di Mirko Mussetti


(Quando) il passato serve per capire il presente

Proponiamo la lettura dell’articolo di Mirko Mussetti, pubblicato sul sito dell’autore quasi un anno fa. Leggendo l’articolo non si può fare a meno di pensare alle innumerevoli volte che, al verificarsi di un evento tragico, si sente dire che era una tragedia annunciata: succede per tante vittime di femminicidio, è successo per la crisi economica del 2007… e in altre innumerevoli occasioni.

La domanda allora è perché un’intera classe politica non sia riuscita a rendersi conto di quello che si stava preparando, non abbia avuto e continui a non avere la lungimiranza di vedere più lontano pur godendo dell’enorme sapere elaborato in quotati centri di ricerca da stimati analisti, in centri di studio, istituzionali e non, e nonostante la disponibilità di tutte le informazioni degli apparati di intelligence. (La redazione del sito Libreria delle donne)


Da fine marzo la Russia sta concentrando truppe e mezzi militari lungo il confine orientale dell’Ucraina e in Crimea, riannessa da Mosca nel 2014.

Il Cremlino parla ufficialmente di legittime esercitazioni militari sul proprio territorio, ma i circa 85 mila soldati dispiegati a ridosso delle frontiere inducono a non scartare un’imminente invasione russa dell’Ucraina. In virtù non solo della quantità di uomini mobilitati, ma anche della qualità della tecnologia coinvolta.

Oltre all’artiglieria e alla strumentazione idonea all’abbattimento di droni, potrebbero ben presto fare la comparsa nella regione decine di carri armati senza pilota Uran-9, già testati con successo in Siria. La recente visita del potente ministro della Difesa russo Sergej Shoigu ai siti di produzione dei tank robotizzati a Nakhabino, nei pressi di Mosca, è un messaggio in tal senso. Soprattutto, si registra la presenza di diverse batterie missilistiche a raggio intermedio Iskander-M (potenzialmente a capacità nucleare) in grado di colpire il cuore dell’Ucraina, a ovest del fiume Dnipro/Dnepr.

La concentrazione di assetti militari non riguarda solo la forza terrestre. La Russia ha trasferito nel Mar d’Azov imbarcazioni d’assalto anfibio provenienti dal Mar Caspio attraverso il canale del Volga-Don. Nel frattempo altre imbarcazioni militari della flotta del Mar Baltico si stanno dirigendo verso il Mar Nero. Il ministero della Difesa russo ha annunciato che si terranno nei prossimi giorni ampie esercitazioni aeronavali.

Inizialmente attese per il 14 e 15 aprile, le cacciatorpediniere statunitensi USS Donald Cook e USS Roosevelt hanno annullato il loro ingresso nel Mar Nero. In un contesto di alta tensione, la mossa americana sarebbe stata percepita a Mosca come più di una provocazione: essa avrebbe costituito un’intromissione nel naturale spazio geostrategico russo, che comprende l’intero specchio d’acqua eusino.

Le grandi manovre organizzate dal Cremlino nelle acque adiacenti la Crimea vanno interpretate come risposta a una triplice sfida: contro l’Ucraina, che sta a sua volta ammassando truppe lungo la linea di contatto nel Donbas; contro gli Stati Uniti (e per estensione contro la Nato), che appoggiano politicamente e militarmente il governo di Kiev; contro la Turchia, che non ha mai riconosciuto l’annessione russa della Crimea e offre droni d’attacco alle forze ucraine.

Proprio l’impiego dei famigerati droni turchi Bayraktar Tb2 contro le repubbliche separatiste filorusse di Luhans’k e Donetsk, in Donbas, potrebbe dare a Mosca il pretesto di partecipare direttamente nel conflitto a difesa dei residenti con passaporto russo. I droni sorvolano da giorni l’area, per ora senza aver mai sparato. La legittimità dell’intervento verrebbe ricercata nei dettami della Costituzione federale, che impone la protezione di tutti i cittadini russi anche se residenti all’estero.

Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, in visita al Cairo, ha invitato i «paesi responsabili» a non vendere armi all’Ucraina. Il sollecito è primariamente rivolto alla Turchia, che con l’Ucraina detiene una stretta collaborazione nell’industria militare. Il fatto che l’esortazione sia stata formulata proprio mentre si trovava in Egitto, avversario strategico della Turchia, non può essere considerato un caso. Lavrov implicitamente fa sorgere un dubbio a qualsiasi paese intenzionato a rifornire le Forze armate di Kiev: «siete sicuri che le rate verranno poi corrisposte?». Alludendo al fatto che, in caso di scontro e di vittoria russa, nessuna industria militare concorrente vedrà il becco di un quattrino. Vale naturalmente anche per gli operatori statunitensi intenzionati a vendere centinaia di lanciarazzi anticarro Javelin all’esercito ucraino.

Gli Stati Uniti hanno compiuto gesti simbolici non casuali. L’attachée militare dell’ambasciata in Ucraina, colonnello Brittany Stewart, si è recata a pochi chilometri dalla linea di contatto nel Donbas; qui ha anche omaggiato la tomba di un noto appartenente al gruppo paramilitare Pravy Sektor con mostrine inneggianti alla lotta (“Ucraina o morte”). Fumo negli occhi per i decisori politici russi, che nell’ultradestra ucraina vedono irrisi gli sforzi sovietici per sconfiggere le forze nazi-fasciste durante la “Grande guerra patriottica”, ossia la seconda guerra mondiale. Non a caso l’omaggio del colonnello Stewart è stato apprezzato dal battaglione “Azov”, altro gruppo paramilitare d’ispirazione neonazista, che si è detto pronto alla lotta contro l’invasore. Il 12 aprile, Washington ha celebrato in lingua russa sui social network il primo uomo nello spazio (12 aprile 1961) senza citare né l’Unione Sovietica né il cosmonauta Jurij Gagarin, ma con la foto di un astronauta americano. Il direttore generale di Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, Dmitrij Rogózin non l’ha presa bene: «Str*nzi. Le superpotenze non si comportano in questo modo». Ciò che può apparire come un banale e infantile alterco palesa in realtà il grado di tensione tra le due potenze nucleari e l’incapacità (o non-volontà) di comunicare.

La difficoltà a relazionarsi si è resa manifesta anche sulla linea Kiev-Mosca. Lo stesso 12 aprile il presidente ucraino Volodymyr Zelensky avrebbe espresso il desiderio di sentire al telefono l’omologo russo Vladimir Putin per confrontarsi sul deterioramento della situazione. Ma dal Cremlino hanno fatto sapere di non aver ricevuto alcuna richiesta di contatto. Forse essa stessa è una risposta di per sé eloquente: le decisioni più dirimenti sono già state prese.

In considerazione delle forze dispiegate, l’eventuale intervento russo potrebbe non limitarsi ai territori separatisti del Donbas ma muovere fino al fiume Dnepr, creando un corridoio logistico verso la Crimea e risolvendo contestualmente la grave questione idrica che affligge la penisola. O spingersi addirittura fino al fiume Nistru/Dnestr, ricreando un parziale equilibrio strategico con il blocco euroatlantico.

La corsa a ricreare una nuova cortina di ferro lungo l’istmo d’Europa (la linea più breve e rettilinea tra il Mar Baltico e il Mar Nero, quindi più difendibile per entrambi i rivali; all’incirca l’asse Kaliningrad-Tiraspol) vede in netto vantaggio gli Stati Uniti. Avvalendosi della propria influenza diplomatica e militare, Washington sta compattando tutti paesi dell’Iniziativa dei Tre Mari e scaricando su di essi parte dei costi infrastrutturali necessari per rendere sostenibile il progetto di ripartizione delle sfere di influenza. E lo fa in modo geometrico.

La simmetria della nuova cortina virtuale si appoggia sui due bastioni del fianco orientale: Polonia e Romania. Il nuovo corridoio ferroviario idoneo al trasporto militare Rail2Sea, dal porto baltico di Danzica (Polonia) al porto eusino di Costanza (Romania), correrà parallelo all’istmo europeo. E a una distanza sufficiente da sfuggire all’avanzata strumentazione per la guerra elettronica russa dispiegata nella exclave di Kaliningrad e potenzialmente trasferibile in Transnistria. Nel nord della Polonia (Redzikowo) e nel sud della Romania (Deveselu) sono ubicate le due basi missilistiche della Nato Aegis Ashore in grado di garantire il più ampio scudo alla penisola europea. A Łask (Polonia centrale) e a Câmpia Turzii (Transilvania), ben distanti dalle coste per sfuggire ad attacchi aeronavali, sono situate le basi aeree che in un futuro prossimo acquisiranno preminente rilievo strategico per il fianco orientale dell’Alleanza. La base polacca è stata selezionata per ospitare i moderni caccia F35a Lightning II, mentre quella romena già ospita decine di droni Mq-9 Reape.

La Russia è conscia che per ripristinare un parziale equilibrio strategico con gli Stati Uniti dovrà riguadagnare posizioni sia sul piano geografico/logistico che su quello tecnologico. Implementare in Transnistria le misure già approntate a Kaliningrad – mix di sistemi missilistici ed equipaggiamento per la guerra elettronica – sarebbe un approccio finanziariamente sostenibile e nelle disponibilità immediate. Ma l’emarginazione della regione separatista della Moldova impedisce il trasferimento sulla sponda sinistra del Dnestr dei sistemi Iskander-M e delle efficienti batterie terra-aria S-350 Vityaz (raggio corto), S-400 Triumph (raggio medio), S-500 Prometheus (raggio lungo).

Se l’intelligence militare russa vuol per davvero raggiungere un parziale equilibrio strategico per i decenni a venire, dovrà fare perno sulla Crimea e consolidare una posizione militare/doganale a ridosso della Bessarabia.

Gli Stati Uniti, senza mai ammetterlo, potrebbero accettare una linea di demarcazione informale e condivisa con la Russia sull’istmo d’Europa. Altrimenti perché investire miliardi in infrastrutture destinate a rimanere nelle retrovie? Sarebbe utile a serrare le fila degli alleati e a contenere l’influenza della Germania sul Vecchio continente. Intanto hanno spostato le batterie missilistiche Himars custodite in Germania nella base multinazionale Mihail Kogălniceanu in Romania, come forma di deterrenza verso Mosca. I sistemi terra-terra sarebbero in grado (forse) di colpire l’ultrafortificata Crimea.

L’Ucraina non entrerà nella Nato, malgrado il giro di telefonate e i vertici degli ultimi giorni. Non solo per la difficoltà di ottenere il consenso unanime al suo ingresso tra i paesi membri, ma soprattutto perché sarebbe disfunzionale agli obiettivi degli Stati Uniti. L’attuale partenariato con Kiev permette già a Washington di portare avanti una propria agenda politica nella regione senza la costante e sfiancante ricerca dell’approvazione degli alleati minori.

