Madre Natura. La Dea, i conflitti e le epidemie nel mondo greco di Vittoria Longonied.enciclopediadelledonne.it, 2021. La sapienza arcaica e la manifestazione della libertà femminile possono congiungere ciò che i muri separano. È un’altra forma di forza che si oppone alla legge distruttiva dei rapporti di forza. Vittoria Longoni, grecista e latinista, ci accompagna in una rilettura dei miti ancestrali e ci fa scoprire la perenne attualità del rapporto con la natura vivente. Laura Minguzzi conduce il dialogo con l’autrice.

Accesso con Super Green Pass e mascherina FFP2

Per prenotazione:  https://www.libreriadelledonne.it/prenota-un-evento-a-calendario/

Per acquistare online Madre Natura. La Dea, i conflitti e le epidemie nel mondo greco:https://www.bookdealer.it/goto/9788899270445/607

di Papa Francesco


Dal Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti all’incontro promosso dal Centro Femminile Italiano, 24 marzo 2022


[…]


Care amiche, è ormai evidente che la buona politica non può venire dalla cultura del potere inteso come dominio e sopraffazione, ma solo da una cultura della cura, cura della persona e della sua dignità e cura della nostra casa comune. Lo prova, purtroppo negativamente, la guerra vergognosa a cui stiamo assistendo. 
Penso che per quelle di voi che appartengono alla mia generazione sia insopportabile vedere quello che è successo e sta succedendo in Ucraina. Ma purtroppo questo è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica. La storia degli ultimi settant’anni lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po’ dappertutto; fino ad arrivare a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero. Ma il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri
La vera risposta dunque non sono altre armi, altre sanzioni. Io mi sono vergognato quando ho letto che non so, un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, credo, o il due per mille del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare.

Perché ho voluto fare con voi questa riflessione? Perché voi siete un’associazione di donne, e le donne sono le protagoniste di questo cambiamento di rotta, di questa conversione. Purché non vengano omologate dal sistema di potere imperante. […] Voi potete cambiare il sistema, le donne possono cambiare il sistema se riescono, per così dire, a convertire il potere dalla logica del dominio a quella del servizio, a quella della cura. C’è una conversione da fare: il potere con la logica del dominio, convertirlo in potere con la logica del servizio, con la logica della cura.

E ho voluto parlare di questo con voi per ricordare a me stesso e a tutti, a partire da noi cristiani, che questo cambiamento di mentalità riguarda tutti e dipende da ciascuno. È la scuola di Gesù, che ci ha insegnato come il Regno di Dio si sviluppi sempre a partire dal piccolo seme. È la scuola di Gandhi, che ha guidato un popolo alla libertà sulla via della nonviolenza. È la scuola dei santi e delle sante di ogni tempo, che fanno crescere l’umanità con la testimonianza di una vita spesa al servizio di Dio e del prossimo. Ma è anche – direi soprattutto – la scuola di innumerevoli donne che hanno coltivato e custodito la vita; di donne che hanno curato le fragilità, che hanno curato le ferite, che hanno curato le piaghe umane e sociali; di donne che hanno dedicato mente e cuore all’educazione delle nuove generazioni. 
È grande la forza della donna. È grande!


[…]


(https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/march/documents/20220324-centro-femminile-italiano.html, 25 marzo 2022)

di Salvatore Cannavò


Di là la Nato, di qua il Papa. Di là i governi, come quello Draghi, definiti “pazzi” nella loro idea di aumento delle spese militari, di qua un manifesto pacifista integrale, come si può leggere nel discorso che ieri Papa Francesco ha tenuto al Congresso del Centro italiano femminile a Roma.

“IO MI SONO VERGOGNATO” – ha detto il Pontefice – “quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, credo, o il due per mille del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo”.

Le parole del Papa tagliano corto anche con i distinguo che pure nei giorni scorsi erano stati avanzati da alcuni osservatori circa la disponibilità della Chiesa ad avallare invio di armi in Ucraina o altre simili iniziative. Le parole di Francesco sono invece nette: “Penso che per quelle di voi che appartengono alla mia generazione sia insopportabile vedere quello che è successo e sta succedendo in Ucraina. Ma purtroppo questo è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica”.

La diversa mentalità viene rintracciata invece in un insieme di posizioni differenti che hanno il trait d’union della pace a tutti i costi: “Questo cambiamento di mentalità riguarda tutti e dipende da ciascuno. È la scuola di Gesù, che ci ha insegnato come il Regno di Dio si sviluppi sempre a partire dal piccolo seme. È la scuola di Gandhi, che ha guidato un popolo alla libertà sulla via della nonviolenza. È la scuola dei santi e delle sante di ogni tempo, che fanno crescere l’umanità con la testimonianza di una vita spesa al servizio di Dio e del prossimo. Ma è anche – direi soprattutto – la scuola di innumerevoli donne che hanno coltivato e custodito la vita”.

Da Gesù a Gandhi e ai santi, ovviamente, nel pieno della dottrina cattolica. La pace come la può disegnare un pensiero cristiano che si sta ponendo in questo momento come unica alternativa globale al ritmo di guerra che invece viene suonato da Mosca, naturalmente, ma anche dai Paesi occidentali.

A Francesco si associano poche voci, soprattutto da sinistra, come i Verdi e Sinistra italiana. Ma c’è anche la sponda del M5S, con Giuseppe Conte che è tornato ad attaccare ieri l’obiettivo del 2% del Pil contrapponendosi a Draghi (ne parliamo nelle pagine seguenti) e con il senatore Gianluca Ferrara, componente della Commissione Esteri del Senato, che ha sposato in pieno quel “pazzi” pronunciato da Papa Bergoglio. Invece dal Pd arriva una dichiarazione burocratica e imbarazzata, fatta a nome della segreteria da Francesco Boccia, che dice che il partito ha “una responsabilità istituzionale” e quindi se con il cuore appoggia le parole del Papa, con il cervello deve approvare l’aumento delle spese militari.

Quel che è più importante, Francesco sembra chiudere la polemica strisciante che lo aveva visto, non sappiamo quanto intenzionalmente, distinto dal Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, che invece aveva parlato di un triste diritto alla resistenza da parte degli ucraini, aprendo alla consegna di armi. Consegna ieri esclusa invece dalla Cei, che si è espressa attraverso le parole di monsignor Stefano Russo: “Bisognerebbe arrivare a un disarmo totale e generale, ma in questo momento, purtroppo, non sta avvenendo”. Anzi, di fatto “il mercato delle armi alimenta le guerre, come più volte sottolineato da Papa Francesco”. La bussola pacifista è nelle mani del Vaticano, quindi, e questo costituisce un fattore potente a livello internazionale, ma anche un limite della politica, almeno italiana. Forse pensando anche a questo la Tavola della Pace ha lanciato un’edizione straordinaria, il 24 aprile, della marcia Perugia-Assisi. Come ha detto Flavio Lotti, storico coordinatore della Tavola, “il nostro governo, come altri, non sta facendo abbastanza per sostenere lo sforzo necessario del negoziato. Dobbiamo uscire dalla logica della guerra e agire affinché Putin torni al tavolo della trattativa. L’unica persona che sta veramente lavorando in questa direzione è il Pontefice”.


(Il Fatto Quotidiano, 25 Marzo 2022 )

di Stefania Cantatore


La sentenza 676/2022 della Cassazione ha riconosciuto lo status di rifugiata a una donna vittima di tratta (e prostituita).

Nel terzo grado di giudizio è stato ribaltato l’impianto delle sentenze precedenti che attribuivano alla donna un consenso tacito all’esercizio della prostituzione, quindi l’inesistenza di quello stato di necessità che prelude alla concessione dello status di rifugiata (temporaneo, va sottolineato). Si dice infatti che il consenso non può essere considerato tale in una condizione di violenza fisica e psicologica insita nelle modalità dei trafficanti.

