di Anna Alberti


Mahtab e Sahar, ginecologhe afghane, lavoravano a Herat nel Centro senologico della Fondazione Umberto Veronesi. Sei mesi fa sono riuscite a scappare, con uno degli ultimi voli. Il loro sogno è indossare di nuovo il camice bianco


«Scusate, non è che avete due camici bianchi? Ci sentiremmo più a nostro agio…». Comincia così il nostro incontro con Mahtab, 40 anni, e Sahar, 34 anni, ginecologhe afghane in forze sino all’agosto scorso al Centro per la diagnosi di tumore al seno di Herat, aperto nel 2013 da Fondazione Umberto Veronesi e chiuso con l’avanzata talebana nel nord ovest dell’Afghanistan nel timore di ritorsioni contro il personale, tutto femminile.

Evacuate precipitosamente insieme al resto dello staff e alle famiglie, e atterrate a Roma il 19 agosto scorso con gli ultimi voli militari da Kabul grazie all’impegno della Fondazione e dell’Ambasciata italiana, le dottoresse afghane dopo sei mesi accettano di raccontarsi, con l’aiuto di un interprete.

Occhi scuri e bellissimi che spesso si inumidiscono, offrono la loro testimonianza pensando alle colleghe senza voce rimaste in balia del regime talebano, private di ogni diritto e confinate in casa (basti pensare al divieto di viaggiare per oltre 72 chilometri dal domicilio se non accompagnate da un parente stretto, ennesima interpretazione in senso restrittivo della legge islamica da parte del ministero per la Propagazione della virtù e la prevenzione del vizio).

«La ricerca affannosa di hjiab coprenti per nascondere le nostre identità, l’abbandono delle pazienti, l’addio ai familiari ammutoliti, la porta di casa chiusa in tutta fretta dietro ai ricordi più cari, l’orrore delle ultime ore nelle strade di Kabul, tra check-point e spari… Sono immagini che non si cancellano» racconta Mahtab, coordinatrice del Centro e madre di quattro figli – il più piccolo di poco più di un anno, la più grande di 10 – arrivata in Italia insieme al marito, docente d’arte, e al fratello ingegnere, attualmente visiting professor alla Statale di Milano.

«Abbiamo lasciato tutto, siamo atterrate in Italia solo con gli abiti che avevamo addosso, laurea e documenti infilati nel bagaglio a mano. Prima vivevamo del nostro lavoro, guidavamo l’auto, avevamo una casa confortevole, riuscivamo ad aiutare anche i parenti meno fortunati. Ora dobbiamo ripartire da zero. Devo essere sincera, non tutti i giorni sono buoni. Ma siamo vive, i nostri cari sono vivi. Pian piano ricominciamo persino a immaginarci un futuro».

Ospitate in un centro protetto di Progetto Arca a pochi chilometri da Milano, dopo aver ottenuto lo status di rifugiate e un alloggio comunale, cercano di studiare pensando al domani. Un domani che per entrambe si chiama Medicina.

«La nostra giornata iniziava presto. Un caffè al volo con mia madre e mia sorella, anche lei ginecologa, poi di corsa al Centro senologico. C’era sempre una lunga fila di pazienti ad attenderci» ricorda Sahar. «Ogni giorno se ne aggiungeva qualcuna in più: eravamo un punto di riferimento, offrivamo un servizio di qualità e del tutto gratuito, che nella nostra provincia mancava. Si era sparsa la voce, le donne erano felici di venire da noi, finalmente qualcuno si occupava della loro salute. Si fidavano. E anche gli uomini: l’ambulatorio sorgeva accanto all’ospedale materno-infantile di Herat, il nostro staff era tutto femminile, in sala d’attesa accoglievamo anche i bambini. Facevamo ecografie, mammografie, prelievi citologici, inviando i nostri dati all’ospedale di Perugia dove avevamo frequentato un corso di formazione (il controllo qualità era curato dall’Apof, l’Associazione dei Patologi oltre frontiera, ndr)».

Un faro nella notte in un Paese di 38 milioni di abitanti dove si muore soprattutto di malattie infettive, mine antiuomo, armi da fuoco, e l’assistenza sanitaria non è garantita, specie alle donne. Qualche numero fornito da Mahtab rende l’idea: «In otto anni abbiamo seguito oltre novemila pazienti. Siamo partite con un solo ecografo, poi è arrivato il mammografo donato da Fondazione Veronesi, infine il servizio di citologia. Oltre a noi medici c’erano una biologa, due tecniche di radiologia, una data manager, più una receptionist. Ci pensate? Donne al servizio di altre donne. Ora tutto questo non c’è più. Secondo l’Oms, in Afghanistan ogni anno si contano 2300 decessi per cancro mammario e tremila nuove diagnosi: chi assisterà le nostre pazienti?».

«Dopo l’ambulatorio, nel pomeriggio mi spostavo in una clinica dove facevo nascere bambini, interventi ginecologici, cesarei. Alla sera rientravo a casa sfinita, ma c’erano i miei piccoli a rivitalizzarmi, i loro racconti, i compiti da finire: ogni angolo della casa risuonava dei loro richiami “mamma vieni qui”, “mamma, guarda cosa ho fatto oggi!”», continua Mahtab.

«Ho sempre cercato di bilanciare la mia attività professionale e quella familiare, di essere una buona madre e moglie oltre che un buon medico anche se, a essere onesta, sono consapevole di aver speso più tempo a occuparmi delle mie pazienti, a pensare alla loro salute. Noi ginecologhe eravamo amate e rispettate, ci spostavamo liberamente, il nostro lavoro era molto richiesto. Ma ultimamente la situazione era sempre più tesa. Ogni sera rientrando ci assicuravamo che fratelli, sorelle e parenti fossero tornati nelle loro case in pace. Finché all’inizio dell’estate abbiamo cominciato a sentire che chi collaborava con le organizzazioni internazionali non era più al sicuro.

A maggior ragione noi, donne afghane e operatrici sanitarie. Gli ultimi giorni al Centro sono stati un incubo: mentre i talebani avanzavano verso Herat, continuavano ad arrivarci racconti delle loro atrocità, di ritorsioni sui civili, sulle famiglie. Un giorno qualcuno aveva bussato alla porta di mia madre: cercavano me. A quel punto ci siamo riunite, e abbiamo chiesto aiuto a Fondazione Veronesi: eravamo tutti d’accordo, non restava che chiudere il Centro, fuggire verso la capitale, pensare all’espatrio.

Abbandonare quell’ambulatorio costruito con tanta fatica è stato difficilissimo, mi sono sentita morire. Ma la situazione stava precipitando. Dovevamo assolutamente prendere uno degli ultimi voli per Kabul. Così abbiamo riempito in fretta pochi bagagli. Poi ho guardato per l’ultima volta la nostra casa cercando di imprimermi nella memoria il suo odore: era tutto in ordine, i letti fatti, le mie belle teiere sulla mensola, i piatti lavati. Non riuscivo a chiudere quella porta, a infilare le chiavi, mi tremavano le mani. Ho chiesto a un’amica di farlo per me».

Nella capitale, il primo tentativo di espatrio il giorno di Ferragosto non va in porto. Solo tre giorni dopo, Mahtab, Sahar e le colleghe con le famiglie riescono a imbarcarsi su un volto militare per Roma. Un esodo con migliaia di disperati premuti all’ingresso dell’aeroporto. È Sahar a raccontare: «Di quelle ultime ore da incubo non riesco quasi a parlare: ricordo solo le preghiere, la certezza di morire a ogni sparo, i check point dei talebani, i bambini di Mahtab che piangevano terrorizzati. Poi il gate, la folla impazzita, la partenza convulsa con la gente aggrappata ai carrelli, le nostre poche cose abbandonate a terra, senza cibo per 36 ore filate – solo per i più piccoli Mahtab aveva portato un po’ di latte in polvere -, la tensione, il volo».

«Solo quando a Roma siamo scese dalla scaletta dell’aereo, ci siamo rese conto di essere al sicuro» rammenta Sahar. «A terra c’era il volto amico di Monica ad accoglierci (Monica Ramaioli, direttrice generale di Fondazione Umberto Veronesi, che in passato aveva organizzato la formazione del personale per l’apertura del Centro di Herat, ndr). E poi l’odore della pasta e del riso speziato, cibo e acqua in abbondanza per tutti, qualche maglietta di ricambio, le toilette pulite, i Carabinieri che facevano giocare i bambini… Sembrava un sogno. Ma al minimo rumore sobbalzavo, avevo ancora il rumore delle esplosioni nelle orecchie».

«All’inizio eravamo disorientate e spaesate. I primi tempi nel centro di accoglienza non sono stati facili: pochi spazi dove imparare a convivere tutti insieme, senza mai uscire per non dare nell’occhio» ammette Mahtab. «Ci ha ridato la forza di sperare la solidarietà degli italiani. La vicinanza delle volontarie, delle donne della Fondazione, che hanno acquistato per noi gli abiti a cui eravamo abituate, hanno scovato questi chador dai toni tenui e luminosi, recuperato colori e pennelli per mio fratello, che è un pittore. Negli alloggi protetti ci portano anche la spesa. Così ora cucino per tutti, preparo il mio riso al curry con il pollo come non avevo mai avuto tempo di fare a Herat. E i bambini si stanno finalmente rilassando, con noi genitori tutto il giorno accanto a loro, giocano spensierati. Uno dei piccoli, che ha un problema di salute importante, è stato preso in carico da un centro specializzato, qui a Milano. Nel momento in cui ho visto gli specialisti occuparsi con tanta cura di mio figlio ho capito che di tutto questo è valsa la pena».

