di Ida Dominijanni


All’alba del nono giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare Zaporižžja rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in Ucraina. E il peggio deve ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese. Le regioni russe dell’est e del sud con gli accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa. L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso nell’inconscio. Dev’essere per questo che tutti definiscono questa in Ucraina “la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. Forse che la Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico? Lì, dove secondo gli stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si sta consumando.

Hanno suscitato indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata lui, in Ucraina. Ne consiglierei tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete), ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade senza essere tacciati di connivenza con il nemico. Liquidati dai più come una litania del risentimento, o come il delirio paranoico da sindrome di accerchiamento di un uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del campo dei vincitori della Guerra fredda. Ma al di là di questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo ineludibile del discorso politico. Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato. E che invece risponde all’aggressione di Putin usando – mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale – solo il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio – perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi – del passato che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.

Sia chiaro: lo sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin. L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato qualcosa da George W. Bush). Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il mondo sull’orlo del precipizio. Ma pare assai improbabile che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.

La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa. Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia agghiacciante fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89. Dovrebbe risuonare come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la gigantesca menzogna sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che giustificò la “guerra preventiva” in Iraq. Soprattutto, dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello ucraino. E invece è proprio nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza – un film, anche questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.

La seconda linea di riflessione autocritica riguarda lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea. Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi resteranno in campo. Ma nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia. Le élite democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”. E se nella politica interna americana questo frame è servito a sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il ventennio della war on terror successivo all’11 settembre. Ma dopo Trump, gli americani non possono non sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse. E noi europei non possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est, parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest, e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente. Anche da questa parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una bandiera senza macchia e senza peccato.

Questo nodo lega il trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea e della sua collocazione nello scacchiere globale. Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie orientali, chiamando la Ue a posizionarsi nettamente contro di esse. Già allora le voci più consapevoli spinsero infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina. Complice la fine del cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega. E oggi è più che inquietante il coro mainstream di soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.

Se si rafforza in questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino. Se in Ucraina non cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si faranno durissimi per la specie umana. Se le democrazie si compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo. Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.


(centroriformastato.it, 4 marzo 2022)

di Emanuela Grigliè


Le città non sono neutre, anzi. Vengono plasmate per i bisogni di un cittadino tipo che però coincide quasi sempre con il maschio bianco eterosessuale di una certa età. Con la conseguenza che le necessità delle donne non vengono quasi mai prese in considerazione. Per esempio i bagni pubblici: pochini, ecco perché spesso le ragazzine una volta che hanno il ciclo smettono di frequentare i parchi. Anche lasciare le aree gioco senza strutture penalizza le bambine: i maschi tendono a essere più invadenti e trasformare ogni prato in un campo da calcio, spingendole ai margini. I mezzi di trasporto non sempre sono pensati per chi si trascina in giro un passeggino, a cominciare dagli “individualisti” monopattini e bike sharing. Marciapiedi sconnessi, strade poco illuminate, porte di uffici pubblici che pesano tonnellate.

La non considerazione delle donne nella pianificazione degli spazi urbani non è casuale, ma ripropone una struttura della società che si fonda sulla reclusione del femminile nell’ambiente domestico. E non tiene conto del fatto che le donne svolgono il 75% del lavoro non pagato di caregiving, assistendo bambini e genitori anziani con il risultato che il loro modo di navigare le città è molto differente – e molto meno lineare – di quello maschile. I loro viaggi sono a zig-zag, con tante tappe intermedie. Senza dimenticare che le donne in media guadagnano meno degli uomini e quindi per loro spostarsi con mezzi privati può essere proibitivo.

Ma progettare in modo più inclusivo si potrebbe, l’antidoto si chiama urbanistica di genere. «Ovvero includere la prospettiva femminile all’interno della progettazione. Non tanto per costruire città solo a misura di donna, ma inclusive per tutte e tutti», spiega Azzurra Muzzonigro, architetta, che insieme a Florencia Andreola, dottora di ricerca in Storia dell’architettura all’Università di Bologna, è autrice di Milano Atlante di Genere commissionato da Milano Urban Center (Comune di Milano e Triennale Milano), esito di due anni di osservazione della città di Milano da una prospettiva di genere.

La loro associazione si chiama «Sex and The City» e ha lo scopo di promuovere, attraverso una mappatura critica della città, contesti urbani sensibili più alle differenze che alle standardizzazioni. «Milano se la cava meglio del resto del Paese» dice Muzzonigro, «del resto qui il 50% delle donne lavora e questo significa che lo stereotipo “donna casalinga-uomo in ufficio” è meno applicato. Anche, perché, diciamolo, oggi Milano è economicamente inaccessibile a famiglie con meno di due stipendi. Emerge così una buona distribuzione di tutta una serie di servizi che sono anche abbastanza capillari, anche se dipendono in gran parte dal terzo settore e quindi tendenzialmente volatili. Ottimi esempi sono la rete antiviolenza, gestita dal comune mettendo insieme tanti soggetti diversi tra loro. Un modello decisamente da esportare». Sul fronte trasporti, dalla ricerca emerge che a Milano il 76% delle stazioni della metro ha l’ascensore. Male invece per quel che riguarda i consultori, che stanno sparendo e sono molti meno di quelli previsti per legge, così come gli asili pubblici dove i posti disponibili scarseggiano. Mentre il 50% delle donne intervistate ha dichiarato di sentirsi in pericolo di notte per le strade. Insomma, progressi da fare ce ne sono ancora parecchi.

E l’occhio è rivolto all’esempio delle città europee più virtuose in questo senso: Barcellona, Parigi e Berlino. Ma soprattutto Vienna, incoronata più volte la città più vivibile del mondo grazie anche al

progetto iniziato trent’anni fa per sviluppare quella che sulle rive del Danubio chiamano Fair Shared City, a misura di tutti, dove addirittura dal 1992 esiste l’Ufficio per le Donne, dedicato alla parità di genere e all’empowerment. Il primo progetto coordinato da questo dipartimento fu la Frauen-Werk-Stadt, un blocco di 360 appartamenti di nuova concezione, disegnati da Franziska Ullmann, Elsa

Prochazka, Gisela Podreka e Lieselotte Peretti, quattro architette selezionate attraverso un concorso riservato a sole donne. Motore dell’impresa la volontà di facilitare al massimo la vita quotidiana

delle donne con soluzioni abitative che si adattano alle varie fasi della vita di una famiglia, oltre a servizi e spazi comuni per agevolare la socialità e gli spostamenti a piedi.

C’è anche però chi obbietta che un approccio gender-specific possa consolidare in certi casi le già enormi differenze di genere, identificando la cura domestica come un lavoro da donne. Purtroppo l’architettura da sola non può certo cambiare tutto e portare a una più equa distribuzione dei compiti all’interno della famiglia, ma può sostenere chi se ne occupa rendendolo un po’ meno complicato.


(La Stampa, 4 marzo 2022)

di Laura Colombo


Il sito della Libreria delle donne ha ripreso, pubblicandolo, l’articolo di Barbara Spinelli di sabato 26 febbraio 2022, nel quale la giornalista fa un’analisi delle gravi responsabilità e degli errori dell’Occidente rispetto a quanto sta accadendo in questi giorni in Ucraina, ovvero la guerra di invasione e aggressione russa ai danni di uno Stato sovrano.

È sempre buona cosa guardare indietro e analizzare la storia e la propaganda, per orientarsi in una realtà complessa e poter avere una visione più ampia. La verità non ha un colore e i confini non sono mai netti: la Nato è un’alleanza militare che, dalla caduta dell’URSS, si è spinta sempre più a Est e l’Occidente non ha arginato a sufficienza questo movimento.

E però. Sento dentro una stonatura profonda, un malessere, un senso di repulsione verso queste analisi, perché escludono l’imprescindibile della guerra: morte, sofferenza, distruzione ai danni di donne, uomini, bambini e bambine. Provo rabbia perché questa parte è tralasciata, elusa, evitata. Non intendo debba essere presente come premessa “doverosa”, che la renderebbe inessenziale. Al contrario, ritengo debba essere la posizione da cui partire per fare analisi di respiro più ampio, ancor più in questo momento di guerra guerreggiata. Rabbia e avversione arrivano quando si leggono parole vuote di realtà, lontane da quello che sta accadendo nel presente a migliaia di persone in carne ed ossa, costrette a scappare dal proprio Paese, a nascondersi in rifugi gelidi e senz’acqua, persone che stanno morendo sotto le bombe lanciate da un tale (un dittatore, come lo chiamano le Pussy Riot) che porta il nome di Vladimir Putin.

Scelgo di dare spazio a questa incrinatura e di stare dalla parte dei civili, delle persone, dalla parte dei più deboli che per lo più sono donne, massacrate dalla violenza di altri uomini. È la stessa dalla quale stanno anche molti russi e bielorussi che manifestano nonostante la dura repressione, è quella di Davide contro Golia.

La fine della guerra chiedono le piazze delle manifestazioni pacifiste, come, mi domando io? Le sanzioni possono incidere, ce lo racconta Anna Zafesova dalle colonne della Stampa (I musi lunghi degli oligarchi rivelano le crepe nel regime, 1/3/2022). Anche il lavoro di diplomazia dell’Europa è stato importante, e ora lo è di più. Vale la pena rileggere un articolo di Romano Prodi del lontano 2014, L’Ucraina si protegge se resta autonoma (il Messaggero, 19/10/2014) che delinea una possibile via d’uscita nella neutralità dell’Ucraina, “mettendo da parte ogni idea di renderla membro della Nato”. In questi anni Angela Merkel ha negoziato con Putin ed è forse la leader occidentale che ha più conoscenza e autorità per condurre una trattativa che scongiuri il peggio.


(libreriadelledonne.it, 4/3/2022)

di Paola Mammani


Ho provato un grande disagio nell’ascoltare le dichiarazioni di quasi tutti i politici nostrani, sull’aggressione di Putin all’Ucraina. Sgomenti, accorati, come se non avessero nessuna parte nella vicenda. Eppure Sergio Romano, ex-ambasciatore presso la Nato e l’Unione Sovietica, da tempo addita le gravi responsabilità dell’Europa nel non contenere l’aggressione più o meno esplicita che l’ampliamento dell’Alleanza atlantica a tanti paesi dell’est europeo, ha rappresentato per la Russia. Lo dice da anni dalle pagine del Corriere*.  Negli ultimi giorni lo ha ripetuto su altri quotidiani,** il Corriere essendo più impegnato con le solite firme da prima pagina a stigmatizzare il comportamento di Putin e soprattutto, a me pare, a definire amici di Putin tutti coloro che si azzardano a dare credito a quelle riflessioni. Che sono state ripetute sabato scorso, 26 febbraio, sulle colonne de il Fatto Quotidiano, da Barbara Spinelli che ha indicato i punti essenziali della politica aggressiva ed imprevidente degli USA e degli stati europei, incapaci di trattare degnamente con la Russia e con Putin. Con questo dolendosi anche delle proprie posizioni assunte ai tempi della guerra nel Kosovo. E invece loro, no! Nessuno ha da rammaricarsi, da ravvedersi di alcunché. Quasi tutti indignati, a ripetere quanto sono bravi e buoni a condannare l’aggressore e ad essere al fianco degli aggrediti, ora anche con le armi, esplicitamente e alla luce del sole, con l’Europa intera. Ma loro erano lì, a ricoprire le più alte cariche nelle istituzioni europee, a presenziare nei governi e nel Parlamento nazionale per impedire tutto questo. Per trattare degnamente e proficuamente con il più grande stato confinante con l’Unione europea, cui tanti e profondi interessi ci legano. Erano là, sui quotidiani, con il potere della penna, per renderci avveduti del pericolo e per indicare rimedi in tempo utile e pretenderne l’attuazione.