La sentenza nella sua formulazione apre una prospettiva concreta nell’esigibilità dei diritti delle donne, pur non riferendosi mai – e giocoforza – direttamente alle fonti (le indicazioni della Convenzione di Istanbul, il lavoro scientifico di Elvira Reale sulla violenza psicologica e diversi appelli femministi per la salvaguardia delle donne immigrate). Non si usa mai un linguaggio sessuato e anzi si mantiene sempre il linguaggio neutro del diritto e la direzione universalistica delle conclusioni (tanto che si fa riferimento a uomini trans e omosessuali).

Grazie a una donna si apre una strada per tutti quei soggetti, uomini e donne, che sembravano esclusi dallo status di rifugiato.

Molte di noi sostengono da tempo che a dispetto dell’impalcatura “neutra” delle leggi sull’immigrazione, può essere praticata da subito una sessuazione delle politiche dell’accoglienza, una volta riconosciuta l’incapacità istituzionale di sottrarre donne e bambini alle reti della criminalità organizzata. Questa sentenza dimostra che, a onta di un indirizzo generale cieco, il lavoro delle donne, per vie impensate, apre comunque dei varchi.

Ad esempio, nei casi di stupro di gruppo, la lunghezza scoraggiante dell’iter processuale è in gran parte dovuto all’accertamento dell’eventuale consenso della vittima, che evidentemente non poteva darlo se non, in alcuni casi, perché estorto e indotto dalla paura e dal desiderio che finalmente finisse la tortura.

Interessante che venga recepito il principio della vulnerabilità non soggettiva, ma indotta dalla rete prostitutiva. Questa questione è più densa di quanto possa apparire: è infatti strettamente legata all’essere nate donne. Sono le donne in quanto tali ad essere manipolate già all’ingresso nella tratta, semplicemente perché sono donne e quindi “intrinsecamente” destinate al mercato della prostituzione.

La politica non si è occupata più dell’applicazione della legge Merlin, applica poco e male la Convenzione di Istanbul. Questa sentenza indica alle donne una possibilità ma anche – soprattutto – l’inadeguatezza della politica maschile.


(https://feministpost.it/italy/cassazione-status-di-rifugiata-una-vittima-di-tratta/, 24 marzo 2022)

di Associazione Differenza Donna


COMUNICATO STAMPA


La Corte di Cassazione bandisce l’alienazione parentale dai tribunali e definisce fuori dallo stato di diritto l’esecuzione coattiva dei provvedimenti nei confronti dei minori, che devono essere sempre ascoltati nei procedimenti che li riguardano.

Elisa Ercoli: la vittoria di Laura Massaro è una vittoria storica.


La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9691/2022 depositata in data odierna in accoglimento totale del ricorso presentato dalla signora Laura Massaro, annulla la decisione di decadenza dalla responsabilità genitoriale sul figlio minore e di trasferimento del bambino in casa-famiglia, ritenendo l’uso della forza in fase di esecuzione fuori dallo Stato di diritto.

La Suprema Corte cassa la decisione della Corte di appello di Roma poiché ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità rimuovendo la figura genitoriale della madre e ciò sulla base di apodittiche motivazioni che richiamano le consulenze tecniche, tutte volte all’accertamento dell’alienazione parentale, nonostante la stessa sia notoriamente un costrutto ascientifico.

Stigmatizza infatti che tali consulenze fanno riferimento al postulato patto di lealtà tra madre e figlio, o al condizionamento psicologico, tutti termini che richiamano ancora la sindrome dell’alienazione parentale.

La Corte di cassazione ribadisce che «il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre».

Il collegio osserva inoltre che il diritto alla bigenitorialità così come ogni decisione assunta per realizzarlo non può rispondere a formula astratta «nell’assoluta indifferenza in ordine alle conseguenze sulla vita del minore, privato ex abrupto del riferimento alla figura materna con la quale, nel caso concreto, come emerge inequivocabilmente dagli atti, ha sempre convissuto felicemente, coltivando serenamente i propri interessi di bambino, e frequentando proficuamente la scuola».

La Corte Suprema rileva ancora che l’autorità giudiziaria di merito ha del tutto omesso di considerare quali potrebbero essere le ripercussioni sulla vita e sulla salute del minore di una brusca e definitiva sottrazione dello stesso dalla relazione familiare con la madre, con la lacerazione di ogni consuetudine di vita, ignorando che la bigenitorialità è, anzitutto, un diritto del minore.

La Cassazione inoltre ritiene nullo il provvedimento dell’autorità giudiziaria di merito per non avere proceduto all’ascolto del minore, adempimento a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo.

Gli Ermellini ribadiscono sul punto che «in tema di affidamento dei figli minori l’ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni».

La Corte precisa, inoltre, che «tale adempimento non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse».

La Corte di cassazione infine si esprime sulla prospettata e ordinata esecuzione coattiva consistente nell’uso di una certa forza fisica diretta a sottrarre il minore dal luogo ove risiede con la madre, per collocarlo in una casa-famiglia, ritenendo suddetta misura «non conforme ai principi dello Stato di diritto in quanto prescinde del tutto dall’età del minore, ormai dodicenne, non ascoltato, e dalle sue capacità di discernimento, e potrebbe cagionare rilevanti e imprevedibili traumi per le modalità autoritative che il minore non può non introiettare, ponendo seri problemi, non sufficientemente approfonditi, anche in ordine alla sua compatibilità con la tutela della dignità della persona, sebbene ispirata dalla finalità di cura dello stesso minore».

Elisa Ercoli esprime così tutta la soddisfazione dell’Associazione che con le sue legali Manente, Boiano ha sempre sostenuto Laura Massaro. «Oggi è un giorno in cui facciamo la storia in materia di liberazione di donne e bambine/i in uscita dalla violenza – dichiara Elisa Ercoli, presidente Differenza Donna. – Così come è stato per il “no” di Franca Viola sul matrimonio riparatore, oggi Laura rappresenta tutte le donne per un NO definitivo a violenza istituzionale agita contro donne bambine e bambini in materia di Pas, prelievi forzati e altre forme di violazione dei diritti umani. Quando la storia è segnata da progressi come oggi vince una, vinciamo tutte noi.» conclude Ercoli.

Laura Massaro, Elisa Ercoli, Maria Teresa Manente, Ilaria Boiano


(https://www.facebook.com/ongdifferenzadonna/posts/183112500707058, 24 marzo 2022)

di Adalgisa Marrocco


Ora è ufficiale: negli Stati Uniti esiste un problema di libertà d’espressione. Lo sancisce nientemeno che il New York Times, il giornale più importante del Paese e fra i maggiori al mondo. Finalmente, verrebbe da dire, se non ci fosse un dettaglio: è stato proprio il quotidiano newyorkese, punto di riferimento della sinistra democratica e liberal, uno dei primi a esacerbare le pulsioni perbeniste, e successivamente a negare che il problema esistesse. Nel 2020, addirittura, in redazione qualcuno si dimise denunciando che lì, tra le belle scrivanie di Manhattan, “non si poteva più dire niente”. 
“Nonostante la tolleranza e la ragione della società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale come cittadini di un Paese libero: quello di poter dire ciò che pensano e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere infamati o isolati”, dice ora il Times in un editoriale di redazione, esprimendo dunque una posizione ufficialmente condivisa. “Silenziamento sociale” e “de-pluralizzazione” dell’opinione pubblica: sono queste per i redattori del Nyt le colpe da assegnare indiscriminatamente, sia alla destra che alla sinistra.

Insomma: una conversione sulla via di Damasco, o meglio sul viale della redenzione dalla cancel culture. Perché non bisogna dimenticare che a parlare è lo stesso giornale che nel 2020 visse le dimissioni di Bari Weiss, editorialista che se ne andò sbattendo la porta in polemica con il “conformismo” dei suoi datori di lavoro e che scrisse una lettera per denunciare le pressioni esercitate dai social media sulla linea editoriale. “Twitter non è nella gerenza del New York Times, ma è lui che comanda”, furono le parole di Weiss.

