di Luciana Tavernini


Gli slogan «Il corpo è mio e lo gestisco io» o «L’utero è mio e lo gestisco io», che in tante gridavamo nelle manifestazioni, fu una presa di parola che cercava di esprimere un’integrità di sé. Fu un tentativo di voler dire libero ma, proprio perché iniziale, ancora approssimativo e impreciso. Fu uno sforzo per svincolarci dalla dissociazione che gli uomini cercavano di produrre in noi donne, riconoscendosi padroni del nostro corpo.

Ma, grazie al movimento delle donne, tale pretesa non fu più sostenibile.

Alcune leggi ce lo rivelano.

Nel 1956 la Corte di Cassazione decise che al marito non spettava nei confronti della moglie e dei figli lo jus corrigendi (art. 571 c.p.), il diritto di picchiarli, abolito nel 1963.

Fino al 1968 l’adulterio era reato solo per la moglie, che poteva andare in carcere.

Nel 1981 furono abolite le attenuati per il delitto d’onore per cui uccidere la moglie era giustificato, se veniva leso l’onore dell’uomo. E sempre nel 1981 non fu più in vigore il matrimonio riparatore che permetteva di stuprare una ragazza senza essere punito se la si sposava.

Anche la rivoluzione sessuale, per me iniziata nel 1970, provocò in me, come in molte mie amiche, una nuova dissociazione: mi fece credere che rendendomi disponibile al piacere maschile lo avrei trovato anch’io. Non fidandomi del mio sentire, mi sono scissa dal piacere femminile. Già nel 1972 Carla Lonzi ne segnalava il pericolo in La donna clitoridea e la donna vaginale, ma allora mi ostinavo inutilmente a cercare piacere dove era impossibile trovarlo. Solo successivamente ho scoperto, sempre con lo stesso uomo, che, come annuncia il titolo del libro di María-Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo o non è.

Pensiamo anche all’aborto: veniva considerato un “delitto contro la integrità e la sanità della stirpe”, invece che una conseguenza patita dalle donne per le irresponsabili pratiche sessuali maschili. Né io né nessuna altra che conosco vogliamo una sessualità che ci faccia restare incinta se non desideriamo mettere al mondo una creatura. Ma la legge 194 del 1978, permettendo l’aborto solo a certe condizioni, ancora non considera una donna come intera e capace di autodeterminazione: altri decidono cosa permetterle di fare o non fare del suo corpo gravido.

E lo stupro era reato contro la morale e solo dal 1996 diventa reato contro la persona.

Queste leggi sono frutto delle lotte delle donne per smascherare il contratto sessuale tra uomini che, immaginandoci “cose” piacevoli o utili a loro disposizione, avevano creato regole per spartirsi i corpi femminili e i loro frutti.

Però i due slogan femministi, mentre li gridavo, mi provocavano un dissidio interiore che segnalava l’esigenza di lavorare sulla lingua: mantengono infatti una dissociazione come se il corpo o una sua parte potesse essere una proprietà, non più dell’uomo di turno, ma di un io scorporato, sebbene femminile. Ora ho capito che era un modo di reagire, ma essere reattive non è buona politica. Ci spinge là dove chi ci vuole colpire prevede che siamo. Luisa Muraro suggerisce invece la schivata, ma per farla occorre stare presso di sé e in relazione almeno con un’altra per essere capaci di sentire la propria verità. Così ho potuto recuperare l’indissolubilità dell’anima corporea, come dice Antonietta Potente. Riesco a partire da me, dal corpo che io sono, e prendere parola pubblicamente, forte del mio sentire.

Una donna che sta studiando testi del pensiero della differenza, riferendosi a una sua esperienza da giovane, mi ha scritto che allora non aveva il vocabolario politico che l’avrebbe aiutata a nominare ciò che le accadeva, mentre ora sa riconoscere quello che le permette di essere libera. Segnala dunque l’importanza delle parole giuste. Credo che sia fuorviante l’attuale slogan «My body, my choice», perché perpetua la dissociazione, moltiplicata dal neoliberismo e nascosta dall’idea della libertà di mettere a profitto parti del proprio corpo, come ad esempio con l’utero in affitto o con la prostituzione, ignorando quello che tante di noi diciamo dell’esperienza trasformante della gravidanza e quello che le sopravvissute al sistema prostitutivo affermano, come scrive Rachel Moran in Stupro a pagamento.

Forse è meglio dire «Io sono intera e in vendita non sono».

Oppure «Io sono intera e non mi fate a pezzi», rifiutando la guerra che è un modo per farci letteralmente a pezzi.

Una volta sotto le parole “caduti per la patria”, “vittime civili” si nascondeva la riduzione a “cose” di esseri fino a poco prima viventi e si cercava di non farli vedere. Oggi le immagini di chi muore, di chi soffre e fugge ci vengono proposte senza pudore perché da anni è in atto una sorta di assuefazione alla violenza, indotta anche dai film di intrattenimento. E il numero spropositato di cadaveri all’inizio di questa guerra ci veniva dato come il punteggio al contrario di squadre avversarie: l’importante sembrava fosse che la squadra per cui “dovevamo tifare” ne avesse sempre meno dell’altra. Poi, per confonderci sull’enormità della carneficina, i numeri dei “nostri” ci vengono dati man mano solo a due cifre, oppure mostrando un massacro per volta solo ad opera degli “altri”. È in atto una dissociazione tra immagini-numeri e la realtà di creature nate da madre e vive solo perché continuamente sostenute nell’interdipendenza.

Con me però questa dissociazione non funziona perché non smetto di partire da me.

So cos’è stato far nascere e crescere mio figlio e mia figlia.

Ho seguito le due gravidanze di mia nuora e conosco l’attenzione rotonda di tante persone per le mie nipotine e i loro sorrisi.

Non dimentico l’amoroso impegno di mia madre perché mio padre, cieco di guerra, potesse provare una sufficiente felicità per avere desiderio di vivere.

E ricordo la tenera fermezza con cui mio marito e io abbiamo trasformato noi due, chi ci stava intorno e la nostra casa perché la coabitazione con mia madre, sempre più anziana, riconoscesse e continuasse la genealogia d’amore in cui lei ci aveva inserito.


Libri citati:

Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale,Rivolta femminile, Milano 1971.

Rachel Moran, Stupro a pagamento La verità sulla prostituzione, Round Robin editrice, Roma 2017.

Luisa Muraro, L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011.

Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Paoline, Milano 2017.

María-Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, Edizione indipendente, Madrid e Verona 2021.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 6 aprile 2022)

di Albertos Pozas


Il Tribunal Supremo ha pronunciato una sentenza in cui ribadisce che l’utero in affitto è proibito nel nostro paese e attacca con durezza le agenzie e i contratti che lucrano con questo tipo di affari: «I contratti di gestazione per altri violano i diritti fondamentali, sia della donna gestante sia del bambino gestato, e sono pertanto manifestamente contrari al nostro ordine pubblico», ricorda la corte suprema come ha già detto in altre sentenze precedenti. «Il desiderio di una persona di avere un figlio, per quanto nobile sia, non può realizzarsi a discapito di altre persone. Un contratto di gestazione surrogata comporta intrinsecamente uno sfruttamento della donna e un danno agli interessi superiori del minore», stabiliscono definitivamente i magistrati.

La sezione civile dell’alta corte ha studiato il caso di un bambino nato in Messico nel 2015 da gestazione per altri con materiale genetico di donatore sconosciuto. La donna di 46 anni, che non poteva avere figli, contrattò la nascita del figlio attraverso un’impresa di utero in affitto chiamata “México Subrogacy”, e una volta tornata in Spagna sia lei sia il resto della famiglia fecero richiesta al Registro Civile che lei fosse riconosciuta come sua madre. Il contratto che aveva firmato, tra altre cose obbligava la madre biologica del piccolo a non avere nessun tipo di relazione con il bambino, a rinunciare a tutti i suoi diritti di madre e ad accettare di «non essere la madre legale, naturale, giuridica o biologica del bambino».

Il Registro Civile negò l’iscrizione, un tribunale di Madrid confermò il rifiuto ma in seconda istanza la Audiencia di Madrid diede loro ragione. Un’ampia risoluzione firmata nel dicembre 2020 in cui i giudici optarono per avallare l’iscrizione nel Registro Civile del bambino come figlio della ricorrente. I giudici riconobbero che il contratto di utero in affitto è nullo ma che le conseguenze – la nascita del bambino – «si sono ormai prodotte» e la nascita del bambino «non viola l’Ordine Pubblico spagnolo». Il bambino vive con la ricorrente e con i suoi genitori. Lei, disse la Audiencia di Madrid, «ha un lavoro stabile e ben retribuito, soddisfa i bisogni educativi e di assistenza medica del minore» e pertanto il suo interesse reale «è preservare i legami ottenuti in quella unità e stabilità familiare che integrano e rafforzano il possesso di stato».

Il Pubblico ministero portò il caso alla suprema corte e ora la prima sezione ha annullato la sentenza con una risoluzione che colpisce con durezza questo tipo di agenzie e contratti di utero in affitto, benché offra un’uscita a questa famiglia: «La soddisfazione del superiore interesse del minore in questo caso porta a far sì che il riconoscimento del rapporto di filiazione con la madre committente si debba ottenere per via di adozione». Intende, pertanto, che la soluzione sia che la donna adotti il bambino nato in Messico nel 2015 per utero in affitto attraverso un’agenzia. Quello che aveva detto in un primo momento il tribunale 77 di Madrid.

A partire da lì cominciano le critiche che già furono espresse in anni precedenti in casi simili. «Il contratto di gestazione per sostituzione viola gravemente i diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione», tanto riguardo ai bambini quanto riguardo alle donne. «Sia la madre gestante sia il bambino da gestare sono trattati come meri oggetti, non come persone dotate della dignità propria della loro condizione di esseri umani e dei diritti fondamentali inerenti a tale dignità», critica la corte suprema. Perfino, secondo il contratto firmato «si attribuisce al committente la decisione se la madre gestante debba continuare o no a vivere in caso soffra di qualche malattia o lesione potenzialmente mortale».

Il “trattamento disumano”, i famosi e l’impunità delle agenzie

Nella maggior parte dei casi, inoltre, le donne che si sottomettono a questo tipo di contratti per avere un bebè per un’altra coppia provengono da ambienti sfavoriti, ricorda la corte suprema. «Non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per farsi un’idea precisa della situazione economica e sociale di vulnerabilità in cui si trova una donna che accetta di sottomettersi a tale trattamento disumano e degradante che viola i più elementari diritti all’intimità, all’integrità fisica e morale, a essere trattata come una persona libera e autonoma dotata della dignità propria di ogni essere umano», dicono i giudici. E dietro a tutto, aggiungono, ci sono agenzie che lucrano su questo affare che, denuncia la corte suprema, «agiscono senza nessun impedimento nel nostro paese, fanno pubblicità della loro attività».

Inoltre segnalano il fatto che celebrità e personalità pubblicizzano la nascita di bambini con questo sistema. «Spesso si pubblicano notizie su persone famose che annunciano che porteranno in Spagna un “figlio” frutto di una gestazione per altri, senza che le amministrazioni competenti riguardo alla protezione del minore adottino nessuna iniziativa per rendere effettiva tale protezione, nemmeno per verificare l’idoneità dei committenti», criticano i giudici. La conseguenza, denunciano, è l’impunità: «Il bambino nato all’estero frutto di una gestazione per sostituzione, nonostante le norme legali e convenzionali a cui si fa riferimento, entra senza problemi in Spagna e finisce per essere integrato in un determinato nucleo familiare per un lungo periodo».

I diritti del bambino che nasce con il sistema dell’utero in affitto si vedono violati, secondo la suprema corte: «Il futuro bambino, che viene privato del diritto a conoscere le sue origini, viene “cosificato” dato che è concepito come oggetto del contratto, che la gestante si obbliga a consegnare al committente», dicono i giudici. Tuttavia, aggiungono che «la realtà è più complessa» e per questo aprono la porta all’adozione. In ogni caso, conclude la corte suprema la sua sentenza, nei processi di gestazione surrogata donne e bambini sono trattati come «semplici merci e senza neppure verificare l’idoneità dei committenti a essere riconosciuti come titolari della potestà genitoriale del minore nato da questo tipo di gestazioni».