Per Sahar, per la madre e la sorella, a documenti fatti è arrivato un alloggio del Comune. «Appena entrate abbiamo preparato un tè alla menta. E quando il suo profumo si è diffuso nell’aria ci siamo dette, ecco, anche qui è casa. Poi siamo uscite a fare la spesa da sole – prima erano gli altri a portarci il cibo. Abbiamo trovato un negozio di spezie dai sapori familiari, piccole cose semplici che ti danno il senso della vita. Ora il nostro obiettivo è imparare bene l’italiano, indispensabile per il riconoscimento della laurea, che richiede quattro esami piuttosto impegnativi. Chi ha studiato Medicina, dedicando anni e serate sui libri, conosce bene il valore di questa professione, la passione per il mestiere. Impossibile rinunciarvi».

E Mahtab aggiunge: «Preparare gli esami in inglese sarebbe stato più facile, ma faremo tutto quello che serve per poter tornare a fare i medici. L’Italia ha salvato le nostre vite, quelle dei nostri famigliari. Non vediamo l’ora di restituire questo bene supremo. Di salvare le vostre, di vite». Ricominciare da un camice bianco.


(iodonna.it, 20 febbraio 2022)

di Paola Rizzi


Su Wikipedia Italia Cristina Calderón è definita scrittrice, etnografa e lessicografa cilena. Nonché, dal 2009, classificata «tesoro umano vivente» dall’Unesco, riconoscimento che di solito assegna la cultura dominante a qualcosa di unico e immateriale che quella stessa cultura ha contribuito a cancellare. Un tesoro che abbiamo definitivamente perduto mercoledì scorso, quando il covid se l’è portata via a quasi 94 anni in un’ospedale di Punta Arenas, nella Patagonia cilena. Lo hanno ricordato i giornali di tutto il mondo, registrando più che un lutto, un’estinzione che contrae ulteriormente la nostra biodiversità culturale. 
In realtà definirla etnografa e lessicografa fa un po’ specie, perché Cristina non era una studiosa, ma se mai l’“oggetto” di studio che si era fatta soggetto, testimone attivo e militante di un’etnia e soprattutto di una lingua destinata ad una irrimediabile scomparsa dopo la sua morte. È la parabola, comune a tanti popoli nativi, degli yagan, poche centinaia di individui malamente sopravvissuti all’impatto devastante con la colonizzazione, dopo 6000 anni vissuti come pescatori nomadi tra i fiordi e i ghiacciai del canale di Beagle, tra la Terra del Fuoco e l’isola di Navarino, nell’estremo sud antartico. Da piccolissima Cristina aveva condiviso quella vita durissima con la sua famiglia, pagaiando e pescando nelle acque gelide attorno all’isola. Poi si erano dovuti fermare: inaccettabile per le autorità cilene quell’andare senza regole. E lo stratagemma era stato vietare la circolazione libera di piccoli natanti, le canoe tradizionali di corteccia.

Una manciata di famiglie si è stabilita a Villa Ukika, vicino al capoluogo Puerto William, 120 chilometri a Nord di capo Horn. Lì ho incontrato brevemente qualche anno fa Cristina Calderón, la abuela Cristina per tutti. A lei aveva lasciato il testimone la sorella maggiore Úrsula, morta anni prima e molto attiva nel difendere la causa della lingua e della cultura yagan. Cristina era più schiva, ma ferma come una roccia. È alle sorelle Calderón che si deve la realizzazione, tra le altre cose, di una guida multietnica degli uccelli delle foreste originarie subantartiche, dove il picchio gigante e l’oca di Magellano sono descritti con criteri scientifici, culturali e artistici e con i nomi e le leggende yagan raccontate da Cristina e Úrsula. Nella cultura yagan, del resto, gli uomini sono parenti stretti degli uccelli. Un progetto voluto dal filosofo e biologo cileno Ricardo Rozzi, che ha il suo epicentro nel parco di Omora nell’isola Navarino e sull’idea della relazione etica, indissolubile e orizzontale, tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi, senza gerarchie. Con la nipote, Cristina ha realizzato anche un vocabolario yagan, lingua ricchissima di oltre 30mila vocaboli dal suono dolce. L’ho sentito a casa sua, mentre cercava di far dire qualcosa alla nipotina: “nonna”, kuluána. «Nessuno parla più lo yagan – si lamentava – Abbiamo organizzato una scuola per un po’ di tempo. Ma la verità è che i giovani non sono interessati. Non imparano, solo qualche parola». Anche per lei, ultima parlante, non era facile: «Finché era viva mia sorella parlavo con lei. Ora da sola, è più difficile ricordare». E anche cantare: «Mia sorella conosceva i canti tradizionali, li cantavamo insieme, ma ora da sola non ne sono più capace». La malinconia, appunto, dell’estinzione.

Il mito di Lola

La vicenda di Cristina ricorda quella di un’altra matriarca indigena custode della lingua e dei canti di un popolo sterminato poche centinaia di chilometri più a nord, i selk’nam della Terra del fuoco. Se gli yagan erano pescatori, i selk’nam  erano cacciatori, ragion per cui ne venne fatta strage alla fine dell’Ottocento con vere e proprie battute di caccia dagli allevatori europei che li consideravano pericolosi concorrenti, alla stregua di animali predatori. Negli anni Sessanta dall’incontro di due donne, l’antropologa americana Ann Chapman e l’ultima sciamana Lola Kiepja è nato uno straordinario catalogo di canti che illustrano la complicata e affascinante cosmogonia selknam. Lola, morta nel 1966, fu anche lei l’ultima parlante di una lingua e di un’etnia dichiarata ufficialmente estinta nel 1974. Su youtube si possono ascoltare le sue nenie per allontanare il vento o la pioggia o per incantare la balena e attirarla a riva.

Un’epopea di grandi madri che si dipana attraverso la parola e il canto fino ad oggi, con una finestra aperta sul futuro. Tra i sette figli di Cristina, che ha avuto tre mariti, merita una menzione Lidia González Calderón: a gennaio è stata eletta come unica rappresentante del popolo yagan alla costituente cilena che dovrà ridisegnare l’architettura dello stato ed è una dei sette vicepresidenti, tra i quali c’è anche la rappresentante degli indigeni mapuche Natividad Llanquileo. Accanto alla presidente, medica e ricercatrice, María Elisa Quinteros Cáceres. Girls power in stile australe.


(Globalist.it, 20 febbraio 2022)

CAMILLA CEDERNA – Camilla, la Cederna e le altre, a cura di Irene Soave, Bompiani, 2021.

Frivola e implacabile, antropologa più che pettegola, non ha mai rinunciato, nella sua lunga carriera di giornalista e scrittrice, a coltivare la capacità di indignarsi. Una regale “zitella” che ha saputo raccogliere anche molti insulti con la sua arte di “trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose gravi”. I suoi ritratti di donne raccolti in questo volume sono un viaggio meraviglioso attraverso il novecento. In dialogo Irene Soave e Claudia Pinelli. Introduce Mirella Maifreda.

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di Sarantis Thanopulos


Nel novembre scorso Kathleen Stock, filosofa dell’Università del Sussex, ha dato le sue dimissioni a causa di una dura contestazione nei suoi confronti da parte degli studenti della sua Università e di molti accademici inglesi, da lei definita “ostracismo medievale”. Stock, denunciata come transfobica, è legata alla LGB-Alliance che ritiene la confusione tra “sesso biologico” e “genere” una minaccia contro il diritto di gay, lesbiche e bisessuali di amare persone dello stesso sesso. Giorni fa la cantante inglese Adele, vincitrice nei Brit-Awards, per la prima volta assegnati senza distinzione tra cantanti donne e uomini, ha dichiarato durante la premiazione: «Capisco perché hanno cambiato il nome del premio, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un’artista donna». Anche lei è stata contestata di “transfobia femminista”. Sottende questo conflitto, diffuso in tutto il mondo occidentale, la questione del rapporto con il nostro corpo. Il fraintendimento di questo rapporto è chiaro nell’affermazione finale dell’intervento su The Guardian di una donna transessuale che ha sottoposto il suo corpo a varie manipolazioni: «Se il mio corpo è un vascello io sono il suo capitano». Questa è una concezione che, secondo quanto ha detto, nasce come reazione al fatto che il nostro corpo è “arbitrario”. Non si può scegliere il colore dei nostri occhi, dei nostri cappelli, della nostra pelle. Se il nostro Sé è in disaccordo con il nostro corpo possiamo modificare quest’ultimo superficialmente o in modo che «cambi la vita».

Possiamo cambiare il colore dei nostri capelli e anche dei nostri occhi (con lenti colorate). Michael Jackson provò a cambiare il colore della sua pelle. Si cambia seno, labbra, orecchie. Non è la stessa cosa di un trapianto/cambiamento d’organo. Non tanto per la solita priorità assegnata alla sopravvivenza materiale, ma, piuttosto, perché riguarda la nostra apparenza, il nostro “aspetto”.