Il caso della giornalista non fu certamente un unicum. Prima di lei, infatti, avevano fatto scalpore le dimissioni di James Bennet, il responsabile degli editoriali del Times, colpevole di aver pubblicato l’articolo del senatore repubblicano Tom Cotton che invocava l’intervento dell’esercito per arginare i disordini provocati da alcune frange del movimento Black Lives Matter.

Eppure soltanto oggi il giornale si sveglia e scopre che “la vecchia lezione ‘pensa prima di parlare’ ha lasciato il posto a ‘parla a tuo rischio e pericolo’”, anche grazie ai risultati di un sondaggio condotto in collaborazione con il Siena College Research Institute (SCRI). Ben l’84% degli intervistati afferma che preferisce non esprimere la propria opinione in pubblico per timore di subire ripercussioni negative o ritorsioni.

Un risultato che desta il Times da anni di torpore e lo porta finanche ad affermare che “la solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista”, mentre oggi molti progressisti sono “diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro”, assumendo atteggiamenti di ipocrisia e censura che per lungo tempo sono stati tipici della destra e aborriti dalla sinistra. Eureka tardiva, quindi.

Eppure sono già passati due anni da quando Bari Weiss firmava l’ormai celebre lettera aperta contro la cancel culture promossa da 150 scrittori, personalità e intellettuali pubblicata su Harper’s Magazine. Tra i firmatari nomi del calibro di Margaret Atwood, Ian Baruma, Noam Chomsky, Salman Rushdie e J.K. Rowling: compatti nel denunciare l’intolleranza culturale e nel difendere la libertà di pensiero e parola. “Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato”, si leggeva nella missiva di cui la giornalista aveva voluto farsi portavoce.

Licenziamenti, lettere, lamentele. Insomma, che qualcosa non funzionasse con la libertà d’espressione era chiaro da tempo, eppure “ben svegliato, Times”: soltanto oggi scopre che l’America ha un problema e lo mette in prima pagina.


(huffingtonpost.it, 24 marzo 2022)

di Angela Napoletano


Lo sguardo sul mondo post Covid-19 dell’attivista ambientale Vandana Shiva è un concentrato di ottimismo e speranza mescolate a una dose di consapevolezza dei limiti della natura umana e della sua storia. Nel suo ultimo libro, Dall’avidità alla cura. La rivoluzione necessaria per un’economia sostenibile, la scienziata di origine indiana analizza la “tempesta perfetta” che da tempo flagella il mondo – emergenza climatica, instabilità economica, fragilità sociale e crisi democratica – per rilanciare un appello che, oggi, con la pandemia intervenuta ad esasperare quelle criticità, è forse ancor più urgente: “dobbiamo trovare il modo di riconciliarci con il Pianeta”. L’invito a tornare alla Terra, inteso come recupero di una relazione positiva con l’ambiente provata da secoli di sfruttamento smodato, è il leitmotiv del saggio (pubblicato da Emi in prima edizione mondiale). Ma la riflessione di Shiva, classe 1952, tra gli ambientalisti più famosi al mondo, nota in particolare per il suo impegno contro l’industria dei prodotti geneticamente modificati, non è solo ecologica. L’interconnessione tra i viventi, il rispetto degli equilibri dell’ecosistema, la distribuzione bilanciata delle ricchezze sono la base “verde” su cui si regge il modello economico della cura, l’unico, a suo dire, che può “inaugurare una nuova fase della democrazia globale”.

«Sono cresciuta all’insegna del bellissimo precetto – racconta in collegamento da New Delhi – secondo cui è solo dando che si riceve». Gratuità, reciprocità, condivisione sono i principi che regolano il “circolo del dono”, il meccanismo che genera benessere e prosperità. La legge del dare, spiega, consente di «superare le false categorie dell’estrattivismo, dell’affarismo, della crescita senza fine», di uscire dalla logica della cosiddetta “dis-economia” e di impedire «all’avidità senza freni di pochi di trasformare l’abbondanza in scarsità, il diritto in privilegio». Convinta che la matrice culturale degli squilibri odierni affondi le radici nel dualismo cartesiano tra mente e corpo, tra uomo e ambiente. L’attivista ammette senza esitazione di non sentirsi sola nella rivoluzione per un’economia sostenibile che va predicando. Fa squadra con i piccoli agricoltori locali e con gli scienziati ecologisti di tutto il mondo, i cui saperi, precisa in un passaggio del saggio, «stanno convergendo per plasmare la nascente epistemologia della cura». Teoria quantistica affiancata a studio delle tradizioni e scienza dei sistemi viventi auto-organizzati. «Non cerco compagnia – sottolinea – nella comunità delle istituzioni economiche internazionali». Fonte di ispirazione delle sue ricerche e delle sue campagne sono, piuttosto, gli insegnamenti di Papa Bergoglio sulla tutela del Creato condensati nell’enciclica Laudato si’. La scienziata ha partecipato al laboratorio internazionale di idee ed esperienze, “The Economy of Francesco”, sollecitato dal Santo Padre per individuare soluzioni per un’economia più “inclusiva e attenta agli ultimi”. «Una finestra di discussione privilegiata sul tema», spiega, «che ha contribuito a rinvigorire le mie idee». Il richiamo di Francesco, precisa, «a considerare gli altri esseri umani come fratelli e sorelle di una stessa famiglia, piuttosto che come oggetti da possedere o manipolare, ha rafforzato la mia idea di democrazia della Terra». Visione basata sul principio che tutti gli esseri umani hanno diritto ad accedere alle risorse del pianeta quindi ad avere cibo, acqua, aria pulita, ambiente sano e sicuro. L’evidenza che questa, non altre, è la strada da seguire arriva, puntualizza, «dalle crisi multiple del mondo reale che la pandemia ha solo esasperato».

Shiva parla del Covid-19, “sintomo” della violazione dell’“integrità degli ecosistemi!, in un parallelo con il “virus dell’avidità”. «Possiamo vivere in un mondo unito dalla diffusione di malattie come il Coronavirus – scrive nel libro – invadendo le case di altre specie, manipolando piante e animali per trarne profitto commerciale, oppure… vivere in un mondo unito dalla salute e dal benessere di tutti, proteggendo la biodiversità». La speranza è che la seconda opzione prevalga sulla prima. «Molte persone – commenta – hanno iniziato a prenderne consapevolezza, con coraggio, proprio durante i lockdown disposti durante la pandemia quando la posta in gioco è apparsa chiara: vivere o non vivere». Cura è femmina. La riflessione di Shiva non può prescindere dal ruolo delle donne nell’economia sostenibile. «Parte di ciò che ha causato il colonialismo in secoli di cultura patriarcale – osserva – è l’idea di una terra morta, vuota, e di donne come oggetti». Centrale, per questo, è la forza di quante in futuro «si lasceranno svegliare dalla bellezza della terra – aggiunge – cominciando a lottare per questa, prendendosene cura come se fosse il proprio corpo». L’ecofemminismo, promette, «diventerà sempre più determinante». La “decolonizzazione” dei modelli economici e sociali odierni e la presa di coscienza dell’interconnessione tra uomo e l’ambiente sono, in sintesi, «un dovere oltre che un diritto». La posta in ballo è la stessa sopravvivenza dell’umanità. «Sogno che presto – conclude – tutti imparino ad abitare il pianeta come se fosse un giardino, non una miniera da sfruttare, coltivato nella diversità e nella mutualità. Vivente. Un orto in cui ciascuno si prenda cura del terreno e dei semi piantati. I fiori che ne verranno saranno l’unica cosa di cui avremo bisogno per continuare a vivere». E per essere davvero liberi.


(Avvenire, 23 marzo 2022)

Il rovescio dell’abito di Marta Morazzoni, Guanda, 2022.