Inoltre, l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sarebbe uno smacco tale per la Russia da forzarla alla guerra aperta contro l’ex-sorella sovietica. Dunque, per l’articolo 5 del Trattato, contro tutti gli Stati membri dell’Alleanza Atlantica, che sarebbero chiamati alla difesa di Kiev. Un rischio elevatissimo per Mosca, per Kiev, per Washington e per tutti i paesi europei poco o per nulla avvezzi al combattimento.

Anche di fronte alle provocazioni statunitensi, la Russia potrebbe procrastinare l’attacco. Agendo d’anticipo, il Cremlino rischia di tornare a esercitare il ruolo di “cattivo”, che già lo contraddistinse all’epoca della Guerra fredda. Ma l’obiettivo di reintegrare in tutto o in parte l’Ucraina nella propria sfera di influenza permane.


Mirko Mussetti è analista di geopolitica e geostrategia, collabora con Limes, rivista italiana di geopolitica. Ha pubblicato, fra gli altri, Áxeinos! Geopolitica del Mar Nero (goWare, 2018), Némein. L’arte della guerra economica (goWare, 2019) e La rosa geopolitica. Economia, strategia e cultura nelle relazioni internazionali, prefazione di Lucio Caracciolo (Paesi Edizioni 2021).


(mussetti.it, 21 aprile 2021)

di Laura Minguzzi


La guerra non ha un volto di donna è il titolo di un libro di Svetlana Aleskievič scritto nel 1985 ma da poco tradotto e letto in Italia. Non è un caso, era uscito prima della caduta del muro, durante la guerra fredda. Dopo ci fu la perestrojka, l’entusiasmo di una fine della storia, storia intesa come una serie di guerre e paci, quasi assimilabile a un avvicendarsi naturale di stagioni e la fiducia che la formula di M. Gorbačëv di un’Europa Casa Comune potesse realizzarsi senza ostacoli. Un’aspirazione che risale all’800, quando la cultura russa occidentalista guardava a ovest combattendo la Russia zarista. Anche oggi vediamo un movimento di protesta che spera in un cambiamento senza spargimento di sangue. Dal 24 febbraio è in atto una guerra fratricida. Finito il patriarcato, grazie al discernimento indipendente guadagnato da mezzo secolo di movimento delle donne, vediamo fronteggiarsi la mascolinità armata, il disincarnato potere delle armi. I corpi in lotta che ricordo io sono quelli delle Femen, un movimento di giovani donne ucraine che con arditi e creativi flashmob nelle piazze del proprio paese, in Francia, in Russia, in Polonia ecc. hanno disturbato e ostacolato il trionfalismo della cricca del partito di Putin, in patria e in occidente. Quello stesso occidente che oggi scopre di avere condiviso senza troppi scrupoli con “l’Impero del male” affari e ideologie misogine. I corpi delle Pussy Riot che dieci anni fa furono condannate a due anni di Colonia Penale nella prigione di Perm in Siberia e che vanno oggi in Piazza Pushkin o al Maneggio come allora (ed è notizia recente, Marija Alëchina è stata arrestata) per denunciare l’alleanza di Putin con la Chiesa ortodossa, col patriarca Kirill, che giustifica la guerra – i due poteri uniti contro la libertà femminile e la libertà di pensiero per restaurare un fantascientifico potere imperiale. Non a caso Putin ha intavolato una tragicomica conferenza stampa per l’otto marzo circondandosi di donne di potere che lo sostengono. A lui piacciono le donne che lo confermano nella sua virilità armata. Come Valentina Ivanovna Matvienko, che al Consiglio di Stato, ha approvato la cosiddetta “Operazione speciale” e che irride pubblicamente le minuscole preoccupazioni quotidiane e alle sofferenze delle donne ucraine e russe, della gente comune a fronte e in nome della difesa dei confini e della potenza della patria. Non vede le tragiche condizioni dei milioni di donne e civili che fuggono dall’Ucraina (che pure è il suo paese di origine) e nemmeno le sofferenze del proprio popolo.

Ogni giorno in alcune grandi città russe manifestano giovani e non solo, che riescono a comunicare su siti liberi (Telegram, Medusa, Youtube ecc…) non ancora bloccati dalla censura di Stato. Si danno appuntamento online in alcune piazze a ore stabilite, rischiano arresti, licenziamenti e molti anni di prigione e ci informano sulla situazione reale al di là della propaganda menzognera. Sappiamo che il movimento delle madri russe fa sentire la sua voce di verità come fu durante la guerra in Cecenia e in Afganistan. I soldati russi morti sono più di 5000 nei primi giorni di guerra come si denuncia sul canale youtube di Aleksej Naval’nyj. Purtroppo anche in Ucraina vediamo agire la propaganda di Stato a colpi di immagini seduttive. Su Facebook sono postate già dal 2014 foto di giovani donne, molto truccate e sorridenti che in tuta mimetica abbracciano fucili e inneggiano al presidente, eletto a eroe della patria. Una sorta di simmetrico incitamento/esaltazione maschile del sacrificio di sé, che fa leva sulla bellezza dei corpi femminili e ne fa un uso strumentale. Le foto sono quelle di giovani, morte in campo di battaglia, durante gli otto anni della guerra di cosiddetto basso profilo ai confini orientali del paese, mostrate come modelli da seguire. Per fortuna nonostante ci siano molte giovani donne arruolate nell’esercito nazionale ucraino, non parlano oggi a favore della guerra e le molte ucraine presenti in Italia, che hanno manifestato nelle nostre piazze per la pace, raccontano dei loro sforzi per convincere figli, mariti, parenti, fidanzati a fuggire e ricongiungersi con loro nelle nostre città.


(www.libreriadelledonne.it, 10 marzo 2022)

di Pinella Leocata


Catania. La rete de La RagnaTela ha dedicato questo 8 marzo alla potenza delle donne, alla loro forza creativa, alla capacità di dare la vita e di tutelarla, come in questi terribili giorni di guerra che mostrano le donne ucraine determinate a mettere in salvo la vita dei propri figli e dei propri cari. Per dire che “le donne sanno” – che sanno che tutte le questioni le riguardano e che sono capaci di reinventare il domani e di discutere e ridefinire ogni cosa – si sono riunite in piazza Federico di Svevia davanti al loro grande striscione, a una bandiera della pace e a una composizione delle opere della street artist afgana Shamsia Hassani che, con senso onirico e poetico, parla della guerra e delle città.

Su tutto s’impone il lungo tappeto rosso delle donne che, con il loro sapere, hanno inciso beneficamente sull’umanità. Tante le immagini di scienziate, ambientaliste, pacifiste e rivoluzionarie, come Franca Viola che con il suo no alle nozze riparatrici con il suo violentatore ha contribuito a spezzare l’omertà e a cambiare il costume delle donne, e Rosa Park che rifiutandosi di cedere il posto a un bianco ha aperto la stagione dei diritti dei neri americani. Ci sono le tre biologhe italiane che per prime in Europa hanno isolato il Covid 19, tre meridionali, la campana Maria Rosa Capobianchi, la molisana Francesca Calavita e la siciliana Conetta Castelletti. C’è Françoise Barré Sinoussi, francese, l’immunologa che ha indentificato e isolato l’Hiv, premio Nobel per la Medicina nel 2008. C’è Rigoberta Menchù Tum, esponente del movimento di liberazione degli Indios, premio Nobel per la pace nel 1992. C’è l’ambientalista e scrittrice Naomi Klein, e l’attivista ambientalista Vandana Shiva e tante altre. E con loro un grande panello dell’artista e scenografa Concetta Rovere composto da volti di donna, disegni abbigliati con stoffe, lane e stringhe in una composizione improntata alla filosofia del recupero e della creatività.

Tante le donne che hanno preso la parola al microfono, come Anna Di Salvo che ricorda le riflessioni delle donne contro la guerra, i pensieri delle filosofe Hannah Arendt, Carla Lonzi e Simone Weil e della scrittrice Virginia Woolf che ne “Le tre ghinee” spronava a inventare pratiche e parole nuove per opporsi alla guerra. Nunzia Scandurra sottolinea la grande competenza che le donne mettono in campo ogni giorno, seppure spesso non vengono neppure nominate. E Mirella Clausi evidenzia la grande forza delle donne, come quella delle studentesse calabresi che hanno denunciato le molestie del loro professore. Da lei parole forti contro l’orrore della guerra e la consapevolezza che “nel mondo c’è bisogno del pensiero e della forza femminile”, “c’è bisogno della nostra capacità di gestire il mondo in modo differente”. E c’è bisogno, come dice Cinzia Colajanni dell’Adas, Associazione a difesa dell’ambiente e della salute, di organizzarsi e di lottare per una città accessibile a tutte e a tutti, disabili, anziani, mamme con bambini. E, a questo proposito, Simonetta Cormaci, dell’Unione italiana ciechi, ha ricordato l’apertura, nella sede di via Louis Braille 6, del primo sportello in Sicilia dedicato alle donne con e senza disabilità, un luogo accessibile a tutti, a partire dall’assenza di barriere architettoniche, un posto dove aiutare le persone a lottare la doppia discriminazione dell’essere donna e disabile. Infine da Pina Palella dell’Anpi l’invito a educare le nuove generazioni all’accettazione, all’abbandono degli stereotipi.

E non è mancata, interpretata da Carmina Daniele, neppure la voce delle poetesse ucraine, come Lyudmilla Legostaeva, che parla di un albero che scrive lettere all’Ucraina raccontando delle bianche betulle da cui cadono gocce rosse di sangue, o come la tredicenne israeliana Talil Sorek che in “Ho dipinto  la pace” dice “non avevo il rosso per il sangue dei feriti, non avevo il nero per il pianto degli orfani, non avevo il bianco per le mani e il volto dei morti, ma avevo l’arancio per la gioia della vita”. Arancio, come il colore degli agrumi prodotti in un terreno confiscato alla mafia e distribuiti agli abitanti della piazza con l’annuncio, da parte di Alfio Furnari, che un gruppo di agricoltori biologici si sta preparando per partire per Kiev per incontrare i propri colleghi in segno di pace, “perché la terra ama la pace”.


(La Sicilia, 10 marzo 2022)

di Fabrizio Filice


Men on men è il titolo di un’antologia di letteratura gay americana e oggi suona beffardo, paradossale.

Il Patriarca di Mosca, nel manifestare l’appoggio del clero alla guerra contro l’Ucraina, ha voluto dire che è giusto mandare uomini a uccidere altri uomini perché bisogna assolutamente evitare che uomini amino altri uomini.

Uno degli elementi portanti di questa guerra, come delle altre, sta tutto qui: nel potere degli uomini, o meglio, nel potere secondo gli uomini; che è poi l’unica forma di potere che conosciamo dall’inizio dei tempi, risalente probabilmente al Neolitico quando, con i primi insediamenti stabili, gli uomini iniziano a tessere alleanze tra loro per difendersi dalla natura, equivocata – per ignoranza – come una forza ultraterrena, terrifica e spaventosa; tanto che per esorcizzarne la paura l’uomo inizia a imitarla, almeno per come lui la intende, cioè come una forza oppressiva.

