senza pudore alla presidenza della repubblica.

E dunque interroghiamoci pure sulle difficoltà della convivenza multiculturale, sugli attriti dell’integrazione, sulle seconde generazioni di immigrati che scaricano su comportamenti violenti le frustrazioni per una cittadinanza dimezzata.

Ma senza mai dimenticare che sono nostri, non loro, i valori e i criteri che autorizzano questi comportamenti. È nostro, per esempio, un prodotto squisitamente occidentale e neo-liberale, l’equivoco che confonde la libertà esistenziale delle donne con una loro presunta disponibilità a offrirsi sul mercato sessuale.

Uno dei tanti equivoci che impedisce a noi donne di farci arruolare nello scontro di civiltà tra un occidente per definizione amico e un resto del mondo per definizione nemico della nostra libertà. Questioni note, sempre aperte e purtroppo sempre attuali.

Che però mancano il punto, che forse è più tanto questo ma quest’altro: come e perché il sesso sia diventato, all’alba del terzo millennio, performance muscolare, oggetto di godimento usa e getta, arma di riscatto dei poveri e status symbol dei ricchi, future da investire nel borsino della virilità. Come e perché questo avvenga in un’epoca che non è di crescente oppressione bensì di crescente libertà femminile, e non di trionfo bensì di declino del patriarcato, a ovest, a est, a nord e a sud del pianeta.

Sintomo

Come e perché proprio il sesso, un sesso impoverito e molesto, un sesso che senza additivi non funziona e che ha bisogno del branco come un goleador del tifo, sia diventato il terreno di una sorta di resa dei conti ultimativa e punitiva di una virilità compromessa incapace di rinunciare alla rendita di posizione di un dominio ormai vacillante. È sempre segno e sintomo anche d’altro, il sesso. E proprio quando lo si vuole ridurre a una letteralità cieca e muta dice di noi più cose di quante ne vogliamo sapere.


(L’Essenziale, 15 gennaio 2022)

Invito a Convegno

di Città Vicine


Cercare, riconoscere, valorizzare i segni della libertà femminile.  
Là dove è solo un germoglio ancora fragile, o una piantina da far crescere con cura, o un albero ben radicato che già offre ombra e riparo alle altre donne.  
Creare occasioni di incontro e di scambio, di confronto e di crescita per dare e darsi coraggio, riflessioni, pensiero.  
Continuare il lavoro di creazione di ordine simbolico e di rappresentazione del sesso femminile che scardini la cultura patriarcale alle radici in tutte le sue manifestazioni, dalle più evidenti alle più sottili, dalle più vistose da cronaca nera a quelle della microfisica del quotidiano, da quelle dei singoli uomini a quelle istituzionali, altrettanto violente e opprimenti.  
Questa libertà che le donne si sono date e si danno disorienta l’uomo, ne agita i peggiori fantasmi e fa paura. Il disordine patriarcale colpisce alla ricerca di nuove strategie, di nuove vie di fuga. Ne sono esempi l’attacco alla differenza sessuale in nome dell’ideologia di genere nelle sue varie espressioni, dall’ormonizzazione delle e degli adolescenti alla neutralizzazione del linguaggio, il macabro ritmo dei femminicidi (uno ogni tre giorni), l’attacco alla legge 194 con il 70% dei medici obiettori, l’aggressione alle madri e l’allontanamento dei loro figli e figlie attraverso un uso spregiudicato della cosiddetta PAS (sindrome da alienazione parentale), l’invidia maschile della generatività femminile che si vorrebbe ridurre alla gestazione di un “prodotto”, commerciabile e scambiabile.  
Le donne sono in cammino: la libertà femminile esiste, è necessario l’avvento di una nuova civiltà.  
Questo ha espresso il femminismo fin dalla sua nascita, questo hanno ribadito molte piazze il 27 novembre scorso, questo ha riaffermato il convegno di Catania del 25 novembre contro “Il filo nero della violenza”.


Parliamone insieme e confrontiamoci al Convegno delle Città Vicine, il 19 febbraio 2022 dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 16 tramite la piattaforma zoom al seguente link https: us06web.zoom.us/j/


Per qualsiasi indicazione rivolgersi a: Segreteria CASA COMUNE MAG Giulia Pravato tel. 045/8100279, info@magverona.it


(www.libreriadelledonne.it, 14 gennaio 2022)

E di come per secoli è stata considerata disdicevole e repressa, con un gran lavoro di medici, filosofi e teologi

di Giulia Siviero


La storica francese Sabine Melchior-Bonnet ha pubblicato Le rire des femmes. Une histoire sur le pouvoir, ed. Puf [La risata delle donne. Una storia di potere, Ndt], un saggio sulla risata femminile dall’antichità ai giorni nostri, argomentando come la storia di un gesto così comune nella specie umana sia sessuata: diversa, cioè, tra uomini e donne. Tale storia va di pari passo con la costruzione di un modello tradizionale di femminilità associato a un ruolo considerato a lungo giusto per la donna nella società e nel mondo, in quanto madre e angelo del focolare.

Per secoli, spiega Melchior-Bonnet, poeti, filosofi, retori, teologi e medici hanno cercato di spiegare e di stabilire, da un punto di vista biologico, morale e sociale, perché ridere non si addicesse a una donna. La storia della risata femminile è dunque anche la storia del lavoro meticoloso e costante per contenerla, reprimerla o tollerarla, ma a certe condizioni. Per lungo tempo, una donna che rideva ha violato le aspettative di genere della femminilità (che secondo alcuni stereotipi molto radicati hanno a che fare con grazia, virtù, modestia e pudicizia) e ha corso il rischio di apparire pazza, brutta, ignorante o lasciva. Guardando la storia dall’altra parte, la risata ha dunque avuto e conservato un grande potere sovversivo.

Frivolezze 
Secondo un antichissimo luogo comune, le donne devono alla loro natura un’emotività che le porta a ridere spesso: non solo ridono più degli uomini, ma secondo questo stesso stereotipo passano anche senza soluzione di continuità dal riso al pianto, dall’allegria alla tristezza. È una questione di fisiologia, di umori e di organi, hanno detto i medici e i filosofi che nella storia hanno dissertato sulle cause dell’ilarità fin dai tempi antichi.

Secondo Aristotele, per il buon funzionamento di un corpo era fondamentale il calore naturale e la necessità che venissero mantenuti certi equilibri tra calore e umidità. Il medico greco Galeno, le cui teorie del II secolo d.C. hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento, sosteneva a sua volta che il sesso maschile godesse di una “temperatura” – la distinzione corretta tra calore e temperatura risale all’Ottocento – calda e secca, che invece era fredda e umida per quella femminile. Da questo temperamento a dominanza freddo-umida e dalla mancanza di calore, secondo questa teoria antica, derivavano la “tipica” irragionevolezza, incostanza, lussuria, loquacità, suggestionabilità e frivolezza della donna. La propensione al riso delle donne era insomma la conseguenza naturale di una sua lacuna strutturale: di una costituzione fisica imperfetta.

Difetti termici a parte, nella storia della filosofia e della “medicina” il disequilibrio delle donne ha trovato varie presunte spiegazioni: un minor numero di suture craniche, ad esempio, che non permettevano l’uscita dei vapori che salivano alla testa, secondo il teologo e filosofo tedesco del Medioevo Alberto Magno. Ma, su tutto, la potenza del suo sesso.

Platone descriveva l’utero come una bestia che si agitava nel corpo delle donne, che ostruiva i passaggi dell’aria e che poteva essere placata solamente quando “riempita” dal seme maschile.

Il corpo femminile e il suo benessere erano dunque strettamente collegati alle funzioni sociali: quella di moglie che aveva il dovere, anche per il suo bene, di unirsi al marito, e quella di procreatrice. Quando l’utero, vuoto, era invece lasciato libero di vagare poteva scatenare malattie, capricci, convulsioni, lacrime, crisi isteriche, e risate smodate. Ancora nel Cinquecento, il medico e chirurgo del re di Francia Laurent Joubert, nel suo Traité du Ris, citava la storia di due sorelle a cui era stato permesso di ridere così a lungo che il loro utero era salito fino alla gola rischiando di soffocarle.

Per secoli, un’alleanza tra medici e filosofi contribuì dunque a fondare su basi “scientifiche” l’interdizione per le donne al riso: la donna che se ne lasciava coinvolgere restava preda di un furore uterino molto pericoloso. Non ridere, per il sesso femminile, così come procreare era dunque e innanzitutto una questione di buona salute.

Sorridere invece che ridere 
Nella sua Ars Amatoria, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., il poeta latino Ovidio impartì molti insegnamenti per praticare l’arte della seduzione: agli uomini. E nella terza e ultima parte della sua opera fornì anche alle donne diverse indicazioni per essere amate. Alcune di queste avevano a che fare con la risata:

«Si apra moderatamente la bocca, e siano piccole le fossette delle guance, dall’una e dall’altra parte, e i bordi delle labbra coprano la parte più alta dei denti, e non stanchino i fianchi col ridere continuamente, ma il riso abbia sempre un non so che di delicato e femminile.