Un originale controcanto per la vita eccezionale di eccessi e di cadute della marchesa

Luisa Casati Stampa, la donna che, sullo sfondo di una irrequieta Milano degli Anni ’20, fece della sua vita un’opera d’arte. Marta Morazzoni nota soprattutto per La ragazza col turbante, (Guanda 1986), tradotto in nove lingue, converserà del suo ultimo romanzo con Daniela Pizzagalli, già autrice di importanti biografie di grandi donne, e con Rosaria Guacci.

Accesso con Super Green Pass e mascherina FFP2

Per prenotazione:  https://www.libreriadelledonne.it/prenota-un-evento-a-calendario/

Per acquistare online Il rovescio dell’abito:  https://www.bookdealer.it/goto/9788823528543/607

di Mariangela Mianiti


Cinquantotto anni fa, all’inizio della guerra d’Algeria, di cui quest’anno si celebra l’indipendenza, Boris Vian scrisse, e musicò con Harold Berg, la canzone intitolata Le déserteur (il disertore).

Reinterpretata da molti artisti, fra cui Joan Baez, Luigi Tenco (che la tradusse e intitolò Padroni della terra), Ivano Fossati, Gian Maria Testa, Gino Paoli, Ornella Vanoni, Il disertore è un inno alla disobbedienza di chi sceglie di girare le spalle al massacro.

Mentre in Ucraina la legge marziale impedisce agli uomini fra i 18 e i 60 anni di uscire dal Paese, mentre arrivano da tutto il mondo volontari per arruolarsi nella Legione internazionale ucraina, mentre dall’altra parte si tace su quante siano le madri che piangono figli tornati dentro una bara, sempre che tornino dentro una bara e non cancellati anche nel corpo da una scarna comunicazione, alcuni uomini ucraini scelgono la terza strada, la diserzione.

Lo fanno scappando fra i boschi, nascondendosi nel baule della macchina fra i peluche dei figli. Quando riescono a mettersi in salvo (vedi il manifesto di sabato 19 marzo), un po’ si vergognano di trovarsi al sicuro, unici maschi fra donne, vecchi e bambini, perché la retorica della guerra chiede sacrificio, sangue, eroismo, chiede agli uomini di combattere, mutilarsi, uccidersi, alle donne di salvarsi, curare, piangere.

Eppure qualcuno dice no a questa legge del sacrificio in nome della nazione. Qualche settimana prima che scoppiasse la guerra e già si paventava l’invasione, in un servizio televisivo sul Donbas ho visto uomini ucraini quasi piangere dicendo «Se comincia la guerra io mi nascondo. Io non voglio combattere. Io non voglio uccidere nessuno».

Scriveva Boris Vian:

«Egregio presidente, ti scrivo questa lettera, che forse vorrai leggere, se ti capiterà. Ho ricevuto la chiamata militare e adesso devo andare, in guerra martedì. Signore presidente, io non la voglio fare, non voglio più ammazzare, la gente come me.

Non voglio infastidirti, ma te lo devo dire, non voglio più obbedire, per cui diserterò. Da quando sono nato, han preso già mio padre, han preso mio fratello, e adesso tocca a me. Mia madre dal dolore, è già nella sua tomba, e adesso delle bombe, non gliene importa più. Quand’ero prigioniero m’hanno rubato tutto, l’anima, la mia donna, e la mia dignità.

Domani chiuderò, la porta sul passato, sugli anni che ho perduto, e mi incamminerò. Io mi trascinerò, nel mondo tra la gente, con un pensiero in mente, e a tutti io dirò, dite di no a partire, dite di no a obbedire, dite di no a sparare, dite di no a morire.

Mio caro presidente, se c’è da versar sangue, versate prima il vostro, andate avanti voi. E dica ai suoi gendarmi, se vengono a cercarmi, che possono spararmi, che armi io non ne ho».

Quei giovani russi che adesso sparano a giovani ucraini, e viceversa, in tempo di pace avrebbero magari studiato nella stessa università, avrebbero viaggiato, e mangiato e ballato e lavorato insieme, si sarebbero mandati fotografie, non pallottole.

Disertare non è vigliaccheria, è una scelta politica che, infatti, le regole militari puniscono con la legge marziale, perché negli eserciti bisogna solo obbedire.

Il disertore diserta un conflitto che non vuole e nel quale non si riconosce perché sostituisce le armi alle parole. Non si tratta di eliminare il confliggere, che fa parte di noi, ma di trasformarlo da armato in dialettica delle differenze. Da una frase sbagliata o offensiva puoi tornare indietro, da un’arma che toglie la vita no perché quando sei morto, sei morto.

E comunque, Vian è in buona compagnia. Andate a curiosare su antiwarsongs.org


(il manifesto, 22 marzo 2022)

di Ida Dominijanni


Molto più prudente di quanto si potesse immaginare, molto più tirato in volto di quanto si mostrasse all’inizio dell’invasione, probabilmente avvertito dal colloquio telefonico con papa Francesco da lui stesso citato non per caso all’inizio del suo discorso, Volodymyr Zelensky si è presentato al Parlamento italiano con un profilo diverso da quello esibito nei giorni scorsi davanti a quelli di Londra, Washington, Berlino, Gerusalemme. Se lì aveva chiesto a gran voce la no fly zone, qui non l’ha fatto, forse finalmente persuaso dell’irricevibilità di una richiesta che per quanto comprensibile sarebbe foriera di conseguenze catastrofiche per la specie umana. Se lì aveva sollecitato il paragone fra la guerra di oggi e il crollo del Muro di Berlino e l’identificazione della causa ucraina con quella delle vittime dell’11 settembre e della Shoah, qui non ha approfittato, come tutti ci saremmo aspettati, dell’identificazione opinabile fra la resistenza ucraina e la resistenza partigiana italiana avallata dal mainstream politico e mediatico nostrano.

Si direbbe che qualcuno l’abbia avvertito del tasto particolarmente sensibile e controverso che avrebbe toccato se l’avesse fatto; o forse che il presidente ucraino abbia preferito spingere piuttosto su quello, assai meno rischioso e più produttivo a fini diplomatici, della prossimità fra Roma e il Vaticano. Come che sia andata, Zelensky ha mantenuto il suo discorso sul piano che nessuno può negargli della condanna dell’invasione e del sostegno umanitario, limitandosi a un paragone fra Mariupol di oggi e Genova della Seconda guerra mondiale per rendere l’entità del disastro ed evitando i toni spericolati di chiamata alle armi della Ue e della Nato che aveva avuto in precedenza. Di questo suo passaggio al Parlamento italiano c’è dunque da essere ben lieti, tanto più se dovesse significare, come probabilmente significa, una maggiore disponibilità al negoziato in vista del prossimo round.

Meno prudente, e come sempre meno empatico, il Presidente del consiglio italiano, che ha ribadito l’impegno a sostenere con l’invio di “aiuti anche militari”, cioè di armi, la resistenza ucraina, attribuendole l’onore e l’onere di presidiare “la nostra pace, la nostra libertà, la nostra sicurezza”, nonché “quell’ordine multilaterale basato sulle regole e sui diritti faticosamente costruito dal dopoguerra in poi”. Un onore e un onere sul quale ci sarebbe molto da discutere, a partire dal fatto che lo sfregio del suddetto ordine data da ben prima della sua violazione sciagurata da parte di Putin in Ucraina. Ma si sa che di questo Draghi invece non vuol discutere, allineato com’è alla narrativa occidentalista del dissesto del mondo globale.

Restano tuttavia da rimarcare due punti sensibili, uno conscio l’altro inconscio, del discorso di Zelensky. Il primo sta nel suo passaggio iniziale, “il nostro popolo è diventato il nostro esercito”, che contiene in sé tutte le ragioni della controversia sulla resistenza ucraina: perché al di là della solidarietà e dell’ammirazione sentite e dovute, un popolo che si trasforma in un esercito non è una buona premessa per le sorti di una giovane democrazia. E checché ne pensi il mainstream nostrano, resta tutto da pensare il confine che distingue la resistenza contro l’invasore esterno di un popolo in sintonia con il proprio esercito e il proprio governo, quale sembra essere quella ucraina, e la resistenza di un popolo diviso fra lealtà e rivolta verso un regime dittatoriale interno prima che verso l’invasore esterno, quale fu quella italiana; ed è il confine che distingue una mobilitazione nazionalista da una mobilitazione partigiana, con le conseguenze che ne derivano per la costruzione del pluralismo democratico.