Inizia ad essere, l’uomo, oppressivo a sua volta sull’altro uomo e la prima connotazione di questo soggiogamento originario, che fonda la struttura oppressiva della società patriarcale, è probabilmente di carattere sessuale.

Sono le donne le prime vittime di quel soggiogamento, diventano mezzi di scambio e di alleanze tra villaggi diversi, nasce la patrilinearità.

Il seguito lo conosciamo.

La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo? si chiedeva provocatoriamente Carla Lonzi nel profetico, e inascoltato, Sputiamo su Hegel nel 1970.

La misoginia, l’odio verso le donne e verso l’alternativa che potrebbero rappresentare, l’odio verso il loro corpo capace di creare la vita e l’intolleranza verso ogni forma di sessualità e di genere che devii dal paradigma eterosessuale non sono determinate dal desiderio di preservare la coppia eterosessuale nella sua dimensione ideale, ma nella sua dimensione storica, integralmente sbilanciata a favore dell’uomo, del suo io virile e bellico, e del suo modo oppressivo di gestire il potere.

Uomini sono i leader che decidono le guerre, uomini sono i soldati come i chiamati a resistere: un ordine di mobilitazione generale firmato dal governo resistente di Kiev impedisce infatti a tutti gli uomini adulti di lasciare il Paese, perché devono restare e combattere, da uomini.

Come uomo rivolgo a me stesso, e a tutti gli uomini, una domanda: davvero vogliamo questo? Davvero siamo questo?

Se non è così allora c’è una sola cosa da fare e in fretta. Promuovere in modo forte e consistente una radicale transizione verso il potere femminile, superando le resistenze, le ritrosie, spesso le ilarità, che si affacciano ogniqualvolta si parla di leadership femminile e degli strumenti per ottenerla, come le quote di rappresentanza in tutti i contesti gestionali, pubblici e privati; quote di rappresentanza femminile, non di genere in senso neutro, perché la finta neutralità di un sistema a vocazione tutta maschile è il problema.

Si obietta: che garanzia abbiamo che sarebbe diverso, che sarebbe meglio?

Nessuna. Non si hanno garanzie quando si sostituisce un ordine convenzionale con un ordine nuovo. Ma quando l’ordine convenzionale giunge a un passo dal provocare la fine atomica dell’umanità, quando quell’uomo che ha voluto dare lui, da solo, inizio alla storia è prossimo a decretarne la fine, allora la priorità è smantellarlo, quell’ordine millenario; e affrontare con speranza e motivazione la sfida del nuovo.


(il manifesto, 10 marzo 2022)

di Clara Jourdan


Mentre assisto mia madre anziana, sopra la casa passano aerei F-35 nei voli di prova da e per il vicino aeroporto militare di C. Ci siamo abituate, come nel secolo scorso con gli ancor più rumorosi F-104. Poi arrivano le notizie dall’Ucraina, morti e profughi e distruzione di città. Terribile. Che cosa possiamo fare? Mia madre prega, io cerco di capire cosa stia succedendo. La guerra si sta estendendo: il nostro parlamento ha deciso di far partecipare l’Italia inviando armi al paese attaccato. Buona intenzione ma decisione sbagliata, aumenta il pericolo di una nuova guerra mondiale che potrebbe essere l’ultima dell’umanità. Nel 1945 la bomba atomica l’avevano solo gli Stati Uniti e l’hanno usata. Adesso ce l’hanno tutti: come possiamo credere che tutti e ciascuno dei governanti di oggi siano migliori? Che un Putin sia più responsabile di Truman che ha fatto sganciare l’atomica su Hiroshima e dopo averne visto l’effetto un’altra su Nagasaki?

Ricordiamo tutti la gioia generale alla caduta del muro di Berlino nell’89 e il senso di sollievo per quel che ne è seguito, la fine della Guerra fredda in Europa. Se era troppo sperare che lo scioglimento del Patto di Varsavia (1991) portasse anche allo scioglimento della Nato, almeno c’era l’accordo di Bush con Gorbačëv che la Nato non si sarebbe allargata verso est. Un impegno di pacificazione. Pacta sunt servanda, i patti vanno rispettati, il principio alla base del diritto internazionale per evitare le guerre tra stati ci rassicurava. E invece la Nato si è ampliata a est, più volte dal 1999, l’ultima nel 2020, ben 14 paesi sono entrati e non ci abbiamo badato. Nemmeno quando l’invito della Nato è stato rivolto anche all’Ucraina. Parlo per me ma non ricordo proteste, e non sono certo l’unica a essere stata distratta, perché anche oggi che ne vediamo le tragiche conseguenze sono ben pochi i commentatori – Barbara Spinelli, Luciana Castellina, Ida Dominijanni… – che ci ricordano questi fatti storici fondamentali, ignorati da quasi tutti i giornalisti e «i politici nostrani, sgomenti, accorati, come se non avessero nessuna parte nella vicenda», sottolinea Paola Mammani su questo sito. Si tende sempre a pensare ai nostri governanti “democratici” come a persone responsabili, i guerrafondai sono sempre gli altri. Eppure dovremmo ormai saperlo che la fabbricazione di armi sempre più progredite e le alleanze militari non servono ad altro che a fomentare guerre, come dimostra lo stato di guerra perenne che cova e si riaccende qua e là per il pianeta. Solo la cecità indotta delle tradizioni culturali patriarcal-patriottiche o dal desiderio maschile di potere impedisce di rendercene conto e agire di conseguenza, «creare attività più onorevoli» per gli uomini, come scriveva Virginia Woolf nel 1940 (Pensieri di pace durante un’incursione aerea).

In questa tragedia c’è una cosa che mi colpisce in positivo: l’accoglienza europea ai tantissimi profughi dall’Ucraina, che sono soprattutto donne con i loro figli. Io temevo che avremmo fatto come con i profughi dalle altre guerre di questo secolo, respingerli. E invece le stiamo accogliendo a braccia aperte. Non credo sia solo perché sono popolazioni vicine, come si dice e probabilmente è vero. Io voglio sperare che sia in atto un cambiamento, dopo la delusione per l’occasione mancata della pandemia in cui è stato permesso alle imprese farmaceutiche di impedire ai paesi poveri la libera fabbricazione dei vaccini. Se usciremo da questa guerra forse riconosceremo come fratelli e sorelle anche chi scappa dalle guerre dell’Africa, dell’Asia, dell’America. Perché abbiamo sperimentato che ormai il mondo è uno e siamo tutti e tutte coinvolte.


(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2022)

di Silvia Baratella


L’8 marzo ho udito più volte su Radio Popolare il seguente comunicato delle giornaliste:

«Oggi 8 marzo le lavoratrici di Radio Popolare aderiscono allo sciopero transfemminista di Non una di meno. Rifiutiamo la violenza di genere e la cultura patriarcale che esclude, discrimina, opprime le donne e le persone non eterosessuali. Scioperiamo per la fine delle disuguaglianze e contro le politiche di sopraffazione che sottendono alle guerre».

Mi chiedo: con queste parole d’ordine, perché scioperano solo le lavoratrici e i lavoratori no?

Scioperare comporta la trattenuta di una giornata di stipendio. In virtù di quale privilegio gli uomini vanno esentati da questa “tassa”, versata per obiettivi che li riguardano? Insomma, mentre le giornaliste eterosessuali scioperavano anche per gli uomini gay, gli eventuali giornalisti gay di Radio Popolare non scioperavano per le donne, ma nemmeno per sé stessi. Sì sì, hanno scioperato anche donne lesbiche e comunque gli uomini sciopero-esenti sono in grande maggioranza eterosessuali. Si sa. Ma questo non cambia il curioso rapporto fra chi sciopera e chi dovrebbe beneficiarne.

Un po’ come quando, dopo il lavoro, lei cucina e lava i piatti della cena che ha gustato anche lui, e lui lo considera dovuto. No? 

Postilla: il comunicato, scritto da giornaliste professioniste, ha il pregio di essere conciso, facendo così risaltare il paradosso. Che dipende comunque da chi lo sciopero l’ha ideato così.


(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2022)

di Traudel Sattler


Non era “diventare prete” il motivo per entrare come una delle prime donne nelle facoltà teologiche romane, spiega Marinella Perroni, docente emerita di Nuovo Testamento e fondatrice, insieme ad altre, del Coordinamento teologhe italiane, nel suo articolo “La figlia di Dio” (la Lettura, 6 marzo 2022). Tante donne che frequentano gli studi teologici nelle Pontificie facoltà romane e ci insegnano pure, senza la prospettiva dell’ordinazione sacerdotale, ciò nondimeno «hanno sviluppato un’autentica passione per la teologia che ci ha portato ad affrontare un curriculum di studi lungo almeno nove anni, impegnativo e, per la maggioranza, privo di sbocchi lavorativi. Lo scopo non era assolutamente il sacerdozio, ma, al contrario, cooperare a quel processo di declericalizzazione della teologia […]. Alcune, è vero, coltivavano anche il desiderio profondo di essere finalmente ammesse al sacerdozio». L’autrice ripercorre la storia del reiterato rifiuto del sacerdozio alle donne, mostrandone la fragilità di fronte alle pressioni del femminismo. E mette in evidenza come la differenza sessuale è divenuta convenzionale nell’immaginario clericale, che “ingabbia la complessità e genera stereotipi” e conclude: «da quando il pensiero femminista ha smascherato come androcentrica e patriarcale la subordinazione tra i sessi, tanto la visione antropologica cattolica che le sue ricadute sul piano dell’organizzazione ecclesiastica sono oggetto di riflessione e di discussione. Ben sapendo che una millenaria tradizione intellettuale, se viene assunta con rispetto, ma anche con lucidità, porta sempre già in sé stessa germi di futuro».


(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2022; l’articolo pubblicato su La lettura è consultabile anche al seguente link: https://pierluigipiccini.it/archives/la-figlia-di-dio/)

America alternativa di Luciano Martinengo,1972, esplora la vita quotidiana di alcune comuni, facendo emergere temi di forte attualità anche per il presente: l’organizzazione di strutture sociali e lavorative basate su una democrazia radicale, la necessità di stabilire rapporti paritari, particolarmente  in relazione all’omosessualità e al femminismo, i limiti del consumismo e dello spreco, il tema dell’ecologia. Presentano Luciano Martinengo ed Elena Petrassi.

Accesso con Super Green Pass e mascherina FFP2

Per prenotazione:  https://www.libreriadelledonne.it/prenota-un-evento-a-calendario/

di Vita Cosentino


Ilaria e Daniela con le loro parole ci fanno presente una forte contraddizione: mentre nel mondo reale con il femminismo abbiamo imparato a sottrarci allo sguardo maschile, in quello virtuale questa sottrazione risulta difficile. La continua esposizione sui social apre in una giovane donna una ferita proprio nel cuore dell’elemento politico primario a sua disposizione: il corpo.