Non ho nulla in contrario, in via di principio, a che le analisi di Romano e Spinelli, vengano discusse o anche smentite, ma mi piacerebbe sentire l’aspirazione a concepire una politica estera altra. Invece continuo a leggere le solite firme, di inguaribili ammalati di anticomunismo, di studiosi di storia per molti versi miti e cortesi, e di altri, variamente competenti, tutti dediti all’intemerata, perfino al dileggio fino alla ridicolizzazione di quanti cedono alla tentazione di cercare ragioni, spiegazioni, alle scelte di Putin. Tentare di individuare torti o responsabilità, Dio non voglia, nei comportamenti dell’Occidente, della UE, degli Usa o della Nato, sembra essere solo cialtronaggine o malafede. Come se non fosse sempre questa, l’unica sensata via d’uscita dalle difficoltà più gravi: guardare a quello che si può e si deve correggere, dal luogo in cui si è. Per dirla con le parole di Barbara Spinelli – Ammettere i nostri errori sarebbe un contributo non irrilevante alla pace che diciamo di volere -. O con quelle del premio nobel Giorgio Parisi che, ripercorrendo i rapporti est/ovest per la regolazione degli esperimenti nucleari, con evidente riferimento all’oggi, afferma– …se non si fa uno sforzo sincero per capire le ragioni dell’altro, è molto difficile arrivare ad un accordo che poi sia rispettato da tutte le parti… -.***

E invece i loro scritti sono zeppi di espressioni come “Zar folle”, “autocrate sempre più isolato e fuori controllo”, in una lunga giaculatoria di autoassoluzioni. Leggo con attenzione e tristezza le loro argomentazioni che hanno sempre il sapore di contro-argomentazioni – alla lettera, contro qualcuno, come per un regolamento di conti – e non riesco a liberarmi da una parola che mi assedia: guerrafondai. Un’esagerazione? Non mi pare, perché se con il pensiero e la penna non si cerca di trovare le ragioni e i motivi fondati che hanno innescato l’aggressione, sarà difficile individuarne una via d’uscita durevole.


* Russia e sanzioni, se la Nato diventa un ostacolo per l’Europa – di Sergio Romano
** Intervista a Sergio Romano: “L’Ucraina sia neutrale come la Svizzera”


(www.libreriadelledonne.it, 2 marzo 2022)

Madre Natura. La Dea, i conflitti e le epidemie nel mondo greco di  Vittoria Longonied.enciclopediadelledonne.it, 2021. La sapienza arcaica e la manifestazione della libertà femminile possono congiungere ciò che i muri separano. È un’altra forma di forza che si oppone alla legge distruttiva dei rapporti di forza. Vittoria Longoni, grecista e latinista, ci accompagna in una rilettura dei miti ancestrali e ci fa scoprire la perenne attualità del rapporto con la natura vivente. Laura Minguzzi conduce il dialogo con l’autrice.

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di Mattia Ferraresi


Vladimir Putin è felice di vederci diventare un po’ come lui. Autoritari, paranoici, allergici al dissenso, impermeabili ai pensieri complessi, incapaci di fare distinzioni che fino a qualche giorno fa sembravano elementari. Ad esempio quella fra arte e politica, oppure fra popolo e governo, dove il primo non è mai del tutto responsabile delle azioni del secondo, specialmente quando il governo impone la sua legittimità con la repressione violenta e altri metodi coercitivi. Capita talvolta che la prima vittima di un governo sia il suo stesso popolo. Perse queste distinzioni, vale un po’ tutto. Anche annullare le lezioni di Paolo Novi su Dostoevskij, come ha fatto il prorettore alla didattica, in accordo con la rettrice dell’università Bicocca, con una motivazione da scudo e spada della pavidità: “Lo scopo è evitare qualsiasi forma di polemica, soprattutto interna, in questo momento di forte tensione”. Su quel “soprattutto interna” si potrebbe molto lambiccare, deducendo tutto il potere di ricatto del personale amministrativo che sta già strangolando da decenni le università americane, ma non importa, perché la rettrice, Giovanna Iannantuoni, poi ha cambiato idea, spiegando che è stato tutto un malinteso. Ha invitato Nori per un incontro chiarificatore e ha detto che il corso si farà, una riparazione goffa che ricorda un po’ gli articoli che il Cremlino in queste settimane ha “per sbaglio” disseminato in giro sul trionfo immediato nella guerra-lampo in Ucraina, che sono stati subito cancellati ma rimanendo impressi negli archivi digitali. Il caso di Nori ha fatto scalpore anche perché Dostoevskij è stato condannato a morte per essersi opposto al potere del suo tempo, quindi anche alcuni schivatori professionali della polemica soprattutto interna sono stati costretti a un ripensamento (non tutti, se è vero che qualcuno ha chiesto al sindaco di Firenze di abbattere la statua del romanziere nella città). Ma ormai la capacità di fare distinzioni sensate era stata già compromessa dalla foga di ripulire qualsiasi cosa dalle influenze russe, un impeto sanzionatorio che ha colpito fotografi a cui hanno cancellato le mostre, musicisti licenziati o tenuti lontano dai palchi, il padiglione russo della Biennale che rimarrà chiuso e altre sanzioni morali che fanno male agli studenti, agli amanti delle arti, alle coscienze, alla libertà, alla ragione, allo spirito critico e a tutto quello che un tempo si chiamava occidente ma non a Putin. La cacciata indiscriminata di tutti i testimoni russi, non importa se dissenzienti o no rispetto all’invasione, oppure morti qualche secolo fa, è il più putiniano degli esiti, piace a chi vive di sindromi di accerchiamento e taglia con l’accetta il confine tra “noi” e “loro”. Piace a chi crede che il governo e il popolo coincidano perfettamente, che la società civile non sia capace di esprimere pensieri propri indipendenti, che le persone dirigano un’orchestra o dipingano un quadro su mandato politico. Eravamo largamente capaci fino a pochi giorni fa di esercitare questa capacità di dare giudizi distinti e contemplare faccende complesse, evitando l’indebita equazione russo uguale fiancheggiatore, ma Putin evidentemente sta invadendo anche la ragione, offuscando negli avversari proprio quei criteri che fanno dire che lui è un autocrate barbaro e senza scrupoli, ma non per questo lo sono anche il popolo russo o i suoi artisti e scrittori. Putin sarà certamente lieto di aver contribuito a restringere il perimetro della ragione dei suoi avversari.


(Censura degli artisti russi. Putin è felice di vederci diventare un po’ come lui, Domani, 3 marzo 2022)

di Mariangela Mianiti


Conosco Galina da circa vent’anni. È talmente femminile e a proprio agio in questa sua natura profonda che la chiamo, scherzando, la Marilyn Monroe dei paesi dell’est. Laureata in ingegneria, nata a Mariupol’ da padre russo e madre ucraina, trasferitasi in Svizzera nel 1999, Galina ha mantenuto legami fortissimi con l’Ucraina e la Russia. Sia di qua che di là ha parenti e amici che sente quasi ogni giorno, quindi sa che cosa prova e vorrebbe la gente, sia di qua che di là. «Hanno paura, hanno paura di stare male, hanno paura della guerra, hanno paura di vedere i figli, i padri e i fratelli combattere, hanno paura di mandarli a morire. Nessuno, né in Russia né in Ucraina, vuole questa guerra. Siamo tutti una famiglia, eravamo tutti sovietici». 
Galina ha 55 anni, quindi è cresciuta e ha studiato nell’Urss, ha iniziato a lavorare quando l’Ucraina è diventata indipendente. «Quando c’era l’Urss, all’università gli studenti bravi prendevano uno stipendio, e quando ti laureavi non dovevi ridare nulla allo stato. Le paghe erano basse, ma tutto costava poco, la sanità era gratis e avevi delle sicurezze. Poi, dopo l’indipendenza gli stipendi di insegnanti e laureati sono scesi così tanto che siamo diventati tutti piccoli imprenditori, chi si inventava commerciante, chi vendeva case, chi produceva abiti, o vendeva auto. A volte andava bene, a volte andava male». La trasformazione non è stata solo economica.

«Con l’unione sovietica ci sentivamo una stessa famiglia. Non importava se venivi da Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Crimea, Uzbekistan, Azerbaigian non mi sono mai sentita superiore o diversa da chi veniva da un’altra regione. A scuola tutti studiavano il russo e la lingua della repubblica in cui si viveva. Non è vero che la lingua ucraina non è mai stata accettata, non è vero che gli ucraini sono stati sfruttati. Finché c’è stata l’unione Sovietica eravamo tutti uguali, le differenze erano rispettate. Se andavi a Mosca con il costume tipico della tua regione facevano festa, erano contenti di accoglierti». E adesso? «Adesso, le mie amiche in Ucraina sono arrabbiatissime con i russi, ma i russi dicono “Noi non c’entriamo nulla. Noi non vogliamo questa guerra”. Le divisioni sono cominciate con la rivoluzione arancione, nel 2014, e sono arrivate dentro le famiglie, fra gli amici, perché lì è tutto intrecciato, siamo tutti mischiati, tutti hanno parenti di qua e di là. A un certo punto le persone non si capivano più, e si sono rotte tante relazioni.

Ma c’è un’altra cosa di cui la gente in Ucraina adesso ha paura. Hanno dato le armi ai civili. Ma come le useranno? Che cosa faranno se mancano il cibo e l’acqua? 
Come si comporteranno con le case abbandonate da chi è fuggito? Siamo sicuri che tutti saranno leali?». Sul potere, e il modo in cui è esercitato, Galina ha le idee chiare. «Io non voglio prendere la parte di Zelensky o di Putin, anche perché adesso vivo lontano, e quando vivi lontano è facile parlare, e fare tanti bla, bla. Però di una cosa sono sicura, quando si arriva a questo punto vuol dire che tutti e due hanno sbagliato qualcosa. A me non importa il colore della bandiera che hai sulla testa, mi importa la vita, la vita conta molto di più di una bandiera. Il mio compagno mi dice “Ah ma allora non sei patriottica”. Se essere patriottica vuol dire prendere in mano un fucile e ammazzare qualcuno, allora dico No, io non voglio questa patria, questa per me non è patria. Le vittime in questa guerra sono due, da una parte gli ucraini, dall’altra i russi che devono andare a combattere contro amici e parenti».