L’altro punto, inconscio, sta nel paragone fra Mariupol e Genova, ispirato dalla memoria dei bombardamenti da terra e dal mare subiti dal capoluogo ligure durante la Seconda guerra mondiale. Nella nostra memoria però Genova non è solo questo. È anche la città del G8 del 2001, teatro della prova generale di quella gestione bellica e securitaria dell’ordine globale che sarebbe prevalsa di lì a poco, dopo l’11 settembre. Da allora, per “l’ordine multilaterale basato sulle regole e sui diritti” invocato da Draghi è cominciata una lunga sequenza di strappi e lacerazioni, tutt’altro che priva di conseguenze per la catastrofe cui assistiamo oggi.


(centroriformastato.it, 22 marzo 2022)

di C.J. Polychroniou (Truthout.org)


Noam Chomsky ha più volte dichiarato che il compito degli intellettuali non è più quello di guidare le masse, ma di aiutare le persone a decifrare la propaganda della classe politica, a individuare le strutture di potere e di dare il maggiore contributo possibile ai movimenti popolari di cui si fa parte. Anche questa intervista (in origine rilasciata per il sito statunitense Truthout.org e tradotta in italiano dal sito svizzero naufraghi.ch) va pienamente in questa direzione e offre un contributo alla comprensione delle dinamiche che hanno portato alla guerra in Ucraina.

Oltre a ribadire la necessità di optare per la diplomazia e offrire un punto di vista critico interno agli Usa, Chomsky ricorda la preminenza della sopravvivenza, e quindi della vita, sulla purezza delle idee e valuta questa guerra come «un punto di svolta nella storia dell’umanità».

(La Redazione del sito Libreria delle donne)


Leggi l’intervista:

https://naufraghi.ch/noam-chomsky-siamo-a-un-punto-di-svolta-nella-storia-dellumanita/

Intervista originale (in inglese)

https://truthout.org/articles/noam-chomsky-us-military-escalation-against-russia-would-have-no-victors/


(naufraghi.ch/truthout.org, 7/1° marzo 2022)

di Redazione


È uscito il numero 61 della Rivista DUODA Estudis de la differència sexual del Centro di ricerca dell’Università di Barcellona. «La rivista DUODA, fondata nel 1991, pubblica la scrittura femminile di prosatrici, poete e artiste che conoscono il mistero della lingua materna e sanno vivere, studiare, pensare e creare sentendo il simbolico della madre nato dall’armonia del caos.» I testi sono scritti in catalano o in castigliano e si possono leggere e scaricare liberamente dal sito RACO (Revistes Catalanes amb Accéss Obert): https://raco.cat/index.php/DUODA/issue/view/29959

La direttora Laura Mercader Amigό nell’editoriale afferma che questo è un numero speciale perché è anche una celebrazione. Le sue parole: «Annunciamo l’avvento chiave per la vita delle donne oggi, quelle del mondo occidentale e di qualunque mondo dove circola libertà femminile. L’arrivo dell’Era della Perla e dell’epoca delle acque di Tiamat, il tempo del patriarcato agonizzante».

La rivista inizia con due articoli:

Neus Maria Calvo Escamilla scrive della Ricostruzione del sesso della Dea (Gea-Gaia), facendo riferimento al Tempio di Delfi con un’ironica ed efficace vignetta di Pat Carra.

Laura Minguzzi in Attingere al proprio sentire: la sorgente viva della libertà femminile, nella sua lezione magistrale racconta la sua traiettoria di vita strettamente connessa alla sua pratica politica del desiderio attraverso i luoghi creati o scelti, la rete di relazioni preferenziali, le opere, sullo sfondo del femminismo della differenza (Libreria delle donne di Milano, Circolo della rosa, Comunità di Storia Vivente). Alcune immagini del libro d’artista di Rosy Daniello della Comunità di Storia Vivente di Foggia concludono la comunicazione. Segue la trascrizione di un colloquio sulle questioni poste.

La seconda parte riguarda il Tema Monografico dal titolo Madre senza coito di corpi e di concetti, con le relazioni rispettivamente di Laura Mercader A. che presenta il XXXII Seminario pubblico internazionale di DUODA, di Barbara Verzini che espone la sua ricerca su La madre, il mare e la rana. Armonia dal Caos di Tiamat, di Marίa Milagros Rivera Garretas sul Piacere di concepire corpi senza coito e concetti senza fallo, e i dibattiti che hanno suscitato.

Seguono colloqui di altre relatrici sui temi del Seminario annuale.

L’ultima parte del numero 61 della Rivista è dedicata a un Progetto d’Artista di Marta Vergonyόs Cabratosa, Mar Serinyà Gou, Rosa Pou Batlle.


(www.libreriadelledonne.it, 21 marzo 2022)

di Mariangela Gualtieri


Ascoltala su https://www.doppiozero.com/materiali/come-si-fa [in allegato file audio]


Prima mi sono vergognata. Poi ero

incredula delusa. Come bocciata.

Tutta una specie ritornata indietro.

Alle bastonate. Maschi al comando ancora,

con i vecchi randelli trasformati in armate

missili carri armati corazzate,

tutta un’esibizione muscolare così evoluta –

e le teste invece rimaste indietro, alla predazione,

alla zampata feroce su qualcuno che trema.

Solo dopo è arrivata la pena. Solo dopo

sono entrata dentro un gonfio

di lacrime tenute. E il dolore

dei miei umani casi si è fuso insieme

al dolore per loro, i morti, gli scampati

i feriti lasciati lì in un fosso, i rifugiati.

E se adesso piango a volte – non so per chi

o per che cosa, tanto sono confusa.

Un dolore non grave però, il mio,

spesso sospeso,

un dolore che non mi toglie ancora

l’appetito e posso guardare

i notiziari, continuando a mangiare,

sopportare ancora lo stridore della pubblicità

col suo falso prometterci le cose.

Come si fa a provare

un dolore vero. Come si fa

da quel dolore sentir nascere

un atto vero di pace. Come si fa

ad esser solidali fino alla radice.

Allora forse troveremmo strade

impensabili ora. Accordi fra nemici

talmente inaspettati. Soluzioni di tregua

permanente, abbracci molto attesi,

terreni condivisi, confini più sfumati.

Allora la terra intera

sarebbe nostra alleata, tutti

i pesci sotto le corazzate, gli

uccelli disturbati

dai fumi e dai boati, i tronchi

le radici che stavano aspettando

la loro primavera. I gatti per le strade

i cani, i lombrichi, le api.

Tutto sarebbe alleato con noi

dentro la pace. Ce ne verrebbe 

una gioia vera, una potenza

di creazione – proprio il contrario

di questa morte dei corpi e delle cose.

Sarebbe la più grande rivoluzione di specie:

risolvere i conflitti col nostro ragionare

intelligente – in compassione.

Risolverli parlando e tacendo

donne e uomini insieme,

con ricorrenti abbracci a ricordare

ciò che più vogliamo, il nostro fine supremo.

Stare nella pace. Abitare la terra

in un respiro grato. Noi, ultimi arrivati.


Mariangela Gualtieri

in dialogo con Antonio Viganò


(Doppiozero, 20 marzo 2022)

Credono appassionatamente nei talenti delle donne. In quattro, si sono unite per fare una casa editrice “femminista, indipendente, inclusiva, curiosa”. Le abbiamo invitate per farci raccontare come si muovono nella complessità della letteratura e del femminismo di oggi e come mettono in gioco professionalità e competenze.