(El Diario, 5 aprile 2022. Traduzione italiana di Clara Jourdan)

di Alberto Pozas


La corte suprema spagnola attacca l’utero in affitto: “Le madri e i bambini sono trattati come semplici merci”


Due donne sottoscrivono un contratto a Tabasco, nel Golfo del Messico. Una di loro viene definita “futura madre” e l’altra “gestante surrogata”; il contratto implica che la seconda si trasformi in un utero in affitto al servizio della prima. Sette anni dopo il Tribunal Supremo (equivalente alla Corte di Cassazione italiana, Ndt) ha stabilito il futuro del bambino nato da questo contratto, che vive in Spagna da allora: non può essere iscritto all’anagrafe come figlio della “futura madre”, ma può essere da lei adottato.

La sentenza riporta le clausole di un contratto, sottoscritto in questo caso tramite l’agenzia México Subrogacy, clausole che raramente vengono alla luce: l’accordo vieta per sempre alla gestante di contattare il bambino, la obbliga ad accettare di non avere rapporti sessuali e a sottoporsi a qualsiasi esame medico le sia richiesto e, addirittura, mette la sua vita in mano della committente pagante se, per esempio, entrasse in stato di morte cerebrale. Sarà quest’ultima a decidere se morirà o se sarà mantenuta in vita fino a che il feto sia pronto a nascere.

  1. Supporto vitale. La clausola 14.B del contratto illustra ciò che accade in caso la gestante soffra di una malattia o subisca una lesione “potenzialmente letale”, come per esempio la morte cerebrale. In questo caso, secondo il contratto «la futura madre ha diritto di mantenerla in vita con un supporto vitale medico, con l’obiettivo di salvaguardare il feto finché il medico curante non riterrà che sia pronto alla nascita». Le spese mediche del supporto vitale, si specifica, sono a carico della “futura madre”.
  2. Consegna del bambino. La gestante sottoscrive diverse clausole che la obbligano a consegnare il bebè alla nascita e a rinunciare a saper più niente di lui. Questa è l’ottava clausola: «Non avrà, né tenterà di avere relazioni con il bambino […] rinuncia a tutti i suoi diritti di madre legittima del bambino e collaborerà a tutti i procedimenti legali necessari a dichiarare madre legittima del bambino la futura madre».
  3. Astinenza sessuale e divieto di viaggiare. Il contratto precisa anche quale debba essere la condotta della gestante durante la gravidanza. Per esempio, deve mantenere «una prolungata astinenza dai rapporti sessuali, astenersi da tatuaggi, piercing e interventi di chirurgia estetica». Non potrà neppure uscire dal Messico né dalla città di residenza, né cambiare domicilio. Avrà soltanto un permesso massimo di quattro giorni condizionato a «un’autorizzazione scritta della futura madre per recarsi in un’altra città in caso di estrema urgenza».
  4. Esami medici e test psicologici. Un’altra delle clausole obbliga la “gestante surrogata” a sottoporsi a ogni tipo di esame medico su richiesta della “futura madre” prima e durante il processo di fecondazione in vitro e include anche gli eventuali «test psicologici». La donna, inoltre, «rinuncia a tutti i suoi diritti in termini di privacy sanitaria e psicologica, permettendo agli specialisti che la valuteranno di condividere i suddetti risultati con la futura madre».
  5. Rapporti settimanali e test antidroga. Il contratto contiene altresì l’obbligo a carico della madre gestante di informare la committente, con periodicità settimanale, sull’avanzamento della gravidanza. Inoltre accetta di sottoporsi a prove a campione per testare il consumo di droghe, alcool o nicotina.
  6. Costa di più se sono gemelli. La parte del contratto citata dalla corte suprema nella sua sentenza non riporta quanto denaro riceva la gestante per affittare l’utero. Ma precisa che, in caso di gravidanza gemellare, riceverà 6.000 dollari in più.
  7. Aborto. Varie clausole del contratto regolano anche la possibile interruzione di gravidanza. «La futura madre non potrà imporre di interrompere la gravidanza, tranne che per salvaguardare la vita della gestante surrogata», dice il contratto, e non verranno selezionati i feti in caso di gravidanza gemellare. La gestante, inoltre, accetta di sottoporsi ad aborto esclusivamente in caso che un medico certifichi che la sua salute è in pericolo. Precisa inoltre: «La futura madre sarà responsabile del bambino nato da questo contratto, che sia sano o meno».

Le clausole citate portano la corte suprema spagnola a ritenere che questo contratto contrasti con i diritti sia della donna gestante, sia del bebè. La donna che firma, spiega, accetta di sottoporsi a «un trattamento inumano e degradante che lede i suoi più elementari diritti all’intimità, all’integrità fisica e morale, a essere trattata come persona libera e autonoma dotata della dignità propria a ogni essere umano». Tutto questo ha avuto luogo a Tabasco, località messicana in cui, secondo un’inchiesta di El País del 2017, c’erano «interi quartieri» in cui le donne facevano figli «per stranieri», finché il governo non ha imposto limitazioni all’affitto dell’utero.

I giudici non nascondono, inoltre, il sospetto che le donne che accettano questi contratti non si trovino in condizione di scegliere. «Non ci vuole un grande sforzo d’immaginazione per farsi un’idea precisa della situazione economica e sociale di vulnerabilità in cui si trova una donna che accetta», dicono.

“Pure e semplici merci”

La maternità surrogata è proibita in Spagna. L’articolo 10 della legge sulle Tecniche di Riproduzione Assistita emanata nel 2006 non lascia molti margini di interpretazione: «Sarà considerato nullo a tutti gli effetti il contratto con il quale si pattuisca la gestazione, con o senza compenso, a carico di una donna che rinuncia alla filiazione materna a favore del contraente o di una terza parte», recita. Anche l’articolo secondo si pronuncia sulla filiazione dei bambini nati da affitto dell’utero: «Sarà determinata dal parto», precisa. E inoltre il padre biologico ha diritto di rivendicare la paternità.

Le famiglie che decidono di fare ricorso a questa tecnica attraverso un’agenzia o con un contratto di mediazione, pertanto, lo fanno in paesi dove è permesso e poi portano in Spagna i bambini, avviando una battaglia legale su filiazione e nazionalità. Alcuni bambini vengono registrati direttamente nei consolati. Quando il contenzioso legale arriva all’ultimo grado di giudizio con sentenza definitiva, i bambini coinvolti hanno in genere più di cinque anni e i giudici devono prendere una decisione. Lo spiega il Tribunal Supremo«Il bambino nato all’estero frutto di una gestazione per altri, nonostante le norme e le convenzioni citate, entra in Spagna senza problemi e finisce per essere integrato in un dato nucleo familiare per un periodo prolungato».

Nel caso di questo bambino nato in Messico da un utero in affitto, i giudici negano l’iscrizione all’anagrafe ma raccomandano che sia apra un procedimento di adozione. «La strada per ottenere la determinazione della filiazione è quella dell’adozione», dice la sentenza.

Questa risoluzione della corte suprema mette in chiaro cosa pensano i giudici dell’utero in affitto. Donne e bambini sono trattati «come pure e semplici merci», scrivono. I contratti di questo tipo, inoltre, «ledono i diritti fondamentali sia della donna gestante, sia del bambino gestato, e pertanto sono manifestamente contrari al nostro ordine pubblico». Il desiderio di avere un figlio, sentenzia la corte, «per nobile che sia non può realizzarsi a spese dei diritti di altre persone. Un contratto di gestazione surrogata comporta lo sfruttamento di una donna e un danno al superiore interesse del minore».

Pubblicità e impunità

Non è l’unica rimostranza della corte suprema spagnola. I magistrati della sezione civile spiegano che, nonostante il divieto sia chiaro, l’impunità delle agenzie che traggono profitti dall’utero in affitto è un dato di fatto. Queste agenzie, denuncia la corte, «agiscono senza trovare nessuno sbarramento nel nostro paese e fanno pubblicità alla loro attività» nonostante la legge generale sulla pubblicità proibisca ogni forma di promozione «che attenti alla dignità della persona». Ci sono fiere in cui si pubblicizza in tête-à-tête l’utero in affitto e per giunta, ricorda la corte suprema, «si pubblicano frequentemente notizie su personaggi famosi che dichiarano che porteranno in Spagna un “figlio” frutto di maternità surrogata, senza che le autorità competenti per la protezione del minore adottino provvedimenti».

Perché secondo la corte suprema il presunto interesse del minore a essere iscritto all’anagrafe non coincide con l’insieme dei dritti del bambino, che restano inapplicati: non viene neppure comprovata l’idoneità dei committenti, recriminano i giudici. La magistratura, in questo caso, aggiunge un altro richiamo: si nega al bambino il diritto riconosciuto dalla legge del 2006 di conoscere le proprie origini, di sapere chi sono suo padre e sua madre biologici. Il Comitato di Bioetica spagnolo, organismo indipendente, considera un’incoerenza che esista una normativa così chiara ma che, al tempo stesso, «nella prassi non esista alcun ostacolo a riconoscere il frutto di una maternità surrogata commerciale in cui sono stati lesi i più elementari diritti della madre gestante e del bambino, purché questa abbia avuto luogo all’estero», ricorda la corte.

Secondo i magistrati l’interesse del minore non concede carta bianca in questo tipo di azioni legali. Nel 2014 i giudici, nella sentenza definitiva su un caso di utero in affitto, affermarono: «La protezione dei minori non si può ottenere accettando acriticamente le conseguenze del contratto di gestazione per altri». E formulavano un’ipotesi: accettare questa argomentazione metterebbe persone «di paesi sviluppati, in buone condizioni economiche» in condizione di procurarsi un bambino «proveniente da famiglie disfunzionali o da ambienti problematici di zone depauperate».

Non esistono dati ufficiali pubblici su quanti bambini registrati all’anagrafe in Spagna siano nati da utero in affitto. Testate come El País e ABC hanno ricavato delle cifre da risposte a interrogazioni parlamentari e consultazioni del portale della trasparenza: la Spagna ha accettato 948 iscrizioni in uffici consolari e rappresentanze diplomatiche tra il 2010 e il 2017 e altre 1.410 tra il 2017 e il 2020. Secondo questi dati, tra il 2010 e il 2016 la maggior parte di quei bambini venivano, tra gli altri paesi, da Stati Uniti (553), Ucraina (231), India (97) e Messico (51).


(El Diario, 5 aprile 2022, traduzione di Silvia Baratella)


Versione originale:


https://www.eldiario.es/politica/clausulas-vientres-alquiler-paga-derecho-mantener-viva-gestante-muerte-cerebral_1_8891470.html

di Giuseppe Culicchia


«L’orrore… l’orrore». Così Mistah Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad, poi trasformato in colonnello Kurtz nell’Apocalypse Now di Coppola. La guerra è orrore, almeno su questo siamo tutti d’accordo. Eppure, la cultura occidentale non può prescindere dall’Iliade di Omero, poema epico nato da una guerra con le sue stragi, le sue vittime e i suoi eroi. Perché? Forse perché, come sosteneva Hemingway, la guerra fa venire alla luce il meglio e il peggio degli esseri umani? Ma come si racconta l’orrore di una guerra?

L’autore di Addio alle armi, volontario nel 1917 sul fronte del Carso e poi reporter chiamato a raccontare la guerra greco-turca, la guerra civile spagnola e la Seconda guerra mondiale, ne sapeva qualcosa. E non a caso le tre pagine di Vecchio al ponte, uno dei suoi Quarantanove racconti, restano talmente perfette da valere per tutte le guerre: potrebbero essere ambientate nell’Ucraina di oggi come in Siria o in Afghanistan, in Iraq o Jugoslavia.