(il manifesto, 1° marzo 2022)

di Barbara Spinelli


Perfino l’11 settembre aveva una sua genealogia, sia pure confusa, ma lo stesso non si può certo dire dell’aggressione russa e dell’assedio di Kiev. Qui le motivazioni dell’aggressore, anche se smisurate, sono non solo ben ricostruibili ma da tempo potevano esser previste e anche sventate. Le ha comunque previste Pechino, che ieri sembra aver caldeggiato una trattativa Putin-Zelensky, ben sapendo che l’esito sarà la neutralità ucraina chiesta per decenni da Mosca. Il disastro poteva forse essere evitato, se Stati Uniti e Unione europea non avessero dato costantemente prova di cecità, sordità, e di una immensa incapacità di autocritica e di memoria. È dall’11 febbraio 2007 che oltre i confini sempre più agguerriti dell’est Europa l’incendio era annunciato. Quel giorno Putin intervenne alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e invitò gli occidentali a costruire un ordine mondiale più equo, sostituendo quello vigente ai tempi dell’Urss, del Patto di Varsavia e della Guerra fredda. L’allargamento a Est della Nato era divenuto il punto dolente per il Cremlino e lo era tanto più dopo la guerra in Jugoslavia: “Penso sia chiaro – così Putin – che l’espansione della Nato non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’alleanza o con la garanzia di sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia. E noi abbiamo diritto di chiedere: contro chi è intesa quest’espansione? E cos’è successo alle assicurazioni dei nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno nemmeno le ricorda. Ma io voglio permettermi di ricordare a questo pubblico quello che fu detto. Gradirei citare il discorso del Segretario generale Nato, signor Wörner, a Bruxelles il 17 maggio 1990. Allora lui diceva: ‘Il fatto che noi siamo pronti a non schierare un esercito della Nato fuori dal territorio tedesco offre all’Urss una stabile garanzia di sicurezza’. Dove sono queste garanzie?”. Per capire meglio la sciagura ucraina, proviamo dunque a elencare alcuni punti difficilmente oppugnabili.

Primo: né Washington né la Nato né l’Europa sono minimamente intenzionate a rispondere alla guerra di Mosca con una guerra simmetrica. Biden lo ha detto sin da dicembre, poche settimane dopo lo schieramento di truppe russe ai confini ucraini. Ora minaccia solo sanzioni, che già sono state impiegate e sono state un falso deterrente (“Quasi mai le sanzioni sono sufficienti”, secondo Prodi). D’altronde su di esse ci sono dissensi nella Nato. Alcuni Paesi dipendenti dal gas russo (fra il 40 e il 45%), come Germania e Italia, celano a malapena dubbi e paure. Non c’è accordo sul blocco delle transazioni finanziarie tramite Swift. Chi auspica sanzioni “più dure” non sa bene quel che dice. Chi ripete un po’ disperatamente che l’invasione è “inaccettabile” di fatto l’ha già accettata.

Secondo punto: l’occidente aveva i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca. Nel ’91 Bush sr. era addirittura contrario all’indipendenza ucraina. L’impegno occidentale non fu scritto, ma i documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security Archive) confermano che i leader occidentali– da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a Manfred Wörner Segretario generale Nato – furono espliciti con Gorbaciov, nel 1990: l’alleanza non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice” (assicurò il Segretario di Stato Baker). Nel ’93 Clinton promise a Eltsin una “Partnership per la Pace” al posto dell’espansione Nato: altra parola data e non mantenuta.

Terzo punto: la promessa finì in un cassetto, e senza batter ciglio Clinton e Obama avviarono gli allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici ai confini con la Russia (a quel tempo la Russia era in ginocchio economicamente e militarmente, ma possedeva pur sempre l’atomica). Nel vertice Nato del 2008 a Bucarest, gli Alleati dichiararono che Georgia e Ucraina sarebbero in futuro entrate nella Nato. Non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di “impero della menzogna”. Se ricorda che le amministrazioni Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio vicinato (Cuba).

Quarto punto: sia gli Usa che gli europei sono stati del tutto incapaci di costruire un ordine internazionale diverso dal precedente, specie da quando alle superpotenze s’è aggiunta la Cina e si è acutizzata la questione Taiwan. Preconizzavano politiche multilaterali, ma disdegnavano l’essenziale, cioè un nuovo ordine multipolare. Il dopo Guerra fredda fu vissuto come una vittoria Usa e non come una comune vittoria dell’ovest e dell’est. La Storia era finita, il mondo era diventato capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui.

Il quinto punto concerne l’obbligo di rispetto dei confini internazionali, fondamentale nel secondo dopoguerra. Ma Putin non è stato il primo a violarlo. L’intervento Nato in favore degli albanesi del Kosovo lo violò per primo nel ’99 (chi scrive approvò con poca lungimiranza l’intervento). Il ritiro dall’Afghanistan ha messo fine alla hybris e la nemesi era presagibile. Eravamo noi a dover neutralizzare l’Ucraina, e ancora potremmo farlo. Noi a dover mettere in guardia contro la presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare). Noi a dover vietare alla Lettonia – Paese membro dell’UE – il maltrattamento delle minoranze russe. Non abbiamo difeso e non difendiamo i diritti, come pretendiamo? Nel 2014, facilitando un putsch anti-russo e pro-usa a Kiev, abbiamo fantasticato una rivoluzione solo per metà democratica. Riarmando il fronte Est dell’ue foraggiamo le industrie degli armamenti ed evitiamo alla Nato la morte celebrale che alcuni hanno giustamente diagnosticato. Ammettere i nostri errori sarebbe un contributo non irrilevante alla pace che diciamo di volere.


(il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2022)

di Guido Caldiron


L’intervista Parla la giornalista e filmmaker autrice di inchieste e documentari sul sistema di potere dell’«impero Putin» come «Au coeur du pouvoir russe» (La Découverte). «Le proteste cresceranno. Per un moscovita bombardare l’Ucraina è come immaginare la guerra alla periferia della sua città». I legami tra russi e ucraini sono fortissimi e profondi, spesso anche famigliari, e questo pesa molto sul giudizio negativo su quanto accade


Giornalista e filmmaker russa, Tania Rakhmanova ha indagato la memoria e l’attualità del suo paese attraverso documentari e inchieste, da La revanche des Romanov (1998) a Au coeur du pouvoir russe (2014) fino a Europe in Chaos (2019), per non citare che alcune delle sue numerose opere.

Come sta vivendo queste giornate, l’invasione dell’Ucraina e le proteste che si svolgono in Russia contro Putin? 
Anche se abito a Parigi, mi reco spesso a Mosca e sono in contatto costante con famigliari, amici e colleghi che abitano lì. Posso dire che le manifestazioni contro la guerra che si stanno svolgendo in questo momento hanno davvero una grande importanza, come l’intera mobilitazione che cresce attraverso i social che sono lo strumento principale dove si sviluppano dibattiti e confronti in seno alla società russa. Pur trattandosi di proteste auto- organizzate, il numero delle persone che stanno scendendo in piazza continua a crescere malgrado gli arresti e la paura, perché si deve tener presente che finire nelle mani della polizia può rivelarsi davvero molto pericoloso in Russia. Ma sono sicura che l’opposizione alle scelte di Putin crescerà ancora.

Più in generale, come è percepita questa guerra dai russi?

Come mi ha fatto osservare un amico moscovita: «Per noi sentire che stanno bombardando l’Ucraina è un po’ come sapere che bombardano la periferia di Mosca». Si tratta di un paese indipendente, ma i legami tra russi e ucraini sono fortissimi e profondi, spesso anche famigliari, e questo pesa molto sul giudizio negativo che in tanti esprimono su questa invasione. È sempre difficile dire cosa pensano i miei concittadini, ma credo si possa affermare che almeno la metà della popolazione è contraria. L’istituto ufficiale di sondaggi ha detto che il 75% dei russi sta con Putin, ma sapete come funziona la cosa: squilla il telefono e vi chiedono se sostenete o meno la politica del presidente. E in un contesto dominato dalla paura non credo che in molti si sentano liberi di dire ciò che pensano.

Nelle sue inchieste ha spiegato come i media russi siano controllati dal potere: come stanno raccontando questa guerra? 
I media in Russia significano principalmente la televisione. E su questo fronte la situazione è catastrofica. Nelle foto di Putin che circolano in questi giorni, più d’una lo mostra seduto ad un tavolo accanto ad un telefono dell’epoca di Breznev e, invece, ad un enorme schermo tv ultrapiatto e di ultima generazione. Lui ha puntato tutto sulla televisione. I russi che si informano solo attraverso questo strumento hanno accesso solo alla versione del Cremlino, ma quel che è peggio è che credo che anche Putin ascolti solo quella voce, vale a dire la sua stessa propaganda. Perciò non c’è differenza, o quasi, in questo momento tra guardare

un tg o ascoltare Putin su quanto accade in Ucraina.

In occasione della guerra in Cecenia ha spiegato la strumentalizzazione della vicenda da parte di Putin. Con l’invasione dell’Ucraina qual è l’obiettivo interno del Cremlino? 
Credo che la situazione economica russa sia talmente grave, e Putin del tutto incapace di migliorarla, che una guerra rappresenti un fantastico diversivo a cui attribuire ogni malessere presente nella società. Senza contare che questo per Putin rappresenta anche una sorta di test: da un lato del sostegno che potrà trovare d’ora in poi presso i cinesi, dall’altra di fin dove si potranno spingere europei e americani con le sanzioni o altro. Inoltre tra i russi c’è anche chi pensa che Putin sia sempre meno lucido e che dopo due anni di isolamento a causa del Covid abbia ormai attraversato definitivamente la «linea rossa» della ragione.

Nel discorso che annunciava l’invasione, Putin ha fatto riferimento all’eredità zarista, in precedenza aveva evocato Stalin e la tradizione ortodossa: quanto pesano questi riferimenti e che accoglienza trovano tra i russi?

Ad essere sincera credo che Putin non creda in nulla, se non al potere. Certo, utilizza tutti questi riferimenti per sostenere le sue scelte e trova ascolto in una parte della popolazione che vive male l’idea che il Paese abbia perso il suo status di potenza. Si deve però anche tener presente che il nazionalismo, quando c’è, riguarda solo una parte della popolazione. Del resto è difficile parlare di un solo popolo guardando alla Russia: pensate a cosa possa interessare a chi vive in Siberia di ciò che accade oggi in Ucraina, a più di 4mila km di distanza. Ciò detto, ritengo che Putin sia soprattutto preoccupato della propria sorta. Sa bene che non potrà “godersi la pensione” come Gorbaciov che vive tranquillo a Mosca. Per Putin la prospettiva è diversa: lasciato il Cremlino rischia di finire davanti al tribunale dell’Aja. Nella sua autobiografia («Prima persona: un autoritratto sorprendentemente franco», non tradotto in italiano, ndr), pubblicata per le presidenziali del 2000, racconta quello che lui stesso considera un evento decisivo della propria vita: quando era adolescente nella cantina del palazzo dove viveva a San Pietroburgo stava dando la caccia ai topi fino a quando uno di questi, stretto in un angolo, lo attaccò. Ecco, Putin si comporta come qualcuno che è stato messo all’angolo e reagisce attaccando. E le posizioni espresse di recente da Biden, che pensava soprattutto all’opinione pubblica americana, non l’hanno spinto a vedere diversamente le cose.