Siamo sicuri che quando modifichiamo il nostro corpo è il nostro Sé che lo esige e non lo sguardo degli altri (sia che lo compiacciamo sia che lo combattiamo)? L’idea poi che siamo padroni del nostro corpo e lo manipoliamo come ci pare e piace (diversa dal controllo mentale, ugualmente mistificante, su di esso) tradisce l’interiorità, perché ignora che l’intima sensazione/concezione di sé ha le sue radici nelle relazioni corporee. Queste radici sono sensuali, erotiche. Quando una persona è in disaccordo col suo corpo sul piano dell’identità sessuale deve fare i conti con il fatto che sul piano erotico ciò è una limitazione seria. Se le donne (eterosessuali e omosessuali) non si identificano con le donne transessuali, non è perché sono “femministe”, ma perché per loro avere un corpo di donna e non di un uomo non è cosa di poco conto. Dal loro punto di vista, che non si vede come possa non essere condiviso, il loro corpo sessuato, erotico è fondamentale (indipendentemente dal suo aspetto). E non riescono a riconoscerlo in un corpo di uomo modificato che non sarà mai il loro, ma un sembiante. Viviamo in un mondo che diffida della complessità e ama le semplificazioni. È necessario resistergli. Il corpo biologico non basta per avere un’identità sessuale e mai si può imporre a un essere umano di sentirsi in un modo che non riconosce suo. La castrazione psichica è la cosa più terribile che ci può accadere. Inversamente, l’apparato psichico non può costruire un corpo erotico. Affrontare la contraddizione tra il sesso biologico e il sesso psichico ricorrendo al “genere” (il sesso come comportamento sociale, l’incubo di un mondo stereotipizzato) è peggio che andar di notte. Tra una donna e una donna transessuale la differenza è ineliminabile, se non si vuole aggredire la sessualità femminile. Si vada oltre la finzione e l’ipocrisia. L’inclusione vera è l’accettazione dell’altro che non nega la sua differenza.


(il manifesto, 18 febbraio 2022)

di Alessandra Pigliaru


Un percorso di saggi e narrazioni sul desiderio e il piacere femminile. Da Tamara Tenenbaum a Catherine Malabou, da María-Milagros Rivera Garretas a Barbara Verzini. La pandemia ha reso evidente la rimozione dei corpi e ha rimpicciolito gli spazi delle relazioni, sessuali ed erotiche. È però questo un processo che ha radici lontane


«Quello che penso sia successo con la pandemia è che ha accentuato cose che stavano già accadendo, cioè che siamo così sovrasfruttati tutto il tempo che è difficile per noi connetterci con il desiderio». A riferirlo è Tamara Tenenbaum in una conversazione con Pablo Herón per «La Izquierda Diario» (e riportata da «La voce delle lotte»). Dalla intervista sono trascorsi circa due anni e, con probabilità, adesso abbiamo più elementi per comprendere lo smarrimento di cui accenna Tenenbaum, scrittrice con una formazione filosofica nata e cresciuta in una comunità ebraica ortodossa nel quartiere di Once, a Buenos Aires, che nel 2019 ha dato alle stampe El fin del amor. Querer y coger en el siglo XXI. Per Fandango, esce ora la versione italiana La fine dell’amore. Amare e scopare nel XXI secolo (pp. 224, euro 20, traduzione di Alberto Bile Spadaccini), un testo che consente di orientarsi nell’arcipelago complesso delle relazioni partendo da una esperienza di trasformazione personale che sposta una ragazza a riflettere sulla propria libertà, sulla propria autonomia simbolica, sul proprio disidentificarsi con ciò che è il dettato all’apparenza obbligatorio della coppia.

Lasciata la propria comunità, Tenenbaum fa interloquire la propria storia per ricontrattarne i contorni. L’amore da congedare è quello romantico. Più avanti, sottolineando il tenore di questa decostruzione a partire da sé, specifica che il desiderio ha un carattere paradossale, «lo percepiamo come una cosa che ci succede, un accidente che ci capita, eppure dobbiamo assumerne la responsabilità». Non solo del nostro, ma anche di quello altrui. Ed è qui che consiste l’opposizione tra la libertà e il consumo neoliberista. Lo dice a partire da sé, dal proprio essere donna. Potremmo aggiungere che la scoperta di una tale generatività priva di imperativi sia l’ingresso diretto al piacere.

Non c’è bisogno di dire quanto la stretta pandemica sia stata nociva al desiderio, in primis quello sessuale. Questa distanza di sicurezza arriva però da lontano, si è radicata negli anni e oggi la ritirata del desiderio, sacrificato sull’altare di una deriva politica a tratti reazionaria e depressiva, non è, ancora una volta, un’astrazione. Diventa piuttosto qualcosa che si inchioda ai corpi. Leggere Il piacere rimosso. Clitoride e pensiero, di Catherine Malabou (Mimesis, pp. 157, euro 14, traduzione di Linda Valle, prefazione di Jennifer Guerra, il 6 marzo se ne discuterà a Milano nell’ambito di BookPride alle 14.30) precisa al mondo una geografia incarnata. A partire dalla domanda sul soggetto del femminismo, Malabou – filosofa, psicoanalista e docente alla Kingston University – fa un’operazione piuttosto azzardata e dunque preziosa di questi tempi: intanto riparla apertamente di clitoride, al centro di molte riflessioni – inaggirabili quelle di Carla Lonzi che nel 1971 scrive La donna clitoridea e la donna vaginale pubblicandolo in un volumetto edito da Rivolta Femminile con Sputiamo su Hegel). Dà alla clitoride uno statuto politico, tornando dunque a un posizionamento che, radicandosi almeno storicamente nel pensiero della differenza sessuale, osserva e interroga genealogie critiche e altre soggettività.

Oltre Lonzi, cui dedica un capitolo, la ricognizione passa infatti al setaccio Simone de Beauvoir, Luce Irigaray ma anche l’immaginario ninfale e naturalmente quello maschile che in questi decenni di nascondimenti ha creduto di poter disporre dell’orgasmo femminile. Ricordando che non esistono «corpi intatti» né indenni da «artefatti farmacologici», Malabou dialoga inoltre con l’esperienza di Paul B. Preciado e degli approcci queer, intersessuali, trans; la clitoride, spiega «è diventata il nome di un dispositivo libidinale che non appartiene necessariamente alle donne e sovverte la visione tradizionale della sessualità, del piacere e dei generi. Altre chirurgie, altri immaginari».

Più che domandarsi di quale rimozione si stia vagheggiando nel titolo, sarà il caso di chiedersi quante siano. Malabou ripercorre la violenza che ha attraversato i corpi delle donne, per occultare, eliminare, e poi ancora opprimere a diverse latitudini. Nel 2012 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 6 febbraio «Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (mgf)» e se la clitoridectomia è stata anzitutto simbolica, per impiantare al suo posto il fallomorfismo che ben conosciamo, è pratica utilizzata, come lo sono l’escissione e l’infibulazione. Si parla di una ragazza o una donna escissa ogni quindici secondi.

La clitoride però è un’anarchica, conclude Catherine Malabou. E lo è perché con l’anarchia condivide l’ingovernabilità, la clandestinità e il grado massimo di rifiuto del potere. È sulla base di questa rivoluzione di prospettiva che produce pensiero, che può essere crocevia di molteplicità come di desideri plurali. Del resto, dopo le agonistiche e spesso arroganti elucubrazioni falliche, c’è una ragione sufficiente per cui non si possa rendere alla clitoride (e dunque al piacere), questa piccola e smisurata altura incastonata di meraviglie, tutta la centralità sovrana che le è propria? Ne avremmo tutti e tutte nutrimento oltre che godimento. 
Certo il problema permane quando si cerca il contatto con altri corpi ma anche per questo María-Milagros Rivera Garretas ha scritto Il piacere femminile è clitorideo (uscito a Madrid e ora, grazie alla traduzione di Barbara Verzini, disponibile anche in Italia; edizione indipendente, è il quarto titolo della collana «A mano», pp. 208, euro 17, verrà discusso alla Libreria delle donne di Milano il 26 febbraio, alle 18). Storica medioevale che ha insegnato all’Università di Barcellona e che, nella stessa città, ha fondato con altre Duoda (Barcellona) e ora Dhuoda (Cáceres), Rivera Garretas fa ordine su una serie di malintesi che cominciano proprio dalle parole. È per esempio il caso emblematico di «ermeneutica» che, se ha prodotto molta della violenza che conosciamo (dall’impianto accademico alla costrizione del metodo cartesiano), contiene le «erme», una pratica e un’usanza femminile ancestrale delle donne aymara boliviane che, quando viaggiavano, ponevano una piccola pietra sopra dei mucchietti ai punti di incrocio tra valle e montagna per chiedere protezione divina. Il cumulo di sassolini della Dea Era (e non di Hermes) è una collina, ovvero la clitoride.

Questo cambio prospettico, uno dei tanti esempi che propone l’autrice, è la traiettoria di ritorno all’origine, così come lo sono le poesie di Emily Dickinson o le voci di Juana Inés de la Cruz o ancora di quel legame che dal piacere passa al godimento, al toccare e ritoccare delle labbra di cui ha scritto Luce Irigaray nel suo Questo sesso che non è un sesso (1977) e che ancora ha molto da raccontare. Bisogna approfittare, secondo Rivera Garretas, dei misteri clitoridei che sono tali poiché «la nostra cultura trova difficile capire e impossibile ammettere che i concetti vengono concepiti nel piacere, non nello studio né nello sforzo angoscioso della ragione». Ecco spiegata l’immagine secondo cui «la donna clitoridea concepisce corpi senza coito e concetti senza fallo».