Certo, Hemingway è Hemingway. Ma dalla sua non aveva soltanto il talento. Lui, e con lui gli altri inviati speciali sui vari fronti delle guerre novecentesche, non erano “embedded”, come usa ormai almeno dall’operazione Desert Storm. Non erano tenuti a seguire le indicazioni dell’esercito di turno. Si spingevano fino in prima linea a rischio della vita, come il povero Brent Renaud a Irpin, e raccontavano ciò che vedevano con i loro occhi in un’epoca in cui, prima di permettere ai giornalisti di fare il loro mestiere, il terreno non veniva ripulito dai cadaveri. Cosa che oggi è la norma. O meglio: era la norma. Il conflitto in Ucraina, infatti, ci ha riportati indietro nel tempo. Ora che a mietere vittime civili sono i russi, possiamo di nuovo vedere senza censure preventive l’orrore della guerra come al tempo del Vietnam, quando la foto del corpo bruciato dal napalm di Kim Phúc, la bambina di nove anni in fuga da un villaggio bombardato, si rivelò decisiva per mobilitare l’opinione pubblica Usa in senso pacifista. Come ricordiamo o dovremmo ricordare, non è stato così in occasione di altri conflitti più o meno recenti: lì dove a mietere vittime erano gli occidentali, a cominciare dal massacro di Falluja, le immagini che arrivavano fino a noi venivano ripulite, proprio come ripulito era il linguaggio usato per riportare ciò che stava accadendo al di fuori della civile Europa. In quelle guerre, raccontate magistralmente da Brian Turner in La mia vita è un paese straniero (lo scrittore americano vi partecipò come soldato), le vittime civili erano definite danni collaterali. Le bombe, intelligenti. I resistenti, terroristi. Le torture, tecniche avanzate d’interrogatorio.

Da parte mia, credo che uno dei problemi che ci pone l’orrore di questi giorni abbia a che vedere con il nostro modo di confrontarci con la guerra in generale, con questa guerra in particolare e per l’appunto con il nostro modo di raccontarla. Certe reazioni ricordano il cane di Pavlov. Una su tutte: il villain (“il cattivo”, n.d.r.) di turno, incarnato stavolta da Putin – e ci mancherebbe: fermo restando che si tratta di un Cattivo con cui fino a ieri si facevano affari – è l’ennesimo nuovo Hitler. Tocca a tutti, prima o poi. Tra i nuovi Hitler basti citare in ordine sparso Saddam Hussein, Osama Bin Laden, Kim Jong Un, Mahmud Ahmadinejad. Questi paragoni ci aiutano a comprendere epoche e realtà così diverse? Verrebbero fatti da chi di mestiere fa lo storico e dunque non usa la Storia tanto disinvoltamente? Il punto è che al netto della propaganda – che contraddistingue ogni guerra e che come sappiamo o dovremmo sapere viene ampiamente usata da entrambe le parti – la razionalità andrebbe privilegiata rispetto alle emozioni. Cosa certo non facile, di fronte alle immagini dell’orrore, ma necessaria: specie oggi che ci troviamo al cospetto di quella che potrebbe davvero essere l’ultima guerra. Non perché dopo l’Ucraina la nostra specie possa rinunciare a scannarsi, ma perché questa volta le armi di distruzione di massa (che malgrado non esistessero, vennero evocate e usate come pretesto per scatenare la seconda guerra del Golfo) sono ampiamente disponibili, visti i mostruosi arsenali nucleari di Russia e Nato. Ecco dunque profilarsi un tragico remake del Dottor Stranamore, quell’incubo nucleare che toglie il sonno a tanti. Un incubo che avevamo rimosso, forse irretiti dall’ottimistica previsione di Francis Fukuyama sulla presunta fine della Storia, e che ha portato molti ad abbracciare posizioni pacifiste. Ecco: per tornare al doppio standard di cui sopra, si pensi a come i pacifisti vengono portati a esempio se sono russi – il che è comprensibile, anzi doveroso, visto il trattamento che ricevono in patria – salvo essere sbeffeggiati o addirittura accusati di connivenza con il nemico a casa nostra.

E che dire della nonchalance con cui in genere si è sorvolato sul discorso presso il Consiglio Atlantico in cui, nel 1997, l’attuale presidente americano sosteneva che l’espansione della Nato avrebbe provocato una reazione da parte della Russia? Chiunque osi avventurarsi su questo terreno, di fatto portandosi sulle orme di quel Biden, viene immediatamente additato come filo-putiniano: se ci pensate, è come accusare di filo-hitlerismo tutti i libri di Storia in cui si spiega come la Seconda guerra mondiale sia figlia dell’umiliazione patita dalla Germania in seguito al trattato di Versailles. Certo, è più facile relegare Hitler e Putin nel girone dei pazzi. Ma non è mai una buona idea umiliare un grande Paese dopo averlo sconfitto, se si vuole evitare che la Storia dopo essere stata tragedia si ripeta nuovamente come tale, e non come farsa. Viene dunque in mente Cassandra, il fortunato romanzo scritto dalla berlinese Christa Wolf quando, prima della caduta del Muro, russi e americani schieravano in Europa i loro eserciti e le rispettive testate nucleari. Come nel poema omerico, la veggente implora Priamo, il padre accecato dal meccanismo inesorabile della guerra, di fermarsi. Vede profilarsi la rovina della sua città, ma non viene ascoltata. Lei sola invoca la pace, e dunque per forza di cose il negoziato con gli Achei invasori, perché sa che rinunciarvi – scegliendo di agire sulla scorta delle emozioni anziché della ragione – comporterà la completa distruzione di Troia.

Limitarsi a sperare che il mondo così come lo conosciamo non debba sparire tramutandosi nella waste land immaginata da Cormac McCarthy nel suo La strada non basta. Spiace dirlo, ma oggi più che mai è il momento di ascoltare Cassandra.


(La Stampa, 4 aprile 2022)

di Alberto Leiss


Ho preso la parola nell’incontro di Via Dogana del 6 marzo scorso spinto soprattutto da due assenze: l’assenza di corpi maschili nell’uditorio che vedevo in rete (presenze molto numerose, ma solo due nomi maschili, peraltro oscurati dalle barriere visive che è possibile alzare quando ci si riunisce on line) e l’assenza di parole sui corpi che già avevamo cominciato a vedere in tv, sui giornali e in rete, travolti dalla guerra. Travolti in modi molto diversi, ma tutti drammatici e tragici. Corpi, per lo più maschili, costretti alla guerra o anche vogliosi di essere in guerra. Oppure in qualche caso – non li abbiamo visti ma ne abbiamo sentito parlare – intenti a disertare la guerra. E poi, soprattutto, la moltitudine di corpi femminili e infantili in fuga dalla guerra. Traudel Sattler aprendo il confronto era partita proprio da qui, ma la discussione era impostata e si è mantenuta su un altro registro.

Si è parlato molto della insopportabilità dello sguardo maschile che si rivolge ai corpi delle donne, e di quanto esso sappia insinuarsi – attraverso le logiche dei social e quelle degli interessi economici che si rivolgono ai desideri femminili – nello stesso modo delle donne di guardare a se stesse, e alle altre.

Per questo l’assenza di una possibile interlocuzione maschile mi ha creato disagio. Certo il mio sguardo sulle donne è pieno di contenuti erotici, estetici, prodotti da una cultura e starei per dire da una specie di istinto. Cerco di non farne uno strumento di disagio, o peggio, per chi guardo. Ma in fondo non sono nemmeno disposto a rinnegarlo, a censurarlo. Ilaria Sirito ha parlato in termini negativi di “immagine sessualizzata”, termine molto ripreso. Credo di capirne il senso da respingere: ma i nostri corpi possono avere un’immagine non sessualizzata?

Ho interloquito con Laura Colombo sulle colpe del mercato, certo gravi e profonde. Ma il mercato capitalistico, sempre più raffinato e potente nelle sue metodologie ricche di sapienza psicologica oltre che finanziaria e tecnologica, interviene su radici reali del desiderio alle quali dobbiamo saper risalire per reagire efficacemente.

Ho accennato al fatto che, nelle relazioni che vivo nella rete di Maschile Plurale, continuo a incontrare uomini che non sono contenti del proprio sguardo sulle donne (e quindi sul mondo) e cercano intanto una relazionalità e un linguaggio diverso tra maschi rispetto a quello che “trovano” in famiglia, in palestra, nei luoghi di lavoro, al bar. Alcuni sono giovani trentenni e meno che trentenni, o quarantenni. Qualcuno ha figli piccoli di cui vuole occuparsi. Numerosi sono anche in percorsi di analisi, di lavoro psicologico: una cosa che io e molti della mia generazione non abbiamo fatto. Insomma una voglia anche maschile di sottrarsi alle logiche maschiliste e patriarcali, per quanto forse minoritaria (ma quanto?), continua a manifestarsi.

Alla fine Beppe Pavan mi ha salutato, e io lui.

Dovremmo riflettere meglio sul perché una pratica più diffusa di scambi e di ricerca politica si è da un certo punto in poi molto bloccata. Con Laura Colombo e altre, altri, a un certo punto avevamo provato a porre la questione dell’eros nelle nostre “relazioni di differenza”. Un discorso molto difficile quando la reazione maschile alla libertà femminile tanto spesso è silenzio, incapacità di ascolto, e poi, puramente, violenza. Ora, di nuovo, la guerra (c’è sempre stata intorno a noi ma ora ce ne accorgiamo perché, stranamente, ci riguarda più da vicino e ce la raccontano e distorcono ogni santo giorno). Guerra che sembra anche una consolazione rassicurante per uomini in crisi di autorità e senso di sé. (Aggressioni infantili, ha detto giustamente il Papa. E sappiamo che disastri può combinare il bambino maleducato e sofferente.)

Volevo dire qualcosa anche dei corpi malati, della diffusa incapacità-impossibilità di curarli bene a causa di un sistema sanitario pubblico maltrattato, di una cultura del corpo per ultra-specializzazioni anatomiche. Ma ho già scritto troppo.

Dopo i traumi della pandemia e ora quelli della guerra sento con ancora maggiore urgenza il desiderio di ritrovarsi, con tutta l’attenzione che serve, per una politica in comune.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 4 aprile 2022)


La recente traduzione in inglese di Autoritratto (Self-portrait di Carla Lonzi, tradotto da Allison Grimaldi Donahue, Divided Publishing, 2021) è l’occasione per riscoprire la luminosa attualità di Carla Lonzi. In questo libro corale, pubblicato in Italia nel 1969, “l’opera d’arte è una possibilità di incontro”. Qui vediamo all’opera la ricerca di autenticità nelle relazioni che genera la pratica e il pensiero di Rivolta femminile.


Giorgia Baschirotto e Francesca Pasini in dialogo con Allison Grimaldi Donahue scrittrice, traduttrice e artista.