Vi è qualcuna che storce la bocca con risate scomposte; un’altra, quando ride allegramente, crederesti che pianga; quell’altra ride con un suono rauco e sgradevole; ride come dalla ruvida macina raglia una brutta asinella».

Da lì in poi, e fino al XIX secolo, queste poche righe hanno ispirato un intero genere letterario: i manuali e i trattati di buona educazione per “signore”, che hanno cercato di giustificare sia da un punto di vista morale che sociale perché ridere, per una donna, fosse sconveniente. Indicando canoni e precetti ben precisi a cui una donna pienamente donna si doveva attenere, come i trattati medici anche i manuali di comportamento avevano lo scopo di costruire il modello della moglie e della padrona di casa ideale: di stabilire il ruolo sociale della donna, ma anche e soprattutto quello di preservare l’ordine sociale.

Nel trattato composto nel 1318, Reggimento e costume di donna, Francesco da Barberino mise insieme un galateo femminile passando in rassegna tutti i comportamenti adeguati a una donna nelle varie situazioni della vita. Nella sua condotta pubblica, la fanciulla doveva imparare a non suscitare né invidia né desiderio né pietà, e il suo volto doveva esprimere un misto di paura, vergogna e pudore; doveva tenere gli occhi bassi e bandire il riso. Le era concesso di rilassarsi nel privato, continuando comunque a controllarsi: in nessun caso, quando provava gioia, doveva mostrare i denti.

I denti tornano spesso in questo genere di testi: nel suo manuale intitolato Mes Secrets pour plaire et pour être aimée (I miei segreti per piacere ad essere amata, del 1896) la baronessa Staffe – autrice di best seller e considerata, all’epoca, l’educatrice della donna per eccellenza – diceva che il riso era nemico della grazia femminile sia interiore che esteriore. Scegliendo di non ridere, scriveva, «il nostro spirito resterebbe più elevato, le linee del nostro viso conserverebbero meglio la loro nobiltà, e noi più intatta la nostra individualità». Ridere, per una donna, aveva poi molti inconvenienti:

«Non pensiamo mai abbastanza a tutti gli inconvenienti del ridere. Una donna che ha i denti brutti, porta la mano davanti alla bocca quando ride. Se la mano è bella, va ancora bene, ma se non lo è? L’imperatrice Joséphine, che aveva dei denti molto difettosi, aveva inventato la moda di eleganti fazzoletti da tenere in mano. Quando le veniva da ridere, ella copriva la sua bocca per mezzo del piccolo quadrato di batista e di pizzo. Sarebbe stato meglio abituarsi a non ridere, cosa che si addice, del resto, alle labbra di coloro che hanno passato la giovinezza».

Più che il riso, dunque, era raccomandato il sorriso: espressione di armonia interiore ed equilibrio mentale, di saggezza e amabilità: «La donna deve sorridere e non ridere: il sorriso è uno dei suoi più grandi fascini. Anche presso la più carina, il ridere non può che essere una convulsione o una smorfia».

Ridere andava contro l’etichetta: procurava fastidio agli altri perché era rumoroso, attirava su di sé l’attenzione e metteva in evidenza i difetti del corpo. Tali rigide regole erano valide in qualsiasi ambito, compreso quello della pittura. Il Cours de peinture par principes fu pubblicato a Parigi nel 1708 dal critico francese Roger de Piles: era una specie di compendio dei fondamenti della pittura e dei generi del ritratto e del paesaggio. Tra le regole vi era quella che il volto di una donna dovesse essere serio o leggermente sorridente, «di nobile semplicità e modesta giocosità».

Nell’agosto del 1787, la pittrice Vigée Le Brun presentò al Salon di Parigi, la principale vetrina artistica che si teneva ogni anno al Louvre, un autoritratto con la figlia Julie. L’artista intendeva esprimere la sua felicità di madre, ma lo fece dipingendosi con un sorriso che sconfinava nel riso e che metteva in mostra i denti, con risultati scandalosi.

La bocca come una vagina 
C’erano molte buone ragioni per impedire alle donne di abbandonarsi al riso, ma la principale era l’associazione del riso alla sessualità. La risata, spiega Melchior-Bonnet, «apre il corpo», a differenza di un sorriso che lascia invece il corpo chiuso, composto e decoroso. E ancora una volta, le questioni morali e sociali trovarono nella fisiologia una loro alleata.

Per i medici ippocratici il corpo della donna era delimitato da due aperture: una inferiore (vagina-utero) e una superiore (bocca-narici), unite da un lunghissimo canale che passava attraverso gli intestini, lo stomaco e la gola. La donna che rideva manifestava dunque direttamente e pubblicamente il proprio piacere sessuale, apriva un varco, ed era di conseguenza sospettata di essere una prostituta, una cortigiana o una donna poco onesta e lussuriosa.

I Greci avevano una parola precisa per indicare la risata aperta e perturbante delle donne, che il padre della Chiesa Clemente Alessandrino riprese nel Pedagogo, un trattato pratico in tre libri il cui scopo era quello di addestrare il cristiano a una vita disciplinata. Ridere fa parte della natura umana, diceva, e dunque non può essere proibito totalmente. Ma il riso va usato con parsimonia: da tutti, ma soprattutto dalle donne poiché desta sospetto. «Principalmente nelle giovinette e nelle donne il riso è facile ad essere male interpretato» scriveva. E ancora:

«Lo spianare il volto in modo che le sue linee diventino armoniche come le corde di uno strumento, si dice sorridere, è questa un’espressione dolce che risplende nel volto, e questo è il riso dei saggi. Il rilassamento eccessivo del volto se avviene nelle donne è detto kichlismos, ed è un riso proprio delle meretrici».

Il legame bocca-vagina si rinforzò, storicamente, nel Medioevo: nell’ambito delle regole monastiche e del pensiero cristiano. Riprendendo la fisiologia che identificava il maschile con la parte superiore del corpo e il femminile con quella inferiore, il riso e la donna vennero associati al peccato. Una donna che rideva era dunque la peggior cosa a cui si potesse pensare. Come spiega Daniela Carpisassi, esperta in storia delle scritture femminili e saggista che si è a lungo occupata di riso e umorismo femminile, «se il riso e la donna sono incompatibili con la questione del controllo del corpo, il ridere da parte della donna è atto doppiamente peccaminoso, gesto della femme fatale, dannata e che conduce alla dannazione dell’uomo, atto di incontinenza che costituisce una duplice colpa».

Del resto, ricorda la studiosa, la parola latina culpa deriva dal greco kolpos che significa «utero», «vagina»: indica una «mancanza» e «un’azione che contravviene alla norma (etica e religiosa)»: «Lo schiudersi di labbra nel ridere richiama l’atto sessuale ed è considerato licenzioso e indecente in modo particolare per le donne, destinate a essere emblemi disincarnati della virtù e del pudore». Il riso femminile, in quest’ottica, compromette l’onestà, costituisce «un invito, una tentazione, un concedersi, un aprire la porta della/alla perdizione, un disserrare la bocca-chiavistello».

Brutta 
Per secoli, una donna che rideva non correva solo il rischio di apparire poco onesta, ma anche di perdere la sua bellezza. La risata disarticola il corpo, lo fa sussultare, deforma il viso, lo fa contrarre in smorfie. E sono molte le dettagliate descrizioni del corpo femminile trasfigurato da una risata.

Padre Le Moyne, esploratore francese del Seicento e poeta nel tempo libero, descrisse ad esempio con precisione gli effetti disastrosi di una risata sul volto di una donna:

«Toglie la proporzione della bocca, mette le guance fuori dalla loro posizione naturale, gonfia le vene e le fa sporgere fuori dal loro posto, spegne gli occhi e li annega, copre il viso di rughe e dona alla persona le smorfie degli indemoniati e le convulsioni degli epilettici».

Il riso, spiega ancora Carpisassi, «alterando i tratti distintivi della donna, ne stravolge la “giusta” forma, contravviene al canone della bellezza, lede la femminilità tout-court». Il riso era dunque considerato per una donna socialmente sconveniente, «non vantaggioso nella relazione privata tra i sessi, ovvero nell’ambito della seduzione strategicamente esercitata dalla donna nei confronti dell’uomo: quando ella ride, perdendo femminilità e bellezza, compromette la propria appetibilità e desiderabilità mettendo così a rischio la propria realizzazione sociale e l’istituzione “famiglia”».

Bruta 
La risata femminile poteva tradire anche stoltezza e stupidità. Platone nel Teeteto fa narrare a Socrate un aneddoto relativo a Talete:

«Talete, mentre stava scrutando le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo. Allora una servetta di Tracia, garbata e graziosa, rise dicendogli che si dava un gran da fare a conoscere le cose del cielo, ma le cose che gli stavano dappresso, davanti ai piedi, gli rimanevano nascoste».