L’occhio maschile – del mercato, della società, del potere – si frappone determinando uno scollamento tra l’esperienza del corpo e la sua rappresentazione, che risulta distorta perché filtrata dalla lente della sessualizzazione del corpo femminile. Loro stesse finiscono per guardarsi attraverso quello sguardo distorto.

Tutto ciò porta alla tentazione della dissociazione di cui ci hanno parlato. Così attraversate dalla contraddizione, ai loro occhi i guadagni politici connessi al radicamento nel corpo, fatti dalle generazioni femministe precedenti, sembrano frutti lontani e inaccessibili: cose su cui non possono contare.

Sull’essere corpo Chiara Zamboni in “Parole non consumate” richiama dalla Dolto l’idea che una donna non possiede il suo corpo, ma è il corpo e ha con esso un legame inconscio. Il lato inconscio del corpo «è il tessuto delle relazioni più autentiche che hanno segnato l’esistenza, di cui non sempre portiamo memoria». Ci lega agli altri e al mondo. La nostra storia singolare, dai primi legami familiari a tutti gli altri incontri ed esperienze, depositata dentro di noi, è presente, anche se non cosciente.

C’è un’intelligenza corporea inconscia che alimenta il nostro sentire e quindi il nostro pensare e agire.

Sarà per questo, oppure sarà per altro, ma sta di fatto che nel mondo reale Ilaria, Daniela e le altre Compromesse hanno fatto il gesto essenziale che rompe con questa sorta di incantamento dei social: rivolgersi all’altra che è donna, contare su uno sguardo femminile.

Sono convinta che mantenendo ben salda questa scelta nel mondo reale si potranno provocare mutamenti, forse ancora difficili da immaginare, anche in quello virtuale. L’esperienza del sito della Libreria va in questa direzione: c’è una redazione “carnale” che si riunisce tutte le settimane.

Io sento nelle parole di Ilaria e Daniela che già fanno la politica delle donne, proprio perché danno voce, con lucidità e franchezza, al disagio e alla sofferenza vissuta in prima persona e li portano alla discussione. Ma non sono consapevoli – e posso dare io questo rimando – che è proprio così che è cominciata, comincia e procede, la politica dell’essere corpo, dell’immettere il corpo nello spazio pubblico. L’abbiamo chiamata la politica del partire da sé e della relazione tra donne.

Sono loro grata perché mi hanno sollecitata a rileggere materiali del passato che non prendevo in mano da tempo. Tra questi un titolo che ho trovato nel loro blog: “Mettere al mondo il mondo”. Non ricordavo più se fosse il secondo o il terzo libro di Diotima, allora sono andata in internet e ho scoperto che è molto aumentato di prezzo perché è catalogato come “libro antico”! È il secondo, uscito nel 1990. L’anno dopo è uscito “L’ordine simbolico della madre” di Luisa Muraro. Questi due libri antichi sono stati per me i frutti più significativi di quella stagione, perché dalla consapevolezza dell’essere corpo, segnato dalla differenza, arrivano a delineare una diversa concezione del mondo.

Nel volume collettivo di Diotima, in particolare Adriana Cavarero riprende da Hannah Arendt la categoria della nascita in tutta la sua dirompenza rispetto a quella della morte su cui si regge, da Platone in poi, la filosofia occidentale: per quest’ultima il mondo corporeo del caduco e del divenire è svalutato e contrapposto all’essere che si offre immobile alla contemplazione.

Dice Cavarero: «La centralità della morte produce da un lato la scissione tra pensiero e corporeità e, d’altro lato, iscrive in questa scissione l’astrattezza di un pensiero decorporeizzato e il disprezzo per il corpo i cui segni diventano insignificanti».

La natalità è la categoria centrale «perché annuncia il radicarsi degli umani nella singolarità del cominciamento». Ne consegue che la soggettività è sempre incarnata e sessuata.

È certo che donne e uomini siamo mortali, ma è altrettanto certo che prima di morire siamo nati e nate. E da una madre. Questo, se accettato, può essere significato e apre a una diversa concezione del mondo, come argomenta Muraro nel suo libro, dando parola a un altro ordine simbolico, quello della madre, che non è un rovesciamento simmetrico e speculare di quello paterno patriarcale. È un’apertura di un orizzonte di libertà per donne, uomini, e ogni altro genere.

Cavarero conclude dicendo che una donna che si radica nel suo corpo, rimette nel mondo se stessa «e così facendo mette al mondo il mondo come esso si è messo, ossia come esso appare e si mostra alla vista di ognuna e di ognuno».

Il patriarcato è finito, ma non è finita la fallocrazia e in questi tempi mutati siamo nella necessità di pensieri e di parole nuove.

Quando abbiamo incontrato le Compromesse, abbiamo sentito di parlare la stessa lingua, pur nelle profonde differenze che ci attraversano. Ci siamo fidate le une delle altre e abbiamo deciso di percorrere questa che si può configurare come una nuova pratica di differenza.

Ricominciamo dal corpo per me vuol dire rivisitare i nuclei fondamentali del femminismo e metterli alla prova del presente a partire dai vissuti, dalle idee, dai desideri di giovani donne.

È una strada che può generare nuove idee per l’oggi? Non lo so.

Di certo è una scommessa attraente da fare insieme. Niente è dato per scontato.


(#VD3, www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2022)

di Luciana Castellina


[…]

Se i nostri governanti e i loro menestrelli, invece di mettersi l’elmetto e intonare inni patriottici per decantare i “valori occidentali”; se invece dell’irresponsabile decisione di mandare armi ai ragazzi ucraini, sapendo bene che non potranno vincere i carri armati russi ma solo offrirsi come vittime di un terrificante bagno di sangue; se invece ragionassero su come si può esser più efficaci nel perseguire un compromesso decente, sarebbe ancora possibile impedire che tutto degeneri in una guerra mondiale, combattuta nel territorio più affollato di centrali nucleari.

Che l’Europa si assuma la responsabilità di una mediazione – la neutralità sarebbe un obiettivo possibile. Questo è quanto oggi dobbiamo riuscire a imporre.

Ma sabato alla manifestazione di piazza san Giovanni ho chiesto ai militanti pacifisti di unirsi tutti in una collettiva autocritica: siamo stati attivi e pronti a rispondere nei momenti esplosivi, ma ci siamo distratti nelle lunghe fasi in cui i disastri venivano preparati.

In particolare per quanto riguarda la politica portata avanti dall’Unione europea. Non abbiamo infatti denunciato a sufficienza e per tempo quanto sia stato grave perdere l’occasione della caduta del Muro per dare concretezza al nostro vecchio slogan «Un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali». E cioè per non imporre quanto pure sembrava concordato con Gorbačëv: che una volta ritirate le truppe del patto di Varsavia, si facesse altrettanto con quelle Nato; per non aver impedito che l’allargamento dell’Unione fosse condotta in modo da costruire un altro muro militare che ha isolato la Russia anziché coinvolgerla nella costruzione di una rete di cooperazione – quella Casa comune europea che voleva Gorbačëv. E più recentemente per non aver prestato sufficiente attenzione alla guerra civile che devasta la regione al confine meridionale Russia-Ucraina dal 2014.

Abbiamo ignorato la crescente frustrazione del popolo russo per esser stato marginalizzato e respinto, e dunque anche noi siamo responsabili per aver contribuito alla crescita del pericoloso potere di Putin, alimentato dalla mortificazione del popolo russo.

Chiedo che tutti noi dobbiamo impegnarci a riflettere su questa nostra disattenzione. Se non si vuole più considerare la guerra come strumento della politica estera – come dobbiamo – bisogna impedire che il pacifismo sia soltanto intermittente protesta. Le guerre possono esser fermate solo combattendo quello che le prepara, quello è il tempo in cui serve intervenire.

Ora che il guaio è fatto possiamo tuttavia fare ancora molte cose utili e perciò rimbocchiamoci le maniche. L’Arci ha proposto a tutti di organizzare una carovana di autobus, non per portare noi in Ucraina ché faremmo solo confusione, «vuoti, a bordo solo l’indispensabile, uno che guida, uno per organizzare». Perché di questo hanno bisogno ora gli ucraini: di trovare mezzi di traporto per mettersi al riparo.

Può darsi che molti ucraini – i maschi coraggiosi rimasti nel paese per combattere – non saranno contenti. Ma tocca a noi spiegare quanto ha realisticamente detto ancora una volta papa Francesco: persino le guerre giuste oggi non si possono più fare.

Non è un invito alla resa. È solo un invito a capire che oggi – in presenza di armi di distruzione di massa – si deve combattere con il cervello e non con i fucili, che non è più il tempo della spedizione di Sapri, quando in «300, giovani e forti, sono morti». Oggi ne morirebbero miliardi.

Ero in questi giorni delegata al congresso dell’Anpi di Roma. È stato commovente vedere le/i – non poche/i – partigiane/i sopravvissuti come e quanto abbiano capito questa differenza.

Ma straordinario è stata anche un’altra cosa: la presenza di una quantità di giovani donne che ormai sono leader dell’associazione. È un altro segno che almeno qualcosa di positivo c’è e in questo difficile 8 marzo e vogliamo celebrarla: la rivoluzione femminile. Che è vittoriosa, anche se, ahimè, c’è ancora tanto femminicidio.


(il manifesto, 8 marzo 2022)

di Barbara Spinelli


Visto che nessun Paese della Nato o dell’Unione europea vuol entrare in guerra con la Russia, e rischiare uno scontro che implichi il ricorso – intenzionale o accidentale – all’Armageddon nucleare, logica vorrebbe che si tentassero tutte le vie per metter fine alla guerra scatenata dal Cremlino in Ucraina, e al massacro delle città ucraine. “Tutte le vie” vuol dire instaurare al più presto un cessate il fuoco, aprire corridoi umanitari, avviare subito un negoziato che salvi la faccia non solo a Kiev, ma anche al Cremlino, e che eviti umiliazioni irreparabili dell’aggredito come dell’aggressore, tali da avvelenare il futuro degli ucraini e dei russi quando i loro governi cambieranno.

“Tutte le vie” vuol dire anche incaricare possibili mediatori, che non giustifichino l’aggressione di Mosca, ma che abbiano l’intelligenza di mettersi nei panni di chi, pur responsabile della guerra, ha da far valere alcune ragioni, inascoltate da decenni nella Nato e nell’Ue. Le proposte non mancano, ma purtroppo un incarico formale manca. Si parla di Angela Merkel, che con Putin parla in russo e tedesco, e che per anni ha difeso gli accordi di Minsk (comprensivi di una revisione costituzionale ucraina che conceda ampie autonomie al Donbass: punto cruciale per Mosca). Oppure si parla di una mediazione israeliana o turca o cinese, anche se Pechino resta neutrale e aborre ogni sorta di separatismo. Non per ultimo potrebbe muoversi il Vaticano, usando come leva l’inedita comunanza creatasi in questa guerra tra Chiesa ortodossa ucraina e russa.