Lei ha indagato a lungo il sistema di potere russo. Un gruppo ristretto composto da oligarchi ed ex agenti di Kgb e Fsb. Come funziona ciò che ha definito come «l’impero Putin»? 
Nel cuore del potere russo ci sono solo figure legate personalmente a Putin, amici, ex colleghi, persone che hanno dei vincoli con lui. Perciò l’idea, talvolta evocata dagli osservatori stranieri, che dal suo entourage possa venire ad un certo punto una spinta per estrometterlo dal potere, sembra poco credibile. Tutto si basa sulla paura e su un controllo strettissimo della società, attraverso le forze dell’ordine e i servizi. Manca invece qualsiasi indirizzo per l’amministrazione e lo Stato: sanno arrestare chi manifesta ma non intervenire sulla politica economica. Prima c’erano il racket e il banditismo ora tutto ciò si è trasferito ai vertici dello Stato: corruzione e paura dominano la scena.


(il manifesto, 26 febbraio 2022)


Il piacere femminile è clitorideo di Maria-Milagros Rivera Garretas, Edizione indipendente, 2021.  Cinquant’anni dopo La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi erano necessarie parole capaci di dare spessore storico alla ricerca e all’espressione del piacere femminile, il piacere dell’anima corporea, perché gli inganni e gli autoinganni ci tolgono energie e le tolgono alle nostre figlie e amiche più giovani. Ne parliamo con l’autrice e con la traduttrice Barbara Verzini. Introducono Marina Santini e Luciana Tavernini


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di Franca Fortunato


Sono passati otto anni dal film “Anime nere” di Francesco Munzi dove il regista dava delle donne delle famiglie di ’ndrangheta, lasciate ai margini, un’immagine stereotipata di donne sottomesse, complici, omertose, “anime morte” vaganti in quel mondo criminale e violento avvolte nel sudario di donne che hanno tradito se stesse e le loro figlie. Eppure era il 2014 e molte donne, mogli, figlie, sorelle, avevano incominciato a distruggere la forza dei legami di sangue su cui si regge la ’ndrangheta, denunciando e mandando in galera madri, padri, sorelle, fratelli, parenti. Di loro, mentre gli uomini parlavano di legalità, già allora scrivevo e parlavo di imprevisto della libertà femminile. A distanza di anni, uno dietro l’altro ecco arrivare due film, “A Chiara” di Jonas Carpignano e “Una femmina” dell’esordiente Francesco Costabile, in questi giorni nelle sale cinematografiche. Due giovani registi, due giovani uomini, che attraverso le protagoniste dei loro film, Chiara e Rosa, mostrano di saper vedere e raccontare quel desiderio di libertà trasmesso dalle madri alle figlie, dalle donne alle nuove generazioni in un continuum madre/i figlia/e, come hanno dimostrato anche le studentesse del liceo di Castrolibero. Il film “Una femmina”, ispirato alla vicenda di Maria Concetta Cacciola, si apre con una telefonata, vera, in cui la madre la convince a uscire dal programma di protezione, ritrattare e tornare a casa col ricatto di non farle vedere più la figlia Rosa, interpretata dalla brava esordiente Lina Siciliano, calabrese come il regista. Rosa non è solo la figlia di Maria Concetta ma è tutte quelle donne di famiglie mafiose che hanno lottato e lottano, alcune, come sua madre, pagando con la vita, per uscire dalla gabbia in cui padri, mariti, fratelli, le hanno rinchiuse e le madri per generazioni ne hanno custodite le chiavi. Il dramma dell’uccisione della madre, a cui lei da piccola aveva assistito, torna nei suoi incubi notturni e il ricordo delle sue ultime parole, “sogno un posto lontano dove ci siamo io e te”, la rende forte, combattiva, indomita, fiera. A un certo punto del film, non trovando una via d’uscita, Rosa sembra fare sua quella cultura mafiosa di odio, vendette e guerre tra famiglie mafiose, allontanandosi così dalla madre e rendendo vano il suo sacrificio. Ma quella cultura non le appartiene, come invece a sua nonna a cui lei, prima di lasciarla, ricorderà la sua complicità nell’uccisione della madre e la rinnegherà nel suo nome e in quello della figlia che porta in grembo: “È una femmina, questa non ti appartiene. A mia figlia un altro destino le voglio dare”. Rosa come Chiara parla poco ma il loro silenzio non è omertoso ma presa di coscienza, modificazione e consapevolezza di sé, da cui non si torna indietro come suggerisce anche il film di fronte al mafioso che crede di poter “domare” Rosa che ha “lo stesso fuoco” della madre. Per Rosa parla il suo corpo che soffre fino ad ammalarsi, si pietrifica davanti all’orrore dell’uccisione della madre, davanti alla sua tomba tenuta nascosta, senza nome per cancellarne anche la memoria, i suoi occhi lanciano sguardi infuocati di accusa e di sfida. Geniale e potente sul piano simbolico è la scena finale. Rosa scende in piazza in corteo con altre donne vestite tutte di nero, scena e musica da tragedia greca, e a un tratto tutte insieme si liberano del velo, segno di sottomissione, dolori e lutti, e lei leggera e spavalda va verso la sua libertà, ricongiungendosi così alla madre/alle madri, che ha/hanno lottato per cambiare il destino suo, di sua figlia/delle figlie, e quello di questa “mala terra”.


(Il Quotidiano del Sud, 25 febbraio 2022)

di Antonella Mariani


Immediata la reazione del mondo femminista da sempre mobilitato contro la legalizzazione della maternità surrogata alla notizia che il 21 e 22 maggio 2022 lo spazio per eventi EastEnd Studios di via Mecenate a Milano è in programma la fiera della procreazione assistita. Dopo Parigi, Berlino, Colonia e Monaco sbarca anche in Italia «Un sogno chiamato bebè». Senza troppo clamore, il sito internet e le pagine social che per mesi sono state “dormienti”, hanno cominciato a popolarsi: sul web il modulo di iscrizione per aver accesso alla manifestazione, la possibilità di iscriversi alla newsletter, articoli di taglio medico-scientifico sulle diverse tecniche per mettere al mondo un bambino, su Facebook l’invito a partecipare «per incontrare esperti, medici, clinici, terapeuti, centri di trattamento e gruppi di supporto specializzati in fertilità e genitorialità». Ora gli organizzatori – gli stessi delle fiere all’estero – escono allo scoperto. E le sigle che si battono per la dignità della donna scendono in campo.

La Rete per l’inviolabilità del corpo femminile, network di sigle femministe attive contro l’utero in affitto, hanno recapitato una lettera aperta al sindaco di Milano Giuseppe Sala: «Apprendiamo che il 21-22 maggio approderà a Milano presso lo Spazio Antologico-East End Studios di via Mecenate 84 “Un sogno chiamato bebè”, fiera dell’utero in affitto organizzata dagli stessi promotori del “salone” che ha già fatto tappa a Parigi, Colonia, Monaco, Berlino, e che per la prima volta arriva anche in Italia. L’intento è rilanciare un business, quello della compravendita dei bambini, “settore” che al pari di molti altri ha subito rallentamenti e perdite a causa della pandemia». L’interlocutore è scelto con precisione: «Interpellato sull’iniziativa, a suo tempo il sindaco Beppe Sala aveva garantito che per l’evento non sarebbero stati concessi spazi pubblici, e che l’amministrazione non avrebbe altresì “concesso alcuna autorizzazione, patrocinio o altre forme di sostegno all’iniziativa”».

La situazione nuova che si è prodotta con l’annuncio che la fiera si svolgerà davvero a Milano dovrebbe rendere necessario – a parere della Rete – un intervento delle autorità: infatti «Nello spazio, ancorché privato, si preannuncia un reato ai sensi della legge 40/2004 che non solo vieta e sanziona la gestazione per altri realizzata in Italia, ma punisce anche la semplice propaganda, là dove afferma che “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro” (articolo 12, comma 6)». Le associazioni del mondo femminista, sostenute da numerose firme, si chiedono dunque se «avendo con largo anticipo notizia dell’evento-reato programmato presso gli East End Studios, il Sindaco, la Giunta e il Consiglio Comunale non ritengano di doversi attivare preallertando le Forze dell’Ordine nonché intraprendendo qualsivoglia altra iniziativa atta a impedire l’annunciata violazione della legge italiana, che si realizza pubblicizzando una pratica che oltre a fare mercato di creature umane “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni” (Corte Costituzionale, sentenza 272/2017)».

Rispetto all’edizione parigina, che Avvenire aveva raccontato l’8 settembre 2021 grazie al lavoro di una giornalista in incognito, nel sito di «Un sogno chiamato bebè» al momento non compaiono gli sponsor né alcun accenno alla Gravidanza per altri o alla commercializzazione di gameti o di embrioni. La scelta è d’obbligo, se non si vuole incorrere nei rigori della legge 40 sulla Procreazione assistita, che per l’appunto punisce chiunque «realizza, organizza o pubblicizza» queste pratiche. I funzionari degli EastEnd Studios assicurano ad Avvenire che gli organizzatori «hanno consultato i propri legali» prima di firmare il contratto.

Tutto bene, dunque? Forse, ma non si può non ricordare che in Francia, dove vige un analogo divieto, a Desir d’enfant si potevano comunque seguire seminari o ricevere dettagliate informazioni sulle cliniche estere da cui acquistare servizi di surrogazione di maternità. L’evento milanese sta comunque già agitando le acque. La consigliera comunale dell’opposizione Deborah Giovanati (Lega) ha firmato una interrogazione urgente al sindaco e all’assessore alla Parità del Comune di Milano, mentre il segretario del Centro di aiuto alla Vita Mangiagalli Francesco Migliarese suggerisce che «la vita umana non si manipola, non si compra e non si vende» e chiede che il sindaco «impedisca lo svolgimento di questa controversa iniziativa commerciale». Che la procreazione assistita sia anche un business enorme è un dato di fatto: nel 2019 le cliniche in attività in Italia erano 346, di cui 106 pubblico, 20 privati convenzionati e ben 220 privati, con un numero di coppie trattate e di cicli iniziati in costante aumento.