Una giovane donna, schiava, e che proviene dalla Tracia (fatto che, di per sé, era al tempo cifra di ignoranza e di scarsa intelligenza), ride di Talete, il primo filosofo. L’aneddoto di Platone, nel corso dei secoli, è stato ripreso e commentato per spiegare l’incomprensione della speculazione filosofica da parte della gente comune. Il riso della servetta, una donna dedita alle cose minute della vita e alla cura dei corpi, divenne cioè il paradigma dell’ottusità sempliciotta degli ignoranti nei confronti della theoria, ossia nei confronti della contemplazione della realtà superiore e del vero operata dal pensiero.

La risata sovversiva 
Nell’interpretazione dell’aneddoto della servetta di Tracia, la filosofa femminista Adriana Cavarero sottolinea come la risata della donna abbia anche il potere di denunciare la pretesa verità e universalità dell’astrazione filosofica «che vorrebbe rimuovere in un’operazione, in fondo unica e coerente, le cose della terra e i corpi», cioè il femminile. Il riso porta dunque con sé una potente carica critica e dissacrante.

Fin dalle commedie di Aristofane, la risata delle donne è sovversione. È quando guidano la loro protesta e fanno uno sciopero del sesso che ridono: tra di loro e senza uomini. Lungo la storia della letteratura, dei miti e delle religioni, Melchior-Bonnet passa in rassegna diverse figure femminili che ridono e sovvertono, raccontando anche la lenta conquista del riso da parte delle donne.

Una delle prime a raccontare il ruolo emancipatorio della risata fu Virginia Woolf, scrittrice spesso superficialmente associata a malattia, depressione e suicidio. Nel 1905 Woolf pubblicò sul Guardian un breve saggio dal titolo Il valore della risata. La risata, «la pura, spontanea risata, quella che sentiamo provenire dalla bocca dei bambini e di sciocche donne», spiega Woolf, «è tenuta in discredito»: «si sostiene sia la voce della frivola stupidità, che non trae ispirazione né dal sapere né dall’emozione, che non offre messaggi, non comunica informazioni».

La risata porta invece con sé, dice Woolf, un grande sapere: mostra gli esseri umani per quello che sono e li mette a nudo. E i soggetti che più sono in grado di fare tutto questo sono i bambini e le donne:

«Tutti sanno che i bambini hanno una maggiore capacità, rispetto agli adulti, di conoscere gli uomini per quello che sono, e credo che il verdetto che le donne emettono sul carattere delle persone non sarà smentito il giorno del Giudizio. Le donne e i bambini, dunque, sono i principali rappresentanti dello spirito comico, perché non hanno gli occhi annebbiati dal sapere, né le menti ingombrate da teorie libresche, il che fa sì che uomini e cose preservino nitidamente i loro tratti originali. Tutte le odiose, soffocanti escrescenze che hanno ricoperto a dismisura la nostra vita moderna, le cerimonie pompose, le convenzioni, e le noiose celebrazioni solenni, niente temono di più del balenare di una risata, che, come un lampo, le inaridisce e le dissecca fino a lasciarne solo le ossa. È perché la loro risata possiede questa qualità che i bambini sono temuti dalle persone consapevoli della propria affettazione e falsità; ed è probabile che, per la stessa ragione, le donne siano guardate con tanta sospettosa disapprovazione nelle professioni dotte. Il pericolo è che possano ridere, come il bambino nella favola di Hans Andersen, che notava apertamente che il re era nudo, mentre gli adulti ne ammiravano lo splendido abbigliamento – che non esisteva».

Il riso, a partire da Virginia Woolf e poi per altre scrittrici del Novecento, ha permesso di svelare gli artifizi della società, di liberarsi dalle convenzioni e di smontare ruoli e stereotipi. La risata è stata rivendicata da quelle donne che hanno sfuggito la norma, che hanno sfidato l’ordine sociale e i giudizi morali, spiega la storica Melchior-Bonnet, ed è proprio per questa sua intrinseca minaccia che la risata delle donne è stata così a lungo negata, sorvegliata o tollerata purché nascosta dietro a un ventaglio. Ridendo le donne si sottraggono al loro ruolo, e «mettono di fatto in pericolo la virilità».


(Il Post, 12 gennaio 2022)

di Giordana Masotto


Dopo il ripetersi di violenze maschili di gruppo contro giovani donne a Milano nella notte di Capodanno 2022, suggeriamo di rileggere l’analisi di Giordana Masotto sui fatti di Colonia nella notte di capodanno 2016: Imparare da Colonia (Inchiesta, n.191, 2016): https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/imparare-da-colonia/


(www.libreriadelledonne.it, 10 gennaio 2022)

di redazione


La Casa delle Donne di Milano ha messo insieme alcuni brevi scritti di chi ha amato Laura e i giornali che hanno parlato della sua scomparsa, il 6 agosto 2021. Lo ha fatto con amore e cura, con l’intelligente regia di Maria Nadotti. Ecco il risultato: Laura Lepetit Maltini. Un’indimenticabile femminista distratta, un piccolo quaderno digitale scaricabile dal loro sito https://www.casadonnemilano.it


(www.libreriadelledonne.it, 3 gennaio 2022)


di Giulia Menzietti


«A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, la strada percorsa dalle donne nel campo dell’architettura per raggiungere una giusta emancipazione e riconoscibilità in un universo di fatto maschile non solo è stata lunga, ma anche segnata da momenti storici e professionali diversi. Le prime progettiste lavorarono per far sentire la presenza di una voce femminile nel settore, dal secondo dopoguerra si sono sempre più potentemente imposte come leader. Non più voci isolate ma componenti significative della professione». 
A Maristella Casciato, cui si deve la consulenza scientifica delle ricerche per la mostra apertasi al Maxxi Good News. Donne in architettura (fino al 24 aprile 2022), così come una delle voci della sezione «Narrazioni», non sono mai piaciuti gli elenchi («anche se a volte sono utili come matrice di un ordine») e tantomeno le classifiche. Storica dell’architettura, attualmente Senior curator, Head of architecture special collections al Getty Research Institute a Los Angeles. Docente universitaria, in Italia e all’estero, curatrice di mostre come Bauhaus Beginnings (2019) al Getty Research Institute e Gio Ponti. Amare l’architettura al Maxxi (2019), e autrice dei libri Casablanca Chandigarh. Reports on Modernization (con Tom Avermaete, 2013), The Metropolis in Latin America, 1830-1930 (con Idurre Alonso, 2021), Rethinking Global Modernism. Architectural Historiography and the Postcolonial (con Vikram Prakash e Daniel Coslett, 2021), Casciato ha condiviso con il manifesto alcune riflessioni sui temi affrontati nell’itinerario espositivo.

Tra le architette che hanno cercato di affermarsi nel campo della professione, quali sono le sue preferite? 
Tutte le architette «ospitate» in questa mostra hanno, nel corso di un secolo e mezzo, reso possibile questa rivoluzione. Non saprei quindi indicare quali siano le mie preferite, anche se con alcune avverto una maggiore affinità. Non sono una progettista, il che mi fa sentire più vicina a quelle che hanno lavorato per creare occasioni fertili affinché la voce delle altre si potesse sentire; hanno curato esposizioni, prodotto manifesti, elaborato un pensiero teorico attraverso riviste e pubblicazioni, sono state docenti che hanno sempre difeso un percorso pedagogico in cui le più giovani avessero la libertà di parlare e, ancor più importante, fossero ascoltate. A loro mi sento più vicina.

La rassegna racconta la progressiva trasformazione dello status dell’architetto, che dalla figura del singolo maestro sembra migrare sempre più verso formule di studi a coppie, o collettivi etc… Pensa che questo processo abbia a che fare col fenomeno più globale della gender equality? O che risponda alla progressiva apertura, nel campo del progetto, verso altri territori d’indagine e alla necessità di lavorare in team con contributi multidisciplinari? 
Non credo che la pratica professionale, di coppia o collettiva, sia figlia di un superamento del gender gap. Anzi, nel caso delle coppie di progettisti in cui sono presenti i due generi, la vera battaglia è stata quella che le donne hanno combattuto per difendere il loro privato rispetto all’aggressività del mondo del lavoro in generale. Spesso la biografia di coppia è stata più felice di quella per un uguale riconoscimento del valore di ciascuno da parte degli agenti esterni. Si veda la polemica protesta di Denise Scott Brown nei confronti della commissione del Pritzker Prize quando il premio fu assegnato al solo Robert Venturi. Concordo nel leggere la professione come un processo sempre più poliedrico, pluridisciplinare ma non solo, integrato nel ricercare la multietnicità, sfaccettato per quanto concerne le competenze, certamente sempre più competitive. Anche in conseguenza della pandemia, quella dell’architettura è, fra tutte le professioni, la più porosa, la più coraggiosa nell’accettare le diversità, la più visionaria… Infine, la più bella.