Il guaio è che non ci sono logica né metodo nel pensiero della Nato, dell’Unione europea e di gran parte dei commentatori, ma un bisogno ormai patologico del nemico esistenziale, a Est, che legittimi il sopravvivere di blocchi super-armati a Ovest anche se non esiste più nelle forme di ieri. Di qui l’immagine ricorrente di Putin come Hitler, o Stalin. O come animale, e anzi “peggio di un animale” a sentire le scempiaggini del ministro degli Esteri Di Maio (messo a tacere solo da Georgia Meloni, non dal governo né dal suo partito). Profetico in questo quadro quel che disse Georgij Arbatov, consigliere politico di cinque segretari generali del Partito comunista russo, quando l’Urss si disintegrò: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico».

Provare ad ascoltare le ragioni e le esigenze segnalate da Mosca non vuol dire giustificare una guerra che resta criminosa, e oltremodo opaca per quanto riguarda gli obiettivi veritieri di Putin. Vuol dire ascoltare e prender sul serio le condizioni elencate proprio ieri da Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino: immediato cessate il fuoco, in cambio del riconoscimento della Crimea annessa nel 2014, del riconoscimento delle Repubbliche del Donbass e della neutralità dello Stato ucraino (i modelli potrebbero essere il trattato Russia-Finlandia del 1948 e quello sull’Austria del 1954).

La guerra è certo opaca e non sappiamo se davvero Putin si accontenterà della neutralità ucraina e del riconoscimento di Crimea e Donbass russi. Ma provare a mettersi attorno a un tavolo si può, e rinunciare ufficialmente a nuovi allargamenti Nato si deve. Non lo dicono solo i pacifisti. Lo hanno detto protagonisti della Guerra fredda e delle teorie del “contenimento” come George Kennan nel 1997 («l’allargamento Nato è l’errore più fatale del dopo-Guerra fredda»), e poi Henry Kissinger ed Helmut Schmidt nel 2014 dopo l’annessione della Crimea.

Confrontate con gli argomenti di questi ultimi, le condotte odierne dei leader europei sono di una mediocrità senza pari. C’è chi, senza sapere cosa dice, si felicita della fermezza con cui l’Ue si arma ai propri confini e invia sempre più armi in Ucraina, perché lo scannamento continui sui nostri schermi. Secondo alcuni, non solo in Italia, questa guerra avrebbe addirittura «spinto l’Unione europea a reinventarsi».

In realtà l’Europa non sta inventando alcunché, se per invenzione s’intende ideare qualcosa di nuovo, di non ancora tentato. Se esistesse l’autonomia strategica dalla Nato di cui Macron parla senza mai specificarne le modalità. Se cominciasse un’autocritica non solo sull’estensione della Nato, ma anche sulle politiche di allargamento Ue a Paesi dell’Est che sono entrati nell’Unione solo per meglio accedere alla Nato, l’istituzione da loro preferita.

Sono giorni che Macron, presidente di turno del Consiglio Ue, parla con Putin per poi annunciare, quasi fosse un giornalista qualunque, che i russi «andranno fino in fondo». A che serve saperlo se non viene indicata la via d’uscita che l’Europa potrebbe escogitare? L’Europa scarta la guerra frontale con la Russia e per questo è giustamente contraria alla chiusura dello spazio aereo sopra l’Ucraina chiesta da Zelensky e avversata dal Cremlino, che l’interpreterebbe come guerra dichiarata della Nato. L’Ue auspica sanzioni sempre più severe, ma molti Stati non vogliono perdere l’accesso al gas russo, necessario alle proprie società. Quanto ai profughi, ben venga l’apertura doverosa, se non fosse per la selettività che la contraddistingue. «Grande emozione perché vedo europei con occhi azzurri e capelli biondi!» (viceprocuratore generale ucraino). «Non stiamo parlando di fuggitivi siriani, ma di europei!» (BFM TV, Francia). «Stavolta non sono profughi siriani ma ucraini… Si tratta di cristiani, di bianchi! Sono nostri simili» (Nbc News).

Né è inventivo riesumare di continuo parallelismi storici strampalati. Quello ricorrente menziona il cedimento (appeasement) delle democrazie che nel 1938 a Monaco permisero a Hitler di smembrare la Cecoslovacchia. Non manca giorno in cui il ’38 non venga evocato, senza mai fare accenno alla vittoria ottenuta nel ’45 grazie a oltre venti milioni di morti russi (il “patto col Diavolo” ci ha salvati). Il contributo russo alla Resistenza è sempre più obnubilato (fino a cancellarlo, nella risoluzione del Parlamento europeo del 2019). Questo revisionismo storico è un altro elemento che offende la Russia, Paese europeo per eccellenza.

Gli storici futuri narreranno questa guerra come un attacco sproporzionato, come punitivo regime change, ma ricorderanno le umiliazioni inflitte per trent’anni alla Russia, a cominciare dalla Nato allargata. Può darsi che la strategia del Cremlino sia imperiale, ancora non sappiamo. Ma di certo conosciamo le parole di Putin: «Chiunque non senta la mancanza dell’Unione sovietica è senza cuore. Ma chiunque voglia il suo ritorno è senza cervello».


(Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2022)

di Stefania Falasca


«È possibile che l’uomo non abbia imparato niente? Ripete gli stessi errori, sempre gli stessi, è desolante, un dolore enorme per me che ho vissuto la guerra peggiore». Edith Bruck ha raccontato ancora una volta la sua storia di donna deportata e sopravvissuta alla guerra, al fumo acre della carne bruciata dei suoi fratelli, delle sue sorelle nei forni crematori, in quelle fosse comuni dove inesorabile si è inabissata l’umanità. L’ha fatto guardando a più di novant’anni al nuovo agghiacciante scenario di guerra che si è spalancato come una voragine dietro casa, in Europa. E ha voluto ancora portarsi, come ha fatto di recente ad Assisi davanti a migliaia di studenti per la prossima Giornata europea dei giusti che si celebra il 6 marzo, perché «testimoniare per me è una missione». «Io – ha detto rispondendo a quei ragazzi – anche allora volevo parlare subito dell’immane tragedia vissuta, ma nessuno voleva ascoltare. E per questo ho scelto di scrivere perché anche se l’orecchio umano non vuole sentire, la carta sopporta tutto».

Ma come si può raccontare tutto questo senza odio?

Ringrazio Dio di non conoscere il sentimento dell’odio, e non capisco chi oggi definisce chi fugge dalle guerre e dalla fame “zecche di cane”, che dovrebbero affogare. E soprattutto non capisco come si possa, ancora oggi, usare armi e uccidere pensando di stare dalla parte di Dio. Sono esausta – riprende mentre appoggia ora i piedi stanchi sui cuscini, e Olga, ucraina, che l’accompagna da anni, piange in silenzio la separazione da sua figlia, rimasta nei sotterranei al confino ucraino insieme ai suoi bambini di cinque e otto anni –. Hai visto le immagini trasmesse? Le ultime…

Quali?

Quelle di un giovanissimo soldato russo che scende dal mezzo blindato per chiedere piangendo un bicchiere d’acqua a una donna ucraina… Lei gli da mangiare e gli presta il telefono per parlare con la mamma… Poveri anche questi ragazzi russi buttati come carne da cannone dentro una guerra sporca, come lo sono tutte le guerre, come bambini armati che non sanno neanche dove si trovano… E questo dice tutta la mostruosità e l’insensatezza di quello che sta accadendo e ci travolge tutti.

Ci sono tante madri che scappano con i loro bambini…

Le donne sono doppiamente vittime. Sempre vivono la parte peggiore delle guerre.

Lei ha scritto nella sua Lettera alla madre cosa avrebbe fatto con i suoi figli.

Non avrei mai detto che ci sono uomini tutto cattivi o tutto buoni, non gli avrei parlato di guerre sante, di terre sante, solo di popoli e terre e popoli senza terra, che la guerra è il fallimento dell’uomo.

Ma ci sono anche donne, vediamo in Ucraina, che imbracciano e preparano armi e combattono…

Si difendono, ma noi dobbiamo lottare per la pace. Perché non c’è una guerra giusta. E non ci può essere una guerra giusta. Inviare armi è giusto?

Cinquantadue paesi stanno mandando armi in Ucraina.

Mandare armi per fermare armi non ha senso. È una contraddizione. Tutto è una contraddizione. La contraddizione è all’origine. Come si divide una patria con giustizia dopo averla conquistata morendo e uccidendo? Più si uccide più si muore, dentro. C’è troppo sangue in mezzo, troppa differenza, troppa poca buona volontà, e ancora meno umiltà. Chi è stato troppo umiliato è poco incline a concedere a chi non c’entra niente con la sua umiliazione?

È l’otto marzo. Quale messaggio possono dare le donne?

Di non coltivare l’odio, la vendetta, di non trasmettere mai questo. Nel ’45 dopo la liberazione io e mia sorella Golde, uniche sopravvissute alla Shoah di tutta la nostra numerosa famiglia, riuscimmo a ritornare a casa. Ricordo gli americani e i soldati nazisti ungheresi che scappavano, braccati, si nascondevano… Ricordo cinque di questi soldati che ci implorarono di aiutarli, potevamo denunciarli, io e mia sorella ci guardammo negli occhi, li nascondemmo. Noi abbiamo dato loro rifugio.

Per lei che ha visto negli occhi Mengele quale può essere la pace?

La pace ha un suo segreto: non odiare mai nessuno. Se si vuole vivere non si deve mai odiare.


(Ucraina, Bruck: «Sono straziata. Ma alle madri dico: non coltivate l’odio», Avvenire, 8 marzo 2022)

di Liliana Rampello


Con Lo spazio delle donne (Einaudi, pp. 128, euro 12) Daniela Brogi ha il merito di fare chiarezza in un campo linguistico e politico molto disordinato, quello della relazione e del conflitto fra i sessi. L’autrice è docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena e specialista del Manzoni, sul quale ha scritto il notevole Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci 2018), che cito perché fa intuire come nel suo lavoro, ad ampliare significativamente il campo interpretativo, convergano sempre anche i Visual Studies. Lo spazio delle donne arriva tra noi come un libro necessario, di scrittura limpida e appassionata, in grado di rivolgersi a un pubblico ampio con intelligenza, serietà di studio e l’autorevolezza di un percorso condiviso ormai con tante e – vorrei dire – tanti, ma è più realistico dire alcuni.

Possiamo tagliare il testo seguendo due importanti affermazioni, una di ordine concettuale e una di ordine metodologico. Daniela Brogi assume, giustamente, che il linguaggio sia «una forma di esperienza e di sentimento del mondo» e che per rendere giustizia a questa verità si debba lavorare alla composizione di un «fuori campo attivo» rispetto a quella «cultura patriarcale e monologica» che ha tenuto in un «fuori campo passivo», ossia inerte e invisibile, i vissuti, i saperi, il genio e le creazioni delle donne, letteralmente cancellandole o oscurandole. L’autrice è molto attenta, sia chiaro, a non cadere in pericolose generalizzazioni, relative a un indefinito «tutti gli uomini», ma è ben consapevole invece di un senso comune trasversale che va smontato con coraggio e precisione, perché induce le donne alla subalternità.