Giordana Masotto dialoga con Beatrice Gnassi, Clara Stella, Hanna Suni.  

https://lepluralieditrice.net/

Accesso con Super Green Pass e mascherina FFP2

Per acquistare online i libri della casa editrice Le plurali: COMPRA QUI Bookdealer-Libreria delle donne di Milano

di Nello Scavo


L’ultimo l’hanno acciuffato ieri. Con la moglie, il figlio neonato e la madre di lei hanno provato ad attraversare il confine. L’uomo, per sfuggire all’arruolamento forzato, aveva ricavato sul sedile posteriore un box tra i peluche e pannolini nel quale nascondersi all’interno. Con la moglie alla guida dell’utilitaria sperava di passare inosservato e continuare a occuparsi della famiglia una volta superata la frontiera. Ma i controlli sono strettissimi. E i militari hanno voluto frugare per bene. Quando sotto ai pupazzetti hanno visto rannicchiato l’uomo, hanno estratto i fucili e un telefono. Con le armi gli hanno intimato di uscire, mentre con la fotocamera riprendevano la scena. Ora quelle immagini sono di dominio pubblico. E suonano come un avvertimento. E tra famiglia e patria, i maschi tra i 18 e 60 anni non hanno scelta.

Dove le macerie diventano trincea, al di qua del fiume Dnepr, quando il caseggiato rimasto uguale all’epoca sovietica annuncia l’ingresso nella città dei monasteri e dei santuari ortodossi, c’è chi le armi non le imbraccerà comunque. “Lo so che la nostra è legittima difesa, e che se anche dovessi uccidere il nemico per difendere la mia famiglia, mi verrà perdonato. Ma io non prenderò il fucile”.

L’ostinata nonviolenza di Yuri, tra le rovine della cintura esterna di una Kiev a cui l’armata russa ha mostrato cosa sarebbe capace di fare se entrasse tra le vie acciottolate del centro storico, non ha niente a che vedere con il pacifismo a oltranza. “Non ho nulla contro i pacifisti”, dice mentre si prepara a un’altra notte nello scantinato che tutti chiamano bunker, più per tirare su il morale che per reale capacità di resistenza delle strutture portanti. “Solo che io non voglio sparare a nessuno, non voglio uccidere, ma non voglio neanche morire”, aggiunge. Potrebbe però arrivare un momento in cui dovrai scegliere, gli facciamo notare: o la tua vita o quella di chi ti sta di fronte. “Può darsi che gli tirerò un sasso, oppure avrò così tanta paura da restare paralizzato aspettando che mi ammazzi”, risponde. “Intanto – aggiunge – cerco di dare una mano ai ragazzi che vanno a lottare. Gli spiego che non sono obbligati a farlo, ma che se lo fanno devono farlo per amore della nostra libertà, non per odio”.

Il confine della paura è sottile e insidioso almeno quanto quello che separa un codardo da un cecchino. Difficile dire che entrambi siano nel giusto. Ma per le strade di Kiev, di Odessa, di Ulman e di ogni altra trincea osservata in queste settimane non abbiamo trovato disprezzo per chi la guerra non la vuol fare. Olga, ad esempio, sa che il marito è esentato dal combattimento. Lo ha scelto lui. Niente fucili. Ma non è che si senta così tranquilla. Lui è un volontario del soccorso civile, di quelli che dopo l’onda d’urto arriva con la station wagon comperata a rate e trasformata in auto di primo soccorso, per raccogliere chi ancora ha un cuore che batte, o per radunare i pezzi di chi è stato centrato dall’esplosione.

Ci sono padri che vivono nascosti nei casolari più remoti. Tra balle di fieno e bestiame abbandonato. Non accendono neanche il fuoco, per non dare nell’occhio. Hanno accompagnato la famiglia al confine. La loro guerra l’hanno già vinta mettendo in salvo moglie e figli. Hanno anche provato a corrompere i gendarmi, ma non c’è stato niente da fare. Gli uomini vengono ricacciati indietro, verso le prime linee, ma non tutti hanno negli occhi il fuoco dell’eroe in armi.

A usare le categorie delle cronache di guerra, si direbbe che sono renitenti alla leva. Oppure disertori. “Io e Alessia non avevamo niente – racconta il ragazzo, sposo da tre settimane -. Ci siamo fidanzati e abbiamo trovato un lavoro, poi una casa e finalmente ci siamo sposati”. Hanno provato ad attraversare insieme la frontiera verso Chisinau, in Moldavia. Ma la poliziotta ucraina lo ha bloccato: “Devi combattere per la patria!”. Le lacrime di Alessia nessuno potrà mai descriverle. E’ rimasta anche lei, non ha voluto lasciarlo da solo. Lo implora di non unirsi alle milizie. “Allora combatteremo insieme”, gli dice quasi minacciandolo. Ma lui non si perdonerebbe di averla trascinata davanti al nemico. Si sente un vigliacco, un traditore di Kiev. Poi saluta con una di quelle frasi che starebbero bene nei libri: “Non andrò a combattere, devo proteggere lei. L’Ucraina è la mia terra, Alessia è la mia patria”. E di scrivere che è un disertore, proprio non riusciamo.


(Avvenire, 18 marzo 2022)

di Franca Fortunato


Il libro postumo di Gino Strada, da poco in libreria, Una persona alla volta, edito Feltrinelli, è un vero e proprio Manifesto per un mondo senza guerre, lasciato in eredità all’umanità da parte di un uomo che ha dedicato la sua vita a curare le vittime di tutte le guerre, stando sul campo, e guardando i volti stravolti di feriti, mutilati, morti, affamati, rifugiati, disperati, per lo più donne e bambine/i. Ovunque sia stato, Pakistan, Perù, Somalia, Bosnia, Etiopia, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, sempre “atrocità e disumanità”, “morti e feriti” di “cittadini normali, molte donne e moltissimi bambini”. Il volto della guerra gli si presenta per la prima volta alla fine degli anni Ottanta in Pakistan, all’ospedale internazionale della Croce Rossa dove dall’Afghanistan, occupato dai sovietici, arriva un bambino mutilato da una mina giocattolo, armi pensate, progettate, costruite per i figli dei “nemici”. “Quel bambino, a cui dovetti amputare la mano, divenne per me il vero volto della guerra, il volto di una delle sue tante vittime”. “La guerra per me ha sempre avuto la faccia di un uomo stravolto dalla sofferenza, il rosso caldo del sangue e la puzza di bruciato. Così mi si è presentata più o meno in tutti i posti dove sono andato a curare le vittime. Quante donne ho visto disperate per un figlio ucciso”. Quando gli Stati Uniti, dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre, bombardano e occupano l’Afghanistan, seguiti dall’Occidente, in nome della “guerra al terrorismo”, Strada capisce “di non essere un pacifista, ma di essere semplicemente contro la guerra”. “Dopo anni passati tra conflitti – spiega – mi sono scoperto saturo di atrocità, del rumore degli spari e delle bombe. E lì, in Afghanistan, dove avevo vissuto per tanti anni operando feriti, non ce l’ho fatta più a sopportare l’idea di una nuova guerra. Così alla vigilia di un’altra ondata di sofferenze e di morte ho detto il mio ‘no’, basta con la guerra, basta uccidere mutilare infliggere atroci sofferenze ad altri esseri umani”. Sappiamo come è andata a finire quella guerra e le altre che l’hanno seguita, un disastro, che rafforza in Strada la convinzione che “la guerra non si può umanizzare. Non si può renderla meno pericolosa, crudele e folle (…) si può solo abolire” iniziando a vederla “per quello che è veramente, l’uccisione volontaria di tanti esseri umani. Non importa quale sia la ragione, o la ‘causa’, di un conflitto: è lo strumento ‘guerra’ a essere un crimine”. “Per oltre trent’anni ho letto e ascoltato bugie sulla guerra. Che la motivazione – o più spesso la scusa – per una guerra fosse sconfiggere il terrorismo o rimuovere un dittatore, oppure portare libertà e democrazia, sempre me la trovavo davanti nella sua unica verità: le vittime”. “Dopo tutti questi anni di guerra, la sola verità inoppugnabile è che questo strumento non ha funzionato” e “nel mondo atomico in cui viviamo, non possiamo più permetterci la guerra”. La possibilità di una guerra nucleare è entrata nel mondo con la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, alla fine della seconda Guerra mondiale, e oggi sembra tornata con la guerra in Ucraina.