Alla luce della sua esperienza di storica, trova sia possibile identificare un’attitudine specifica delle donne verso l’architettura, un atteggiamento progettuale verso il disegno dello spazio che emerge nel lavoro delle progettiste più che in quello dei loro colleghi? 
Le donne sono fra loro diverse, come lo sono gli uomini. Ed entrambi i sessi sono fra loro incomparabili. Dipende dalle condizioni (politiche/culturali) in cui si lavora, dal momento storico, dalla committenza, dal mercato, per citare solo alcune delle sovrastrutture con le quali ogni professionista si trova a operare; dagli interessi di ciascuna verso il progetto di architettura piuttosto che per il design, verso il paesaggio piuttosto che per la pianificazione urbana, verso la piccola scala artigianale piuttosto che per la macrostruttura, verso le infrastrutture piuttosto che per i sistemi tecnologici complessi. Le donne hanno dimostrato una grande duttilità nel muoversi attraverso questi universi spaziali, flessibilità e intuito, pazienza e coscienza del proprio essere femminile, autocritica e autoironia. È chiaro che la diversità di genere non è un’invenzione della contemporaneità. Ne siamo diventate più consapevoli e fiere.

Il campo dell’architettura, della professione e del cantiere sono sempre stati territori prevalentemente appartenenti al mondo maschile. Anche l’ambito teorico, legato alla ricerca e alla critica è stato quasi sempre rappresentato da autori maschili; addirittura è forse più facile farsi venire in mente nomi di note progettiste, piuttosto che di autrici, ricercatrici o storiche dell’architettura. Quali sono, secondo lei, le principali ragioni di questo fenomeno? 
Sicuramente, una disparità di occasioni, sia nell’ambito professionale, che in quello accademico. Ma ciò che mi sembra importante sottolineare è che questa tendenza si sta ribaltando. I contributi delle donne al pensiero storico-critico in architettura sono molto aumentati nell’ultimo trentennio. Nella gran parte dei casi si tratta di un lavoro che è più capillare, che esamina i dettagli, che opera sui microcosmi senza pretendere di creare teorie globali. È una storia che si interroga, che introduce il dubbio come apparato investigativo, che si confronta anche con altre discipline, allargando il campo a contenuti nuovi e a un racconto pieno di sorprese.


(il manifesto, 2 gennaio 2022)

di Maria Emerson


Davide Paitone ha ucciso il figlio Daniele ferendo gravemente anche sua madre. Un uomo violento, già detenuto ai domiciliari. In più incocainato e e bevitore. Eppure in nome della “parità genitoriale” gli è stato concesso di tenere con sé il bambino per Capodanno, decisione che si è risolta in una tragedia. Ma il diritto del padre, anche se notoriamente aggressivo, è la cosa che conta di più


Davide Paitone, operaio quarantenne di Morazzone (Varese), è un uomo violento.

Già accusato di maltrattamenti in famiglia, e inoltre incocainato e bevitore, aveva anche accoltellato un collega dopo una lite e per questo si trovava agli arresti domiciliari. Nonostante il suo temperamento violento aveva ottenuto di tenere con sé per Capodanno il figlio Daniele di 7 anni. Concessione equivalente a una condanna a morte per il bambino, a cui il padre ha squarciato la gola. Dopo averne nascosto il corpo in un armadio l’uomo ha raggiunto la madre del bambino, da cui si stava separando, tentando di uccidere anche lei, fortunatamente senza riuscirci.

Come è possibile che a un uomo così pericoloso sia stato concesso di tenere con sé il bambino? Si tratta in realtà di una cosa piuttosto “normale”.

Da due decenni a questa parte dagli Stati Uniti si sono diffuse le teorie che – con nomi e strumenti variabili dalla PAS fino ai “disturbi della relazione” o “rischi per lo sviluppo” – impongono di fatto l’affido condiviso e il diritto di visita e di accesso al minore anche ai padri violenti nei casi di separazione o di divorzio. 
Nell’ambito del diritto minorile e civile sulla custodia dei figli dopo la separazione si sono sviluppate teorie negative collegate ai concerti di “alienazione genitoriale” o altri “disturbi della relazione o dello sviluppo” che indicano come pericoloso per il minore un eventuale affido alla madre protettiva anche nei casi di violenza del padre, ma anche teorie positive ispirate alla “parità” e alla “neutralità della custodia rispetto al genere”.

Anno dopo anno la cosiddetta “preferenza materna” è sempre più frequentemente abbandonata anche in Europa, in nome di un concetto “progressista” di “parità”, di “neutralità” o di “condivisione”, con la quasi impossibilità per le madri di menzionare la violenza per non essere ritenute “ostacolanti, simbiotiche, adesive, alienanti”. 
I padri violenti devono avere libero accesso ai figli quindi, e allo stesso tempo condividere “paritariamente” la responsabilità con la madre anche nei casi di grave violenza domestica.

Molto spesso poi accade che i padri sia nella fase della separazione sia in seguito siano violenti anche con i figli, ma evidentemente la questione non è abbastanza importante per i tribunali, gli operatori, le istituzioni e l’accademia, dove le donne e gli uomini per bene che operano sono sempre tanti, ma le mode del momento portano a pensare che la violenza maschile sulle donne sia un tema superato, di cui eventualmente la stessa donna è in qualche modo colpevole.

Tra le proposte correnti c’è anche quella di segnalare ai servizi sociali tutte le madri che denunciano violenza domestica, evidentemente per mettere anche e soprattutto loro sotto la lente dell’indagine.

Il terribile figlicidio di Varese oggi non può stupire. In Italia, negli Stati Uniti e in ogni Paese del mondo la strage non si ferma, contro la vita, l’energia e la forza procreativa delle donne.

Non chiediamo più alle istituzioni di fare qualcosa, ma soltanto di parlare chiaro.

Informate le donne. Dite loro che se hanno avuto figli da uomini violenti, di questi uomini potrebbero non liberarsi mai. Che lo Stato potrebbe continuare a garantire il loro diritto di pater familias fino alla fine dei loro giorni, a rischio della loro vita e di quella dei figli.


(Feministpost, 2 gennaio 2022)

di Luca Kocci


Violenza contro le donne, muri e fili spinati per respingere i migranti, guerre e spese per nuove armi, lavoro e istruzione per tutti. Nelle celebrazioni liturgiche per la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno, papa Francesco ha toccato una serie di punti dolenti del nostro presente, delineando quasi un’agenda per il 2022 da porre all’attenzione della politica.

«Le donne guardano il mondo non per sfruttarlo, ma perché abbia vita», ha detto ieri il pontefice durante l’omelia della messa, nella giornata in cui la liturgia cattolica festeggia Maria madre di Dio. E nell’anno in cui il bollettino dei femminicidi attesta che in Italia sono state uccise 116 donne, Bergoglio ha aggiunto: «Mentre le madri donano la vita e le donne custodiscono il mondo, diamoci da fare tutti per promuovere le madri e proteggere le donne. Quanta violenza c’è nei confronti delle donne! Basta! Ferire una donna è oltraggiare Dio, che da una donna ha preso l’umanità». All’Angelus invece, pronunciato come da tradizione dalla finestra dello studio che affaccia su piazza San Pietro, le donne evocate dal pontefice hanno assunto il volto delle persone migranti, «le giovani madri e i loro bambini in fuga da guerre e carestie o in attesa nei campi per i rifugiati».

C’è poi il tema del ruolo delle donne nella Chiesa: «la Chiesa è donna», ha ripetuto ieri papa Francesco durante l’omelia della messa, ma è evidente che su questo aspetto Roma è decisamente indietro rispetto ad altre confessioni cristiane, a cominciare da quelle riformate, dove le donne da tempo ricoprono ruoli apicali e decisionali. Anche se il 2022 si apre con una novità: una religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice (la congregazione femminile fondata da don Bosco), l’economista Alessandra Smerilli, dopo aver ricoperto l’incarico per qualche mese, è stata confermata segretaria ad interim del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, una sorta di ministero vaticano per la cooperazione internazionale. Il prefetto resta un uomo, il cardinale Michael Czerny (che subentra al cardinale Peter Turkson), ma è la prima volta di una donna ai vertici di un dicastero della Santa sede.


[…]


(il manifesto, 2 gennaio 2022)

di Giusi Fasano


«Se fosse ancora qui, il mio Federico ad aprile compirebbe 22 anni. Non passa giorno che non pensi a lui. So bene come si può sentire la mamma di questo bambino. Lui non è riuscito ad ammazzarla ma è peggio, mi creda. Morire è più facile, come sa ogni cellula del mio corpo. Io ho davanti agli occhi il mio piccolino nella sua bara bianca. Aveva le manine tagliate perché aveva provato a difendersi, povera creatura. E tutto questo per che cosa? Per un “incontro protetto” con il padre violento. Tralascio i commenti sulla parola “protetto” perché è indecente associarla al mio bambino in quella situazione. Se almeno il suo sacrificio fosse servito a far capire al sistema giustizia che era tutto sbagliato… E invece siamo qui ad aggiungere il nome di un altro innocente alla lista dei morti. Sapesse quanti ne ho contati in questi anni…».