(https://www.avvenire.it/vita/pagine/fiera-della-procreazione-assistita-arriva-in-italia, 24 febbraio 2022)

di redazione il manifesto


Protesta nel centro di Londra contro l’escalation bellica al confine tra Russia e Ucraina © Ap/James Manning


(il manifesto, 23 febbraio 2022)

di Laura Minguzzi


Riproponiamo questo articolo pubblicato sul numero 91 di Via Dogana nel dicembre 2009 per comprendere meglio quello che succede oggi in Ucraina.

La redazione del sito


Che senso ha passare le vacanze in Ucraina? Le badanti in agosto tornano a casa e io, accompagnata da mio marito, voglio andare a vedere come vivono Tatjana, Olga, Galina, Marianna, Alioscia, Sergej, Dimitrij dopo la sconfitta del comunismo e la vittoria della rivoluzione arancione del 2004. Esplorazioni estive le chiamava Simone Weil nel ’38, per misurare la temperatura del tempo presente. Lei in quell’anno andò in Germania per capire cosa stava succedendo, cosa si stava preparando e perché. La forza del potere di uno dei tanti, immaginata propria, dal popolo. Immaginazione e realtà si confondono e si autodistruggono. Non si potenziano a vicenda, non mantenendo la dovuta distanza. Il vuoto fra l’una e l’altra è necessario affinché si crei conflitto e quindi scambio. Durante la preparazione del viaggio nella mia mente si affollano immagini letterarie, politiche, storiche e domande senza risposta.

Tatjana è il presente, mi ha invitata a Kharkov, ci scriviamo da novembre dell’anno scorso. Uno scambio virtuale nato grazie al sito della Libreria. Voglio conoscerla e sentirla parlare del suo progetto di museo di storia delle donne, per ora esistente solo on line da marzo di quest’anno. Mi ritorna in mente che una volta mi chiesero se avevo sentito parlare di Babyn Yar. Avevo vent’anni e non lo sapevo. Adesso potevo vedere questo luogo. Poi avevo letto che Lou Salomé e Rainer Maria Rilke erano andati insieme a visitare la Lavra di Kiev, il Monastero Maggiore delle Grotte e lei ne aveva un ricordo emozionante. E la fontana di Bachcisaraj in Crimea, fin da piccola questo nome mi aveva sempre fatto immaginare luoghi di una felicità senza confini. Jalta, la spiaggia di Koktebel, dove passava l’estate Marina Cvetaeva.

«Lei è comunista!». Così esordisce un mio allievo di quinta ginnasio, appena dopo qualche mese di scuola. Figlio di una ricca famiglia borghese, poca voglia di studiare, si assenta spesso per brevi vacanze esotiche, costretto a scegliere una scuola classica per ragioni di status; colpisce nel segno il suo istinto animale di giovane arrampicatore. Ha fiutato il nemico che gli sbarrerà la strada della sua scalata al diploma grazie ai soldi. Beh! aveva ragione. Io ci tengo tantissimo allo studio, alla curiosità, all’importanza di farsi domande e andare a cercare le risposte per il mondo. Ecco trovato il senso del mio viaggio con la storia, obbedisco a un’ispirazione, a un imperativo categorico interiore e mi lancio.

Dall’aeroporto telefono a Olga e alla stazione ferroviaria di Kiev ci incontriamo. Insieme al fratello Alioscia mi aspettano con il biglietto per il vagone letto del treno notturno, che mi porterà a Odessa. Olga è una giovane psicologa che lavora in un istituto di ricerca e fa sondaggi e statistiche per organismi istituzionali; il sabato, invece, riceve i/le pazienti in colloqui privati. Questo è il lavoro che le piace di più; ricerca le cause della sofferenza delle donne e degli uomini che ha in terapia. «Li spingo a riflettere sulle ragioni della loro infelicità, sulla violenza, sull’autodistruzione (alcolismo), soprattutto gli uomini, a cercare un senso alla propria vita, a guardare la realtà con occhi nuovi e darsi un futuro». «Ci sono uomini che hanno tanti soldi e sono violenti e io li voglio portare a chiedersi quali sono i loro reali desideri. Uno mi ha detto che avrebbe voluto fare l’insegnante e invece si trova a fare tutt’altro, e pur guadagnando bene non è contento e l’insoddisfazione lo rende violento, soprattutto verso le donne». Olga mi parla anche di un suo recente saggio sulla pericolosità del traffico per le strade, a causa dell’aggressività degli uomini al volante, che non rispettano alcuna regola e costituiscono per le donne una vera e propria minaccia. Un’esibizione di virilità che provoca parecchi incidenti e traumi alle donne. Ciò che ha scritto è, infatti, frutto dei racconti delle sue pazienti. Il lavoro dipendente sull’interpretazione dei dati statistici, secondo lei, è una pura finzione, dato che tutto viene manipolato dai suoi superiori per potere ottenere finanziamenti. Sia lei che il fratello collaborano con Tatjana nella rivista Ja (Io) e al museo di storia delle donne.

Il giorno seguente alla stazione di Odessa molte donne ci vengono incontro con cartelli, offrono stanze, appartamenti in affitto ai turisti che scendono dal treno. La città è deserta, dorme, strade pulite, lavate, come ai vecchi tempi sovietici, anche se parecchio malandate… L’amico taxista ci accompagna e al secondo appartamento che ci propongono ci accordiamo sul prezzo.

Camminando a piedi, ovunque cantieri, si cambia volto alla città, ma l’atmosfera mi pare sempre quella del film. Chi ricorda la scena della famosa scalinata nel film La corazzata Potëmkin con la carrozzina che precipita può capire la sensazione. Tutto è cambiato, ma quella è rimasta intatta, lì c’è come un fermo immagine: una drammatica accelerazione verso l’ignoto.

Alla televisione una pubblicità mi colpisce: propongono prodotti contro la diarrea. In Italia è martellante una pubblicità esattamente contraria: prodotti per la stitichezza… intestino pigro? Ecco la soluzione e via… Cosa c’è che non va qui? Il cibo è sempre lo stesso di tanti anni fa. Ottimo caviale fresco, pane nero di segale buonissimo, brioche con i semi di papavero eccellenti, budini con le bacche di bosco fresche, storione, patate al forno ripiene squisite, kvas venduto dalle botti, dissetante e fresco, birra, vino locale, acqua borzhomi, georgiana, la migliore del mondo. Osservo la gente e vedo molte donne che comprano capienti taniche d’acqua, uomini che caricano nelle macchine enormi quantità di bottiglie d’acqua… Ci sono arrivata: l’acqua del rubinetto non è più potabile come allora, la manutenzione dell’acquedotto non esiste più. Un bene pubblico, l’acqua corrente e potabile nelle case, è scomparso insieme al comunismo…

Da Odessa a Simferopoli andiamo in treno. Le stazioni sono vive e affollatissime, aperte tutta la notte e i treni notturni molto frequenti. Qui amano viaggiare in treno, anche se la velocità non supera i 60 all’ora, causa binari obsoleti. A Jalta, in Crimea, mi aspetta Galina che mi fa conoscere Ljuba e Alla. Ci vediamo al bar per il tè delle cinque. Mi parlano del loro impegno nel club femminile Jaltinka. Si riuniscono nel ristorante di un’amica, che è anche socia del club, e lì discutono di tutto, dai loro problemi di lavoro, ai problemi dei figli o delle figlie, del crollo di tutto il sistema, della rivoluzione arancione, si scambiano informazioni, consigli e aiuti materiali. Organizzano anche brevi viaggi insieme che chiamano “i nostri ritiri spirituali”, in cui si rigenerano. Ljuba è un’imprenditrice edile e dal ’91 si occupa della vendita di alcuni lotti di case comunali ai privati. Oggi fa anche l’amministratrice dei condomini che lei stessa ha contribuito a formare, perché ha dovuto anche educare alla gestione collettiva e responsabile delle parti comuni delle case di proprietà, tenuto conto che prima del crollo di tutto il sistema sovietico, quando la proprietà era collettiva, di tutto si occupava l’amministrazione comunale.

Alla assomiglia più allo stereotipo della donna emancipata, solida, possente, “tedesca”, tutta d’un pezzo. Vedova, due figlie, esperta in scienza delle finanze. Dal ’92, anno di massimo caos economico dopo il crollo dell’Urss, è a capo della rete di distribuzione alimentare di Jalta e dintorni. È riuscita con le sue doti manageriali a riportare l’ordine in un momento di totale disordine e crollo dell’economia. Dal 2001 dirige anche il mercato cooperativo alimentare della città che oggi ha superato la crisi e ripianato tutti i debiti accumulati e ha il bilancio in attivo. Alla e Ljuba vogliono sapere cosa faccio io. Racconto della nostra politica, a loro interessa sapere come la società si rapporta al movimento femminista, lesbico, se sono ben accette le donne che vivono cercando di realizzare liberamente i propri desideri. Mi rendo conto che le tre donne con cui io sto conversando attorno al tavolo sorseggiando tè con pasticcini sono vedove con figli e figlie grandi e sono più giovani di me. Chiedo a Galina una spiegazione. «Sai, qui gli uomini muoiono presto, la media è di 51 anni. Non hanno retto al cambiamento storico». Capisco meglio il loro interesse per sapere come da noi sono giudicate le donne, cosa si pensa del femminismo e della libertà femminile. Dal canto loro sentono il peso di uno sguardo maschile, di un giudizio sociale che insegue ancora una visione conformista del destino femminile.

A Kharkov ne parlo con Tatjana, sedute sulla panchina del giardino del Monastero dell’Intercessione, mentre ammiriamo fra lo stupore e la meraviglia il passaggio di giovani donne che vanno alla messa del pomeriggio. Mi pare di essere a una sfilata di moda a Milano. Alte, slanciate, bionde, magre, vestite all’ultima moda, gonne cortissime, tacchi altissimi, ma col capo coperto, come vuole la regola ortodossa, vanno in chiesa. Tatjana vive con la madre, è separata e ha una figlia adulta che vive e lavora come grafica a Kiev. Suoi sono i fumetti del numero speciale della rivista Ja (Io) del 2008 dal titolo “Il femminismo è…”. Per chi o per cosa chiederanno mai l’intercessione? Commentiamo.

Anche a Kiev, al Monastero Maggiore delle Grotte abbiamo assistito a una singolare cerimonia: una lunga teoria di donne, pochi gli uomini, che sostavano in due ali con cestini di frutta e rami di erbe officinali in attesa della benedizione del pope che sarebbe passato alla fine della messa nel grande cortile davanti alla cattedrale della Dormizione. Una rappresentazione arcaica di una cultura contadina che manifesta l’amore per la terra; una terra scura, che si estende per lunghe e immote distanze in un orizzonte che non incontra ostacoli.