Non è una suggestione, è il senso libero di una esplorazione di cui rende conto Barbara Verzini nel suo La Madre nel Mare. L’enigma di Tiamat (volume prezioso e frutto di edizione indipendente, che inaugura la collana «A mano» (pp. 110, euro 16). È un testo speciale, sofisticato nell’esegesi, poetico di scavo per le connessioni teoriche, simboliche e artistiche individuate e in cui si studia e si legge, con sguardo innamorato, il poema accadico Enuma Elish (sette tavole di 150 versi ognuna) e la babilonese Tiamat, signora del Chaos.

«Affrontare la dismisura femminile», avverte Verzini, filosofa indipendente e docente a Barcellona al Master di Duoda e anche lei, con altre, fondatrici di Dhuoda, «è un problema del patriarcato e delle donne patriarcali». Dalle profondità oceaniche di Tiamat, origine e totalità, arriva allora lo scintillio trasformativo che – al posto del rimpicciolimento di cui in tante hanno fatto e fanno esperienza, chiudendo il piacere clitorideo in un cassetto – propone di spalancare la visione: «Sia benvenuto un mondo di abbondanza di rane e di bocche dalle carnose labbra, un mondo che brinda alla differenza e alla grandezza femminile, dove nessuna sia mai più costretta a farsi piccola mentre si sente chiamare pazza, ma possa gridare indomita la propria eccedenza».

Da questa festa politica di libri, non sembra che il desiderio sia poi così sdrucito, si tratta solo di tenerlo insieme al piacere dei corpi. Che sentono e vivono tutto, con amore passione e talvolta stordimento. Come un abbraccio irrinunciabile.


(il manifesto.it, 17 febbraio 2022)


di Luciana Tavernini


Nel suo ultimo libro Pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo Luisella Vèroli, esploratrice degli archetipi del femminile e prima biografa di Alda Merini di cui ha scritto in Reato di vita, Autobiografia e poesia e in Alda Merini ridevamo come matte (2011), ci propone un breve e finora inesplorato periodo della vita di Sibilla Aleramo, l’estate del 1912 in Corsica. E lo fa basandosi sulla documentazione dell’archivio Gramsci di Roma, su lettere, diari, fotografie inedite di chi l’ha conosciuta, ma anche ricreando dialoghi e situazioni verosimili, in cui unisce la sua conoscenza della Corsica, in cui Vèroli soggiorna da quarant’anni, e le sue conoscenze di archeologia femminile.

Così possiamo viaggiare in compagnia di Sibilla alla scoperta di figure femminili del mito e conoscere anche le mazzere e una bandita; vedere lo schiudersi di amicizie, come quella con Anne-Marie Comnène e Benjamin Crémieux, con cui condivide riflessioni sulle relazioni tra donne, tra donne e uomini, e sulla scrittura e che la metteranno in contatto con circoli culturali parigini. Possiamo seguire lo sbocciare dell’amore incandescente per il giovane Joe Luciani, di cui diventa maestra di piacere proprio perché non rinuncia al proprio. E, per la prima volta, la scrittrice e giornalista si scopre anche poeta.

Un viaggio dunque alla scoperta dell’energia creativa femminile che sa trasformare anche gli uomini.

Luisella Vèroli, Pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo,

Associazione Culturale Le Melusine/ La vita felice, Milano 2020, € 14,00

Per saperne di più una approfondita e appassionata recensione:

Nadia Tarantini, Pudore selvaggio, selvaggia nudità, Letterate magazine, 2 dicembre 2020

www.letteratemagazine.it/2020/12/02/pudore-selvaggio-selvaggia-nudita

e per conoscere l’autrice il video di uno degli incontri di presentazione del libro:

Intervista di Katia Trinca Colonel a Luisella Vèroli per il Circolo dei lettori di Como

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(www.libreriadelledonne.it, 13 febbraio 2022)


di Maryan Ismail


Così come ci siamo giustamente allarmate e indignate per la pacca sul sedere in diretta alla giornalista Greta Beccaglia, altrettanta e ancor più forte preoccupazione desta quello che è accaduto in piazza del Duomo nella notte di Capodanno.

Guardando i video che girano nel web si evince che si trattavano di vere Taharrush Jama’i (assalti e aggressioni sessuali).

Le vittime sarebbero almeno 9 e i presunti aggressori indagati sono giovani e giovanissimi ragazzi stranieri e italiani con i genitori di origine nordafricana. Non è un caso che i video girano nei social di lingua araba. Qualora fossero responsabili non dovranno avere attenuanti culturali, ma essere giudicati per violenza sessuale di gruppo. 
Per comprendere che si è trattato di Taharrush Jama’i bisogna sapere come si svolgono le aggressioni. Le vittime, come in altri casi precedenti, sono state isolate e assalite con azioni precise, che prevedono la formazione di tre cerchi stretti di uomini e/o ragazzi.

Il primo è quello che violenta fisicamente la ragazza. Il secondo cerchio filma, fotografa e si gode lo spettacolo, infine il terzo cerchio distrae la folla vicina con urla e rumori per non far comprendere cosa accade.

Il compito più odioso è svolto da uno o due maschi del primo cerchio che si fingono “protettori e salvatori” e che rassicurano la vittima convincendola che sono lì per aiutarla (nel video con le ragazze tedesche si notano due giovani che “cercano” di spingerle fuori dalle transenne), ma che poi essi stessi partecipano attivamente alla violenza di gruppo. La tecnica di protezione ha lo scopo di disorientare la ragazza e di spezzarne la resistenza perché non sa più di chi fidarsi. Patisce così anche un ulteriore e drammatico supplizio di tipo psicologico.

È bene sapere che la vittima subisce palpeggiamenti, svestimenti, percosse, morsi, penetrazioni digitali o di corpi estranei e se ci sono condizioni di tempo, violenza sessuale vera e propria.

Il fenomeno è esploso in Egitto nel 2011 durante la caduta di Mubarak ed è stato ben documentato dalla giornalista della CBS Lara Logan, vittima di un assalto in Piazza Tahrir mentre svolgeva un servizio televisivo.

Da allora anche se con molta difficoltà sono state raccolte altre testimonianze di vittime e si sono messe in atto una serie di precauzioni e di tutele per le donne che possono essere esposte a violenza di gruppo in circostanze di eventi pubblici, raduni, concerti o feste religiose.

Nessuna è al sicuro. Vengono assalite donne con o senza il velo, di qualsiasi religione o provenienza e di tutte le età (dai 7 ai 70).

Nel mondo arabo islamico il problema viene affrontato a tutti i livelli, senza nascondere che è specificamente culturale. Trattasi di ulteriori forme di devianza misogina, patriarcale e maschilista.

Il senso di questa specifica violenza di genere è il dominio e il controllo sulle donne. Sono aspetti che non si nascondono o si giustificano.

Ora questo terribile fenomeno sbarca in Europa e non solo (si sono registrati casi in India, Pakistan, Indonesia ecc).

Lo abbiamo visto accadere a Colonia e all’inizio dell’anno ha sfregiato anche la nostra Milano e le sue cittadine.

Affrontare questa nuova forma di violenza senza sminuirne l’importanza e la specificità per paura di passare per islamofobi o razzisti è urgente e necessario per la sicurezza di noi tutte.

Sarà utile mettere da parte le ideologie del caso e lavorare tutti insieme. Forze dell’ordine, istituzioni e famiglie.

Non vi è bisogno di assumere vigili, esercito o poliziotti in più (quanto altro tempo dobbiamo attendere?), ma di mettere in atto un urgente e serio programma d’intervento nelle periferie, scuole, parrocchie, consultori, ambulatori, stadi e centri di aggregazione. In altri termini ripensare al controllo del territorio con una visione di prevenzione e tutela ex ante/ex post.

Donne, ragazze, giovani, coesione sociale, integrazione, cittadinanza positiva e dialogo tra comunità o tra le religioni sono in serio pericolo.

Ed è bene non far finta di nulla sperando che passato il momento tutto ritorna come prima. Non è così e ormai i campanelli d’allarme sono parecchi.