In mano al suo carnefice in nome di una legge

Potrebbe parlare per ore, Antonella Penati. Potrebbe elencare ad uno ad uno i nomi dei figli uccisi dai genitori violenti (quasi sempre uomini). Perché ha annotato tutto da quando Federico, il suo bimbo di quasi nove anni, fu massacrato a coltellate – in un incontro protetto, appunto – nella Asl di San Donato Milanese. Era il 2009. Il diritto di quel padre a incontrare suo figlio era stato stabilito nel nome della bigenitorialità; malgrado quell’uomo fosse stato più volte minaccioso e violento, anche se il piccolo aveva paura e non voleva vederlo e nonostante le suppliche di Antonella che temeva il peggio. Lei aveva pregato assessori, avvocati, giudici, carabinieri, psicologi, assistenti sociali. Niente da fare: Federico quel giorno lasciò la mano della mamma e fu accompagnato dal suo carnefice.

L’applicazione scorretta della norma

Di questa storia nera di Varese, che pure ha dei punti in comune con quella di Federico (l’arma usata, la violenza di lui, l’intento di far pagare a lei il fallimento della relazione) non si conoscono ancora i dettagli. Ma quel che è noto – e cioè che lui fosse agli arresti domiciliari – è sufficiente a sollevare dubbi sul fatto che il suo bimbo, Daniele, dovesse incontrarlo. Veronica Giannone, segretario della commissione Infanzia e Adolescenza e componente della Commissione Giustizia dice che «sono anni che chiedo la sospensione della responsabilità genitoriale in tutti i casi di violenza, maltrattamenti, minacce, stalking, anche senza condanna definitiva. È buon senso, precauzione. Ma l’applicazione scorretta e distorta della legge sulla bigenitorialità, fa sì che tanti bambini siano costretti a passare del tempo con un genitore violento e pericoloso, spesso purtroppo il padre».

Una laurea in criminologia per combattere

Anche Antonella Penati chiede la stessa cosa dal 2009. «Va capovolto il concetto» se la prende. «Non esiste il diritto di un genitore violento a vedere il figlio, esiste il diritto del bambino a essere protetto. Forzare le cose è una violenza istituzionale e le mamme subiscono perché hanno il terrore di vedersi togliere il bambino». Per lei, 58 anni, presidente dell’associazione «Federico nel cuore», è vicina la laurea in criminologia «perché non voglio più sentirmi dire: lei non è una addetta ai lavori. Sulla violenza contro le donne e i minori, sappiatelo, io la laurea me la sono presa sul campo».


(Corriere.it, 2 gennaio 2022)

di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari


Cosa ci aspettiamo per il 2022? Attendere è desiderare. E non si desidera mai una cosa sola. Noi, la prima candela del desiderio per l’anno che viene, l’accendiamo per la Birmania. Per quel Paese che ha subìto la dittatura militare più longeva al mondo, che ha creduto nella democrazia fino al martirio di tanti suoi figli, fino al sacrificio della sua leader, Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari per vent’anni. Nel 2015 finalmente l’alba di una nuova Birmania: per quanto azzoppate dalle regole imposte dai militari uscenti, che si erano riservati, a prescindere dal responso delle urne, un quarto dei seggi del nuovo parlamento e tre ministeri-chiave, le elezioni avevano visto la vittoria di Suu Kyi e della Lega per la democrazia. E nel turno elettorale del 2020 il popolo birmano, a stragrande maggioranza, aveva confermato che la strada intrapresa era quella giusta.

Nel marzo 2021 il sogno si è trasformato in incubo: con un vero e proprio colpo di Stato, i generali hanno incarcerato e torturato migliaia di persone, hanno sparato a vista nelle strade contro i pacifici dimostranti uccidendone a centinaia, hanno sospeso ogni diritto costituzionale. Con un processo-farsa hanno condannato Aung San Suu Kyi a tre anni di carcere: come in un tragico giorno della marmotta – ve lo ricordate, il film con Bill Murray? – la Birmania e la sua guida si sono risvegliate in trappola. È troppo attendersi una reazione vera dall’Occidente? Da tutti noi? In anni recenti, la pubblica opinione occidentale ha affrontato con superficialità la tragica questione dei Rohingya: invece di sforzarsi di comprendere le difficoltà della transizione democratica, ha fatto di Suu Kyi un facile capro espiatorio, indebolendone in questo modo la posizione, non tanto in relazione al popolo birmano, che ha continuato ad amarla e sostenerla, ma agli occhi dei generali, che hanno pensato fosse arrivato il momento per riprendersi in mano tutto il potere. «Usate la vostra libertà per promuovere la nostra»: era il mantra che Suu Kyi ripeteva agli amici europei e statunitensi negli anni dei suoi arresti domiciliari. Oggi non può dirlo, rinchiusa in una tenebra in cui non ha diritto di parola. Tocca a noi assumere quella invocazione come un imperativo di giustizia, solidali con quel popolo di studentesse e studenti, monaci buddisti e suore cristiane, che sfida ogni giorno la tracotanza della dittatura. Perché la loro libertà è anche la nostra.


(il manifesto, 31 dicembre 2021)

di Giangiacomo Schiavi


Nell’azienda dove essere mamma vale più di un master sono pronti a brindare: per il 2022 ci sono due bimbi in arrivo. «Si inverte una tendenza e si torna nascere», è felice Roberta Zivolo, l’imprenditrice che ha fatto della maternità un motivo di successo. In via Marco Polo 5, sede di «Progetto 2000 group», su 80 dipendenti 75 sono donne: scelta precisa e convinta per ribaltare schemi e convenzioni e raggiungere 40 anni dopo un primato riconosciuto da Forbes e dall’Osservatore romano: zero contenziosi sindacali, con l’obiettivo riuscito di conciliare lavoro e famiglia. «Quest’azienda l’ho immaginata io, è cresciuta nel rispetto delle persone, si entra e si esce con un sorriso», spiega Roberta. Non ci sono lavoratrici, ma collaboratrici. Ferie e orari sono sacri. La famiglia anche. «Le donne hanno una vita complicata, bisogna avere rispetto per il loro tempo. A chi andava in vacanza dicevo: mi raccomando, tornate in tre». Le hanno dato retta: in azienda le nascite hanno raggiunto quota 127.


La prima bambina, anno 1983, si chiamava Ninive. L’ultima, anno 2020, ha per nome Aurora. I n mezzo ci sono le curve in discesa della statistica, che confermano l’allarme di Papa Francesco sull’inverno demografico. «Dal 1883 al 1999 la media delle nascite è stata di sei all’anno — dice Roberta — poi siamo scesi a due, con soli 24 bambini nati dal’99 al 2012». Il crollo è arrivato con l’ultimo decennio: due bambini nati dal 2012 al 2021. Oggi l’annuncio delle nuove maternità sembra un atto di fiducia e di speranza nel futuro reso incerto dalla pandemia. «Incoraggiare le nascite è un modo per far sentire l’azienda come una grande famiglia e darsi degli obiettivi comuni. Non c’è cosa peggiore che sentirsi isolati o messi in disparte. Ho sempre pensato che responsabilità d’impresa è anche portare avanti chi è rimasto indietro».


Roberta Zivolo è un carro armato con l’anima, una battagliera donna del fare, uscita dalla periferia milanese per diventare imprenditrice: ha ribaltato il suo momentaneo destino di aiuto parrucchiera in centro città, in via Manzoni, studiando prima alle serali, poi sfacchinando per anni tra schede meccanografiche, software e organizzazione aziendale, ideando processi moderni e innovativi fino a dirigere un’azienda a sua immagine e somiglianza, solare, inclusiva, che punta sull’empatia e la solidarietà, capace di affermarsi nel settore dell’outsourcing e diventare Società Benefit. «Dare alle donne la possibilità di pensare a un figlio mentre lavorano — spiega — è stata una scelta convinta, nata da esperienze personali, quando nelle società di informatica facevano firmare una lettera di dimissioni in bianco…». Il patto non scritto suonava così: in caso di gravidanza, fuori.


Per anni alla «Progetto 2000 Group» la matematica è stata un’opinione. «Uno più uno fa tre, dicevo alle mie collaboratrici». E si festeggiava insieme il nuovo o la nuova nata: fiocco rosa o azzurro esposto come una bandiera sul portone d’ingresso dell’azienda. «Dal rispetto dei diritti nasce il rispetto dei doveri, la dedizione e la professionalità nel proprio lavoro — dice Roberta —. Ognuna delle mie collaboratrici sa di essere parte di un orizzonte più ampio, quello del ben vivere che riesce a conciliare carriera e serenità affettiva. Dopo quarant’anni posso testimoniare che la mia azienda rosa gode di ottima salute, e questo è avvenuto grazie alle donne».


Se le donne, come è probabile e anche auspicabile, saranno chiamate a salvare il mondo, Roberta ha già prenotato un posto. Con una nuova visionaria impresa chiamata San Cresci, un «eco-villaggio» solidale tra gli ulivi secolari dell’Appenino toscano: qui ha sostituito l’organizzazione dei business aziendali con la gestione partecipata dell’agricoltura che applica i principi della sostenibilità ambientale e sociale. Una democrazia della condivisione. Che comprende anche la possibilità di lavorare in smart working e accudire e istruire i figli nel verde della natura, lontano dai veleni dell’inquinamento. È un sogno, come lo è stato l’azienda rosa. E i sogni vanno sempre incentivati. Come i figli delle collaboratrici, che nel 2022 tornano a nascere.