Accesso con Super Green Pass e mascherina FFP2

di Franca Fortunato


Dal giorno dell’invasione di Putin dell’Ucraina siamo sommerse/i 24 ore su 24 dalle immagini in Tv che ci raccontano “in diretta” il volto violento, distruttivo e disumano della guerra, il dramma di chi fugge e di chi resta. Un volto che siriani, afghani, iracheni, libici, palestinesi, curdi e i tanti delle tante guerre sparse per il mondo e dimenticate, conoscono sulla propria pelle, anche se a loro è stata ed è riservata, per usare un eufemismo, un’attenzione diversa. Uccidere un altro essere umano è il volto estremo della violenza patriarcale che in guerra ha bisogno di legittimarsi con parole roboanti – patria, democrazia, libertà, autodeterminazione, scontro di civiltà – che grondano di lacrime e sangue. C’è un volto di questa guerra che la Tv militarizzata non ci racconta, sono le storie di donne e uomini che non si lasciano trascinare dalla retorica della patria e del nemico da uccidere, dall’odio per l’invasore e che tra combattere e morire scelgono di vivere. Sono i disertori, i renitenti che si rifiutano di uccidere e si nascondono per sfuggire all’arruolamento forzato, sono le donne che nascondono l’“invasore” per salvarlo dai miliziani. Sono loro che oggi salvano russi e ucraini dall’odio di domani. «Perché i russi ci fanno questo? Siamo fratelli», si chiedeva incredula una donna anziana sotto i bombardamenti. Il re è nudo, tra russi e ucraini, come invece tra i due patriarchi Putin e Zelensky, non c’è odio anche se ci hanno provato abolendo per legge il russo, la lingua materna che lega familiari, parenti, amiche/i dentro e fuori l’Ucraina. Radislav, giovane soldato russo, mandato in guerra a sua insaputa, che in Ucraina andava «in vacanza, a trovare i parenti» e adesso Putin gli chiede di «ucciderli», viene nascosto in una fattoria da una coppia di agricoltori di mezza età. Per i miliziani è un invasore, per i russi un disertore, per la coppia un figlio. La contadina che l’ha accolto ha rassicurato sua madre. L’ha rincuorata e ha promesso che faranno in modo che nessuno gli faccia del male. Un’anziana contadina ha accolto un giovane soldato russo che si era perso dopo uno scontro a fuoco. Gli ha dato da mangiare e il cellulare perché chiamasse sua madre e le dicesse che era vivo. Yuri con la moglie e il figlioletto neonato e la madre ha provato ad attraversare il confine. Aveva ricavato nel sedile posteriore un box tra peluche e pannolini. Scoperto, i militari con le armi gli hanno intimato di uscire e l’hanno rimandato indietro. «Lo so che la nostra è legittima difesa […], ma io non prenderò il fucile. Io non voglio sparare a nessuno, non voglio uccidere, ma non voglio neanche morire». Ci sono padri che vivono nascosti nei casolari più remoti. Un ragazzo sposato da tre settimane tenta con la moglie, Alessia, di attraversare la frontiera, una poliziotta lo blocca: «Devi combattere per la patria». Tornano insieme indietro. Alessia lo implora di non unirsi alle milizie. «Non andrò a combattere, devo proteggere lei. L’Ucraina è la mia terra, Alessia è la mia patria». Una patria che è matria che non chiede alle sue figlie e figli di morire e di uccidere, non chiede sempre più armi per prolungare la guerra e le loro sofferenze, non vuole eroine ed eroi in armi, non chiede ai Paesi europei di armarsi sino ai denti, ma ripudia i nazionalisti e i patriarchi guerrafondai, anche quelli del “mondo libero”, cerca ad ogni costo la pace ed ascolta il dolore delle madri, si prende cura della terra e delle sue figlie e figli, non uccide la verità e non spegne la ragione. Una matria che ha il volto di un’umanità liberata dalla guerra e dalla paura dell’atomica.


(Il Quotidiano del Sud, 1° aprile 2022)

di Martina Pala


Nel 1984 usciva per La Tartaruga Le signore della scrittura, opera prima di Sandra Petrignani. L’autrice si sarebbe affermata da lì in poi, tra le altre cose, come esperta di écriture féminine italiana del ventesimo secolo, dedicando la sua vita e la sua carriera a gettare luce su scrittrici più o meno note. Una missione, la sua, di cui ha sentito l’urgenza in tempi che oggi considereremmo non sospetti. Eppure, già nel 1984, Sandra Petrignani denunciava non solo un canone letterario monotono, unidimensionale e poco accogliente, ma metteva in guardia editoria, lettori e lettrici del pericolo tangente di dimenticare le poche eccezioni che fino a quel momento ne avevano fatto parte. Per questo decide, appunto, nel 1984, di pubblicare una raccolta di interviste ad autrici allora ancora viventi, tutte più che settantenni, con lo scopo di imporre e fissare le loro voci sempre più sbiadite.

Il fatto che a quasi quarant’anni di distanza La Tartaruga abbia deciso di ripubblicare questo volume, ormai diventato introvabile, rallegra e allarma allo stesso tempo. Scoraggia, infatti, che autrici «molto amate dai lettori (ma forse dovrei dire dalle lettrici, soprattutto)» come quelle qui intervistate, che tanto profondamente hanno segnato le sorti del loro secolo e di quella letteratura, debbano oggi essere riscoperte nonostante gli avvertimenti di Petrignani. Che la strada da percorrere fosse lunga nel 1984 e che lo sia ancora oggi, tanto da rendere queste interviste ancora più attuali, a tratti demoralizza. Non Petrignani, però, che negli anni ha continuato la sua battaglia letteraria (e politica) e torna a regalarci un cult della saggistica troppo poco conosciuto, e insieme, soprattutto, il coraggio di continuare il processo di riscoperta di autrici ingiustamente dimenticate.

Il suo lavoro dialoga con naturalezza con il ventunesimo secolo, come testimoniano molti passaggi del paratesto. Spiegando come, nel 1984, non abbia dovuto applicare nessuna selezione nella scelta delle autrici da intervistare, tante poche erano quelle che avevano potuto farsi strada fino a lì, Petrignani si unisce alla voce di Ferrante che nel suo ultimo volume, I margini e il dettato (e/o Edizioni, 2022), afferma provocatoriamente che ancora oggi non possiamo permetterci di lasciare al vento neanche un verso, quando si parla di écriture féminine: ennesima riprova che l’urgenza di allora è quella di oggi, e che questa ristampa è necessaria.

La nuova edizione di Le signore della scrittura non torna identica a se stessa, ma porta aggiunte preziose. A chiusura del volume troviamo, ora, una sezione bibliografica delle autrici intervistate, che sono ormai tutte scomparse; ad arricchire la sezione di Anna Maria Ortese c’è una lettera di Laura Lepetit (fondatrice della Tartaruga); una sezione dedicata a Natalia Ginzburg, esclusa nel 1984 perché non ultrasettantenne, è stata aggiunta.

La ristampa de Le signore della scrittura impone un confronto fecondissimo non solo tra le scrittrici intervistate a distanza di quarant’anni – chi è stata dimenticata? Dove e come si collocano le loro narrative oggi? Quali pensieri sono o meno ancora attuali? – ma anche, più in generale, tra il contesto contemporaneo e quello novecentesco. Se da una parte è innegabile che l’accesso delle donne alla scena letteraria sia oggi più facile e che, anzi, il mercato e il pubblico concedano una nuova e incuriosita attenzione alle scrittrici, dall’altra si tratta di un’attenzione spesso momentanea, che stenta a tradursi nella creazione di un canone scolastico e letterario autenticamente più eterogeneo. Il dibattito sull’argomento è acceso, e ci si muove consapevoli dell’arma a doppio taglio che rappresenta basarsi sul concetto novecentesco della differenza sessuale: a rileggere le interviste di autrici come Ginzburg o Morante (che pure sono tra le poche affermatesi indelebilmente) si percepisce forte il timore di essere isolate in un canone di sole autrici. Eppure, quello della riscoperta e della rivalutazione che Petrignani aveva iniziato e continua, è un passaggio obbligato, credo, nella speranza di imporre un processo più naturale di non esclusione di voci degne e segnanti della letteratura italiana.

Un altro confronto che sorge spontaneo è quello tra Petrignani autrice di allora e Petrignani oggi. La lucidità e la combattività, la consapevolezza e la tenacia, che traspaiono nella prima introduzione, si ritrovano identiche anche in questa nuova premessa al volume (nel quale l’introduzione del 1984 rimane così come era). È evidente l’imbarazzo pacato di una donna che si guarda teneramente quarant’anni dopo, capace di scorgere con sguardo severo errori (l’esclusione di Ginzburg per una rigidità di criteri tutta giovanile, per esempio) e cose che ora «cambierebbe. Ma va bene così». Di certo la prosa di Petrignani di oggi è più fluida e meno acerba, senza l’esigenza di dimostrare una certa poeticità, ma l’effetto complessivo, grazie alla struttura e al messaggio chiari, era vincente nel 1984 e lo è nel 2022. L’impressione è che al posto delle autrici, ancora in vita, che si preoccupavano di come la loro età anziana sarebbe apparsa in foto, ora c’è Petrignani, settantenne, più clemente, però, con se stessa, delle sue scrittrici.

Ma chi sono queste scrittrici?

Il volume si apre con Anna Banti, che pur avendo segnato profondamente ogni ambito da lei esplorato e tutto il suo secolo, oggi rimane un’autrice di nicchia, di cui si trova senza troppe difficoltà solo il capolavoro Artemisia e che, se torna ad essere ricordata, lo è quasi sempre come moglie di Roberto Longhi. Petrignani non riesce a prescindere da questa figura ingombrante, ma restituisce il ritratto di una autrice caparbia, controcorrente, severa, che si riconosce come emarginata in quanto scrittrice, ma che odia la definizione di femminista.

Quella femminista è una questione che il libro non poteva e non può evitare, e diventa infatti un tema ricorrente nelle interviste. Petrignani stessa, guardandosi indietro, si definisce «trentenne e femminista». Definizione che alcune delle sue autrici fanno fatica a digerire, o che allontanano con decisione. L’autrice della raccolta, nel suo paratesto, spiega lucidamente che queste scrittrici non sono e non possono essere femministe perché appartenenti a un’età che non contempla questa parola, anzi «se ne infastidiscono». E oggi? La nostra età la contempla? Le motivazioni che spingevano autrici di questo calibro ad allontanarsi dalla possibilità di essere inquadrate come femministe sono le stesse che nutrono lo scetticismo ancora contemporaneo nei confronti di un movimento sentito spesso come troppo radicale.

Il rischio che le parole di queste autrici avallino questo stato delle cose non è però da dare per scontato: c’è, indubbiamente; ma rimangono figlie del loro tempo, e soprattutto rimangono lucide osservatrici della realtà circostante. Il rifiuto del femminismo ufficiale non le esenta dal denunciare con estrema consapevolezza lo stato delle cose in cui vivono, il senso di esclusione e di ingiustizia che ammettono di soffrire e subire. Banti si riconosce al massimo in un femminismo umanista, perché «le donne sono cattive verso le altre donne»; eppure definisce come «un po’ femminista» il suo romanzo Lavinia fuggita, e ammette la sua contraddittorietà, messa in luce dall’intervistatrice, quando riconosce di vivere in una società che la svantaggia perché a misura di uomo.

Anche Natalia Ginzburg – di cui, dopo il successo della biografia La corsara (Neri Pozza, 2018), Petrignani torna a parlare in una finta intervista ricostruita a partire da tre colloqui diversi avuti nel 1982, 1986 e 1989 – che in articoli vari non si è mai spesa a favore dei movimenti femministi ufficiali, e la cui scrittura è stata spesso osannata da critici e colleghi perché abbastanza maschile, si ritrova a ragionare sulle componenti maschili o femminili del suo stile, e ad offrire personagge che sintetizzavano in modo aspro e spietato la loro condizione sociale. Eppure, la conclusione è la stessa che per Banti: un moderato umanesimo, che includa sì uno sguardo sulla madre, ma anche sul figlio.

Come Ginzburg in vita ha spesso ribadito di non voler essere chiamata scrittrice, così fa Elsa Morante nella sua pseudo-intervista – finzionale, infatti, è anche questo colloquio dal momento che la scrittrice già allora non concedeva più dichiarazioni. Anche il caso della romanziera italiana per eccellenza è tanto contraddittorio quanto interessante, e Petrignani riesce e restituirne tutto il fascino. Che la si chiami scrittore! D’altra parte «poche sono le donne veramente intelligenti», ma solo perché «scimmiottano l’uomo», spregiando «le loro grandi qualità femminili». E prendendone le distanze non significa, però, per Morante stessa ‘spregiarle’? La sua narrativa ci risponde: Ida, Nunziatella, Aracoeli, Santina, Mariuccia, Elisa e i loro ritratti mai stereotipati, le loro voci represse ma acute, le genealogie di livelli autoriali tutti femminili che creano sono la prova che Morante, nonostante tutto e nella pratica, non spreca le sue «grandi qualità femminili», ammesso che ne esistano di maschili o femminili. Insomma, la questione spinosa del (anti)femminismo è un fil rouge interessantissimo che conferisce unitarietà alla raccolta, che non impedisce alle autrici, anche le più contrariate, di denunciare la loro condizione svantaggiata di scrittrici e di donne in generale, e che fa dialogare posizioni diversissime.