(#IlPunto di Maryan Ismail, 12 gennaio 2022)


di Luca Kocci


«Italy Church Too». La rete di associazioni si muove su tre fronti: ecclesiale, politico e dell’informazione. Alla Chiesa italiana viene chiesto di avviare una commissione indipendente sugli abusi sessuali commessi dal clero. Lo Stato è invitato a rimuovere tutti quegli ostacoli che impediscono lo svolgimento dei processi e il Parlamento sollecitato a valutare la possibilità di costituire una specifica commissione di inchiesta


Italy Church Too, ovvero «anche la Chiesa italiana». È questo l’hashtag – rielaborazione del Me too del movimento femminista contro le molestie sessuali – scelto dalle associazioni che ieri hanno presentato il Coordinamento contro gli abusi nella Chiesa cattolica in Italia. La Conferenza episcopale italiana continua sostanzialmente a eludere il problema e a rifiutare la proposta di costituire una commissione indipendente che indaghi sulla pedofilia del clero, per esempio come quella voluta dall’arcidiocesi di Monaco di Baviera-Frisinga, che ha messo sotto accusa sia Joseph Ratzinger sia il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, ovvero colui che quella commissione ha voluto. L’unica apertura – si fa per dire – arrivata dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, in un’intervista al Corriere della Sera a fine gennaio, è quella di una raccolta dei dati in possesso dei Servizi diocesani per la tutela dei minori. Non una commissione indipendente quindi, ma una specie di indagine interna affidata agli stessi organismi ecclesiastici. Senza contare poi che la proposta Bassetti arriva a poco più di tre mesi dal suo pensionamento: a maggio, infatti, i vescovi italiani sceglieranno il nuovo presidente della Cei. Se fosse stata seria, avrebbe potuto realizzarla nei cinque anni in cui è stato alla guida della Chiesa italiana (da maggio 2017) e non lanciarla alla vigilia del suo addio, anche perché pressato dagli organi di stampa. La spinta allora parte dal basso, da sette associazioni (Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, Donne per la Chiesa, Noi siamo Chiesa, Rete L’Abuso, Comitato vittime e famiglie, Voices of Faith, Comité de la Jupe) e due riviste (Adista e Left) che decidono di muoversi su tre fronti: ecclesiale, politico e dell’informazione. Alla Chiesa italiana viene chiesto di avviare una commissione indipendente sugli abusi sessuali commessi dal clero. Lo Stato è invitato a rimuovere tutti quegli ostacoli che impediscono lo svolgimento dei processi e il Parlamento sollecitato a valutare la possibilità di costituire una specifica commissione di inchiesta. E venerdì 18 febbraio verrà messo online dal settimanale Left un database che, anche grazie alle informazioni raccolte negli anni dall’associazione di vittime “L’Abuso”, documenta i casi di violenza su minori nella Chiesa cattolica italiana. «Chiediamo che la Cei affidi quanto prima ad una commissione indipendente un’indagine sugli abusi compiuti all’interno della Chiesa – spiega Paola Lazzarini, presidente di Donne per la Chiesa. Chiediamo che a guidarla sia persona di specchiata integrità e indipendenza dalle parti interessate. E chiediamo che sia un’indagine che veda uniti gli sforzi di diverse e altissime professionalità e che utilizzi contemporaneamente metodi qualitativi, quantitativi, di analisi documentale, per i quali è necessario che siano aperti tutti gli archivi di diocesi, conventi, monasteri, e anche aprendo canali nuovi di ricezione per l’ascolto delle vittime». «Serve adeguare le leggi», aggiunge Francesco Zanardi, presidente della Rete l’Abuso ed egli stesso, ad undici anni, abusato dal parroco savonese don Nello Giraudo. «Sono state avanzate istanze allo Stato e all’Onu – prosegue -, ma il numero di indagini e azioni penali della magistratura è basso: se la vittima è prescritta non scatta nessuna indagine, ma la prescrizione non è adeguata alla maturazione del trauma da parte della vittima. Si chiede al legislatore di dare la possibilità di denunciare a tutti cittadini, dal parroco, al catechista a chiunque abbia dei sospetti, sarebbe già una svolta. Bisogna poi estendere a tutti il certificato antipedofilia, applicandolo a tutto l’indotto del volontariato che svolge attività con minori. E attuare un programma di risarcimenti e di programmi di riabilitazione delle vittime». A differenza di molti Paesi nel mondo – aggiunge Ludovica Eugenio, responsabile dell’agenzia di informazioni Adista – dove si è intervenuti in modo efficace con inchieste e commissioni d’indagine indipendenti, che hanno fornito il quadro «di un fenomeno che sempre più ha rivelato il proprio carattere sistemico, che affonda le proprie radici nella cultura clericale, in una malintesa immagine del clero come ceto sacro e intoccabile, nel tentativo della gerarchia di proteggere l’istituzione a scapito delle vittime, la cui vita è stata spesso devastata in modo irreversibile», in Italia «la Chiesa e le istituzioni laiche non hanno mai voluto realizzare un’inchiesta su scala nazionale per far luce su un fenomeno criminale che si sa ampiamente diffuso in tutta la Penisola. Non è stata intrapresa finora nessuna iniziativa di indagine e ricerca indipendente che potesse fornire dati oggettivi, primo passo verso una prassi di giustizia cui hanno diritto in primo luogo le vittime e le loro famiglie, ma anche i membri della comunità cristiana, i cittadini e le cittadine». Il coordinamento contro gli abusi nella Chiesa cattolica in Italia «vuole essere uno strumento di pressione e di espressione della volontà di contribuire ad abbattere il muro di omertà che ha protetto finora i responsabili diretti e indiretti degli abusi e ha favorito l’invisibilità delle vittime».


(il manifesto, 16 febbraio 2022)


di Giuliana Giulietti


Barbara Verzini, La madre nel mare. L’enigma di Tiamat, collana A mano, edizione indipendente, Verona e Madrid 2020.


Da tempo non mi capitava di leggere con tanta gioia e quasi tutto d’un fiato un libro come mi è capitato con La madre nel mare. L’enigma di Tiamat di Barbara Verzini. In un momento come quello attuale segnato dal tentativo di cancellare il femminile e la relazione materna, il libro di Barbara che ci parla di una femminilità indomita e originaria che nessun ordine o misura maschile può imbrigliare e contenere, è un dono e una straordinaria avventura marina. Perché è a una immersione che Barbara ci invita chiedendoci di fare, con abbandono e fiducia, un tuffo all’indietro per lasciarsi cadere con lei, che ci tiene per mano, nelle acque salate di Tiamat, la Dea del Chaos e incarnazione liquida, primordiale, originaria della Madre. Si va dunque per mare guidate dalla libertà e dall’audacia con cui Barbara, dopo aver fatto Tabula rasa del sapere accademico/patriarcale, si e ci mette in relazione con l’Enuma Elish, un antico poema teogonico e cosmogonico che appartiene alla tradizione religiosa babilonese e che lei, nel nome di sua madre Mariarosa, interpreta a partire dal proprio sentire, dalla propria esperienza e dal punto di vista della differenza sessuale. Portando così nuova luce sulla sanguinosa battaglia che lì si narra per instaurare, contro l’armonia del Chaos, l’ordine fallico del Cosmo e della sua spada. Che per mano di Marduk farà a pezzi il corpo della madre, di Tiamat. Ma non si può uccidere colei che non potrà morire e che continuerà a risuonare nel mare, quel mare che di pagina in pagina attraversiamo per ritrovare, in Tiamat – e prima di quell’ordine insanguinato – l’infinto caos delle origini che accoglie e fa spazio ad ogni differenza, dove non vi sono disordine e confusione, ma una armonica mescolanza di creature ed elementi. Un po’ come nelle borse delle donne dove tutto si mescola ma poi c’è la sapienza di saper trovare quello che c’è. Saltando l’opposizione ordine/disordine in favore dell’armonia simbolica del materno, Barbara opera uno spostamento che ci conduce, secondo l’insegnamento di Carla Lonzi, su un altro piano. “Muoversi su altro piano” – leggiamo in Sputiamo su Hegel – “è il punto su cui più difficilmente arriveremo ad essere capite, ma è essenziale che non manchiamo di insistervi”. Ed è precisamente quello che fa Barbara creando, con le sue parole, uno spazio dove possiamo muoverci in libertà e in accordo con il caos originario che non è, ripeto, confusione e disordine, ma mescolanza, relazione, apertura alle altre e agli altri. Al cuore di Tiamat c’è un enigma che non può essere decifrato con lo studio, con la mente, con il sapere fallico che oggettiva e analizza e che perciò si sottrae alla spada che lo fa a pezzi. L’enigma di Tiamat è l’enigma dell’infinito femminile, l’infinito mistero – dice Barbara – dell’uno che è due, fra le gambe di una donna. Un enigma, dunque, che non è qualcosa di lontano ma è vicino a noi, nella nostra esperienza, nella relazione con le nostre madri e con le altre donne. Ed è nel presente che bisogna ritrovarlo e toccarlo insieme alle parole per dirlo. Rilanciando con la gioia degli inizi la grandezza e l’eccedenza femminile che ci ricorda, insieme all’ampiezza della bocca delle rane (una geniale immagine che Barbara ci dona) l’immensa apertura del Chaos e la forza inarrestabile delle onde dell’oceano.


(Facebook,14 febbraio 2022)


UDI – Unione Donne in Italia, 14 febbraio 2022


COMUNICATO STAMPA


Finalmente martedì 15 febbraio inizierà in Commissione Giustizia del Senato la discussione sull’attribuzione diretta ai figli del cognome della madre.

Sono 40 anni che le donne chiedono inascoltate che il proprio cognome non venga cancellato. Nel tempo in cui la dignità si fa tema politico, il cognome della madre taciuto, prima di essere un’ingiustizia, appare per quello che è: uno scandalo.

È tempo di verità, che i figli portino i segni di coloro che li hanno generati e che il loro nome sia una storia e non un attestato di proprietà.

Vogliamo che questo sia alla nascita senza necessità di accordi e concessioni tra coniugi.

Ci auguriamo che questa discussione non si impantani in sterili conflitti, in contrapposizioni strumentali, in furbe lungaggini.