Senza pregiudizi favorevoli per quest’ultime: della necessità di questa postura, infatti, c’è tradizione esplicita, per dirla volando, già nella Stanza tutta per sé di Virginia Woolf, del 1929, che ci aveva raccontato delle donne «specchio», e ancora nel Secondo sesso di Simone de Beauvoir del 1949, con la riflessione sulle «donne-alibi». Subito, in queste ritagliate affermazioni, sono in gioco il linguaggio e lo sguardo, per la prospettiva stessa in cui lo sguardo fuori campo intercetta il linguaggio nella forma dell’esperienza.

Nel riscattare la parola femminismo (riscatto più che benvenuto), Daniela Brogi compie una doppia importante operazione: non la oppone a maschilismo, e non la inchina a quel «paternalismo benevolo» che confina le donne in uno spazio di minorità, ma la riformula consapevole di quanto proprio il femminismo sia «un capitolo fondamentale della storia della modernità, oltre che un capitale culturale enorme». Ed è questo il passo avanti che l’autrice ci invita a fare, la sfida che non si può eludere se guardiamo al futuro, se ascoltiamo con attenzione la voce delle giovani generazioni che si affacciano sulla scena della nostra storia.

Il termine cruciale del saggio, spazio, viene articolato in cinque capitoli, declinati secondo quella lente del fuori campo utile a non irrigidire le maglie del pensiero, a far sì che la «messa a fuoco dinamica» qui proposta generi un nuovo sguardo sulla realtà e la interroghi dialetticamente intorno «a ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia implicato». Questa interrogazione non si dà confini disciplinari, ha un respiro ampio, può avvalersi di una pagina letteraria, teatrale, psicoanalitica, filosofica, politica, rintracciata con amore curioso, o di un film, di una performance, in una scorribanda che mette a nudo un Novecento spesso in ombra. Muovendo in direzioni varie, note e meno note, scuotendo le gerarchie che indicano un alto e basso la cui misura neutra affiora appena grattiamo un po’ la superficie del già pensato, Daniela Brogi convoca per noi Grazia Deledda e Ada Negri, Virginia Woolf e Carla Lonzi, Karen Horney e Helena Janeczek, Marina Abramovic e Alice Munro, Toni Morrison e Margaret Atwood, Elsa Morante e Franca Rame e altre e altri… fino a farci immergere e poi riemergere dall’interno di una cultura dello stupro che non potrà mai dimenticare il delitto del Circeo.

La lente di questo telescopio, nell’illuminare l’invisibile della scena, mette ora a fuoco quanto sia abitata da silenzi, omertà, omissioni, vere e proprie mutilazioni di un sapere che si possa affermare come condiviso. E ci regala un’altra direzione di ricerca: è indubbio che l’intera tradizione maschile, quella stessa che ha fatto fuori le donne, va conosciuta, ma è altrettanto necessario ridisegnarla secondo «nuovi effetti di composizione», in una prospettiva «mobile e multifocale» dei nostri stessi saperi. Tutta la grande arte sa infatti trasformare «anche l’orrore in bellezza formale ed esperienza di verità», e dunque va ri-guardata accendendo la luce sui troppi angoli bui della storia delle donne. Non si tratta di aggiungere qua e là un nome, di giocare l’eccellenza femminile di alcune contro le altre, né di tollerare l’emersione di un mondo «inabissato»; si tratta, questo l’invito garbato, ma netto e severo, di combattere senza sconti contro ogni forma di retorica sessista, per esempio in tema di reputazione e «merito» femminili, e di ribellarsi a traduzioni in aneddotica di trame genealogiche di «relazioni e reciprocità» fra donne. Il famoso merito, sulla bocca di troppi, non è mai richiamato, né invocato quando si tratta di uomini (e ce ne è una valanga che occupa posti di prestigio e di potere non si sa a che titolo), ma sempre invece indicato come decisivo da un «sessismo difensivo» che lo trasforma «in un valore assoluto e separato dalla storia».

L’intreccio è ben altro, come mostra la timeline sintetica ma essenziale di una serie di date utili a ogni «ricostruzione critica seria» della situazione italiana. È quella che va dal 1946, voto alle donne, fino al 1996, quando lo stupro diventa un crimine contro la persona e non contro la morale: lungo questa linea, altre conquiste, accesso alla magistratura, asili nido, divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia… tappe, lo voglio ricordare, che hanno visto impegnate migliaia di donne, democristiane, socialiste, comuniste (da Rosy Bindi a Giglia Tedesco, Marisa Rodano e Livia Turco ad esempio) e prodotto un’intensa discussione tra femministe. Non una sola donna di destra al nostro fianco nella «rivoluzione gentile», né allora né ora, a proposito dell’altra moda mainstream sul loro presunto protagonismo (e non si può che applaudire a queste righe: «Lo spazio delle donne, come luogo e cultura della diversità, non è né può mai essere uno spazio contiguo a valori a suo tempo affermati dal fascismo»).

I passi del libro attraversano molte linee di confine di un Novecento che «è doppiamente il secolo della paura delle donne. La paura che si è fatta alle donne; e quella che le donne hanno fatto, man mano che diventavano sempre più soggetti della storia». Muovono dallo spazio storico «come destino imposto» (con le sue «figure emblematiche: il recinto, l’abisso, l’interstizio, la mappa, il fuori campo attivo»), riconoscono e rivelano nel disprezzo verso le donne non una «conseguenza del maschilismo» ma la sua secolare «condizione di esistenza», sottolineano il gender gap ancora alto, parlano dello spinoso tema dello «specifico artistico femminile». Qui il salto è decisivo: le «forme» non sono «banali involucri», se donne e uomini fanno una diversa esperienza del mondo, se abitano «in maniera diversa la vita», differenti saranno voce, immaginazione e stile della loro arte.

Quando Doris Lessing, nel discorso tenuto in occasione del Nobel per la Letteratura, ricorda la necessità, per scrivere, di «uno spazio vuoto, che ti circonda», la mente vola al salotto di Jane Austen, alla stanza di Virginia Woolf e alle mille altre simboliche stanze che in tante hanno cercato per sé, quelle dove hanno disfatto il mondo che le teneva chiuse all’interno, spalancando porte e finestre per farne un altro, differente e libero, per donne e uomini. Che Daniela Brogi avverte con garbo e coraggio: «ignorare tutto questo è ormai semplicemente incultura».


(il manifesto, 8 marzo 2022)

Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Ricominciamo dal corpodomenica 6 marzo 2022


Io, mia sorella e il corpo

di Daniela Santoro


Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro e soprattutto di condividere la mia personale esperienza del mio rapporto con il corpo, il mio vivere il corpo e soprattutto il mio essere corpo, ammetto ho avuto molta paura perché effettivamente non so quanto mi sento all’altezza di parlare di questo, soprattutto di parlare della mia esperienza, nella paura di non portare nulla di buono in tavola però comunque cercherò di farla più breve possibile.

Per contesto mi sembra importante iniziare partendo dalla mia nascita: io sono nata a fine millennio, nel 1999, come le teorie apocalittiche sul Millennium Bug. Sono cresciuta dunque in un’età a cavallo tra l’analogico e il digitale, non completamente analogico e non completamente digitale.

Non sono figlia unica, ho una sorella molto più grande di me: è infatti nata alla fine degli anni ’70, nel 1978 per la precisione. Siamo cresciute in due epoche e modi completamente diversi, e proprio da questo vorrei partire. Mia sorella è cresciuta in un periodo in cui per fortuna (o purtroppo, dipende dei punti di vista) non esistevano i social network, soprattutto n un momento in cui era possibile staccare gli occhi dai media, che invece adesso camminano nelle nostre tasche. Mia sorella ha vissuto la maggior parte della sua adolescenza divisa tra il mondo dello sport agonistico e quello dei concorsi di bellezza. Io l’ho passata divisa tra il mondo dello sport agonistico e lo schermo del mio computer.

Come questo abbia influenzato le nostre vite è quasi paradossale: se da un lato io non ho avuto nessun interesse nella mia vita a mostrare il mio corpo, ho comunque sviluppato dei comportamenti ossessivi e patologici nei confronti di esso; mia sorella d’altro canto nonostante vivesse quel mondo un po’ macabro dei concorsi di bellezza – tra parentesi contro il parere dei miei genitori – è come se non avesse mai sentito il peso del rapportare il suo corpo al mondo esterno.

Certo possiamo anche dire che i disturbi alimentari non sempre siano da imputare all’ambiente esterno, però come è possibile che tra tutte le donne della mia famiglia (ed è una famiglia molto numerosa) io – la più giovane – sia l’unica che abbia sofferto di disturbi alimentari? Non a caso con l’aumentare dell’utilizzo di social network c’è stata un’impennata nel mondo dei disturbi alimentari, che già avevano preso la via verso la vetta con il trend delle supermodelle negli anni 90.

Ho un ricordo vivido della me tredicenne, che cercava conforto su internet dopo che il suo allenatore di nuoto l’aveva pesata davanti a tutti: e cosa ha trovato? Che forse il mio allenatore non aveva tutti i torti. Che tutto questo fosse falso, l’ho capito solo più tardi, anche grazie all’autocoscienza con le mie sorelle. Così si era aperta una voragine, in cui mi sono volontariamente tuffata. Vivevo in una cassa di risonanza, le mie amicizie erano prevalentemente virtuali e le persone presenti fisicamente nella mia vita erano trascinate nello stesso circolo vizioso. Le vetrine di Facebook e Instagram non hanno fatto altro che amplificare la percezione alterata, in negativo, della nostra immagine. Allo stesso tempo farne a meno era impossibile, era necessario per far parte di qualcosa, di un gruppo, e tutte penso sappiamo come questo abbia effetto nell’adolescenza. Solo che quando non stai bene nel tuo corpo come fai a metterlo in mostra? È necessario metterlo in mostra ma come? Dunque si apre lo spiraglio dell’auto-oggettificazione: se piaccio agli altri, piaccio anche a me. Il problema è che questa non è una risposta: è un altro livello del problema, non porta una soluzione porta solo a scendere ancora più in basso in quella voragine. Perché comunque in quei momenti non sei realmente corpo sei solo una proiezione di esso, una proiezione che la società vuole. Vorrei soltanto averlo capito prima, ma effettivamente senza un riscontro e un confronto come quello che ho vissuto nei mesi di autocoscienza con Le Compromesse, a fatica ci sarei riuscita e ancora oggi sto combattendo.