Dopo un esordio letterario, incensato da Montale tra gli altri, Laudomia Bonanni fu completamente dimenticata, e solo molto di recente è stata riscoperta grazie agli interventi editoriali di Cliquot (che ha ripubblicato Il bambino di pietra) e Textus (che sta per ripubblicare Il fosso e La rappresaglia). Già Petrignani denunciava nel 1984 come i suoi libri fossero introvabili, e ne restituisce il profilo irriverente. Nel suo epistolario sono ricorrenti le polemiche nei confronti di una critica che la ignorava ingiustamente – scrive a giornalisti e critici per lamentarsene e richiede indietro libri mandati loro e ignorati – ma soprattutto riconosce in questo atteggiamento «una levata di scudi contro le donne». Neanche Bonanni si è mai definita femminista, eppure nei suoi romanzi riesce a mettere in crisi l’istituzione borghese della famiglia, il ruolo preconfezionato e imposto di madre e moglie, e a ‘narrativizzare’ nevrosi esclusivamente femminili. E tutto questo è perfettamente sintetizzato nella sezione che Petrignani le dedica.

Meno scettica nei confronti del femminismo è sicuramente Alba de Céspedes, il cui capolavoro Dalla parte di lei è stato ristampato solo l’anno scorso da Mondadori, dopo decenni di silenzio scandaloso. Petrignani la ritrae nella sua forza proverbiale, piena delle sue consapevolezze politiche, meno restia delle altre a schierarsi e a definirsi. D’altra parte, ha iniziato a scrivere a sei anni «una poesia dedicata alle donne che lavorano e che soffrono»: un inizio profetico della sua narrativa successiva, dedicata alle amicizie femminili, così poco raccontate prima del recente successo ferrantiano, e all’importanza che questo tipo di alleanza privata può avere su un piano pubblico. Il dialogo amicale, pacato, ma che poneva su due piani diversi Ginzburg e de Céspedes quando nel 1948 parlarono su «Mercurio» del ‘vizio’ femminile di cadere in un «pozzo» di torpore e malinconia – portando solitudine per Ginzburg e solidarietà per de Céspedes – si ripresenta anche attraverso queste interviste, così efficaci nel ritrarre posizioni sì diverse, ma in dialogo costante.

Una consapevolezza altrettanto lucida, e che porta ad esiti simili a quelli di de Céspedes e alla sua interpretazione del ‘pozzo’, è anche quella che Petrignani riesce ad inquadrare nell’intervista a Livia De Stefani, che parla di «storia comune delle donne». De Stefani spiega come le sue velleità prima e il suo mestiere di scrittrice poi non siano mai stati presi sul serio, non poteva che essere un «capriccio» il suo. Forse per questo conveniva pretendere di essere considerate scrittori? Maria Bellonci, che nella sua intervista si spertica nel celebrare gli effetti terapeutici che la scrittura ha avuto nella sua vita e nella sua persona, è accostabile a queste ultime due autrici perché lei stessa, fondatrice insieme al marito del Premio Strega, non solo crea un salotto letterario di amici della domenica che ha modellato e dettato le tendenze letterarie e commerciali del ventesimo secolo italiano, ma per sua stessa ammissione ha dato vita a un «gineceo letterario» di cui tutte le autrici ricordate da Petrignani hanno fatto parte in un qualche momento della loro vita.

Petrignani eredita, in parte, questo onere di mettere insieme e in dialogo voci così diverse, ma che tanto condividono anche solo in quanto scrittrici. In dialogo, infatti, possono essere lette anche le interviste a Ginzburg e Lalla Romano: se alla prima non piace parlare di sé, la seconda rifugge l’autobiografia, di cui pure, puntualmente, le due sembrano non poter fare a meno, a patto di ibridizzarla. E di nuovo, Petrignani ci offre lo spunto per riflettere sulle modalità e sulle motivazioni dietro questa ritrosia nei confronti di un genere e un modo di scrivere affibbiati tradizionalmente alle donne, che per non vedersi emarginate finiscono per esprimere l’urgenza repressa di parlare di sé attraverso una frammentazione della loro soggettività in diversi personaggi e personagge. Il rischio di una etichetta che peserebbe e le emarginerebbe è sempre tenuto in considerazione con ansia e maestria. La stessa Romano racconta a Petrignani di come sia lei che Ginzburg (rispettivamente con La penombra e Lessico famigliare) furono «liquidate […] (anche da lettori fini e intelligenti quali Alberto Arbasino) come scrittrici di confessioni». Possiamo quindi biasimare la scelta di voler essere considerate scrittori?

Lo stesso senso di estraneità ed esclusione è reso dal titolo dell’intervista a Fausta Cialente, che si sente «straniera dappertutto». Il riferimento questa volta è ai suoi continui spostamenti in giro per l’Italia e per il mondo, ma anche la sua intervista denuncia un certo pregiudizio nei confronti di questa autrice (e delle autrici, in generale), che si è vista censurare Natalia per lesbismo. Sebbene sia poi riuscita a ristampare questo titolo, oggi anche lei, come altre sue colleghe qui celebrate, subisce oblio immeritato.

Tra i modelli letterari che le scrittrici intervistate citano non vi sono mai donne (quali poi, se loro stesse sono state estromesse dal canone?). Eppure, il dialogo costante tra le interviste avviene anche grazie al fatto che le autrici intervistate si citano in continuazione, come visto prima con Romano e Ginzburg, o come succede con Paola Masino e Anna Maria Ortese. La prima, nella sua spietata filippica contro la letteratura contemporanea italiana, cita la seconda come esempio di scrittrice che ha scelto «silenzio, povertà e oscurità», perché incapace di reggere il peso del dovere di creare legami e amicizie artistici e di come lei invece non possa farne a meno. Un dialogo oppositivo ma non unidirezionale se Anna Maria Ortese, nella terza intervista finzionale della raccolta (costruita a partire da uno scambio epistolare e che diventa un vero e proprio saggio filosofico) conferma inconsapevolmente quanto affermato da Masino quando denuncia il bisogno e la mancanza di «solitudine, silenzio e ombra». E anzi è impressionante l’esattezza dei termini che tornano quasi identici.

Ritratti così diversi, personalità così contraddittorie e antitetiche sono riuniti dalla maestria e dalle conoscenze di Petrignani in un’opera solo apparentemente frammentata, che cela un’omogeneità inaspettata, costruita su rimandi e domande ricorrenti. Perché se l’identità femminile stessa non può che essere fluida e frammentata in assenza di un modello universale che le includa e rappresenti, è condivisa però l’impressione che la condizione di «essere donna […] pesa ancora molto».


Sandra Petrignani, Le signore della scrittura (nuova edizione), Milano, La Tartaruga, 2022, pp. 144, € 17.


(labalenabianca.com, 1° aprile 2022)

di redazione Libreria delle donne



In questo video, per raccontare 50 anni di femminismo, Antonietta Lelario del Circolo Culturale La Merlettaia di Foggia si avvale di numerose fotografie che usa liberamente, come lei stessa dice, per mostrare alcune caratteristiche del movimento delle donne, un movimento internazionale. Le foto, di firme illustri, provengono dalla mostra Noi, utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani. Il titolo riprende una frase, diventata poi slogan, di Emma Baeri che nei primi anni ’90 indicava così la generazione di mezzo, quella che ha avuto la fortuna di arrivare seconda, quando alcune strade erano già state aperte, pronte da percorrere in libertà.

Le autrici della mostra di età e formazione eterogenea, variamente impegnate nelle associazioni e nei luoghi della politica delle donne, hanno ricostruito avvenimenti, lotte e conquiste, intrecciate ai desideri, alle nuove parole e alle scoperte del movimento; da Milano, la loro città, prese il via il grande cambiamento sociale e politico determinato dalla presa di coscienza femminile.

La mostra dal 2005 è stata esposta in numerose città non solo italiane dove ha creato occasioni di scambio e confronto di pensiero, saperi ed esperienze: in particolare nel 2016 e nel 2019 a Charkiv, città ora devastata, un gruppo di donne in relazione con Laura Minguzzi l’ha voluta in occasione dell’8 marzo.

Il video è stato realizzato in occasione del “Marzo delle Donne 2022” promosso da Auser e Coordinamento Donne Spi Cgil di Foggia, con collaborazione con Cgil, Spi Cgil e Anpi di Capitanata. Una produzione Ausercultura.


(Youtube, 31 marzo 2022)

di Doranna Lupi


Ascoltare le riflessioni delle amiche che fanno parte del gruppo Le Compromesse è stata per me una conferma di quanto sia necessario continuare a tessere relazioni intergenerazionali, senza lasciarsi ostacolare da linguaggi e immaginari che, per motivi anagrafici, non condividiamo, non ci appartengono e forse non comprendiamo, andando dritto all’essenziale. Ripartire dal corpo è ciò che ci consente di tornare sul primo terreno di scontro con il patriarcato da cui è partito tutto il cammino di libertà femminile. Il corpo delle donne è sempre stato il principale oggetto di controllo da parte del patriarcato e il bersaglio di contrattacchi violenti, essendo la posta in gioco più alta del contratto sessuale, che regola il dominio degli uomini sui corpi delle donne nella sfera privata (Carole Pateman, Il contratto sessuale). Ora che le donne sono uscite dalla sfera privata e sono dappertutto, ho l’impressione che l’esigenza maschile di dominio e di controllo sui nostri corpi si sia estesa anche alla sfera pubblica. Se a questo aggiungiamo gli effetti destabilizzanti della fine del patriarcato, inteso come fine del consenso e della dipendenza femminile dalla misura maschile del mondo, allora si comprende meglio il dispiegarsi di strategie molto efficaci sul piano simbolico, volte a ristabilire stereotipi funzionali a un sistema agonizzante. Oggi, in pieno capitalismo della sorveglianza (Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri), in cui siamo noi gli oggetti dai quali estrarre le materie prime, attraverso il surplus comportamentale che immettiamo sui social, si giocano due partite fondamentali e interconnesse, quella del controllo, attraverso strategie di contrattacco al femminismo e alla libertà simbolica delle donne, e quella del libero mercato che fa enormi profitti sui corpi delle donne e vuole continuare a farli, attraverso la moda, la chirurgia estetica, il mercato della pornografia, della prostituzione e della GPA.

Nel nostro tempo troviamo, però, giovani donne attive, assertive, istruite, progettuali, determinate, competenti, figlie amate e sostenute dalle loro madri. Donne che ormai possono essere dominate solo sul piano simbolico, attraverso le loro menti, perché non ci sono divieti specifici che impediscano loro di andare ovunque.

L’auto-oggettivazione, prima garantita dall’adesione totale a stereotipi di genere e a ruoli rigidamente stabiliti, ora diventa merce preziosa da ottenere ed estrarre in ogni modo, anzi direi l’investimento principale di molte imprese economiche e di qualsiasi politica conservatrice, unica forma di controllo possibile nelle democrazie paritarie occidentali, tanto quanto il linguaggio che fa fatica a modificarsi includendo la reale esperienza femminile del mondo.

Alla luce di questi elementi è più facile comprendere come sia potuto accadere ciò che segnala con grande preoccupazione Emma Ciciulla, che negli ultimi dieci anni sia diventata virale sui social una proposta che si è appropriata del nome femminismo e che incoraggia a aderire, senza esitazione, in nome dell’autodeterminazione e della libertà di sentirsi a proprio agio, a standard di femminilità che il patriarcato impone, come indossare capi sessualizzati o esplorare sessualità pornificate.

Sono d’accordo con lei nel dire che è fondamentale riconoscere e svelare questo inganno, anche se, come sostiene Zuboff, la singola non può farsi carico da sola di questa sfida. Bene quindi continuare sul terreno delle relazioni tra donne e di una rappresentazione del corpo che nasca dalla nostra esperienza, cercando di risanare la scissione tra mente, corpo e sentire profondo che il patriarcato ci ha inflitto per aderire ai suoi modelli. È importante mantenere e creare luoghi e modi per curarci, nutrirci a vicenda, per comunicare tra noi restando radicate nel desiderio e nel piacere femminile. Questo può darci la forza e la lucidità per riconoscere un immaginario alienante, scaturito dall’appiattimento dei corpi in immagini, esposte in vetrine virtuali. Addentrandoci insieme nel linguaggio e nell’immaginazione possiamo modificarli, anche attraverso forme creative. La parola giusta e il giusto immaginario hanno in sé il potere del cambiamento.