Le giovani donne vogliono tutto, mi dice Tatjana. Lei per prima col suo progetto di Museo della storia delle donne è stata in America, dove ha ricevuto un primo finanziamento dalla biblioteca del congresso e si prepara ad andare a un incontro a Bonn con altre donne riunite in una rete di associazioni e gruppi che si occupano appunto di storia. A Kharkov ha presentato il progetto a varie istituzioni e collabora con le scuole in un programma politico di sensibilizzazione alla differenza di genere. Qui si innesta il mio scambio con lei a proposito della differenza di pratiche del nostro movimento per l’autoriforma. Piuttosto che partire dall’alto, dai programmi ministeriali, è meglio coltivare le relazioni e focalizzarsi sulla lingua. La colpisce la mia insistenza sull’uso del femminile riguardo alle professioni nel corso del nostro conversare sulla realtà quotidiana mentre facciamo cose insieme. La visita a una mostra di una pittrice norvegese ospite di una galleria di un’amica, che, mi dice, invita sempre artisti/e interessanti e originali, un luogo molto stimolante nel panorama cittadino, diventa un’occasione di riflessione sulla lingua e sull’arte femminile. La gallerista è un’amica con cui ha relazioni da lungo tempo e ci tiene a farmela conoscere. Per noi in Italia è stato ed è molto importante non parlare in modo neutro e assumersi il proprio essere donna. Da tempo lo facciamo e pare che non si possa mai smettere, perché c’è come un risucchio nell’indifferenziato appena si dà per scontato qualcosa e ci si ferma. Per Tatjana è una riflessione che le crea qualche difficoltà, come frenata e impedita dal discorso del genere. Occorre, infatti, uno spostamento, dall’occhio puntato verso il potere, con cui il “genere” e la parità condividono il mondo maschile in un estenuante sforzo di spartizione, alla realtà delle effettive potenzialità delle relazioni che si hanno e si agiscono. L’amore per la realtà spinge a nominare le relazioni e a far conto su di loro, più che a cercare di convincere i vari funzionari o funzionarie regionali o provinciali o ministeriali della necessità di un luogo materiale dove collocare il suo museo delle donne, che per ora esiste in rete. Le hanno dato ascolto e visibilità mediatica in occasione dell’8 marzo, ma poi, si rammarica, ha riscontrato un calo di interesse e un vano rimandare appuntamenti e incontri. Anzi abbiamo notato che sulla questione della violenza alle donne la città era invasa da manifesti colorati, una campagna di sensibilizzazione, conforme a una direttiva europea, da cui certamente il governo aveva ricevuto contributi, ma assolutamente non frutto di momenti di riflessione e discussione fra la gente, uomini e donne. Anche in Italia si sta verificando una sorta di statico ritualismo su questa questione della violenza, un ripetersi delle parti in gioco, di ruoli, senza una reale pratica di ascolto.

Quello dell’adesione del paese all’Europa e alla Nato è un punto di dibattito molto appassionato. A fronte di un crescente sentimento nazionalista, a causa della proclamazione dell’autonomia dalla Russia nel 2004, si sente e si vede un piegarsi e un dispiegarsi a forme di politica di schieramento, assai poco vicine ai bisogni materiali e simbolici della gente comune. Ho assistito nella famosa Piazza Majdan (della Libertà, quella che nel dicembre del 2004 mostravano ogni giorno i nostri media) ai preparativi per l’anniversario della liberazione e in sostanza era un dispiegarsi di esercitazioni di forza militare, in terra e in cielo. Discorsi dagli altoparlanti che arringavano la folla e proclami di amore di patria fatti in coppia dal capo del governo e dal metropolita. Tatjana e le altre cercavano di minimizzare, ma in fondo la gente non ci sta a queste lacerazioni, a questi schieramenti pro o contro la Nato, pro o contro la Russia. È tutta una questione che riguarda chi ha il potere. Ebbene sì, Tatjana e Marianna hanno l’ufficio nei primi grattacieli costruiti a Kharkov negli anni ’30, luogo di potere di uomini, dove pare che abbia lavorato al tempo della Ceka il capo del KGB Feliks Dzeržinskij. E come sintetizza in modo lapidario il taxista che ci porta alla stazione ferroviaria di Odessa, «non sappiamo per chi votare: non c’è possibilità di scelta». Marianna studia italiano e parla inglese e tedesco. È una giovane laureata che già lavora e molto fiduciosa nelle sue potenzialità. Ci ha scritto di avere trovato un nuovo lavoro, di avere lasciato il vecchio grattacielo stile sovietico e che continuerà a leggere libri italiani per approfondire la nostra conoscenza.


(Via Dogana n. 91, dicembre 2009)

di Luciana Tavernini


María-Milagros Rivera Garretas Il piacere femminile è clitorideo, Edizione indipendente, 2021

di cui parleremo sabato 26 febbraio 2022 ore 18.00 alla Libreria delle donne.

https://www.libreriadelledonne.it/2022/02/26/


Casta fui, lanam feci, Recensione di Barbara Verzini, pubblicata in Per amore del mondo 17 (2020)

«Come si può trasmettere la meraviglia dell’urgenza che si intreccia con la necessità, dove senti che le parole che leggi finalmente si liberano dalla violenza ermeneutica, per portare giustizia a qualcosa a cui da anni cercavi di dare un nome, un senso, una spiegazione?

Come si può abbracciare un libro che crea vertigini per la grandezza smisurata della sua portata e delle sue scoperte?

La risposta è che non si può.

Non si può imbrigliare l’eccedenza con i lacciuoli del cacciatore.

Bisogna cercare un’altra strada, che non è quella della com-prensione, del prendere tutto insieme, del possedere che chiude, ma è quella della risonanza, del suonare insieme che è sentire insieme; un movimento che apre porte e finestre, che ti chiede di stare in una relazione autentica generando gli spazi dove la verità possa accadere».

La recensione di Barbara Verzini, traduttrice in italiano del libro e che sarà presente all’incontro, ci suggerisce un modo di avvicinarci alla lettura, partendo proprio dal primo capitolo Confondere l’orgasmo per scoprire Il piacere femminile liberopiacere del sentire, delle viscere e dell’anima e liberarci dall’inganno prodotto dall’invenzione dell’orgasmo vaginale nel XX secolo e della vagina nel XVII.



(www.libreriadelledonne.it, 23 febbraio 2022)

di María-Milagros Rivera Garretas


Questo prezioso libro offre un’impeccabile interpretazione femminile e femminista dell’affascinante storia di Tiamat, la Grande Dea Primordiale del Mare, madre senza coito del Tutto, nella Mesopotamia babilonese.

La sua storia e il suo enigma sono documentati per iscritto in un grande poema delle origini, inciso con i preziosi segni della lingua accadica dai guerrieri usurpatori e assassini di Tiamat, su 7 tavole di pietra di 150 versi ciascuna. Il poema si intitola Enuma Elish, che significa Quando in alto.

La prima di queste tavole racconta la storia di ciò che il Mondo era prima dell’arrivo in Mesopotamia dei guerrieri accadi, portatori nella loro mente del contratto sessuale che imposero con il filo delle loro spade a una società matrilineare e matrifocale.

L’Enuma Elish è stato datato intorno al XII secolo prima dell’Era cristiana. Quindi con l’arrivo di questi guerrieri si concluderebbe il primato di un’Era della Perla.

La Madre nel Mare è un libro che, a mio avviso, inaugura un cambio di scena nella politica attuale delle donne occidentali. Perché fa per davvero tabula rasa delle filosofie e della teoria politica maschili del XX secolo, che ancora calcavano la propria impronta misogina nella pratica e nel pensiero della differenza sessuale; in particolare la psicoanalisi di quel secolo e i suoi derivati del XXI secolo. Me lo ha confermato la sua prima presentazione, in remoto da Napoli, organizzato da Stefania Tarantino lo scorso 20 dicembre 2020. Questo incontro è stato, per me, il quadro di un nuovo Salotto: quello delle Preziose del XXI secolo, la cui indipendenza simbolica è infine di radice, fusto e fiori molto differenti dalla mia. È stata la prova che nel Mondo ci sono Madri di pensiero e di politica che non sono né eredi delle femministe dell’ultimo terzo del XX secolo, né una nuova generazione, bensì l’attuale ciclo della genealogia delle Tre Madri delle religioni mediterranee prepatriarcali, mai scomparse. Non mi piace la nozione di “generazioni” perché non mi ci riconosco; la trovo patriarcale, edipica. Mi riconosco invece nella genealogia femminile e materna, quella che sa riconoscere le Madri senza coito quando arrivano; e mi riconosco nei contesti relazionali di cui Marirì Martinengo ha scritto. Mi piace la genealogia che, in questo libro, è della Sfinge che Edipo non capì mai, perché non riconobbe la propria madre neppure avendola di fronte.

Questo atto di presentazione di La Madre nel Mare mi ha dato l’opportunità di sentire e riconoscere il miracolo della grandezza dell’altra e delle altre che vengono dopo di me e sono Madri, non anelli di una catena di eredità. Loro irrompono, sono già qui. Io sono loro grata. Le Madri devono riconoscere le Madri venute dopo perché ci sia politica delle donne

La storia di Tiamat è rimasta un enigma sino ad ora perché nella testa dei ricercatori non entrava la possibilità di un Mondo senza patriarcato, un mondo reale, non solo mitico, nonostante i miti contengano sempre la loro parte di realtà, come la topica.

Il miglior studioso era capax Dei, capace di Dio, però non capax Deae, capace di Dea. La sua scienza terminava dove iniziava il Due. E dove una donna poteva essere madre di corpi senza coito e concetti senza fallo.

Nel libro La Madre nel Mare, Barbara Verzini decifra l’enigma di Tiamat, non perché sappia di più ma perché sente di più e, riconoscendo autorità al suo sentire proprio originario, conosce di più.

A quale universitaria non è capitato di sentire qualche volta che nei paradigmi della conoscenza c’è qualcosa di essenziale che lei sente essere falso ma non sa come dirlo? Chi non ha mai sentito che le parole non arrivano a dire quello che lei sente?

È nelle parole dove agisce questo libro, nelle famose parole per dirlo, del romanzo che in tante abbiamo letto a suo tempo.

L’enigma sta nella violenza ermeneutica universitaria, nell’essere una – una donna – in grado di sentirla nel profondo di sé, nel sentire che María Zambrano chiamò sentire originario e Candela Valle chiama sentire proprio. Quando una donna arriva a sentire nel suo profondo la violenza ermeneutica subita, le parole escono da lei e fluiscono, senza Tommaso d’Aquino, senza Hegel, senza Marx, senza Freud, senza Lacan, senza Nancy, senza femminismo patriarcale. È quello che accade in questo libro: La Madre nel Mare guarda questi autori con distanza, senza vederli. Non apportano nulla alla sua visione. La sua visione è immacolata. Per questo la sua parola fluisce nelle onde dell’acqua dolce e salata di Tiamat.