E mentre tra terapia e autocoscienza cerco di liberarmi da questo giogo che ormai condiziona la mia vita in maniera capillare, ho iniziato a notare l’effetto distorcente anche su mia sorella. Lei che, in un periodo molto delicato della sua vita, si è messa alla berlina di giudici uomini di mezza età, senza che esso sortisse alcun effetto sulla sua psiche, adesso con l’avvento dei social network e delle influencer e di questi media insilenziabili ha iniziato a vedere il suo corpo diversamente: certo, mettiamoci i quarant’anni – che ormai sono visti da tutti come la data di scadenza di una donna –, a mio avviso però la ribalta di Instagram come social network nazionalpopolare ha aggiunto a questo un nuovo grado di demonizzazione dell’invecchiamento. I social network sono per tutti sì, ma solo giovani e belli, ovviamente sempre sessualizzabili. Ciò dunque l’ha portata negli ultimi due anni a sottoporsi a interventi di chirurgia estetica e plastica più o meno invasivi, per continuare a essere instagrammabile.

Quale sia una risposta all’essere corpo non l’ho realmente trovata, certamente però la prima cosa che noi giovani donne e non dovremmo fare è allontanare lo sguardo maschile, o meglio l’effetto dello sguardo maschile attraverso il quale ormai guardiamo sempre di più noi stesse.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 8 marzo 2022)

Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Ricominciamo dal corpodomenica 6 marzo 2022


di Ilaria Sirito


Iniziare o, nel caso delle donne della Libreria, ricominciare una riflessione sul corpo è stato più facile a dirsi che a farsi.

Come sappiamo, dagli anni Settanta il corpo femminile, nascosto e negato tranne che nell’esperienza della maternità, ha fatto irruzione nella politica per prendersi finalmente voce e spazio.

Eppure, l’espressione essere corpo, utilizzata dalle donne della Redazione a sintetizzare il significato di quella lotta che guardiamo con tanta ammirazione, ci ha lasciate inizialmente interdette, quasi intimorite. Perché?

Siamo nate nella seconda metà degli anni Novanta, cresciute in una società in cui il corpo femminile appariva tutt’altro che tabù: lo vedevamo in programmi tv, di qualsiasi fascia oraria, in lingerie e paillettes, vendere prodotti o rimarcare la presenza di uomini in giacca e cravatta; veniva mostrato senza pietà, era perfino oggetto di battute di alcuni politici.

Non sono tardati i campanelli d’allarme, come il boom di disturbi alimentari dei primi anni Duemila, sintomo di quell’ossessione che gli uomini non hanno mai smesso di avere nei confronti del corpo delle donne: prima negandolo, poi ipersessualizzandolo.

Si è cominciato così a parlare di body positivity, il movimento nato con lo scopo di arginare i disturbi alimentari tra le ragazze più giovani proponendo rappresentazioni di corpi normopeso o sovrappeso nei media tradizionali e nei social media. Un movimento che ha finito per promuovere l’immagine sessualizzata delle donne di ogni peso e misura, né più né meno di quanto avveniva fino a poco prima esclusivamente con le donne snelle e slanciate. Sembra che il messaggio della body positivity sia: “Il tuo corpo è sempre valido, purché sia sessualizzato”.

Forse perché è diventato sempre più difficile immaginare i nostri corpi diversamente.

C’è un altro aspetto inedito nel modo in cui le ragazze della nostra generazione e quelle più giovani vivono il corpo: i social media mettono in atto uno “sdoppiamento” di chi li utilizza, che diventa al tempo stesso attore e spettatore. E così, diversamente da quanto accadeva con la tv degli anni Duemila, le donne sono al tempo stesso le veline e le spettatrici: mostrano il loro corpo e lo guardano da fuori, come lo guarderebbe un uomo.

È interessante come questa stessa dissociazione si ritrovi anche nella sessualità: citando Naomi Wolf in Il mito della bellezza, «Le donne mi dicono che sono gelose degli uomini che traggono molto piacere dal corpo femminile; che immaginano di essere dentro il corpo maschile che è dentro di loro per poter provare che cos’è il desiderio, sia pure di seconda mano».

Noi stesse siamo tentate da questa dissociazione: in fondo, se tutta l’importanza del corpo risiede nella sua bellezza, perché dovremmo riconoscerla? Se il corpo è questo, essere corpo ci spaventa. Non è più liberatorio pensare al corpo come strumento che ci permette di vivere, amare, fare ciò che ci piace?

Siamo state però molto colpite da una provocazione delle donne della Redazione durante uno dei nostri scambi: il nostro gruppo, nato come gruppo di studio di testi femministi, diventato una fonte di scambio essenziale per ognuna di noi, è volutamente separatista. Su che cosa abbiamo basato questa scelta, se non dal presupposto che ad accomunarci, nelle nostre differenze, è proprio il corpo? Da questo punto di vista, considerarlo strumento ci appare riduttivo.

Allora è da qui che vogliamo ricominciare, dalle esperienze che ci ricordano che il corpo è nostro, non di chi lo guarda, che i vissuti del nostro corpo ci permettono di riconoscerci e di costruire insieme: in questo senso, siamo corpo.

Alla luce dei mutamenti del patriarcato e delle false concessioni con le quali tenta di ingannarci, individuare altre esperienze che permettano di inventare nuovi modi di pensare al corpo è la sfida dalla quale ricominciare.



(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 8 marzo 2022)

Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Ricominciamo dal corpodomenica 6 marzo 2022


di Traudel Sattler


In questi giorni ho avuto grandi difficoltà a concentrarmi, sempre tentata di restare attaccata alla radio o alla TV per seguire gli avvenimenti, in questo clima di paura, minaccia e senso di impotenza. Mi è venuta in soccorso Virginia Woolf, mi sono ricordata del suo testo squisitamente politico Le tre ghinee, scritto alla vigilia della seconda guerra mondiale. Come sapete, è la risposta immaginaria a un suo amico avvocato pacifista che le ha chiesto di sostenere le sue iniziative per prevenire la guerra, e lei risponde – detto in estrema sintesi – che il modo migliore di aiutarlo a prevenire la guerra, che lei mette in relazione diretta con la mascolinità, non è di ripetere le parole degli uomini colti e di seguire i loro metodi, ma di trovare nuove parole e nuovi metodi. Con lucidità e ironia smonta la pretesa di universalità del pensiero maschile pur condividendo gli scopi pacifisti dell’amico, e indica una strada per difendere la pace fondata sulla libertà e l’indipendenza simbolica delle donne. Ed è esattamente quello che sta a cuore anche a noi.

L’idea di ricominciare dal corpo è nata dall’incontro con alcune giovani donne, Ilaria e Daniela che sono sedute di fianco a me, e Emma che è qui in sala. Sono state loro a cercarci dopo aver seguito l’ultimo incontro di Via Dogana su zoom. Ci hanno scritto che sono un gruppo di sette ragazze dai 22 ai 26 anni che si riuniscono ogni settimana da circa un anno per studiare insieme la letteratura e la filosofia femminista. Sotto il nome “Le Compromesse” hanno aperto un blog e una pagina Instagram: Le Compromesse – blog, Le Compromesse – instagram. Andate a leggerle, scrivono dei commenti interessanti. Scrivevano anche che per loro il confronto con donne più grandi è molto importante, e che volevano cogliere l’occasione per lavorare insieme.

Come molte di voi sanno, in quel periodo eravamo in un momento di ripensamento e di “ricambio” all’interno della redazione, così abbiamo cominciato a sperimentare questa pratica di scambio tra donne più grandi e donne più giovani. Siamo ancora all’inizio. Voglio precisare che a me personalmente non interessa intavolare ciò che banalmente viene chiamato “dialogo tra generazioni”: penso che noi viviamo il presente, la contemporaneità insieme, e voglio mettermi in ascolto per leggere elementi della realtà che da sola non afferro, a partire dell’esperienza di altre che sono donne come me venute al mondo dopo di me. E direi che c’è un guadagno reciproco, se posso citare Daniela da un suo messaggio whatsapp: “…dal confronto con tutte voi sto davvero ampliando i miei orizzonti!!!”

Abbiamo detto ri-cominciare dal corpo, infatti, non è mai venuto meno un senso di continuità. Il corpo è stata la questione fondamentale del femminismo, anche a livello internazionale: ricordo solo la nostra “bibbia” degli anni ’70, scritta da un collettivo di donne di Boston, Noi e il nostro corpo – titolo originale Our bodies ourselves, (I nostri corpi noi stesse) che corrisponde di più al senso di quel testo: togliere il potere, anche di parola, sui nostri corpi agli uomini, sottrarci all’oggettivazione.

Questa ricerca è sempre stata intrecciata con un lavoro sul linguaggio, c’era il titolo di quel libro di Marie Cardinal, vi ricordate, che circolava per molto tempo quasi come slogan: Le parole per dirlo. La pratica politica è stata ed è una ricerca di parole per dirsi, per dire l’esperienza femminile a partire dal corpo e dal proprio sentire. Il piano del linguaggio si è rivelato come luogo di scontro politico: il corpo femminile è stato al centro della politica nelle questioni dell’aborto, della legge sulla violenza sessuale, sull’affido condiviso, in tutta la vita pubblica. La parola femminile, risultato di una presa di coscienza, ha cominciato a circolare nello spazio pubblico, aprendo il conflitto con il simbolico maschile. Poi, pochi anni fa, c’è stata una svolta decisiva con il movimento #Metoo; per la prima volta è successo che la parola femminile è stata creduta e ha cambiato anche lo sguardo di molti uomini sui loro simili.

La questione del corpo si può affrontare con numerosi tagli: ad alcuni di questi abbiamo già dato spazio e attenzione in Via Dogana discutendo di prostituzione, utero in affitto, esposizione del corpo alla pandemia, ostacolo del gender rispetto alla politica della differenza. Oggi vogliamo concentrarci sulle potenzialità politiche del corpo insieme alle nostre giovani interlocutrici che sono alla ricerca di una narrazione diversa da quella dei social. Con i social media, infatti, in particolare con Instagram, si apre un altro piano di lotta oltre a quello del linguaggio che ho già nominato: è quello dell’immagine, una sfida ancora tutta da affrontare.

Prima di lasciare la parola a Daniela e Ilaria, ancora un’osservazione a proposito del linguaggio. Indubbiamente in tutti questi anni di pratica della parola ci sono stati importanti guadagni teorici del femminismo, ma io mi dico: attenzione! Nelle occasioni di scambio che abbiamo avuto con le Compromesse mi è già capitato che sentissi la tentazione di volere mettere dei concetti “nostri” sui racconti della loro esperienza, cioè di fare un po’ la maestrina – spero di essermi sempre frenata in tempo.
Sfogliando le pagine virtuali di VD ho ritrovato un incontro del 2018 dal titolo “La parola giusta ha in sé il potere della realtà”, dove Vita Cosentino diceva: «trovare le parole giuste si configura come una pratica e come tale sta in un determinato contesto. Non c’è da affezionarsi alle parole – anche a quelle che ci sono più care – ma mettersi in una postura di apertura e decidere situazione per situazione, caso per caso». Mi sembra una buona indicazione per cominciare l’incontro di oggi. E ora ascoltiamo Daniela e Ilaria.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 8 marzo 2022)

Ritratti di donne che leggono donne


Nella settimana dell’8 marzo in Libreria ci sarà un’opportunità speciale che nasce dalla collaborazione con Cristina Buldrini “fotografa che ama leggere” come si definisce. Chi compra un libro per fare o farsi un regalo può avere in regalo il proprio ritratto fotografico. Martedì 8/3 (ore 17.30 – 19.30) e sabato 12/3 (ore 16.00 – 18.00) Cristina sarà presente in libreria per fotografare le acquirenti che lo desiderano.
Chi è interessata dovrà solo dare il consenso per la diffusione della propria immagine anche sui social della libreria e di Cristina Buldrini.