Le donne, oggi più che mai, hanno un enorme credito da riscuotere.


UDI-Unione Donne in Italia


(https://www.facebook.com/, 14 febbraio 2022)


L’Associazione Lucrezia Marinelli ripropone Nevia un film di Nunzia De Stefano, Italia 2019. Un piccolo prezioso film che trae forza dalla regia dell’esordiente Nunzia De Stefano e dalla straordinaria interpretazione di Virginia Apicella. Storia di un’adolescente caparbia e coraggiosa che “combatte contro un destino già scritto … che cerca con risolutezza il proprio posto nel mondo”. Una storia da vedere e da ascoltare nel suo travolgente napoletano in presa diretta.

Introduce Silvana Ferrari.

Accesso con Super Green Pass, documento d’identità e mascherina

Per prenotazione: info@lucreziamarinelli.org. I posti sono 25.

di Franca Fortunato


Al liceo scientifico “Valentini-Majorana” di Castrolibero (Cs), “scuola d’eccellenza”, accadeva qualcosa di imprevisto negli stessi giorni in cui nelle piazze di tante città italiane divampava la protesta studentesca, repressa a manganellate dalla polizia, per la morte di Lorenzo Parelli, lo studente diciottenne ucciso in fabbrica da una trave […]. Alle 7,30 del 3 febbraio il liceo scientifico viene occupato da centinaia di studenti, l’ingresso serrato con un catenaccio, docenti e dirigente chiusi fuori e striscioni con scritte “Stop alle molestie”, “Stop al silenzio”. Nessuno/a se l’aspettava. Molestie sessuali da parte di professori, in particolare uno, e silenzio da parte di chi ha sempre saputo e taciuto per la “buona immagine del liceo”. Tutto è partito da una ragazza, Diana, ex-allieva e universitaria, che in modo anonimo su Instagram ha raccontato un episodio che le era accaduto qualche anno fa. «Il professore mi ha chiesto una foto del mio seno nudo – ha scritto – per avere la sufficienza. Ho riferito l’episodio alla preside. E poi l’ho raccontato anche ai miei genitori, ma non ho denunciato alle forze dell’ordine, perché rassicurata dalla dirigente che avrebbe preso provvedimenti.» Nessun provvedimento, le molestie sono continuate e le ragazze le hanno raccontate sulla pagina di Diana. Ne riporto solo alcune: «Il professore mi ha toccato il seno», «Se volevo la sufficienza dovevo dargli una mia foto nuda», «Durante i compiti in classe faceva spostare la mia compagna di banco e si sedeva per farmi prendere la sufficienza, ma mentre mi spiegava cosa dovevo fare, poggiava la mano sulla schiena e pian piano scendeva. Cercavo di spostarmi per evitare che mi toccasse e lui la smetteva per un po’, poi ricominciava e mi indicava le cose cercando in qualche modo di toccarmi il seno». Dalle denunce all’occupazione il passo è stato breve. Vogliono essere ascoltate/i, pretendono le dimissioni della preside e l’allontanamento del professore perché «non è giusto per chi ha subito violenza o ancora continua a subirne vedere tutti i giorni nei corridoi il mostro che l’ha molestata». La preside è la stessa che ha imposto “l’obbligo dell’abito decoroso”, che per le ragazze sa di misoginia di chi pensa che siano loro a provocare con l’abbigliamento. Soltanto alcuni mesi fa ragazze delle università di Cosenza e Catanzaro, in forma anonima, avevano denunciato abusi e molestie sessuali da parte di professori. Mi si dirà che molestatori nelle scuole ce ne sono sempre stati, vero, anch’io da docente ne ho incontrato uno e insieme alle ragazze l’ho fatto allontanare dalle mie classi, ma quello che c’è di nuovo in quel liceo e che mi dà gioia è vedere che nelle ragazze è cresciuta la consapevolezza dell’inviolabilità del proprio corpo, che non hanno paura di denunciare e che le altre ragazze e i ragazzi, a differenza della preside, le credono. Questo è femminismo ma loro non lo sanno perché nessuno/a nella “scuola d’eccellenza” glielo ha insegnato. Non c’è eccellenza nella scuola se c’è sessismo, misoginia, autoritarismo aziendale, cancellazione della differenza femminile nei programmi e nella lingua, se non c’è tempo per l’ascolto, non c’è piacere di insegnare e imparare ma solo competenze da apprendere e vendere insieme alla vita sul mercato delle merci. Un modello di scuola che da docente ho avversato, me ne sono difesa e sono andata via al momento giusto.


(Il Quotidiano del Sud, 11 febbraio 2022)

di Cristiana Campanini


La scultura dell’artista Sissi ha vinto un concorso e troverà casa davanti all’università Statale


“E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Sembra fare eco alle parole di Dante nell’ultimo verso dell’Inferno, la scultura di Sissi. Dal tormento tattile del suo piccolo bozzetto in argilla lampeggia un sorriso e un gesto energetico rivolto al firmamento, all’universo e alla scoperta dei suoi segreti. È l’opera vincitrice del concorso di arte pubblica, sostenuto da Fondazione Deloitte, ‘Sguardo fisico’, un omaggio a Margherita Hack. Fino al 20 febbraio, una mostra documenta il vincitore, annunciato oggi, 9 febbraio, oltre ai sette progetti in lizza. E la Casa degli artisti, residenza dedita alla produzione e alla esposizione di opere, è la cornice virtuosa dell’iniziativa, che nell’arte pubblica potrebbe trovare una vocazione interessante per il futuro.

Eccezionale è la collocazione, anche per il messaggio che porta con sé l’opera, un messaggio di speranza rivolto a tutte le ragazze, se pensiamo che solo il 25% degli studenti oggi si dedica a materie scientifiche, e solo un quarto di questa porzione, è rappresentato da donne. La scultura troverà casa nel centro di Milano, di fronte all’università Statale, in Largo Richini. È uno spazio di grande visibilità e vivacità attraversato ogni giorno da sciami di studenti, che qui si fermano per cercare ispirazione e riposo tra una lezione e l’altra.

Il bronzo, collocato a giugno, ritrae l’astrofisica fiorentina, al centenario della nascita, mentre osserva il cielo dalla terra. Il suo corpo e la postura sorgono da un vortice dagli echi futuristi. Il moto è un magma a spirale che si sprigiona dal terreno, ma anche una galassia. Hack raccoglie le mani a cannocchiale come farebbe un bimbo giocando ai pirati, ma non guarda dritto, all’orizzonte, ma punta al cielo. Il gesto delle mani è semplice e concreto. È questa potenza lieve, questa energia rivolta al futuro ad essere perfetta sintesi della personalità della ricercatrice fiorentina, prima donna a dirigere un osservatorio di astrofisica in Italia, figura di altissimo profilo scientifico ma anche di grande ironia e potenza comunicativa.

Su oltre 120 monumenti milanesi, sarà il secondo dedicato a una donna. Il primo, a rompere il ghiaccio, è stato nell’autunno scorso quello di Giuseppe Bergomi, dedicato in piazza Belgiojoso a un’eroina del Risorgimento come Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Ma questo secondo ha altri primati. È il primo a essere realizzato da un’artista. Ed è anche il primo a essere dedicato a una scienziata. A vincerlo, su otto autrici, tra cui Chiara Camoni, Giulia Cenci, Zhanna Kadyrova, Paola Margherita, Marzia Migliora, Liliana Moro e Silvia Vendramel, è la bolognese Daniela Olivieri, in arte Sissi, classe 1977, già vincitrice del Premio New York, da sempre attratta da una materia febbrile, esasperata, eccessiva; e da un processo istintivo e tattile. Qui il bozzetto è raccontato anche da alcuni disegni e appunti dell’artista. Una menzione speciale va a Marzia Migliora. Disegna a terra un quadrante di cielo, per creare uno spazio ludico e astratto, un progetto che meriterebbe di essere realizzato, magari questa volta in periferia.


(La Repubblica, 9 febbraio 2022)


di Barbara Stefanelli


Libellula. Aveva risposto così, dall’ospedale di Voltri dove stava combattendo per una camera vista mare, alla domanda «che cos’è per te la forza? Ti fa pensare più a una tigre o a un colibrì?».

Stavamo lavorando, mentre lei fotografava l’alba attraverso la finestra, a uno dei nostri ultimi progetti. Un podcast su «un altro genere di forza», una serie a puntate che – dopo decine di incontri e interviste – andrà a chiudersi con un suo breve monologo.

Ali di libellula come idee battenti, parole scelte con cura, relazioni che ti tengono in volo.

Connessioni, così veloci e leggere da sembrare invisibili. Ma consistenti, altrimenti ti schianteresti.

Perché Luisa Pronzato, 67 anni – giornalista fantastica, tra le migliori e i migliori che io abbia incontrato in 30 anni di Corriere della Sera – era la marchesa delle connessioni: univa i punti, univa le persone, armata solo del suo stupore autentico.

Fino a quell’ultimo sabato, sabato scorso che sembra mille anni fa, quando una collega le ha raccontato come – dopo averla conosciuta alla redazione online – avesse smesso di sognare il maschio Alfa e pensato per la prima volta a un compagno, un alleato, un sostegno.