Strada ricorda il Manifesto di Russel-Einstein (1955) sottoscritto da scienziati di tutto il mondo per un disarmo nucleare. Servirebbe oggi – si chiede – scrivere un nuovo Manifesto? Come abolire la guerra? “Non quella in Iraq o in Afghanistan, ma la guerra in sé e il suo unico, vero contenuto: morte, sofferenza, disumanità”. Un mondo senza guerre è “il compito più ambizioso”, “la scommessa più grande” che per Gino Strada attende l’umanità. 


(Il Quotidiano del Sud, 18 marzo 2022)

di Annie Marino


Ho prima atteso e dopo ascoltato con curiosità l’intervento de Le Compromesse.

Le parole di Daniela hanno un sapore che ho conosciuto da vicino: la Calabria, sì, ma anche l’esperienza della solitudine. È curioso come una donna che condivide l’esperienza della propria solitudine possa apparire splendidamente irriverente, penso: tanto più adesso che internet trabocca di foto di gruppo e di denti bianchi.

Ho raccolto l’invito al confronto rivolto a tutte e, in particolare, alle più giovani tra noi, perché nell’ascolto mi sono riconosciuta e, poi, perché il racconto di Daniela ha riportato il mio cuore e la mia mente al legame più risalente e prezioso dacché i miei ricordi iniziano, quello con mia sorella, di cui ho saputo fin da subito, ad esempio, che era apparsa appena due anni e mezzo dopo di me.

È servito tempo, però, sono serviti incontri e coincidenzeperché potessi prendere atto della sua inestimabilità: che noi due fossimo, siamo, una comunità coesa, infatti, non è mai stato in discussione, solo, non avevo messo bene a fuoco il ruolo attivo che lei ha svolto sulla mia formazione e sulla mia coscienza. Chiamo ora in aiuto le parole di Simone de Beauvoir nelle Memorie: «Non avevo fratelli, nessun paragone poteva rivelarmi che certe licenze mi erano vietate a causa del mio sesso; le costrizioni che mi venivano imposte le imputavo soltanto alla mia età; mi rammaricavo vivamente della mia infanzia, mai della mia femminilità».

Ri-cominciando, ancora una volta, dal corpo, mia sorella è stata, almeno per molto tempo, il corpo più prossimo, ma anche un corpo che si è modificato, alle volte con rigore, determinazione, estremismo, in un modo che rendeva impossibile ignorarne i cambiamenti. Non saprei dire in che misura quei cambiamenti possano essere ricondotti alla storia particolare del suo corpo e in quale, invece, a fattori esterni. Tuttavia, se è vero che l’avvento di internet e delle piattaforme, inclusi i social network, ha introdotto elementi inediti, l’altro dato certo è che lei li abbia recepiti sicuramente prima di me e con minore diffidenza.

A proposito di questo, io, di anni, ne ho trentuno: qualcuno in più di mia sorella e di Daniela, ma non abbastanza da poter dire di aver vissuto la maggior parte della mia esistenza nel mondo analogico. Oggi non uso social network come Facebook e Instagram in virtù di una scelta istintiva e non ideologica: l’ho fatto, in passato, privilegiando, soprattutto nell’ultimo periodo, un utilizzo passivo; un giorno, li ho solo trovati definitivamente dispersivi e noiosi. Questo modo di operare, da sola e insieme ad altri, è stato giudicato, di tanto in tanto, sintomatico di un’attitudine che nel tempo mi è valsa qualche battuta pungente – per lo più fuori contesto – e, in senso più ampio, la scoperta di certi luoghi comuni legati al mio sesso, al mio corpo; luoghi comuni che, per quanto falsi e infondati, inducono sempre domande sgradevoli e, in alcuni casi, solitudine.

L’esperienza de Le Compromesse deriva, mi pare di intendere, per alcuni aspetti significativi, da una reazione alla solitudine attraverso la solidarietà, una dinamica positiva, che dovrebbe apparire automatica e naturale. La mia percezione spontanea è però quella di una pratica affascinante e desueta e, da questa percezione, nasce la mia domanda diretta a Daniela, non originale, per la verità, ma che apre prospettive di risposta tutt’altro che scontate: se la destinazione più immediata di un corpo è l’aggregazione con altri corpi, se la storia offre molte testimonianze di corpi che hanno veicolato istanze di cambiamento, perché questi corpi e le città sono stati sostituiti in modo consistente, sebbene non totale, dalla rete?


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 18 marzo 2022)

di Hannah Arendt


Anticipiamo stralci della biografia “Rosa Luxemburg” di Hannah Arendt (1966), dal 17 marzo 2022 in libreria con Mimesis e la curatela di Rosalia Peluso.


Ogni movimento della Nuova Sinistra, quando è giunto il momento di trasformarsi in Vecchia Sinistra – di solito quando i suoi membri hanno raggiunto i quarant’anni – ha seppellito prontamente il primo entusiasmo per Rosa Luxemburg insieme ai sogni di gioventù; e dato che di solito non ci si è preoccupati di leggere, e tanto meno di capire, quanto lei aveva da dire, si è trovato facile liquidarla con tutto il filisteismo condiscendente del loro status appena acquisito.

Il “luxemburghismo”, invenzione postuma degli scribacchini del partito per motivi polemici, non ha mai ottenuto nemmeno l’onore di essere denunciato come “tradimento”; è stato trattato come una malattia innocua e infantile.

Nulla di ciò che Rosa Luxemburg ha scritto o detto è sopravvissuto, a eccezione della sua critica, sorprendentemente accurata, della politica bolscevica durante le prime fasi della Rivoluzione russa: questo solo perché coloro secondo i quali “dio aveva fallito” potevano usarla come un’arma conveniente, sebbene del tutto inadeguata, contro Stalin. (“C’è qualcosa di indecente nell’uso del nome e degli scritti di Rosa come una specie di missile da guerra fredda” ha sottolineato il recensore del libro di Peter Nettl, che firmò una prima biografia sulla Luxemburg, ndr). I suoi nuovi ammiratori non avevano più cose in comune con lei dei suoi detrattori. Il suo senso, altamente sviluppato, per le differenze teoriche, il suo infallibile giudizio sulle persone, le sue personali propensioni e idiosincrasie, le avrebbero impedito di confondere Lenin e Stalin in qualsiasi circostanza, a prescindere dal fatto che non è mai stata una “credente”, non ha mai usato la politica come un sostituto della religione ed è stata attenta, come nota Nettl, a non attaccare la religione anche quando si è opposta alla Chiesa. In breve, la circostanza che “la rivoluzione fosse vicina e reale, per lei come per Lenin” non costituì mai un suo articolo di fede, a differenza del marxismo. Lenin era per essenza un uomo d’azione e sarebbe entrato in politica in ogni caso, mentre lei, che, nella sua semiseria autovalutazione, si considerava nata “per badare alle oche”, avrebbe potuto benissimo immergersi nello studio della botanica o della zoologia, della storia, dell’economia o della matematica, se le contingenze del mondo non avessero offeso il suo senso di giustizia e libertà.