Le donne delle nuove generazioni hanno un grande lavoro da fare ma possono attingere da una ricca e viva eredità che, spaziando da La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi del 1971 arriva a Il piacere femminile è clitorideo di María Milagros Rivera Garretas del 2021 aprendoci ad un «flusso infinito di piacere proprio, piacere sessuale e piacere cognitivo» aiutandoci a non sbagliare orgasmo e a «recuperare il vincolo tra il sentire dell’anima, il desiderio e il piacere femminile».

La storia rumina, insieme a tutto il resto, anche ciò che viene al mondo come intuizione e può capitare che, quando meno te lo aspetti, te la restituisca digerita. L’intuizione di Carla Lonzi, di un piacere femminile svincolato dalla sessualità maschile, riappare oggi, con la leggerezza e la grazia di ciò che ormai non è più rivendicazione ma qualcosa di acquisito. Solo per citare alcuni esempi: nel 2016 esce il video di animazione Le clitoris della giovane canadese Lori Malépart-Traversy,sullo sfondo rosa si muove una simpaticissima clitoride che racconta per filo e per segno tutta la sua storia di unico organo del corpo umano dedicato esclusivamente al piacere; nel novembre del 2018 il festival femminista di Ginevra si apre con l’installazione di una gigantesca clitoride gonfiabile, color fuxia e con il titolo Questa sera iniziamo con il piacere (in senso ampio);nel novembre del 2020 esce il brano Clito della rapper italiana Madame, anche lei è inserita in un panorama artistico in prevalenza maschile dove il linguaggio e i cliché sessisti sono una costante. Madame, senza fare una piega, interrogandosi sul senso della vita dai suoi diciotto anni, canta: «A volte rido e non ne capisco il motivo / A volte vivo e non capisco se respiro / A volte inciampo e non capisco che cammino». Ma nel ritornello una cosa la sa di preciso: «La vita mi fa “click” sul clitó, eh. Sa che godo quando preme il dito, eh» e questo è già molto per un buon inizio, sia per lei che, eventualmente, per le sue e i suoi novecentoquarantaduemila follower che la seguono sui social.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 31 marzo 2022)

di Associazioni di donne firmatarie


Ci sono stati e continuano a esserci guerre e massacri di esseri umani in tutto il mondo. Continua la distruzione di nazioni intere con la loro ricchezza di arte e cultura. Il sistema di potere fa di tutto per convincerci della giustezza degli interventi armati e sono state coniate nuove espressioni, ridicoli ossimori, come guerra per la democrazia, guerra umanitaria. E adesso il conflitto in Ucraina rischia di travolgere l’intera Europa ma, come tutte le guerre, non giunge inaspettato e non era inevitabile. C’è dietro una storia di prove di forza, di un passo dietro l’altro per presidiare territori, secondo la logica del non cedere nulla all’avversario e secondo gli interessi sovranisti del capitale e dell’industria bellica. Ma questo non è tema su cui è consentito il dibattito perché attiene ai potenti decidere dell’ordine del mondo.

Di fronte allo scenario di feroce aggressione ci viene imposta un’unica lettura che legittima una risposta ulteriormente aggressiva, senza margini per una valutazione critica delle responsabilità del passato, né delle conseguenze e dei rischi per il futuro. Si alzano i toni perfino nella dialettica interna del nostro paese, riducendo qualsiasi ragionamento allo schieramento a favore o contro Putin.

Pur parlando astrattamente di negoziati, non si percorrono adeguate strategie diplomatiche per una mediazione che ponga fine al macello di donne, bambini, uomini e alla distruzione dell’Ucraina. Al contrario aumentano le spese militari, aumenta pericolosamente l’aggressività verbale, in una becera personalizzazione dello scontro che nulla ha a che vedere con la cultura della risoluzione dei conflitti che da decenni viene coltivata dal pacifismo e dal femminismo.

Noi donne vogliamo cancellare l’idea stessa di guerra, anacronismo distruttivo che contraddice ogni concezione progressiva e umanitaria. Vogliamo trasformare l’ordine della forza e del dominio, che genera guerra e morte, nell’ordine dell’amore e della cura che genera vita.

La nostra passività ha permesso agli uomini di calpestare i nostri valori e di impadronirsi in nome della patria del frutto delle nostre viscere, mandando al macello i figli come bestie per fare gli interessi dei guerrafondai (Maria Occhipinti, Una donna libera).


NON VE LO PERMETTEREMO PIÙ!

La storica estraneità delle donne dai luoghi di potere maschile in cui si decidono e si dichiarano le guerre è il punto di forza da cui gridiamo: 

NO ALLA GUERRA! NO ALLE ARMI!

MAI PIÙ CADUTI/MARTIRI EROI DI GUERRA!


Lo grideremo a Palermo OGNI DOMENICA MATTINA DALLE 11,00 ALLE 13,00 PRESSO LA STATUA DELLA LIBERTÀ, monumento dedicato ai caduti della Prima guerra mondiale, fino a quando non cesserà la follia delle armi, fino a quando i potenti dell’Occidente non si siederanno con i potenti della Russia per avviare seri negoziati di pace.


UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Associazione Donne Islamiche FATIMA – Emily – Donne Caffè filosofico Bonetti – Fidapa sez. Palermo Felicissima – sez. Mondello – LAB ZEN 2 – Il femminile è politico – Donne no Muos no war – CIF


Per adesioni inviare mail a bibliotecadonneudipalermo@gmail.com


(https://www.pressenza.com/it/2022/03/fuori-la-guerra-dalla-storia/, 30 marzo 2022)

di Maria Cafagna


Le donne soffrono molto spesso della così detta vittimizzazione secondaria – o victim blaming – ovvero a loro, e non a chi l’ha commessa, viene data la responsabilità dell’avvenuta violenza. Spostando l’attenzione dal comportamento dell’aggressore a quello dell’aggredita, si cerca di deresponsabilizzare chi ha commesso il reato e a volte ci si riesce, specie perché i pregiudizi misogini e la cultura sessista pervadono nel nostro sistema culturale, sociale e giudiziario, come ha documentato la commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio.

Serve indubbiamente più formazione, a tutti i livelli, non solo quelli di gip e pm. Sul tema della violenza di genere devono essere preparati consulenti, psicologi, periti, avvocati, ovvero tutte le figure che intervengono in un percorso processuale – ha dichiarato ad Avvenire la senatrice Valeria Valente, presidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere –  se questa preparazione la troviamo già nelle procure delle grandi città, non è altrettanto diffusa in quelle dei piccoli centri o nel campo della giustizia civile. Il punto è che ci sono segnali che non possono più essere sottovalutati e servono urgentemente fondi da destinare a questo ambito”.

In questi casi le donne sono vittime due volte: la prima da parte degli uomini abusanti, la seconda da chi dovrebbe garantire loro protezione e giustizia. Anche Laura Massaro è stata vittima due volte, la prima di un marito violento e la seconda della giustizia italiana, che le ha prima strappato il figlio e che lo scorso 24 marzo, dopo nove lunghi anni, le ha dato ragione con una sentenza storica che non cambierà solo la sua vita e quella di suo figlio, ma anche quella di tante altre madri e di tante/i altre/i minori.

Massaro aveva denunciato l’ex compagno violento dal quale aveva chiesto e ottenuto la separazione, ma durante il processo era stata accusata dai legali del suo ex di “alienazione parentale”, ovvero di aver circuito il figlio per convincerlo a non voler incontrare il padre e ad avere qualsiasi contatto con lui.

Come ha raccontato Ilaria Boiano, avvocata di Massaro, a un certo punto il tribunale di Roma ha disposto anche l’allontanamento dalla madre nonostante non fossero state dimostrate condotte irregolari da parte sua: “per tre volte agenti in borghese e assistenti sociali hanno provato a entrare in casa e portare via mio figlio” ha raccontato Laura Massaro a RepubblicaIl loro progetto era quello di resettare, pensate, il suo cervello, per favorire l’incontro con un padre che lui non vuole vedere: è disumano”.

Il ragazzo era destinato ad andare in una casa famiglia, ma Laura Massaro non ha mai smesso di lottare per vedere riconosciuti i suoi diritti di madre, diventando così uno dei volti simbolo della lotta contro i promotori e le promotrici della sindrome da alienazione parentale.

Il caso che ha coinvolto Laura Massaro e suo figlio non è raro: sono tante le donne coinvolte in separazioni burrascose che si vedono rivolgere in tribunale l’accusa di voler allontanare con l’inganno i propri figli o le proprie figlie dai padri: “donne che da vittime di botte e persecuzioni si ritrovano ad essere definite colpevoli” come racconta Maria Novella De Luca su Repubblicatanto da essere punite con l’allontanamento dei figli, collocati con la forza o presso quei padri di cui hanno paura, o in case famiglia, senza contatti con le madri. Lo scopo di questi uomini è che il cervello dei loro figli o delle loro figlie venga “resettato” nella solitudine e nella sofferenza per ricomporre la relazione (quasi sempre impossibile) con il padre”.

Nel 2019 migliaia di donne scesero in piazza dopo che il senatore della Lega Simone Pillon aveva avanzato una proposta di legge che voleva rendere obbligatoria (e a pagamento) la mediazione di un consulente durante le cause di divorzio e separazione, sanciva il diritto alla bigenitorialità e il contrasto all’alienazione genitoriale. Il ddl Pillon venne contestato non solo dalle associazioni femministe, ma anche dagli operatori e dalle operatrici dei centri anti-violenza, che denunciavano proprio la possibilità che i bambini finissero nelle mani di padri violenti e potenzialmente pericolosi.

La Corte di Cassazione, dando ragione a Laura Massaro, ha messo nero su bianco che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre” e ha inoltre aggiunto che il principio di bigenitorialità perfetta – quello per cui i padri e le madri separate devono passare la stessa quantità di tempo con i figli o con le figlie – non può non tenere conto del contesto familiare e delle esigenze di minori.

Già lo scorso anno la Corte di Cassazione si era espressa contro la decisione del tribunale di Treviso di concedere l’affidamento esclusivo di un figlio di 6 anni al padre, richiamando i giudici a non fidarsi solo del parere dei consulenti ma di procedere a un’indagine approfondita delle esigenze del minore e del contesto familiare.

Ancora una volta la legge dà ragione alle donne vittima di violenza, seppure dopo tanti sforzi e fatiche da parte di chi, come Laura Massaro, ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze di un sistema iniquo verso le donne.

La battaglia continua” ha dichiarato Laura Massaro all’indomani della sentenza “Noi siamo tutte vittime di violenza istituzionale. Però il mio consiglio è quello di mantenere, in un angolo del cuore, la speranza e un po’ di fiducia nella giustizia”. Però, quanta fatica.


(Wired, rubrica Roba da femmine, 30 marzo 2022)

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QUARTO APPUNTAMENTO del progetto Nei Libri c’è la vita, una serie di sei incontri mensili aperti a ragazze e ragazzi dai 15 ai 25 mercoledì 30 marzo 2022 dalle ore 17 alle ore 18,30


Incontro con la poesia di Wisława Szymborska


Letture e riflessioni da La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Vista con granello di sabbia e altre raccolte.
Letture di Giordana Masotto e Laura Minguzzi


Gli incontri fanno parte del progetto Nei libri c’è la vita, ideato da enciclopediadelledonne.it per promuovere la lettura di grandi scrittrici e poete moderne e contemporanee.


La partecipazione è libera e gratuita previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it


Partner del progetto: Casa delle donne di Milano e Cineteca di Milano. Con il sostegno di Fondazione Cariplo.

di Barbara Spinelli


Questa volta il divario tra gli interessi europei e statunitensi è netto. In un comizio a Varsavia, sabato (26 marzo 2022, n.d.r.), Biden ha definito Putin un “macellaio” – in precedenza l’aveva chiamato killer, dittatore sanguinario, criminale di guerra – per poi decretare: «Per l’amor di Dio, non può restare al potere!».