«Vedi Luisa», l’aveva subito incalzata Maria Luisa Agnese, «che magnifica eterogenesi dei fini: ci volevi tutte zitelle ed ecco che hai fatto accasare una delle più brave»…

«Che bella chiacchierata», aveva commentato lei – sul naso gli occhiali aranciorosati per vederci bene fino in fondo – orgogliosa del suo potere alchemico.

Ragazza ligure, cronista, straordinaria intervistatrice (uno dei suoi direttori, Claudio Sabelli Fioretti, l’aveva rimproverata passando a salutarla: era il tuo talento, non avresti dovuto fare altro), attivista e femminista, Luisa Pronzato – incredibilmente, perché la verità è che non ci crediamo ancora – non è più in giro da qualche parte in via Solferino, nascosta dal suo zaino sproporzionato rispetto alla schiena magra sempre indolenzita, non manderà più mail alle quattro di notte, né messaggi whatsapp così carichi di refusi da ricordare la stele di Rosetta: da decifrare, lettera per lettera, fino – a volte – alla resa.

Raccontarla intera è impossibile, perché aveva fatto sua la lezione di Marguerite Yourcenar nelle conversazioni raccolte in «Ad occhi aperti»: attraversare tutti i mondi possibili senza farsi catturare.

Non chiusa e refrattaria. Al contrario: spalancata a tutto, a tutte e tutti, ma sempre indipendente, impossibile da addomesticare.

Inadatta a aderire a un’ideologia come a una sola compagnia. Sapeva far combaciare un lato di sé con ogni tratto del paesaggio umano che incontrava. Entrava, si intrufolava nei vicoli, metteva le sue tende colorate nel tuo cortile, seminava regali.

Arrabbiatissima quando si arrabbiava, ballerina di tarantella e twist nei momenti di allegria, instancabile entusiasta, intelligente e affamata di intelligenze.

E soprattutto: libera. Libera, libera, tre volte libera.

Potremmo raccontare la Luisa della @27ora, che undici anni fa abbiamo avviato con il

desiderio di rompere le righe, spalancare le finestre dei luoghi comuni e delle frasi fatte, generare una rete delle reti tra donne e donne, donne e uomini. Oppure quella delle otto edizioni del Tempo delle Donne, di cui era mente e motorino.

E tuttavia sarebbe sempre e solo una piccola parte, tutt’intorno c’è un bosco di storie con lei al centro, con lei al telaio a far fiorire contaminazioni.

Le colleghe e i colleghi storici di Sette, quelli dei tanti eventi del Corriere che passavano e ripassavano da lei quando arrivava il momento di andare in scena, quelli di Cuore, i compagni di banco alla Asl di Genova, i gruppi che ebbero la fortuna di averla come guida turistica.

E poi artisti e artiste, artigiani e artigiane, intellettuali (per fortuna qui posso usare un solo plurale, perché rassegnarsi all’unicità del maschile era da cartellino rosso con lei), scienziate e scienziati.

Per non lasciar fuori niente e nessuno, la sua casa digitale, @La27ora, è aperta a chi vuole raccontarla. Faremo quello che lei ha fatto per noi e per anni: caricheremo ogni ricordo che approderà all’indirizzo 27ora@corriere.it.

Succederà, speriamo, quello che è accaduto nelle ultime settimane dentro/fuori il recinto elastico della sua casa non virtuale, quella di famiglia ad Arenzano, dove si è radunata ogni giorno una piccola folla di amiche e amici in coda per Luisa.

Grati alla forza di Paola, sorella minore, libellula dallo stesso cognome.

E accolti da una tavola imbandita che avrebbe addolcito la condivisione del dolore. E dell’amore.

A proposito di @27ora, così si propose Luisa Pronzato quando aprimmo quello che era un blog e sarebbe diventato un Paese, il 9 marzo 2011.

«Alla mia età, molte fanno il lifting. Io mi sono gettata nell’online. Intrigata, soprattutto, da idee e creatività che ruotano attorno all’impalpabile byte. Urticata dalla Rete, resto una deficiente digitale, senza sensi di colpa per il gap con i trentenni ma propensa a indagare filosofie e aperture dello zero punto due. Credevo che noi ragazze (e soprattutto le nuove generazioni) ce l’avessimo fatta: diverse, certo, dagli uomini, ma diverse come qualsiasi individuo. E invece ho l’impressione che si sia tornate a essere “sesso debole”

Allergica ai moralismi, mi ritrovo a indignarmi perfino di una vetrina fatta da manichini con mutande e calzoni abbassati. Per fortuna mi indigno pure di altro. Sono, con orgoglio, lo stereotipo della zitella (lascio ad altre i doveri della single). Pasionaria, non rinuncio agli entusiasmi. Fotografo per esercitare occhio e mente e continuare a raccontare».

Il nostro racconto, il nostro viaggio insieme continua, non disperderemo le tracce, ma non sarà mai abbastanza.

«Sto sudando come una dannata… qui mi hanno dato pure il lirico. Lavoro vitale per domattina. Prendi bozzone inizio. Prendi listone titoli di lavoro. E cerchi ci capire se tra proposte colleghe e listone attuale c’è qualche cossesdione».


(27esimaora.it, 8 febbraio 2022)

di Arianna Di Genova


Non sono capaci di pensare in una misura tridimensionale, solo bidimensionale, quindi l’architettura non fa per loro. La sentenza senza possibilità di appello fu decretata da Walter Gropius mentre le studentesse, entusiaste, si iscrivevano al Bauhaus. Attratte in gran numero dalle tesi enunciate nel manifesto della scuola – tra cui la sostanziale parità di genere – oltre che dallo stile esistenziale comunitario in una condivisione di spazi anche quotidiani fra docenti e «operai/e», le ragazze del Bauhaus in realtà si scontrarono con un pregiudizio storico. Spesso, lo introiettarono loro stesse, rendendosi invisibili da sole, seguendo i propri compagni nelle attività, sposandosi – moltissime furono le unioni fra «interni» – e affossando in solitudine i loro progetti al presentarsi della mutazione di status sociale.

Dopo il biennio di base, quelle che decidevano di continuare venivano indirizzate verso materie ritenute a loro consone, come la tessitura, la ceramica, la legatoria, pochissime alla falegnameria, vietata l’architettura fino all’avvento del nuovo direttore svizzero Hannes Meyer che preferì aprire le porte dei laboratori a tutti indistintamente (Lotte Beese ne approfittò e, alla fine della seconda guerra mondiale, contribuì alla ricostruzione di Rotterdam).

Le eccezioni ci furono e, per la verità, quelle officine di destinazione femminile furono il vero fiore all’occhiello della scuola, sia nella rivoluzione dei linguaggi utilizzati che nel campo economico, assicurando con la vendita di oggetti e una produzione in serie di artigianato di altissima qualità la sussistenza del Bauhaus in periodi non proprio rosei. Eppure, le docenti erano pagate meno dei loro colleghi maschi e le studentesse dovevano far fronte a tasse più alte, oltre che ai servizi di mensa e di manutenzione ordinaria degli strumenti di lavoro. Molte poi non hanno lasciato tracce dietro di sé, altre sono state mal considerate da chi ha costruito la narrazione ufficiale della storia delle arti dopo di loro.

Non è un caso, infatti, che l’autrice di 494 – Bauhaus al femminile, Anty Pansera, lamenti fin dall’apertura del suo libro (edito da Nomos, pp. 302, euro 24,90) le difficoltà incontrate nell’attendere al suo compito titanico, quello di recuperare le miriadi di biografie perdute: scarse informazioni, lacune, scomparse, eclissamenti volontari, inghiottimenti di artiste nella sfera maschile famigliare. Un atto di volontà incrollabile quindi quello di Pansera, che ricerca dopo ricerca, archivio dopo archivio, l’ha condotta a rimettere insieme le frammentate notizie intorno a quei percorsi sempre in lotta fra il buio e la luce.

Su 1400 frequentanti e insegnanti – provenienti in gran parte dalla Germania o dall’est, ma non mancavano americane e pure italiane come l’avellinese Maria Grazia Rizzo, in classe con Kandinskij – le donne erano rappresentate da quel numero 494 che troviamo in copertina del volume (per la precisione, 475 studentesse, undici docenti, sei «donne intorno a Gropius», una manager, una fotografa). Loro, come un po’ tutti i partecipanti a quell’avventurosa esperienza didattica, che era anche costellate di mitiche feste organizzate fin dai costumi da Schlemmer, non erano ben viste: Weimar – prima sede del Bauhaus che poi si sposterà a Dessau e per una brevissima parentesi a Berlino, riuscendo a resistere agli attacchi nazisti per un anno – era una piccola e tranquilla cittadina, non abituata a stravaganze né al look sbarazzino che molte sfoggiavano, con capelli corti o a caschetto e giacche di pelle usate e ricontestualizzate della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca.

Soffermandosi sui nomi, gli episodi narrati e le biografie raccolte, le sorprese sono molte. Si va dalle ribellioni nei laboratori per apporre il proprio nome ai prototipi destinati alle aziende tessili (registrando pure i diritti dei modelli) alla storia della letteratura per l’infanzia. Margret Rey detta Grete (nata Margarete Elisabeth Waldstein), dopo aver lasciato la scuola e aver lavorato come pubblicitaria alla Crawford’s, girovagando tra Parigi e Rio de Janeiro con il marito – entrambi erano ebrei e in fuga dal nazismo – darà vita in coppia a Curious George, uno dei protagonisti nei racconti per bambini/e più conosciuti al mondo.