(Corriere Milano, 31/12/2021)

di Sebastiano Canetta


Il sesso forte. «Le donne muovono Berlino», la campagna di successo che ha demolito il modello dei padri della patria, raccontando l’altra tradizione della città più femminile di sempre


La Città delle Donne: il Frauen-Power che ha innescato la rivoluzione social-ecologista nella capitale della Germania. Un’esperienza istituzionale unica, da manuale del femminismo, se non fosse che la svolta riguarda indistintamente tutti, senza differenze di genere, censo, età o passaporto. Aria nuova da respirare a pieni polmoni non solo per il cambio del paradigma ambientale, ma anche per il capovolgimento dello stereotipo patriarcale e perfino delle ideologie politiche. Un faro illuminante che è stato possibile accendere grazie al Dna della metropoli guidata sempre dalla stessa parola d’ordine: «diversità».

Triumvirato politico

A Berlino il potere sono loro. Franziska Giffey, 43 anni, sindaca della Spd, Bettina Jarasch, 53, leader dei Verdi, e Katina Schubert, 60, numero uno della Linke. Per la prima volta il destino della metropoli dipende da tre donne che hanno firmato il patto di governo in vigore dal 21 dicembre.

«Vogliamo una città a emissioni zero con buoni posti di lavoro, trasporti sostenibili, istruzione efficiente e servizi sociali a misura di cittadini. In altre parole una società diversificata» scandisce la nuova borgomastra consapevole del compito storico. «Ottocento anni dopo la fondazione di Berlino, finalmente una donna ha assunto la più alta carica istituzionale. Con Bettina e Katina abbiamo definito l’obiettivo dei primi 100 giorni di mandato: istituire l’alleanza per gli affitti sostenibili invitando la società civile a farne parte».

Il segreto del suo governo? Conciliare tre idee diverse con un unico obiettivo, come confermano le due partner di governo.

«Molte differenze tra noi sono solo presunte e la distanza è dettata soprattutto da paraocchi linguistici o icone ideologiche. Certo non la pensiamo allo stesso modo ma discutendo per due mesi abbiamo scoperto la base in comune. Per esempio, siamo tutte d’accordo sulla regia unica dei trasporti che si occupi dai bus fino alle piste ciclabili» è la formula del successo riassunta da Jarasch.

E non ha paura di annacquare il suo partito neppure Schubert. «Evidenziare la firma della sinistra non solo nei nostri assessorati significa spingere per alloggi sostenibili, salario minimo di 13 euro e integrazione degli immigrati. Non smetteremo di combattere il conflitto sociale come di vigilare per evitare che torni la vecchia politica della Spd» assicura la leader della Linke, per niente disposta a sconti personali in nome della solidarietà femminile.

Rete sociale

È bastato che due mesi fa il Dipartimento per le Donne e la Parità del Comune (guidato dalla vecchia giunta) dichiarasse: «per il 2022 si prevedono risparmi», ed è subito scattata la protesta della rete di associazioni. Al punto che al Municipio Rosso hanno dovuto innescare la retromarcia assicurando che i finanziamenti per i loro progetti verranno trovati comunque, a costo di mettere mano alla gestione provvisoria del bilancio.

Funziona così a Berlino la politica attiva delle donne che non si limitano a delegare ma controllano le promesse elettorali scolpite nel patto fra governo ed elettori. Senza alcuna distinzione di ambito: se la Giunta non garantisce i fondi, la galassia delle Ong al femminile si trasforma in un blocco unico indivisibile. Dall’associazione “Lara”, che aiuta le vittime di violenza domestica, a “Space2groW” impegnata nella lotta al razzismo contro le immigrate, dal partito femminista “Die Frauen” alla federazione delle mediche, dalle protestanti dell’“Ekbo” alle cattoliche del “Kdfb”, fino alle “Donne socialiste”, alle “Liberale Frauen”, alle polacche di “AgitPolska” e alle turche del “Türkischer Frauenverein”. «La pandemia ha già ritardato l’obiettivo di uguaglianza sociale delle donne e non possiamo accontentarci dello status quo. Insomma, il governo deve darci il denaro che ci serve, altro che meno risorse» sottolinea a nome di tutte Friederike Strack, portavoce della Ong “Lara”.

Capitane d’industria

Ma la rete al femminile si concentra anche sul mondo del lavoro, dove le berlinesi in media sono pagate il 21% in meno degli uomini. Se ne occupano oltre 170 iniziative pubbliche declinate a un duplice obiettivo: abbattere lo stereotipo dei «lavori per maschi» e conquistare la New Economy. Una rivendicazione politica per aumentare quota, visibilità e professionalità delle lavoratrici con appositi concorsi e corsi di formazione della leadership, senza contare l’imprescindibile Co-working. Il risultato è che oggi a Berlino la percentuale di imprese innovative avviate dalle donne è pari al 28%: dieci punti in più rispetto alla media nazionale.

«Le start-up sono il motore dell’occupazione futura. Ma nonostante a Berlino ci siano oltre 75 mila impiegati nel settore, le donne fondatrici di impresa sono meno del 16%. In pratica si ripete la dinamica delle grandi aziende dove le donne restano sottorappresentate. La questione è fondamentale: non possiamo mica lasciare l’intelligenza artificiale, la guida autonoma, e tutte le altre tecnologie-chiave solo in mano agli uomini» riassume Brigitte Zypries, ex responsabile federale dello Sviluppo economico.

Madri della patria

Da dieci anni sono ritratte nei manifesti sparsi in tutte le stazioni della metro. La campagna «Le donne muovono Berlino» ha demolito il modello dei padri della patria raccontando l’altra tradizione della città più femminile di sempre, non solo demograficamente. Nella capitale tedesca vivono 1.784.000 donne: 66.582 in più degli uomini (nel 2002 erano solo 10.000) senza contare la fascia 30-35 anni dove le femmine sono 135.801 più dei coetanei. Basta e avanza per appendere le targhe con biografia delle 15 berlinesi che hanno fatto la storia della città. Come Margarethe von Witzleben che a fine ‘800 fondò il primo gruppo di mutuo, la biologa Katharina Heinroth celebre per avere salvato dalla fame gli animali dello zoo alla fine della Seconda guerra mondiale, la tassista Klara Bloch che nascose ebrei e disertori rischiando la vita e la dottoressa Jenny de la Torre Castro a cui si deve l’assistenza medica per senzatetto e oggi è ricordata con la scritta: «Meno slogan e più cerotti».


(il manifesto, 29 dicembre 2021)

di Patrizia Lavia


[…]


A settembre 2020, il Governatore del Maryland, Larry Hogan visita i laboratori della Novavax, la company che ha sviluppato un nuovo vaccino con oltre il 90% di efficacia. Alla presenza di molti giornalisti, l’amministratore delegato di Novavax, Stanley Erck espone i programmi di produzione della sua company.

Poi conclude: «Tutto quello che avete visto oggi è stato fatto da Nita».

Nita Patel, 56 anni, è oggi a capo del programma di sviluppo dei vaccini di Novavax, una company che si è catapultata nella corsa a produrre un vaccino contro Covid19. La dottoressa Patel dirige un gruppo di ricercatrici, tutte donne. I capi di Novavax dicono di lei: «Nita è genio puro».

Nita Patel ha fatto un lungo percorso da Sojitra, piccolo villaggio rurale nello Stato del Gujarat, in India. Quando aveva quattro anni, suo padre contrasse una forma gravissima di tubercolosi che lo portò vicino alla morte. Sopravvisse, ma non poté più lavorare e la famiglia cadde in povertà. Da allora Nita decise che sarebbe diventata medico e che avrebbe trovato una cura.

Nita andò a scuola con grandi difficoltà, portando gli stessi abiti ogni giorno, senza scarpe, spesso aiutata a pagare la corsa in autobus grazie all’aiuto dei vicini. Era però una studentessa eccellente, e questo le permise di ottenere sempre borse di studio che le permisero di arrivare a frequentare il college, laurearsi e, più tardi, conseguire due master: il primo, in India, in microbiologia; il secondo, negli Stati Uniti, in biotecnologie.

Negli USA Nita incontra il futuro marito, un biochimico americano, con il quale si trasferisce a Gaithersburg, nel Maryland. Inizia a lavorare in una piccola company, la MedImmune, che le offre un salario inferiore rispetto ad altri, ma le lascia la libertà di lavorare sulla tubercolosi. Patel dimostra una capacità rara di maneggiare saggi estremamente complessi, ma conosce anche l’insuccesso: due vaccini sviluppati a MedImmune vengono rigettati dalla agenzia regolativa americana, la FDA (Food and Drug Administration).