Ciò comporta naturalmente riconoscere che lei non sia stata una marxista ortodossa, talmente poco ortodossa da far dubitare che sia stata un’autentica marxista. Nettl afferma giustamente che per lei Marx non era altro se non “il miglior interprete della realtà con cui tutti loro avevano a che fare”, ed è rivelatore della sua mancanza di coinvolgimento personale il fatto che abbia potuto scrivere: “Provo ora orrore per il tanto decantato primo volume del Capitale di Marx a causa dei suoi elaborati ornamenti rococò à la Hegel”. Ciò che veramente contava per lei, perfino più della rivoluzione stessa, era la realtà, in tutti i suoi aspetti meravigliosi e terribili. La sua non-ortodossia era innocente, non polemica; “raccomandava volentieri agli amici di leggere Marx per la freschezza del suo stile e l’ardimento dei suoi pensieri, e perché non dava nulla per scontato. Gli errori che aveva commesso nell’analisi politica erano evidenti e inevitabili; per questo non si preoccupò mai di scrivere una critica di ampio respiro”.

Tutto ciò risulta meglio espresso nell’accumulazione del capitale, che solo Franz Mehring ha avuto la spregiudicatezza di definire un “risultato veramente magnifico, affascinante, impareggiabile dalla morte di Marx in poi”. La tesi centrale di questa “curiosa opera di genio” è abbastanza semplice. Dal momento che il capitalismo non mostrava alcun segno di cedimento “sotto il peso delle sue contraddizioni economiche”, lei cominciò a cercare una causa esterna per spiegarne la continua esistenza e crescita. La trovò nella cosiddetta “teoria del terzo fattore”, cioè nel fatto che il processo di crescita non era semplicemente la conseguenza di leggi innate che governano la produzione capitalistica, ma della continua esistenza di settori pre-capitalistici in Paesi che il “capitalismo” aveva catturato e portato nella sua sfera di influenza… Lenin si accorse subito che questa analisi, indipendentemente dai suoi pregi o difetti, era essenzialmente non marxista.

C’è un altro aspetto della personalità di Rosa che Nettl evidenzia, ma di cui non sembra cogliere tutte le implicazioni: il suo essere “coscientemente donna”. Questo dato poneva da sé diversi limiti a qualsiasi sua ambizione. Significativa, ad esempio, la sua idiosincrasia per il movimento di emancipazione femminile, che attraeva irresistibilmente tutte le altre donne della sua generazione e di stesse convinzioni politiche; all’uguaglianza reclamata dalle suffragette, sarebbe stata tentata di rispondere: Vive la petite différence. Era una outsider, non soltanto perché era e rimase un’ebrea polacca in un Paese che non le piaceva e in un partito che presto avrebbe disprezzato, ma anche perché era una donna… Rosa Luxemburg non è vissuta abbastanza a lungo per vedere quanto avesse ragione e per osservare il terribile, e terribilmente rapido, decadimento morale dei partiti comunisti, prodotti diretti della Rivoluzione russa, in tutto il mondo…

Una marxista poco ortodossa “Si considerava nata per badare alla fattoria: avrebbe potuto immergersi nello studio se il mondo non avesse offeso il suo senso di giustizia”.


(Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2022)

di Maria Castiglioni


Il tema dell’esposizione del corpo femminile sui social è ora molto presente nella vita delle donne, soprattutto giovani (ma non solo), che scelgono di rappresentarsi anche in questa modalità virtuale. Per la mia generazione cresciuta negli anni ’60/70 questa dimensione era inesistente, ma ciononostante la tematica dello sguardo dell’altro era ugualmente molto presente. Ora come allora, infatti, la domanda che ritorna è: le donne si espongono solo allo sguardo maschile oppure per loro conta anche, e molto, quello femminile?

Il primo sguardo che si è posato su di noi è stato quello materno: su questo abbiamo acquisito la nostra immagine corporea con i suoi limiti e le sue possibilità, le sue bellezze e il suo senso. Lo sguardo materno ci ha accompagnato, a volte rincorso, a volte frenato: è sicuramente stato la prima fonte di messa in valore e in giudizio del nostro corpo, del suo aspetto, del suo modo di muoversi e comportarsi. Leggo in questo accompagnamento dello sguardo la costante preoccupazione della madre che la propria creatura non venga svalorizzata o sminuita, bensì “gestita” al meglio, così come un artista può essere in ansia rispetto alla propria opera.

Nel modo in cui le donne, di ogni età, si presentano al mondo e cercano l’approvazione dell’altra donna leggo sottotraccia la ricerca antica di uno sguardo materno benevolo o, al contrario, la sua provocazione, nello svincolo da immagini femminili obsolete. Così è stato per la mia generazione, che ha indossato i pantaloni, sfidando la riprovazione delle madri.

Si tratta in ogni caso, come ricorda Milagros Rivera, di «ornare e onorare l’opera materna», conservandone, nell’esporsi al mondo, l’intento originario, creativo e sorgivo, valorizzando le potenzialità e le bellezze del nostro corpo, in qualunque fase della nostra vita e dei nostri umori, nella gioventù come in vecchiaia, nella gioia come nella depressione.

L’esposizione del proprio corpo sui social, e la misura che ne ritorna sotto forma di feedback, si riverbera a livello di vissuti interni in modo molto profondo. Al riguardo vorrei riportare il vissuto di una mia giovane paziente che ha incominciato a “postare” brevissimi filmati su Telegram/ Instagram dove lei è la protagonista.

Si tratta di un pubblico virtuale (lei stessa afferma che non vorrebbe assolutamente parenti che la vedessero), perlopiù sconosciuto, ma non per questo meno significativo. Anzi! Grandi sono la sua ansia e i suoi sbalzi d’umore in relazione ai “mi piace” e ai commenti che riceve. Si chiede sempre: andrà virale o no? E passa il tempo a guardare i profili delle altre, a competere, a invidiarne il successo. Un massimo di esibizione a fronte di un massimo di estraneità, col desiderio di un riconoscimento, mai garantito, a cui è appeso il proprio valore pubblico, in una continua oscillazione tra gratificazione e frustrazione.

Pur essendo la scena totalmente virtuale e smaterializzata, i suoi effetti sono invece molto concreti e tangibili, e la vita intima diventa una sorta di “bene comune”, di cui si vorrebbe però, contradditoriamente, avere il controllo delle modalità di uso e di giudizio.

E, passando dal corpo esposto delle nuove vetrine virtuali al corpo malato di questi nuovi scenari pandemici, vorrei fare un’ultima considerazione. Abbiamo vissuto, e non è ancora finita, una inedita percezione del nostro corpo, diventato minacciato e minaccioso, impaurito e zittito, oggettivato e patologico in quanto potenziale ricettacolo e/o trasmettitore di infezioni. Una repentina reductio ad unum della sua complessità e del nostro vissuto, quasi che queste due dimensioni (complessità e vissuto) non esistessero o, comunque, fossero da accantonare in nome della sicurezza e

dell’emergenza sanitaria.

Per me è impossibile condividere questa visione emergenziale e securitaria, che azzera un pensiero che tuttora si fonda sul partire da sé e la presa di coscienza che il corpo femminile è stato il primo terreno di scontro col Patriarcato, da cui è partito tutto il cammino della libertà femminile.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 17 marzo 2022)

di Wisława Szymborska


Piatta come il tavolo

sul quale è posta.

Sotto – nulla si muove,

né cerca uno sbocco.

Sopra – il mio fiato umano

non crea vortici d’aria

e lascia tranquilla

la sua intera superficie.

Bassopiani e vallate sono sempre verdi,

altopiani e montagne sono gialli e marrone,

oceani e mari – di un azzurro amico

sui margini sdruciti.

Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata.

Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,

accarezzare i poli senza guanti grossi,

posso con un’occhiata

abbracciare ogni deserto,

insieme al fiume che sta lì accanto.

Segnalano le selve alcuni alberelli

tra i quali è ben difficile smarrirsi.

A est e ovest, sopra e sotto

l’equatore, un assoluto

silenzio sparso come semi,

ma in ogni seme nero

la gente vive.

I confini si intravedono appena,

quasi esitanti – esserci o non esserci?

Amo le mappe perché dicono bugie.

Perché sbarrano il passo a verità aggressive.

Perché con indulgenza e buonumore

sul tavolo mi dispiegano un mondo

che non è di questo mondo.


(da Basta così, ed. Adelphi, 2012)