Cosa mi ha dato questo libro per chiarirmi, per darmi da pensare? La verità è che mi ha dato una cosa che mi ha scossa molto e che continua a muoversi facendo vacillare l’espressione, la parola. È la chiarezza con cui mostra che tutta la creatività viene dal Caos; perché nel profondo del Caos c’è armonia, armonia possibile perché scatenata dal proprio processo creatore femminile, processo a volte dolce, a volte molto doloroso. Senza che Caos e Armonia formino un’opposizione binaria. Chi non ricorda da bambina il mistero del caos della propria madre e di come, allo stesso tempo, lei sapesse sempre dov’era tutto? Questa è precisamente la Tiamat primordiale, la grande Dea Madre senza coito babilonese: il Caos che sa dove c’è tutto.

Da cui si deduce che né il Caos è l’opposto dell’Ordine né è sinonimo di disordine. Ordine e disordine sono, adesso sì, un’opposizione binaria o un’antinomia del pensiero, un’operazione mentale che non ha mai dato nulla a una donna. Cosa che sta avendo per me delle conseguenze politiche e filosofiche importantissime. Perché Barbara Verzini in questo libro mostra che, storicamente, l’ordine – come il temibile Ordine nuovo che rivendicavano con grande violenza gli uni agli altri quando io ero studentessa – è sempre l’Ordine della spada, l’ordine imposto con la spada. Un ordine che è, prima di tutto, patriarcale, è quello che imposero a colpi di spada i guerrieri accadici per distruggere la società matrilineare e matrifocale governata da Tiamat. Loro, con la spada dell’Età del Bronzo, o del Ferro, non lo so, tagliarono Tiamat in due, come raccontano i bellissimi petroglifi dell’Enuma Elish. La loro spada continua ad essere oggi il fallo, e il loro ordine l’ordine fallico, nelle sue distinte varietà storiche, tutte temibili.

La qual cosa a sua volta ha delle conseguenze molto importanti rispetto l’ordine simbolico. Ho sempre avuto difficoltà nelle aule a spiegare l’ordine simbolico della madre perché, nonostante avessi studiato Lacan, non l’avevo imparato, e quindi non sapevo che l’ordine simbolico fosse una nozione sua: questo mi avrebbe fatta sospettare.

Né avevo capito perché alcune filosofe parlassero di ordine simbolico patriarcale e ordine simbolico della madre, come se ci fossero due ordini simbolici, quando il mio più grande tesoro nel libro L’Ordine Simbolico della Madre di Luisa Muraro, era stato che la lingua è una e – avevo dedotto io – c’è un ordine simbolico ed è della madre. Questo libro me l’ha chiarito. Barbara Verzini mi ha insegnato che il simbolico non è un Ordine, ma l’Armonia del Caos. C’è il simbolico ed è della madre. Gli ordini, nati dagli ordini (comandi), vengono dall’uso violento della spada. Esiste dunque il simbolico della madre, che è la lingua materna, la sua armonia; ed esiste o è esistito l’ordine simbolico patriarcale, non armonico bensì violento.

Questo coincide con il senso di “simbolico” e di “simbolo” che insegnava mia madre nelle lezioni di greco: derivano da sun-ballein “lanciare con”, con la sua parte di Caos, trasportata con la voce, grazie al sentire proprio originario della parlante.

Una volta aperta questa fonte, il libro spiega fluidamente come tanta conoscenza maschilista nasca da una separazione, ad esempio nella Genesi e i suoi enormi derivati culturali: come la separazione sia una delle operazioni preferite della violenza ermeneutica, detto ora con le mie parole, fino ad arrivare a separare una donna dal proprio piacere e dal proprio orgasmo.

E tra le tante cose, il libro spiega il dialogo, che sino ad ora consideravo assurdo, tra Edipo e la Sfinge. Alla seconda domanda della Sfinge, quella che dice: “Ci sono due sorelle delle quali la prima genera l’altra e la seconda a sua volta genera la prima, chi sono?”, si diceva che Edipo abbia risposto: “Il giorno e la notte”, quando la risposta è “Le Tre Madri”. Le prime due sorelle (sorelle di sesso) sono la madre e la figlia; la terza è la figlia quando la madre le riconosce autorità, perché, in quel preciso momento, lei riconosce sua figlia, Madre, la Terza Madre, prima della Trinità successiva e intrecciata. Meraviglioso Enigma della Sfinge / Madre. Chi ha una madre che non sia Sfinge, enigma?

Barbara Verzini spiega tutto questo a partire da sé, dalla relazione con sua madre mai eclissata dalla relazione con la maestra e anche partendo dalla sua stessa essenza, che l’autrice porta nella scrittura attraverso l’allegoria della grande e deforme bocca della rana. A Bilbao, quando ero bambina, si giocava in piazza o per strada a La rana, cercando di lanciare una moneta, con o senza prendere la mira, nella sua grande bocca di bronzo aperta. Non era facile. La rana è madre senza coito e canta instancabile tra la terra e l’acqua, sulla cui riva lascia le proprie uova in modo che possano essere fecondate senza di lei. Nella rana e nella sua grande bocca, Barbara Verzini mette il segno della sua originalità filosofica, che rompe la forma e sta nei suoni.

L’attenzione minuziosa alle parole e ai loro suoni, che questo libro insegna, mi ha recentemente portata a una rivelazione che per me è importante. Per molto tempo ho cercato che cosa sentivo fosse rimasto in sospeso, nell’interpretazione femminile libera della storia del Tempio originale di Delfi dedicato a Gê(a), la Dea Madre senza coito equivalente, nell’Europa mediterranea, alla Tiamat babilonese e mesopotamica. Neus Calvo Escamilla offrì qualche anno fa nel suo La E di Delphi una preziosa spiegazione dell’insegna di Gê(a) incisa sulla pietra dell’autentico tempio: la Epsilon dei tre tratti, ma qualcosa rimaneva pendente. Influenzata dal libro di Barbara Verzini, l’attenzione al suono della E mi ha comunicato ciò che è ovvio, un’ovvietà difficilissima da riscattare con il pensiero del pensiero: la epsilon dei tre tratti è prima di tutto il suono E della lingua madre, suono e desinenza che nella lingua greca simboleggiavano il femminile, il genere grammaticale femminile, la differenza sessuale, come in Gê, come in Kore (Bambina, Vergine), come nei famosi attributi kale kai agaze (bella e buona) propri delle donne e del femminile. Come nel probabile motto della dea Gê(a) di Delfi che i guerrieri della polis, del contratto sessuale e della democrazia ateniese, avrebbero usurpato, il probabile Gnothi seautón (Conosci te stessa) dove il suono E venne sostituito con il suono O (maschile) nel posteriore tempio patriarcale dedicato ad Apollo, il tanto ripetuto Gnothi seautón (Conosci te stesso) dei filosofi classici e postclassici. Deve essere stato così perché la madre viene sempre prima, è sempre prima e ti insegna a parlare parlando, non per iscritto: la lingua materna si impara ascoltandola, ascoltandola dalla bocca di tua madre, preferibilmente stando nella calda armonia delle sue braccia. La lingua materna è in primo luogo e sempre lingua ascoltata, come il messaggio della concezione senza coito di Maria di Nazaret (una donna qualunque) nella scena dell’Annunciazione / Incarnazione. Penso che questo abbia delle conseguenze sulla nozione di simbolico, o di armonia simbolica, come dice l’autrice di La Madre nel Mare. E le abbia anche nella nozione di scrittura femminile, perché questa conserva nel testo la voce della madre e i suoni della lingua materna. La scrittura femminile si vede e si ascolta; la scrittura del pensiero del pensiero si vede solamente: non porta il suono della voce della madre, né porta l’impronta della lingua materna, anche se i segni sono gli stessi, perché si è separata dalla madre, dall’Alma Mater, addirittura ha tagliato con lei, arrivando a proibirla.

La Madre nel Mare. L’enigma di Tiamat è il libro che inaugura la Collana A mano, fondata nel 2020 in kdp.amazon.com da Barbara Verzini e María-Milagros Rivera Garretas. La Collana A mano è una casa aperta e disponibile nel freddo mare di internet, un fuoco femminile amabile per la scrittrice che desideri autoeditarsi senza sottomettersi a giudizio né a capitali stranieri, giudizio e capitale oggi più attenti alle vendite che a ciò che è scritto. Il suo senso l’abbiamo spiegato così: A mano è una Collana di libri di Scrittrici fedeli alla genealogia femminile e materna, ispirate dalla creatività del caos, del piacere clitorideo, del sentire originario, della relazione senza fine e della radicalità di Dama Amore, orientate dal bene e dalla felicità.


(www.diotimafilosofe.it, Rivista n. 17/2020, traduzione dallo spagnolo di Barbara Verzini) 



TERZO APPUNTAMENTO del progetto Nei Libri c’è la vita, una serie di sei incontri mensili aperti a ragazze e ragazzi dai 15 ai 25 mercoledì 23 febbraio 2022 dalle ore 17 alle ore 18,30


POESIA CHE MI GUARDI. Antonia Pozzi, una donna e una poesia in anticipo sui tempi


Con Graziella Bernabò, sua biografa, leggeremo poesie, frammenti di lettere e diari da: A cuore scalzo. Poesie scelte, 2019. Mi sento in un destino. Diari e altri scritti, 2018. Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-38, 2014. Parole. Tutte le poesie, 2017

Gli incontri fanno parte del progetto Nei libri c’è la vita, ideato da enciclopediadelledonne.it per promuovere la lettura di grandi scrittrici e poete moderne e contemporanee.


La partecipazione è libera e gratuita previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it


Partner del progetto: Casa delle donne di Milano e Cineteca di Milano. Con il sostegno di Fondazione Cariplo.

di Pinella Leocata


«Chi ha paura della libertà delle donne?». Una questione complessa su cui si sono interrogate le femministe della rete “Le città vicine”, e gli uomini di “Maschile plurale”, nel corso di un convegno on line organizzato da Anna Di Salvo de “La città felice” di Catania. Innanzitutto la presa d’atto delle numerose conquiste fatte dalle donne dagli anni Settanta ad oggi sul fronte delle leggi di libertà civili (quali l’aborto, il divorzio, il diritto di famiglia), di parità (congedi parentali, accesso alle carriere, parità salariale) e del contrasto alla violenza maschile (leggi contro il femminicidio, lo stalking e il revenge porn). Eppure, nonostante questo, la violenza maschile continua a crescere esponenzialmente, insieme all’espandersi della libertà delle donne e della loro volontà di autodeterminarsi, anzi proprio per questo. Il patriarcato è morto – «perché ha perso credibilità e non ha più la capacità di orientare l’agire umano e di offrire un futuro» – ma alcuni dei suoi meccanismi millenari sopravvivono, a partire dalla violenza contro le donne e dalla continua separazione delle parole dalle cose in un inganno che cerca di occultare la donna e la sua differenza.