Nel 2015 Nita si trasferisce alla Novavax, attratta dai loro progetti di sviluppo di vaccini basati su proteine. A febbraio 2020 viene resa nota la sequenza della proteina spike del virus Sars CoV-2. Nita ed il suo gruppo si lanciano nella creazione di oltre venti versioni ingegnerizzate della proteina spike, per identificare quella più adatta a generare una forte risposta immunitaria. Usano una strategia molecolare diversa sia da quella usata per i vaccini a RNA di Pfizer e di Moderna, che da quella basata su vettori a DNA di AstraZeneca, Johnson &Johnson e Sputnik V.

Con la sua strategia, basata su una versione ottimale della proteina Spike, il gruppo della dottoressa Patel ottiene una vigorosa risposta immunitaria. Il vaccino ha un’efficacia del 90%, sta completando il trial clinico ed è vicino all’approvazione. Sul vaccino Novavax sono risposte molte speranze, particolarmente per i soggetti che dimostrano immunità parziale ai vettori adenovirali usati nel vaccino di Astra Zeneca. Il vaccino ideato da Nita Patel è quindi un ideale complemento nell’arsenale dei vaccini disponibili.

Da quando è esplosa la pandemia, dice Nita, «le mie giornate, semplicemente, non hanno un termine». Eppure Nita Patel, che prega e medita quotidianamente, proietta serenità intorno a sé.  «Penso che nulla sia impossibile – dice – e con questo pensiero, onestamente, nulla mi stressa». La sua collega, la ricercatrice Sonia Maciejewski, che lavora a stretto contatto con lei, concorda: «Nita ha una fortissima etica del lavoro… eppure, in qualche modo riesce a non farci sentire sotto pressione». Nita Patel lavora con la serenità di non vedere la sua company in competizione rispetto alle altre: «Stiamo lavorando tutti per lo stesso obiettivo, insieme: superare questa pandemia che colpisce tutto il mondo».


[…]


Patrizia Lavia lavora all’Istituto di Biologia e Patologia Molecolari, CNR, Roma


(La voce dei/per i medici- rivista on line, 28 dicembre 2021)

Promuovono: le Città Vicine e la Mag di Verona

di Adamaria Rossano


A Trieste sono andata a trovare mio figlio, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi. Questi ultimi e la loro associazione Linea D’Ombra li ho conosciuti grazie alle Città Vicine, alla MAG di Verona e alla Libreria delle donne di Milano.

Il primo, mio figlio, vive lì e lavora in una struttura pubblica ospedaliera. È un giovane medico.

I secondi vivono nella stessa città e tutte le sere, con qualsiasi tempo, sotto il cielo, all’aperto, accolgono in una piazza pubblica antistante la Stazione Centrale giovani migranti afgani, siriani, curdi, iracheni, nepalesi che fuggono da luoghi di guerra e di fame. I miei due amici sono pensionati: lei psicoterapeuta vecchietta come me, lui di anni 85, professore di filosofia. Giovanissimi.

Cosa fanno? Sfamano, curano le ferite di questi poveri cristi, gli medicano i piedi piagati dai lunghi cammini, gli comprano dei vestiti, scarpe nuove e… biglietti per il treno. Sono in transito a Trieste verso altre mete.

Sono tanti i migranti che arrivano quotidianamente e, pur con una buona rete di sostegno solidale di tante donne e uomini in tutta Italia e un numero variabile di volontari e volontarie che affiancano Lorena e Gian Andrea sul campo, i costi giornalieri dell’assistenza sono molto elevati. Faccio appello al buon cuore di donne e uomini per aiutare questi giovani e giovanissimi a proseguire il loro viaggio per trovare un luogo di libertà, di lavoro e di pace.


Per una donazione potete farlo con bonifico bancario intestato a

ASSOCIAZIONE LINEA D’OMBRA ODV

IBAN BANCA ETICA

IT05V0501802200000017121492

Per info: https://www.facebook.com/lineadombraODV/www.lineadombra.org


Un grazie di cuore

Adamaria Rossano di Città Vicine di Bergamo


(https://magverona.it/wp-content/uploads/2021/12/Notizie-dalla-Mag-di-Verona-267.pdf, 24 dicembre 2021)

di redazione


La scrittrice, giornalista e sceneggiatrice statunitense Joan Didion, una delle voci più celebri e iconiche della narrativa americana, tra le maggiori rappresentanti del New Journalism, da tempo candidata al Premio Nobel della Letteratura, è morta oggi all’età di 87 anni nella sua casa di Manhattan, a New York, per le complicazioni del morbo di Parkinson. «Didion era una delle scrittrici più incisive e astute osservatrici degli Stati Uniti. Le sue opere di narrativa e i suoi memoir hanno ricevuto numerosi riconoscimenti e sono considerate classici moderni», ha detto il suo editore Penguin Random House in un comunicato annunciando la scomparsa.

Didion ha scritto per le più importanti testate americane, anche come corrispondente dall’estero, ed è stata una delle firme più in vista del New Journalism, dando vita a uno stile anticonvenzionale di giornalismo degli anni ’60 e’70 capace di mescolare narrativa e saggistica. Con i libri L’album bianco (1979; Il Saggiatore, 2015), Salvador (1983), Miami (1987; Mondadori, 2006; Il Saggiatore, 2016) ha dato espressione lucida e provocatoria ai problemi delle donne della sua generazione. Da Prendila così (1970; Bompiani, 1978; Il Saggiatore, 2014) a Diglielo da parte mia (1977; Bompiani, 1979; Edizioni E/O, 2013) a Democracy (1984; Frassinelli, 1984; Edizioni E/O, 2014) ha affinato la sua scrittura, fino a farne un duro, efficace scandaglio dell’odierno universo tecnologico.

Le sue figure femminili, isolate, straniate o in fuga, campeggiano sullo sfondo di realtà sociali o politiche stravolte che non lasciano spazi di evasione dalla storia. Nelle opere più recenti, tra narrativa e saggio, ha rievocato vicende autobiografiche: Da dove vengo (2003; Il Saggiatore, 2018) ricorda la figura della madre; L’anno del pensiero magico (2005; Il Saggiatore, 2008) è il lucido resoconto delle strategie messe in atto per accettare i due eventi choc che in pochi giorni hanno stravolto la sua vita: la morte improvvisa del marito nel 2003, lo scrittore John Gregory Dunne, e la grave malattia della figlia Quintana. Dopo essersi ripresa nel 2004, la figlia morì di pancreatite acuta il 26 agosto 2005, all’età di 39 anni. Didion ha scritto di questa drammatica esperienza nel suo libro del 2011 Blue Nights (Il Saggiatore, 2012). Per L’anno del pensiero magico ha vinto il National Book Award. Nel 2013 ha ricevuto dalle mani del presidente americano Barack Obama la National Humanities Medal.

Joan Didion era nata a Sacramento, in California, il 5 dicembre 1934. Nel 1956 si laureò presso l’Università della California, Berkeley, con un Bachelor of Arts in Lettere. Durante il secondo anno di studio a 21 anni vinse un concorso di saggistica sponsorizzato dal mensile di moda “Vogue” che le affidò un lavoro come assistente alla ricerca presso la rivista. Nel corso dei due anni in cui lavorò a “Vogue”, Didion venne promossa da copywriter a redattrice. In questo periodo scrisse il suo primo romanzo, Run River, pubblicato nel 1963 (Il Saggiatore, 2016). Successivamente lasciò New York: nel 1964 dopo aver sposato lo scrittore, giornalista e sceneggiatore John Gregory Dunne si trasferì in California. Nel 1968 pubblicò Verso Betlemme (Il Saggiatore, 2008), il suo primo lavoro di saggistica, costituito da una raccolta di articoli scritti per riviste sulla sua esperienza in California. Nel 1979 esce The White Album (L’album bianco), un’altra raccolta di articoli pubblicati in precedenza su riviste quali “Life”, “Esquire”, “The Saturday Evening Post”, “The New York Times” e “The New York Review of Books”. Prendila così, ambientato a Hollywood, viene pubblicato nel 1970, a cui segue nel 1977 Diglielo da parte mia. Un altro libro di narrativa, Democracy, che narra la storia di un amore non corrisposto tra una ricca ereditiera e un uomo anziano, agente della Cia, sullo sfondo della Guerra Fredda e della Guerra del Vietnam, viene dato alle stampe nel 1984. Miami (1987), libro di saggistica, narra della comunità di espatriati cubani a Miami. Con il marito ha lavorato fianco a fianco nel campo della sceneggiatura cinematografica. Insieme hanno scritto i soggetti per i film Qualcosa di personaleL’assoluzioneÈ nata una stellaMa che razza di amici!