(libreriadelledonne.it, 02/03/2022)

di Silvia Avallone


La scrittrice sulla guerra in Ucraina: «Tutte le donne del pianeta dimostrano con le loro parole e con le loro azioni che non deve prevalere per forza la logica della morte»


Le prime testimonianze che cerco nei resoconti di guerra riguardano le donne e i bambini. Perché sono stati, in qualsiasi epoca e latitudine, esclusi dalla Storia, sue vittime e, credo, suo possibile riscatto. Se nei libri di storia le donne hanno trovato pochissimo spazio, quando nelle nostre case sono arrivate le immagini in diretta dal Kosovo, dal Ruanda, dall’Afghanistan, almeno abbiamo potuto vederle in volto. Nei loro occhi ho sempre riconosciuto una domanda sbalordita, un «perché» afono con un punto di domanda inciso nelle pupille. Come se la guerra fosse un linguaggio incomprensibile, che non c’entrava nulla con la realtà di tutti i giorni, i neonati al seno, le amiche, i desideri. Provavo la loro stessa incomprensione.

Kiev dista 1.985 chilometri da casa mia. Ma secondo mia madre – che ricorda il disastro di Chernobyl e il terrore di darmi del cibo contaminato – dista molto meno. Le guerre lontane, in sottofondo, sono diventate una guerra vicinissima dove le donne vestono i miei stessi panni, fanno gli stessi sacrifici di mia madre o hanno le mie stesse ambizioni; mi ci immedesimo mentre corrono con i figli in braccio, cercano di salire su un treno gremito alla disperata, di calmare un bambino, di sistemargli il giubbotto perché fa freddo: sono gli stessi gesti che compirei io. Che potrei compiere. La guerra è in Europa, questa volta, a un passo dall’Unione sorta proprio dalle macerie di un conflitto catastrofico, giurando: «Mai più».

Dal 24 febbraio il pensiero è fisso in Ucraina. Perché lì è qui, e vivere vuol dire specchiarsi nella vita degli altri. Mentre accompagno mia figlia a scuola, rivedo i volti attoniti dei bambini in un asilo allestito in uno scantinato. Cosa gli avranno detto le maestre? Quali parole avranno scelto per spiegare i bombardamenti che li hanno costretti a giocare sottoterra? Mentre rifaccio i letti, rivedo le coperte delle 15.000 persone accampate nella metropolitana di Kiev, sospese in profondità, in attesa che cessino le bombe. Quanti bagni ci sono nella metropolitana di Kiev? Come fanno a dormire, lavarsi, cambiare i neonati? Risparmiano acqua per sterilizzare i biberon, scopro cercando sul web informazioni, oltre che sui blocchi geopolitici di potere, sulla quotidianità delle persone sotto assedio. Internet è un getto continuo di testimonianze e ci chiama tutti a conoscere, affinché nessuno possa dire: «Io non lo sapevo».

Cosa faresti al suo posto? Me lo sono chiesta leggendo le parole di Inna Sovsun, deputata del Parlamento ucraino, la mia età: quando la guerra è iniziata, ha messo in salvo il figlio di nove anni sul confine, lo ha lasciato con il padre ed è tornata a Kiev per partecipare alla resistenza. Come lo saluti, tuo figlio di nove anni? Con una carezza, un bacio? Come ti volti sapendo che forse non lo rivedrai? Dove la trovi, la forza? «Se si deve fare, si fa». Mi torna in mente la risposta di una madre più esperta di me. In Ucraina le donne fuggono come fuggirei io: con il piumino pesante, i documenti, lo smartphone. Salutano i mariti che partono per il fronte come io saluterei Giovanni. Ascoltano i figli implorare: «Papà non andare via». Oppure restano, imbracciano kalashnikov che non hanno mai usato, preparano molotov di cui ignoravano il funzionamento, si appostano e sparano come forse (non oso pensarci) farei se mi avessero portato via tutto e raso al suolo persino la città.

Mentre prendevo parte a una manifestazione di pace in un’affollata piazza italiana e mia figlia mostrava un foglio con scritto «No alla guerra», in Russia donne identiche a me scendevano in piazza con i loro figli, portavano fiori e disegni di fronte all’Ambasciata ucraina, solo che, anziché tornare a casa come noi, venivano arrestate. Bambini trattenuti per aver espresso il loro pensiero di pace, adolescenti mandati al fronte senza che nemmeno fossero consapevoli: capisco come una madre possa voler combattere per la libertà, persino al prezzo di non veder crescere il proprio figlio.

La guerra in Ucraina non ci ha colti del tutto impreparati sul fronte delle calamità. Veniamo da anni in cui abbiamo provato il senso di precarietà infinita del nostro presente. Virus, cambiamenti climatici devastanti, disastri nucleari possono bussare alla nostra porta da un momento all’altro. L’impensabile accade. Il male esiste e insiste, anche se non siamo noi a toccarlo con mano raccogliendo da terra il corpo di un bambino dilaniato da una bomba, arenato dopo un naufragio, ucciso dalla Storia: quel corpo ci chiama in causa perché apparteneva al più innocente tra gli innocenti e nei suoi sogni c’era il futuro di tutti noi.

Il punto, per me, è che il male non è una strada inevitabile. Accanto alla Storia delle aggressioni e del potere, c’è un’altra storia, che le donne conoscono bene perché hanno sempre dovuto prendersene cura: quella delle persone, con la s minuscola. Cos’è la guerra? È l’esatto contrario di quelle donne che mettono in salvo i fragili nei bunker, i libri da una biblioteca che rischia di essere bombardata, che intrattengono i bambini in asili di fortuna. La guerra è il contrario di quei bambini che disegnano, di chi accorre per solidarietà a portare aiuto. Perché nel crollo di ogni pietà e significato occorre ricordare che esiste un’alternativa.

Le donne ucraine partoriscono nella pancia della terra, come Kateryna Suharokova nel bunker dell’ospedale di Mariupol. I bambini nascono e si ostineranno a farlo in qualunque condizione perché «la vita continua», come scrive Wisława Szymborska, e «Dove non è rimasta pietra su pietra, / c’è un carretto di gelati». Ma come farla continuare, la vita, dipende da noi: è una nostra scelta. Le donne raramente hanno potuto scegliere. Nei manuali di storia del liceo chi ha deciso, comandato, depredato e manovrato armi è stato, in schiacciante maggioranza, uomo. Maschili i nomi rimasti, i monumenti dedicati. La memoria delle donne violentate, uccise, sparite, e dei loro figli si è spesso persa nello spazio bianco tra le righe. La Storia l’hanno fatta sempre sgobbando nelle retrovie, nelle fabbriche, nelle case, nei lazzaretti, nelle infermerie da campo, senza medaglie. È stato chiesto a noi di occuparci dei corpi e delle storie degli altri, di riparare i danni, di crescere i bambini, di accompagnare gli anziani, di curare i feriti, di portare il lutto, di stare sul crinale tra la vita e la morte e suturare in silenzio. Però il mondo ha bisogno di noi, come noi abbiamo bisogno del mondo. E di non subirla, la Storia, di non guardarla da lontano. Ma di cambiarla a partire dalla memoria del dolore, dalla memoria della solidarietà, dalla logica del mettere al mondo anziché del togliere.

Questo 8 marzo 2022 voglio dedicarlo alle donne ucraine che lottano, resistono, fuggono, muoiono, partoriscono, aiutano; alle donne russe che, come Elena Osipova a ottant’anni, scendono in piazza con il loro cartello per chiedere la pace; a tutte le donne del pianeta che dimostrano, con le parole e le azioni, che non deve per forza vigere la legge del potere, dei soldi, della conquista, del sopruso: la logica della morte. C’è anche quella della nascita, della generazione. È trasversale a qualsiasi genere, nazionalità, sesso, religione, etnia. Coincide con il desiderio di realizzare se stessi insieme agli altri, di rispecchiare la propria identità nell’alterità. Consiste nell’aiutare, allungare una mano, un pacco di vestiti o medicinali; nell’ascoltare; nell’accogliere perché la mia storia è la tua. E, su queste basi, costruire un nuovo linguaggio, una nuova economia, una nuova convivenza con gli altri e con il pianeta.

Il male, se non si elimina, si sorveglia. Con cosa? Con la cultura. Con la continua manutenzione e ricerca della libertà, della pace, della parità, dei diritti umani: un orizzonte che vada oltre se stessi. Il male si supera con l’esempio concreto delle persone: le tante, tantissime persone comuni, donne, bambini, anziani, fragili, poveri, emarginati, che non hanno uno straccio di potere, ma hanno la forza di salvare. «La vita è un paradiso» scrive Fëdor Dostoevskij ne I fratelli Karamazov, «e noi tutti siamo in paradiso, ma non vogliamo capirlo; e invece, se volessimo capirlo, domani stesso il mondo intero diventerebbe un paradiso».


(corriere.it, 7 marzo 2022)


Domenica 6 marzo 2022, ore 10.30


Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3

domenica 6 marzo 2022, ore 10.30.

Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano


                                                                              
Ricominciamo dal corpo


Corpo politico, corpo pensante: è dall’esperienza del corpo e dal suo intreccio con le parole che il femminismo ha tratto la sua forza trasformativa. Ma la comunicazione mediatica, in particolare quella digitale, ha comportato un profondo cambiamento: i corpi femminili, ipersessualizzati, sono diventati spettacolo e sono svuotati di realtà. La questione si pone con urgenza, soprattutto per le generazioni cresciute con lo scarto tra il corpo vissuto e quello virtuale, rappresentato ed esposto. Ne discutiamo con due giovani donne del gruppo “Le Compromesse”, Ilaria Sirito e Daniela Santoro, che interrogano la propria esperienza alla ricerca di una narrazione diversa da quella imposta dai social. Introduce Traudel Sattler.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Non dimenticate green pass e mascherina FFP2.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.


Appuntamento: domenica 6 marzo ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.


La narrativa fantastica lega autrici italiane come Chiara Palazzolo e Nicoletta Vallorani a quelle anglosassoni come Ursula K. Le Guin. Quando il realismo non è più bastato alla scrittura, ecco che il fantastico ha offerto loro la possibilità di incidere sull’immaginario e di riflettere sul posto della donna nella società. In dialogo con l’autrice, Elena Petrassi e Nicoletta Vallorani.


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