Oggi la violenza maschile sulle donne ha assunto aspetti più subdoli. Continua quella fisica, che si esprime anche nell’esplosione dei femminicidi, quella psicologica ed economica e si aggrava quella istituzionale. Fino agli anni Novanta – rilevano in tante – le donne vittime di violenza trovavano una sponda nelle magistrate e nelle operatrici che si occupavano del loro caso, mentre adesso non è più così, in nome delle pari opportunità che hanno finito per appiattire le differenze e per oscurare la violenza maschile mettendo i soggetti in situazione di bilanciamento. Le donne oggi sono accusate di alimentare il conflitto e di presentarsi subdolamente come vittime per lucrare situazioni di vantaggio. Vengono annullate, cioè, le condizioni di disparità delle donne che spesso non lavorano, o lavorano poco e che comunque spendono quello che hanno per la famiglia. Si sperimentano, dunque, condizioni di doppia violenza perché esiste una forma di violenza istituzionale di segno patriarcale agita indipendentemente dal sesso. E il riferimento è alle leggi sulla bigenitorialità, all’alienazione parentale – per cui i figli vengono sottratti alle madri – alla discussione sulla pratica dell’utero in affitto e al tentativo di considerare la prostituzione un lavoro come un altro. E violente sono anche le nuove tecniche riproduttive che spezzano l’indispensabile mediazione della relazione materna.

A queste forme di violenza si aggiunge il tentativo di cancellare le donne e la loro specificità e persino il loro corpo attraverso le teorie del gender e la cosiddetta “fluidità di genere” per cui – come denuncia Maria Castiglioni – «il vincolo al corpo sessuato diventa ‘disponibile’, qualcosa che può dipendere da noi, secondo le opportunità, le convenzioni, le mode del momento. Quasi che il nuovo orizzonte di libertà sia raggiungibile solo attraverso la rinuncia al sesso e il mantenersi in una zona di mezzo, fluida, in un’indeterminatezza in cui la solida e irriducibile materialità del corpo è vissuta come anacronistica e liberticida». Così viene rimosso il corpo e, dunque, la genealogia madre/figlia, “la nostra radice”. E in tante interpretano questo cancellare il genere maschile e femminile come una forma di scorciatoia per eliminare ed aggirare il conflitto.

Dietro il discorso sulla neutralità, secondo molte delle donne che hanno preso parte al confronto, c’è un attacco alla maternità e alla libertà femminile che investe il piano materiale, dell’immaginazione e del simbolico. E non è un caso se molte ragazze che hanno ambizioni di carriera oggi vivono la maternità come un peso. Dello slogan originario delle femministe “il corpo è mio e lo gestisco io” si è persa la consapevolezza che questa determinazione era asserita all’interno di un ordine simbolico altro rispetto a quello patriarcale. E altre contraddizioni vengono registrate sul fronte del lavoro. Con la pandemia le donne sono state le prime a perderlo, sono le più precarie e sono le sole ad avere retto il peso della didattica a distanza dei figli. Di qui anche una riflessione sul lavoro agile che può diventare uno strumento per vivere meglio o una nuova gabbia che fossilizza le donne nel doppio lavoro, esterno e di cura.

«Che cosa è successo? – si sono chieste in tante – In cosa abbiamo sbagliato perché la teoria del gender, che cancella la nostra storia, acquistasse valore utilizzando le parole delle donne contro le donne e le femministe? Perché il nostro linguaggio è stato preso e lo si è trasformato contro di noi?» Questioni aperte che saranno oggetto di ulteriori riflessioni. Eppure, in questo quadro così problematico, non manca la consapevolezza che qualcosa sta cambiando nelle nuove generazioni come dimostrano i movimenti ambientalisti guidati dalle ragazze, le denunce delle studentesse del liceo di Castrolibero contro le violenze del loro professore e le proteste contro la logica della scuola-azienda. Da tutte la consapevolezza della necessità sia di luoghi di confronto sia di un nuovo alfabeto del conflitto che possa contrastare le forme di violenza.


(La Sicilia, 22 febbraio 2022)

di Elena Bandiera


L’Ucraina è sull’orlo di una guerra. Il mondo è con il fiato sospeso, l’Europa potrebbe trovarsi a fronteggiare un conflitto in casa, chi può lascia il Paese ma c’è anche chi non vuole farlo.

Come Natalia, 29 anni, madre surrogata che l’altro giorno ha chiamato il suo avvocato per sapere se potrebbe essere costretta dai “genitori intenzionali”, i committenti del figlio che porta in grembo a espatriare. Natalia, il nome è di fantasia, ha un marito e dei figli, per nessuna ragione vorrebbe separarsi da loro ed è convinta che non succederà proprio nulla. Ma i genitori intenzionali sono terrorizzati e vogliono che si trasferisca in Georgia fino al parto. D’altra parte hanno pagato profumatamente per avere questo bambino e ora non vogliono correre rischi. Quando si parla degli effetti della guerra si dimentica che l’Ucraina è anche la capitale dell’utero in affitto in Europa e che questo business, tra i tanti, sarà messo in pericolo da un’invasione russa.

In questi giorni alle agenzie di surrogacy del Paese sono arrivate tantissime disdette da parte di quelle coppie che ancora non avevano iniziato il percorso. Quelli che invece hanno già una madre surrogata incinta pretendono garanzie. Tutte noi ricordiamo quando a maggio 2020, in piena pandemia, l’agenzia di surrogacy Biotexcom diffuse il video della nursery improvvisata nell’hotel Venezia di Kiev dove decine di neonati aspettavano i genitori intenzionali bloccati dal lockdown. (vedere qui, e il video choc qui). Allora tutti si indignarono. Oggi potrebbe succedere lo stesso.

A porre il problema è stato il britannico Sunday Times: «Nel settore della maternità surrogata la crisi ha anche messo in luce le profonde differenze e le disuguaglianze tra le povere donne ucraine che portano i bambini – e di solito vengono pagate tra i 12.000 e i 18.000 euro – e ricchi genitori biologici all’estero».

Sergeij Antonov, un avvocato ucraino, ha raccontato al domenicale che è stato contattato da almeno due coppie per sapere se potevano obbligare la gestante ad andare all’estero: «Le madri surrogate – ha spiegato – hanno i loro bambini e non possono lasciarli per spostarsi in un altro Paese».  I contratti che hanno firmato però potrebbero prevederlo. Almeno in futuro. Le agenzie di maternità surrogata si stanno muovendo in questo senso.

Si calcola – ma è una cifra sottostimata – che ogni anno nascano in Ucraina almeno duemila bambini su commissione. I committenti sono attirati dai prezzi relativamente bassi e dalle leggi che consentono loro di diventare, sin dal concepimento, il padre e la madre del neonato.

Recentemente il Parlamento Europeo, che in una precedente risoluzione aveva espresso una ferma condanna dell’utero in affitto, ha mitigato le sue posizioni limitando il suo “no” alla pratica commerciale. Si sa benissimo in realtà che la maternità surrogata è – salvo rarissime eccezioni – una pratica esclusivamente commerciale, e che là dove è stata ammessa la cosiddetta Gpa solidale l’effetto è stato di spianare la strada al business.


(Feminist Post, 22 febbraio 2022)

di Redazione Rivista Studio


Nell’episodio andato in onda il 20 febbraio dal titolo “Terrore”, Elena è ormai diventata una scrittrice famosa, vive a Firenze col marito e ha due figlie. Quando inizia a sostenere la causa femminista, però, il rapporto con Pietro si incrina. Nella serie L’amica geniale, come nel terzo volume della quadrilogia di Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta, il momento in cui Lenù scopre e legge Sputiamo su Hegel ha un ruolo fondamentale nell’evoluzione della sua coscienza politica. «Com’è possibile, mi dissi, che una donna sappia pensare così?», riflette Elena Greco dopo aver letto le parole di Carla Lonzi. «Ho faticato tanto sui libri, ma li ho subìti, non li ho mai veramente usati, non li ho mai rovesciati contro se stessi. Ecco come si pensa contro».

Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi è uno dei più importanti scritti di riferimento […] dei movimenti femministi italiani. Laureata in Storia dell’Arte all’Università di Firenze, Carla Lonzi (6 marzo 1931-2 agosto 1982) iniziò a scrivere come critica d’arte negli anni ’50 per poi abbandonare la carriera artistica e dedicarsi completamente al gruppo di Rivolta Femminile e alla casa editrice nata dal gruppo, Scritti di Rivolta Femminile. Del libro, pubblicato nel 1970 a Milano proprio da Scritti di Rivolta Femminile, esistono diverse edizioni. La prima è quella con la copertina verde, la seconda è quella del 1974 che comprende anche La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, e compare nella quinta puntata della terza stagione dell’Amica geniale.

Ma di cosa parla esattamente questo libro? Lo riassume nel modo migliore l’autrice stessa proprio nell’edizione del 1974 con parole che, sebbene molte cose siano cambiate, ancora oggi suonano spaventosamente attuali: «Questi scritti, sia quelli firmati da me che quelli firmati collettivamente, segnano le tappe della mia presa di coscienza dalla primavera del 1970 ai primi del ’72, stimolata dalla scoperta dell’esistenza del femminismo nel mondo e dai rapporti con le donne di Rivolta Femminile. Il rischio di questi scritti è che vengano presi come punti fermi teorici mentre riflettono solo un modo iniziale per me di uscire allo scoperto, quello in cui prevaleva lo sdegno per essermi accorta che la cultura maschile in ogni suo aspetto aveva teorizzato l’inferiorità della donna. Per questo la sua inferiorizzazione appare del tutto naturale. Le donne stesse accettano di considerarsi “seconde” se chi le convince sembra loro meritare la stima del genere umano: Marx, Lenin, Freud e tutti gli altri. Mi sono sentita stimolata a confutare alcuni tra i princìpi fondamentali del patriarcato, non solo di quello passato o presente ma di quello prospettato dalle ideologie rivoluzionarie. Il nostro Manifesto contiene le frasi più significative che l’idea generale di femminismo ci aveva portato alla coscienza durante i primi approcci tra di noi. La chiave femminista operava come una rivelazione. Il bisogno di esprimersi è stato da noi accolto come sinonimo stesso di liberazione».

E ancora: «Sputiamo su Hegel l’ho scritto perché ero rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione. Quando né rivoluzione, né filosofia, né arte, né religione godevano più della nostra incondizionata fiducia, abbiamo affrontato il punto centrale della nostra inferiorizzazione, quello sessuale. […] Via via che si andava al fondo dell’oppressione il senso della liberazione diventava più interiore. Per questo la presa di coscienza è l’unica via, altrimenti si rischia di lottare per una liberazione che poi si rivela esteriore, apparente, per una strada illusoria. Per esempio, lottare per il domani, un domani senza condizionamenti per la donna, un domani così lontano che neppure noi ci saremo. L’uomo ha sempre rimandato ogni soluzione a un futuro ideale dell’umanità, ma non esiste, possiamo però rivelare l’umanità presente, cioè noi stesse».


(rivistastudio.com, 21 febbraio 2022 – titolo originale: Perché il libro Sputiamo su Hegel, apparso ieri nella terza puntata dell’Amica geniale, è così importante)