Il ministro degli Esteri Blinken ha subito corretto, lo staff della Casa Bianca ha tentato una goffa retromarcia, Macron nelle vesti di Presidente di turno dell’UE si è dissociato, ma le parole presidenziali restano e palesano l’obiettivo Usa in Ucraina: un “cambio di regime” a Mosca, lo spodestamento di Putin. È la strategia del caos che Washington adotta da quando fantastica di aver stravinto la guerra fredda, di poter violare i patti del 1990 con Gorbaciov, di dominare il mondo con destabilizzazioni belliche regolarmente sconfitte: in ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. È la prima volta che la Casa Bianca punta al regime change di una potenza atomica (6.000 testate). I tabù della dissuasione nucleare crollano, l’impensabile che fondava la deterrenza (la cosiddetta distruzione mutua assicurata) diventa pensabile. Non è un caso che l’escalation di Biden sia avvenuta in Polonia, che vorrebbe un intervento Nato per difendere l’Ucraina dall’invasore russo. Se per settimane Zelensky ha insistito nel chiedere la no fly zone senza badare al diniego Nato e Ue, è perché alcuni Paesi – Varsavia in primis – lo spingevano in tal senso, contando sulla Casa Bianca. Sin da quando è atterrato in Europa Biden si è comportato da padrone (incoraggiato dall’Ue che non s’è vergognata di invitarlo al Consiglio europeo) ma appena giunto in Polonia ha perso le staffe. Rivolgendosi all’ottantaduesima Divisione Aerea dell’esercito Usa, non ha parlato di vie d’uscita dal conflitto, non ha avviluppato in una retorica di pace l’aumento delle spese militari. Queste dissimulazioni sono affidate agli europei mentre Biden no, non dissimula, parla della propria nazione come «principio organizzativo attorno al quale si muove il resto del mondo – ossia del mondo libero». Evoca l’icona della “nazione indispensabile” raffigurata nel 1998 da Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Clinton e principale artefice dell’estensione Nato («Non abbiamo bisogno che la Russia dia il suo accordo all’allargamento», disse a chi obiettava).

Biden è intriso di teologia politica: il “mondo libero” è votato a intervenire contro il Male. La guerra va oltre Kiev, ha una giusta causa ed è lotta «fra libertà e autocrazia, fra democrazia e oligarchi»: Putin non ha in mente l’Ucraina ma vuol demolire la democrazia. A conclusione dell’appello ai paracadutisti ricorda il nonno, che l’incitava a «mantenere la fede». Ma soprattutto la nonna, che rincarava: «No, diffondila!» (spread it).

Che importa se nel frattempo il pensiero della Chiesa cattolica non è più quello di Tommaso d’Aquino. Se ha abbandonato, da Giovanni XXIII in poi, l’idea di guerra giusta. Papa Francesco denuncia la follia del riarmo occidentale, e di una guerra per procura scatenata colpevolmente da Putin senza negoziati in vista fra grandi potenze (Usa, Russia, Cina), ma Biden non se ne cura. D’altronde ha ammesso che Washington arma l’Ucraina da anni (2 miliardi di dollari, di cui 1 miliardo nelle ultime settimane).

Noam Chomsky ricorda che il culmine fu raggiunto il 1° settembre 2021, poco prima dell’aggressione russa, quando fu firmata la Dichiarazione Congiunta sulla Partnership Strategica Usa-Ucraina. Il documento annunciava l’apertura delle porte Nato all’Ucraina, e riforniva Kiev di armi oltre che di un «programma di robusto addestramento ed esercitazione per sostenere lo statuto ucraino di partnership rafforzata» (NATO Enhanced Opportunities Partnership, preludio dell’adesione, concesso anche alla Georgia). Alla Dichiarazione Congiunta fece seguito una vasta esercitazione Nato in terra ucraina (“Rapid Trident”) che partì dalla base di Yavoriv presso Leopoli, e cui partecipò anche l’Italia. La Dichiarazione Congiunta rappresenta il culmine di un’espansione Nato a Est cominciata dal giorno in cui Clinton violò l’impegno di Bush padre di non espandere la Nato. Una violazione contestata aspramente da diplomatici di primo piano come Henry Kissinger, George Kennan, Jack Matlock (ex ambasciatore Usa a Mosca), William Burns (attuale capo della Cia).

Le guerre di religione tra Bene e Male hanno una natura dualistica e conducono immancabilmente alla morte: l’Europa lo sa meglio del Nord America, perché i suoi popoli l’hanno vissuta nel ’500-600 (15 milioni di morti) e la conclusero quando capirono che la pace era possibile a una sola condizione: che non vi fosse la vittoria di una fede sull’altra, e che il potere politico non si diffondesse come fosse una fede. Oggi attraversiamo un simile “secolo di ferro”, e Biden che vuol atterrare Putin profittando delle sue dissennatezze belliche lancia segnali anche alla Cina, a Taiwan, ai pochi alleati che gli restano nell’estremo oriente. L’India di Modi sta cautamente distanziandosi e nel resto del pianeta – Asia, Africa, paesi arabi, America latina – si moltiplicano gli avversari delle sanzioni e del riarmo, che promettono fame e prezzi energetici proibitivi. Biden assieme a gran parte dell’Europa non sembra aver imparato nulla della storia, né quella antica né quella recentissima.

Ignoranza e mancanza di memoria recente sono forse i dati più significativi della politica atlantica di fronte a un’aggressione russa certamente spropositata, ma che poteva essere evitata e potrebbe ora essere affrontata con altro spirito, di difesa del popolo ucraino e di negoziati su alcuni punti precisi: non solo la neutralità (scritta stavolta nero su bianco, non promessa come ai tempi di Gorbaciov) ma anche la rinuncia al riarmo in Est Europa, alle guerre di regime change. Se questo secolo è di ferro come nel ’500-600, urge un trattato di Vestfalia: un ordine che riconosca gli Stati a prescindere dalle fedi che pretendono di diffondere con le armi.

Quanto all’Unione europea, non è tramite il riarmo che troverà pace, ma proponendo tregue che non siano percepite come sconfitte epocali né a Kiev né a Mosca e riconoscendo che i propri interessi non coincidono con quelli statunitensi. La Russia è una superpotenza atomica, ci è geograficamente e culturalmente vicina. La guerra di Putin in terre ucraine l’allontana dall’Europa e rischia di renderla molto dipendente da Pechino. È con questi dati di fatto che ci troviamo a dover fare i conti.


(Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2022)

di Annarosa Buttarelli


Chissà che femministe frequenta Francesco Musolino, o quali libri femministi abbia mai letto oltre al Diritto al sesso, scritto dalla giovane filosofa britannica Amia Srinivasan, che si è interessata anche all’intelligenza dei polipi. Mi spiace contraddire Amia se davvero sostiene che il femminismo non è una filosofia: il pensiero della differenza sessuale di Carla Lonzi e di Diotima (comunità filosofica femminile, in cui ho lavorato a lungo) è stato indicato come l’unica avanguardia filosofica del XX secolo italiano. Sono una filosofa femminista che ha scambi intellettuali, politici e affettivi, da sempre con uomini, e il mio libro Sovrane (il Saggiatore) è stato presentato pubblicamente da Stefano Rodotà che ha raccontato come si fosse sentito accolto dai miei argomenti, che erano e sono a favore dell’autorità femminile come orientamento della convivenza. Questo per dire che sono stupita dalle lamentele che Musolino mette nero su bianco, poiché si sente escluso dal libro della giovane filosofa, e accusa tutte le donne, non solo lei come sarebbe corretto, di pensare secondo lo schema dicotomico: amico/nemico. Non ho letto questo libro ma, comunque sia, bisogna rilevare l’errore logico e di pensiero che porta il libro come esempio per il tutto (universalizzazione illegittima). Ed è un errore di pensiero non assumersi la responsabilità del proprio sentire, non analizzandolo per quello che è, un sentire legittimo ma relativo a sé, non innalzabile a livello di una querela depositata ad accusare tutte le femministe di chiusura misantropa. Dunque, spieghiamoci. Siccome Musolino crede di non essere “incluso”, cioè non ammesso al dialogo con le donne, si allarga fino a sostenere che: 1) le donne si parlano solo tra loro; 2) che non pensano, poiché pensano dicotomicamente, cosa che lui aborre; 3) che devono imparare a sperimentare il dialogo sul sesso e il piacere dialogando con gli uomini come lui, pure se pieno di etichette: “uomo, etero, cisgender”. Più identificato di così… però davvero simpaticamente. Infatti, c’è senz’altro della buona fede perché egli sembra ignorare completamente cosa è successo, nel tempo, ai rapporti conflittuali tra uomini e donne (gender) e anche tra maschi e femmine (sesso). Non posso qui riassumere oltre un paio di millenni di storia (fonti alla mano) in cui molte di noi hanno cercato di dialogare o anche solo di farsi ascoltare. Non posso ora fornire l’immensa bibliografia che bisognerebbe conoscere prima di arrivare a conclusioni maldestre circa le forme del pensiero femminile. Purtroppo, è questa la prima cosa che deve sapere il giornalista e scrittore: è abbastanza sconsolante costatare quasi sempre il fatto che una notevole percentuale di maschi istruiti si guardano bene dallo studiare i libri scritti da donne. La seconda: ancora oggi le iniziative culturali promosse da donne vedono il quasi-nulla delle presenze maschili. La terza: per cercare di fare sesso in maniera non mortificante e non offensiva abbiamo dovuto scoprire il nostro corpo tra noi, separandoci dai maschi, che non ne hanno mai voluto sapere, in generale, di saperne di più del nostro piacere. Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne (Feltrinelli), opera del The Boston Women’s Collettive, diede inizio alla cosiddetta seconda ondata del femminismo, insieme a La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi. Vorrei anche segnalare che la giornalista e scrittrice americana Rebecca Solnit ha scritto Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile (Ponte alle Grazie), un titolo che si spiega da sé. Mi sa che Francesco Musolino farebbe arrabbiare Solnit, essendo arcistufa di sentirsi dire dagli uomini cosa dovrebbe fare e cosa dovrebbe dire, e magari cosa dovrebbe pensare. Le mie simili ogni giorno, in ogni parte del mondo vengono aggredite, violentate e spesso uccise per il solo fatto che siamo donne, da parecchi millenni a questa parte. La democrazia moderna di cui gli uomini vanno fieri è stata costruita con l’esclusione delle donne dalla vita pubblica. Un po’ di autocoscienza signori, e studiate, studiate molto: non è il maternage femminile che trasformerà voi e il mondo, ma la vostra radicale assunzione di responsabilità nei confronti di quella che sempre più si presenta come la questione maschile.


(La Stampa, 27 marzo 2022)

di Comitato delle madri dei soldati russi


Il Comitato delle madri dei soldati, un gruppo di madri e attiviste per i diritti umani, è sorto nel 1989 a Mosca per difendere i giovani coscritti dalle violenze e dagli abusi perpetrati nell’organizzazione militare ed è stato il movimento sociale più duraturo e rispettato della Russia post-sovietica. La sua azione si è sviluppata in due direzioni: l’assistenza ai singoli soldati e la pressione per l’abolizione della coscrizione, il controllo civile sull’esercito e smilitarizzazione del sistema giudiziario1. Un primo successo fu ottenuto con il congedo di 180.000 giovani soldati perché potessero finire gli studi.

Il CMS crebbe rapidamente diffondendosi in tutta la Russia e aumentò la sua influenza nel corso della guerra con la Cecenia del 1994-1996 soprattutto quando, nel marzo 1995, organizzarono la “Marcia della compassione” da Mosca a Grozny. Centinaia di madri russe cercarono l’appoggio delle madri cecene nell’azione contro la guerra e negoziarono con l’esercito ceceno per ottenere la liberazione dei prigionieri.