Margaretha Reichardt entrò al Bauhaus 19enne, frequentò l’officina di tessitura ma anche quella di falegnameria, oltre a corsi di Klee e Moholy Nagy. Disegnò meravigliosi giocattoli in legno che negli anni successivi furono scelti per una produzione industriale e realizzò un filo di cotone cerato di grande resistenza che verrà utilizzato su larga scala. Sarà lei poi la creatrice dello speciale tessuto per i rivestimenti degli arredi: la sua «tappezzeria» andrà a ricoprire la celebre sedia Wassily di Breuer.

Quando Annelise Else Frieda (conosciuta come Anni Albers, dal cognome del marito e docente) arrivò al Bauhaus, dovette riavvolgere il nastro del suo aristocratico stile di vita adattandolo a una realtà ben più umile. Lo farà comunque benissimo, diventando «la padrona del telaio», poi insegnando teoria del design e affiancando la leggendaria Gunta Stölzl nelle attività (non riuscì invece a entrare nel laboratorio di pittura su vetro di Albers che però, in seguito, sposerà). Sperimentava sui materiali e le stoffe, propendendo per tessuti che assorbissero luce e suoni. Approdata in America all’avvento di Hitler, divenne docente al Black Mountain College e anni dopo, nel 1949 il MOMA le dedicò una mostra monografica, cosa non scontata per una artista del ramo «tessile».

L’albero del Bauhaus femminile è pieno di ramificazioni e grondante di stupefacenti frutti. E nonostante l’ingombrante presenza di Gropius, va ricordato che fu proprio sua moglie – Ise Frank, la cui storia, in forma romanzata, è narrata nel libro di Jana Revedin per Neri Pozza – a diventare, con i suoi scritti e conferenze, la migliore promoter nel mondo di quella scuola d’avanguardia, invisa al potere.


(Alias-il manifesto, 5 febbraio 2022)

Così diviso il corpo di Paola d’Agnese, Samuele Editore, 2021. Paola d’Agnese “vede davanti e attorno a sé il mondo e decide di coinvolgersi, di entrarvi”, scrive Maurizio Cucchi nella prefazione al libro. I suoi versi ci accolgono così: Il salto e sei di là:/da terra a terra/da buio a destino. Non ho bussola né vele/ né l’occasione che vada/ in direzione opposta alla pena… Elena Petrassi dialoga con Maurizio Cucchi, poeta e critico letterario e con Valeria Manzi poeta e artista visiva.  A cura di Francesca Pasini.

Accesso con Super Green Pass, documento d’identità e mascherina

Per prenotazione:  https://www.libreriadelledonne.it/prenota-un-evento-a-calendario/

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Grazie alla forza del movimento delle donne di tutta Italia


Questa mattina, negli uffici del Comune di Milano, ci è stato comunicato il punteggio con cui la Casa delle Donne di Milano si è aggiudicata il bando per restare nello spazio di via Marsala che è la nostra sede dal 2014. Il contratto sarà in “comodato d’uso” per sei anni.

Abbiamo vinto insieme ad altre quattro Associazioni che costituiranno con noi un’Associazione Temporanea di Scopo (ATS). Si tratta della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate (Cadmi) e della onlus Cerchi d’Acqua – da decenni impegnate contro la violenza sulle donne -, dello storico consultorio privato laico Ced (Centro di Educazione Demografica) e dalla Casa delle Artiste.

Il successo di oggi è stato possibile grazie a più di due anni di mobilitazione, in cui abbiamo avuto la solidarietà delle reti, dei movimenti e delle Case delle Donne di tutta Italia.

La svolta decisiva è stata alla fine di dicembre 2020, quando la lotta intorno alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, sostenuta da un gruppo trasversale di deputate, ha fatto inserire nella Legge di Bilancio un articolo che prevede che le Amministrazioni locali concedano immobili pubblici in comodato d’uso gratuito alle associazioni impegnate “nella promozione della libertà femminile” che gestiscono “luoghi fisici di incontro, relazione e libera costruzione della cittadinanza, fruibili per tutte le donne” (allegato alla Legge di Bilancio 178/20).

La norma è stata finalmente recepita dal Comune di Milano e inserita nel testo del bando cui abbiamo partecipato nell’agosto 2021.

Da oggi, con rinnovata energia, promuoveremo la prossima stagione di progetti per tutte le donne, di Milano e non solo.


(www.casadonnemilano.it, 4 febbraio 2022)


di Luciana Castellina


Non avrei potuto incontrare un’attrice così anomala come Monica Vitti che in un luogo assolutamente anomalo come la redazione del settimanale della Federazione giovanile comunista che ho poi diretto per molto tempo. Dovevano essere gli anni ’50, circa la metà, e Monica non era ancora diventata Monica Vitti. Cioè no, ho detto una stupidaggine: era già Monica Vitti, perché lo era già prima e poi lo è restata sempre. Volevo solo dire che non era ancora un’attrice famosa, era appena uscita dall’Accademia di arte drammatica, ma lei non era certo una donna che sarebbe cambiata solo perché famosa, anzi famosissima.

Quello che voleva era non essere una diva. Essere un’attrice è cosa diversa. Aveva già allora, e poi lo ha conservato sempre, un carattere forte e deciso che non si è fatto turbare dall’esser passata da tante esperienze diverse: da protagonista di Shakespeare a teatro, a star della commedia all’italiana, a protagonista di qualcosa che non so nemmeno se posso chiamare soltanto cinema.

Mi sembra riduttivo, perché i film girati con Antonioni – quelli chiamati dell’«incomunicabilità» (L’AvventuraLa notteL’eclissi), ma poi anche Deserto rosso, sono parecchio di più di una pellicola cinematografica che, per straordinaria che sia, raramente riesce ad essere portatrice di una diversa percezione della vita e idea del mondo. Merito di Michelangelo Antonioni, certo, ma non riesco nemmeno ad immaginare chi altro se non Monica avrebbe potuto interpretare quei film.

Tanto è vero che quando Antonioni è morto e sua moglie Enrica mi chiese di scrivere su di lui qualche cosa in un libro collettivo che aveva curato, io scrissi che i suoi film mi avevano insegnato ad essere comunista in modo diverso e migliore, meno rozzo, più attento a una dimensione della persona senza la quale non si capisce nemmeno come è fatta per davvero l’umanità, cioè il mondo che si vuole cambiare. Furono chiamate, quelle narrazioni cinematografiche, anche «i film dell’alienazione», e forse questa definizione spiega meglio come e perché avevano potuto colpire così in fondo una come me, e tanti altri un po’ schematici militanti.

Ancora adesso, passati tanti anni, ricordo con precisione le immagini inusuali dell’Avventura, gli altrettanto inusuali scenari di un’isola come Panarea, allora un altro mondo, sconosciuto agli italiani: ci si arrivava con un traghetto che passava ogni venti giorni e i suoi abitanti erano quasi tutti emigrati in Australia. E così la struggente disperazione intima che si respira nei fumosi scenari ravennati dove venivano costruiti i primi monumenti petroliferi di quella antica modernità. Ecco, anche questo c’era in quei film che Monica ha saputo rendere in modo straordinario: la miseria di un progresso che non coincide con quello umano. Forse volevo dire anche questo quando ho scritto che mi hanno fatto diventare una comunista migliore.

A portarmela in redazione quella prima volta, quando la conobbi, fu Mara Chiaretti, poi diventata, prima di una triste prematura scomparsa, valida regista di documentari. A quel tempo era prestigiosa critica d’arte del mio settimanale, e poiché di Monica Vitti sono sempre rimasta incantata, le sono restata grata per avermela fatta conoscere. Perché è vero che quelli sono gli anni in cui l’immagine dell’attrice cinematografica cambia, non ci sono più «le attricette», ma in tante diventano persone, soggetti. E però Monica resta fra tutte «speciale».

Non era poi così anomala la sua visita in una sede della Fgci, ma questo l’ho scoperto dopo, via via. Quando morì Berlinguer la trovai a fare il picchetto alla bara a via delle Botteghe Oscure, ma anche prima e dopo in occasioni politiche della sinistra. Oggi poi ho letto che a dare la notizia della sua scomparsa è stato, per conto di suo marito, Walter Veltroni.


(il manifesto, 3 febbraio 2022)


di redazione


Conclusa giovedì scorso la 33esima edizione del Trieste Film Festival, Întergalde di Radu Montean ha trionfato come miglior film. Tra i premiati anche Luciana Castellina, presente via zoom con un discorso su Trieste e l’importanza dell’est europeo di cui il festival – nato per iniziativa di Annamaria Percavassi nel 1988, in origine si chiamava Alpe Adria Cinema – si è occupato sin dagli inizi. A Luciana è stato assegnato il Premio Cinema Warrior 2022 «che riconosce – si legge nella motivazione – l’ostinazione, il sacrificio e la follia di quei “guerrieri” – siano essi singoli, associazioni o festival – che lavorano e combattono dietro le quinte per il cinema. Luciana Castellina ha sostenuto e promosso per anni e con grande forza la visibilità del cinema italiano nel contesto internazionale e in particolare quello europeo, anche attraverso la riflessione attenta e puntuale sul mercato continentale».


(il manifesto, 29 gennaio 2022)