(http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/morta-joan-didion-ha-raccontato-donne-e-suo-dolore-0ebd2a6e-ffa1-417c-a2dc-d931a979f85a.html, 24 dicembre 2021)

di Elena Fausta Gadeschi


Le prime pagine iniziò a scriverle all’età di cinque anni, ricopiando i racconti di Hemingway, ma Joan Didion cominciò a sentirsi una scrittrice solo dopo la pubblicazione del suo primo romanzo Run River nel 1963. Quasi sessant’anni dopo quel debutto è inevitabile interrogarsi sull’eredità artistica e umana di una donna che ha attraversato la letteratura di mezzo secolo rimanendo sempre fedele a se stessa e al suo stile narrativo atroce e affilato e che ieri ci ha lasciato all’età di 87 anni.

Giornalista, autrice e acuta osservatrice della politica e della cultura americana contemporanea, Joan Didion è scomparsa ieri nella sua casa di Manhattan, New York, per il morbo di Parkinson, che da anni non le dava tregua e che ne aveva assottigliato sempre di più corpo e voce. Tra gli autori più rappresentativi del New Journalism, uno stile giornalistico anticonvenzionale tipico degli Anni 60 e 70, capace di mescolare narrativa e saggistica, letteratura e verità, Didion è stata per lungo tempo in odore di Nobel, fin da quando nel 2005 vinse il National Book Award per la saggistica per il suo capolavoro L’anno del pensiero magico. Un riconoscimento tardivo arrivò dalle mani del presidente americano Barack Obama, che nel 2013 le conferì la National Humanities Medal, quando era già molto debilitata nel fisico.

Nata a Sacramento, in California, il 5 dicembre 1934, Joan Didion da bambina non frequentò le scuole regolarmente. A causa della professione del padre, membro delle United States Army Air Forces durante la Seconda Guerra Mondiale, era spesso costretta a continui trasferimenti con la famiglia e questo contribuì a fare di lei “un’eterna estranea” come poi scriverà nel suo memoir del 2003, Where I was from (Da dove vengo). Timida e riservata, trovò consolazione nei libri, specialmente nelle biografie per adulti per le quali si faceva rilasciare un permesso speciale dalla madre da esibire in biblioteca. Proprio il genere biografico diventò uno degli ingredienti principali della sua prosa, dove al resoconto giornalistico si univa la soggettività dell’autrice, che tra gli Anni 60 e 70 diventò la voce femminile più rappresentativa all’interno di un movimento maschile come il New Journalism, che annoverava autori quali Tom Wolfe, Truman Capote e Gay Talese.

Nel 1956 si laureò presso l’Università della California, Berkeley con un Bachelor of Arts in Lettere. Durante il secondo anno di studio a 21 anni vinse un concorso di saggistica sponsorizzato dal mensile di moda “Vogue” che le affidò un lavoro come assistente alla ricerca presso la rivista. In quegli anni lavorò prima come copywriter e poi come redattrice, mentre completava il suo primo romanzo, Run River, pubblicato nel 1963 (Il Saggiatore, 2016). Successivamente lasciò New York e nel 1964, dopo aver sposato lo scrittore, giornalista e sceneggiatore John Gregory Dunne, si trasferì in California. Nel 1968 pubblicò Verso Betlemme (Il Saggiatore, 2008), il suo primo lavoro di saggistica, costituito da una raccolta di articoli sulla propria esperienza in California, dove trascorrerà gran parte della sua vita. Il libro è un disincantato viaggio attraverso la promessa e la dissoluzione della controcultura californiana degli Anni 60, che tanto influenzerà la sua esperienza umana e professionale. «Un luogo – scrisse una volta – appartiene per sempre a chi lo rivendica più duramente, lo ricorda più ossessivamente, lo strappa da se stesso, lo modella, lo rende, lo ama così radicalmente da rifarlo a sua immagine».

Nel 1979 esce The White Album (L’album bianco), un’altra raccolta di articoli pubblicati in precedenza su riviste quali “Life”, “Esquire”, “The Saturday Evening Post”, “The New York Times” e “The New York Review of Books”. A quelle pagine appartiene una delle sue citazioni più famose: «Raccontiamo storie a noi stessi per vivere». Prendila così, ambientato a Hollywood, viene pubblicato nel 1970, a cui segue nel 1977 Diglielo da parte mia. Nel 1984 viene dato alle stampe un altro romanzo, Democracy, che narra la storia di un amore non corrisposto tra una ricca ereditiera e un uomo anziano, agente della Cia, sullo sfondo della Guerra Fredda e della Guerra del Vietnam.

A seguito della morte del marito, con il quale aveva lavorato fianco a fianco scrivendo molti soggetti per film come Qualcosa di personaleL’assoluzioneÈ nata una stellaMa che razza di amici!, e della dura malattia della loro figlia adottiva Quintana, Joan Didion scrive L’anno del pensiero magico. Iniziato il 4 ottobre 2004, viene terminato 88 giorni dopo, il giorno della vigilia di Capodanno. La sua pubblicazione e il tour di promozione del libro, corredato da diverse letture pubbliche e interviste, tengono impegnata l’autrice, aiutandola a elaborare il lutto. «Ci siamo evoluti in una società in cui il lutto è totalmente nascosto. Non si svolge nella nostra famiglia. Non si svolge affatto», disse una volta all’Associated Press nel 2005. Dopo essersi ripresa da uno shock settico causatole da una polmonite, la figlia morì di pancreatite acuta il 26 agosto 2005, all’età di 39 anni. Per lei Didion scrisse nel 2011 alcune delle pagine più belle dedicate al dolore in Blue Nights.

Molto protettiva nei confronti del suo lavoro, Joan Didion non rivelava mai nemmeno agli amici intimi il nuovo argomento del suo libro fino a quando non era pronto per la pubblicazione. Faceva parte della serietà con cui interpretava il suo ruolo di acuta osservatrice e implacabile giudice. Preveggente e inaspettata, era la Cassandra del nostro secolo. E ci mancherà anche per questo.


(Elle, 24 dicembre 2021)

di Franca Fortunato


Davvero Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace, è un dottor Jekyll, lo scienziato buono, e il suo alter ego mister Hyde, il demone malvagio, personaggio creato dal romanziere inglese Robert Louis Stevenson, come farebbero intendere le motivazioni del tribunale di Locri con cui i giudici lo hanno condannato a 13 anni e due mesi di carcere? Quelle motivazioni distruggono l’immagine pubblica di un uomo che il mondo ha imparato a conoscere, stimare e amare, per aver sognato, pensato e realizzato quello che è diventato il “modello Riace”. Ha rivitalizzato un paese spopolato dall’emigrazione, aperte alle/i migranti le porte di case abbandonate da decenni, riaperto scuole e asili, riportato la vita nei vicoli del borgo, riattivato antichi laboratori artigiani, creato un mondo di civile convivenza, solidarietà, umanità e accoglienza. Un mondo legato alla cultura materna, a sua madre, e non è separabile da lui, dall’uomo che è e che l’ha reso possibile, come invece fanno i giudici rendendo il loro impianto accusatorio non credibile. Dividono, infatti, la creatura che giudicano “encomiabile”, “invidiata e presa ad esempio da tutto il mondo”, dal suo creatore, capovolgono e stravolgono la realtà, fanno di Lucano un mister Hyde che agisce nell’ombra, un uomo furbo, falso, calcolatore, avido, privo di idealità, con una sfrenata sete di visibilità politica e di potere, un criminale al “vertice” di un’“associazione a delinquere”, di un “Sistema” “clientelare” “che ruotava attorno all’illegale approvvigionamento di risorse pubbliche”, “con fedeltà assoluta ai suoi voleri ambiziosi” dei suoi complici  e “si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che (…) possedeva e che (…) esercitava in forma padronale ed esclusiva”. Un mister Hyde avido di ricchezze, anche se con il conto corrente in rosso e anche se tutti i finanziamenti li ha usati solo per creare lavoro per le/i migranti e per i cittadini di Riace e per portare ricchezza al paese con l’acquisto di un frantoio e di tre case per l’accoglienza turistica. Acquisto che, invece, per i giudici era finalizzato all’“arricchimento personale, su cui Lucano sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquilla economia che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato”. “Nulla importa – aggiungono – che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca – come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza, ignorando però l’esistenza di un quadro probatorio (…) che ha restituito al Collegio un’immagine diversa da quella che egli cerca di accreditare all’estero”. Il dottor Jekyll e il suo alter ego mister Hyde appartengono alla letteratura, al romanzo, alla fantasia e alla penna dello scrittore, ma la realtà non è un romanzo, la vita non è un romanzo e quella di Lucano è stata stravolta, falsata, da chi non scrive romanzi ma sentenze. Lucano non è un dottor Jekyll e un mister Hyde, ma semplicemente un uomo onesto, buono e mite, un idealista, che avrà pure commesso degli errori ma non è un criminale, e nessuna sentenza o “quadro probatorio” gli potrà mai togliere il sostegno e la fiducia di quanti come me credono in lui. È un uomo che ha visto trasformato il suo amore per il mondo e per ogni essere umano in un crimine, il suo sogno in un incubo, la sua vita in una tragedia, da cui mi auguro i suoi avvocati difensori riusciranno alla fine a tirarlo fuori, restituendogli verità e giustizia.


(Il Quotidiano del Sud, 24 dicembre 2021)