La loro attività per i diritti umani ottenne importanti riconoscimenti a livello internazionale (tra cui il Sean MacBride Award dell’International Peace Bureau nel 1995 e il Right Livelihood Award). Nel 1993 il comitato ottenne un ufficio a Mosca in cui le volontarie accoglievano le richieste di aiuto e a cui pervennero migliaia di lettere ogni anno, in maggioranza da parte di donne e madri in condizione di fragilità, povere, isolate e sole. Da richiedenti aiuto molte di loro divennero attiviste. La capacità di praticare un cammino verso l’autonomia e verso l’azione collettiva a partire da una comune esperienza senza mai trascurare la sfera individuale è stata la forza del movimento, che tuttavia negli anni Duemila perse gran parte del sostegno pubblico di cui aveva goduto.

Con lo scoppio della guerra in Ucraina numerosi appelli disperati sono giunti al Comitato da parte di genitori che avevano perso i contatti con i loro figli, non ne sapevano nulla se non che erano stati costretti a firmare contratti con l’esercito e che gli erano stati sottratti i cellulari. Le risposte che hanno dato loro le madri non devono essere state molto diverse da quelle che compaiono in questa dichiarazione in cui esse danno indicazioni, incoraggiano e spingono all’azione. Esse non si appellano ai governi o alle organizzazioni internazionali, ma alla capacità di agire delle singole persone e alla forza dei loro affetti.


***


Dichiarazione, 24 febbraio 2022


Le madri dei soldati di San Pietroburgo condannano l’aggressione militare che le truppe russe stanno perpetrando in Ucraina di fronte ai nostri occhi. Questa è una guerra e come ogni guerra è distruzione, sangue, violenza, vittime innocenti e crollo del futuro. Nessun uomo sano di mente può sostenere la guerra.

Cosa possiamo fare in questa situazione, noi comuni cittadini e cittadine che non siamo stati/e consultati/e, quando è stato deciso di dare inizio alle ostilità? Veramente molto. Noi ascoltiamo e leggiamo numerosi appelli, vediamo l’angoscia delle persone, specialmente dei genitori di uomini arruolati nell’esercito russo. Ma nello stesso tempo, vediamo anche una paura paralizzante, le perdite e le incomprensioni. Tutto questo impedisce l’azione, non ci permette di agire.

Madri e padri dei ragazzi nell’esercito, ci chiedete «Dove sono i nostri figli in questo momento?». Purtroppo, non possiamo rispondere a questa domanda. C’è un ufficio speciale per questo – il Ministero della Difesa della Federazione russa. Esso tace… Il vostro compito è di scrivere, inviare appelli, bombardarli di domande, cercare informazioni vitali. Questi sono i vostri figli! Nessuno può aiutarli se non voi. Noi possiamo consigliare e fornirvi modelli di richieste. Il resto è nelle vostre mani (potete scrivere al comando di distretto da cui dipende l’unità e direttamente alla regione di Mosca https://letters.mil.ru/electronic_reception.htm2)!

Noi vi incoraggiamo con forza ad essere vicini/e ai vostri figli! Mettetevi in contatto con altri genitori, create chat, interagite. Solo insieme, nel sentimento dello stesso angoscioso respiro di compagni di sventura – ma senza mai cessare di esprimere caldamente la speranza – potrete superare tutte le difficoltà. Guardare negli occhi altri figli e altre madri che sono stati/e chiamati/e “vostri/e nemici/che”!

Rivolgiamo un appello anche al personale militare. Ufficiali! Voi potete inoltrare le richieste di rifiuto del servizio militare per non partecipare a questa tragedia, che in ogni caso sarà seguita da un’amara ricompensa. In tutti i conflitti militari, e ce ne sono stati tanti nella storia russa degli ultimi trent’anni, ci sono stati casi di rifiuto del servizio militare. Ce ne saranno ora! Noi esortiamo chiunque abbia parenti o amici in Ucraina di cercare di avere sempre il polso della situazione. Ora è semplicemente necessario comunicare, sostenere moralmente e psicologicamente e offrire tutta la più ampia assistenza possibile. Nessuna azione delle autorità, nessuna politica può distruggere questi legami. Ricordate: nei primi giorni delle ostilità, la confusione e l’agitazione dominano sempre. La prima vittima della guerra è la verità. Informazioni non verificate possono giungere da ogni direzione. Raccomandiamo di fare una doppia verifica delle informazioni su diverse fonti. Secondo noi, i media più affidabili in Russia oggi sono: Novaja Gazeta, Dozhd TV Channel, Meduza Edition ed Ekho Moskvy.

E naturalmente, possiamo e dovremmo continuare a dar voce alla nostra posizione, esprimere attivamente le nostre opinioni e agire in ogni modo legale e accessibile. Inviare post sui social network, firmare e distribuire petizioni contro la guerra, comunicare con gli amici. È agendo uniti che non consentirete a voi stessi di impantanarvi nell’illusione di essere soli con la vostra opinione. Credeteci, molte persone pensano la stessa cosa, ma per molte ragioni hanno paura di parlare.


#No alla guerra# Madri dei soldati SPB


1 Numerosi sono gli studi sul movimento. La sua storia è stata ricostruita da Valentina Melnikova, segretaria dell’Unione dei Comitati delle madri dei soldati russi, e da Anna Lebedev in Les petits soldats. Le combat des mères russes, Paris 2001.

2 Ora cancellato.


[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]


(comune-info.it, 26 marzo 2022)

di Paola Mammani


La maggioranza dei politici, dei giornalisti e di tutti quelli impegnati a fare opinione pubblica, continua e intensifica i toni cupi e violenti della polemica contro quanti si sforzano di capire che cosa si sarebbe potuto fare per evitare l’orribile aggressione di Putin all’Ucraina e che cosa sarebbe possibile fare per trovare una soluzione al conflitto. E inoltre, se si sarebbe dovuto evitare l’invio di armi all’Ucraina, per non dire del repentino progetto di riarmo dell’Europa. Comincio a pensare che l’obiettivo di tanto accanimento, sempre unito a gran sfoggio di erudizione, sia la gente comune, la maggioranza, milioni di donne e uomini pochissimo convinti della giustezza di quanto sta avvenendo. È il loro giudizio che deve essere screditato come quello di opinionisti della domenica, strateghi da bar e via insultando. Sono da intimidire, dovrebbero sentirsi inadeguati, inesperti, mai abbastanza informati. Serve questo svilimento e disprezzo di tipo culturale, pseudo-intellettuale, per invalidare il sentire profondo di una popolazione mediamente acculturata e infelicemente consapevole di avere pochi strumenti per incidere sulla dura realtà di questo momento. Chi può e vuole aiutare le vittime dell’aggressione sa come farlo e sa a chi rivolgersi. Ma quel 78% di intervistati dall’Ipsos* che «[…] ritiene che dovremmo evitare a ogni costo l’entrata in guerra dell’Italia […]» è sul piano della politica che sente di riuscire a contare poco o nulla. Ancora l’Ipsos: «[…] intervenire indirettamente a fianco dell’Ucraina inviando armi sarebbe, per il 35% degli italiani, rispettoso dell’articolo 11 della Costituzione Italiana, invece, per il 36% non lo sarebbe. In questo caso, il 29% degli intervistati non si esprime». Sospetto che politici, giornalisti, esperti vari sappiano bene che cosa pensa il 29% che non si esprime.

Siamo milioni, intenti a pensare più o meno alla stessa cosa, a come uscire dall’angolo di questa brutta storia. Prima o poi potrebbe arrivare l’idea giusta e per questo hanno lanciato una preventiva campagna d’attacco. Loro, i politici, gli esperti, lo sanno che mai come ora ci sono apparsi inadeguati e perfino incolti. Chi mai vorrebbe un primo ministro che parla della pace come di un’illusione e che invita i politici a tirar dritto su opinioni, pareri, posizioni assunte in un passato anche recente, nei riguardi di Putin e della Russia? Come se tale discussione pubblica fosse un inutile attardarsi invece che un’occasione politica per elaborare analisi e proposte.

Loro lo sanno che potremmo sul serio cominciare a dirgli che stanno decidendo di cose per cui non hanno alcun mandato. Potremmo sul serio dichiarargli la guerra e cominciare a porle noi le condizioni per rimanere nell’Unione europea e nella Nato, con buona pace di Draghi e di Letta.

Qualche esempio: non si entra nell’Unione europea se si pratica la Gpa, come in Ucraina, o con una Costituzione che permette di inquadrare in un esercito regolare una formazione nazista come il battaglione Azov. Oppure: esce immediatamente dall’Unione europea chi tratta l’aborto come fa la Polonia ed esce dalla Nato chi attua legislazioni simili, come molti stati degli USA. E potrei continuare, potremmo e potremo! Se assumeremo il senso della vita della maggior parte delle donne come metro per decidere delle cose che contano. È a donne riunite che Papa Francesco ha espresso il suo giudizio inappellabile sul riarmo: la pazzia!

Penso che la metafora della guerra sia linguisticamente efficace per dar conto della volontà che si apra un conflitto politico duraturo e irreversibile, come mi auguro avvenga.


(*) https://www.ipsos.com/it-it/guerra-russia-ucraina-sondaggi-ultime-notizie-monitoraggio-ipsos-opinioni-italia


(www.libreriadelledonne.it, 26 marzo 2022)

di Daniela Pizzagalli


È il fratello maggiore il titolare del nuovo romanzo di Yasmina Reza Serge (Adelphi, pagine 186, euro 19,00) ma a raccontare è Jean, «quello di mezzo», che per destino e per vocazione fa da tramite fra «lo spericolato primogenito» e «Nana, la Cocca di mamma e papà». Quale dei tre fratelli Popper ha ideato per primo? Chiediamo all’autrice, arrivata in Italia per la presentazione del libro. «Il primo è stato Serge, ma ho subito pensato di affidare la voce narrante a un fratello, una soluzione più empatica rispetto al distacco dell’autore-narratore». La capacità d’immedesimazione appartiene profondamente a Yasmina Reza, la scrittrice parigina d’origine ebraica, figlia di un ingegnere iraniano e di una violinista ungherese, che si è affermata come drammaturga prima di cimentarsi nella narrativa. A soli ventiquattro anni, già attrice di teatro, nel 1983 ha esordito con la pièce Conversation après un enterrement vincendo il premio Molière, e ha poi collezionato premi per la drammaturgia a livello internazionale, con Art del 1994, rappresentato anche a Brodway, e con Il dio del massacro del 2007 portato sullo schermo da Roman Polanski nel 2011, col titolo Carnage. «Non pensavo alla narrativa – ci racconta – però scrivevo per me delle paginette di osservazioni su persone che conoscevo, o sui miei figli, cose brevi, quasi come fotografie scritte, e quando il mio editore nel 1997 mi ha chiesto se avevo qualcosa nel cassetto gliele ho date, non prevedendo il suo entusiasmo e l’immediata pubblicazione di Hammerklavier, un titolo musicale per il mio primo libro di racconti, non più disponibile in italiano, ma che Adelphi pubblicherà presto». Dopo il felice esordio nella narrativa, ha alternato ai drammi anche vari romanzi come Una desolazione del 1999, fino ai recenti Felici i felici del 2013 e Babilonia del 2016. L’avvenimento centrale di Serge è un viaggio ad Auschwitz compiuto dai tre fratelli per accontentare la ventenne Joséphine, figlia di Serge, attirata da un turismo della memoria sulle tracce dei nonni ungheresi, mai conosciuti, vittime della Shoa. «Auschwitz – afferma Reza – è diventata ormai una meta turistica, l’omologazione del turismo tende ad annullare le differenze. L’idea del romanzo mi è venuta pensando a una famiglia ebrea la cui gita ad Auschwitz viene messa in crisi dalla deflagrazione di un litigio e da un conflitto generazionale». A suscitare il dramma familiare è il dirompente Serge, «il re delle attività nebulose», che ha procacciato al nipote Victor, aspirante chef, uno stage in un albergo svizzero, e quando Victor gli scrive di non gradire l’offerta, s’infuria a tal punto da provocare una rottura in famiglia. Yasmina Reza crea sempre personaggi dalle mille sfaccettature, sa essere feroce e compassionevole nello stesso tempo: «Serge ha buone intenzioni, ama sentirsi utile – ci dice – ma non fa nessuno sforzo per capire le esigenze altrui, anche quando cerca un appartamento per Joséphine vuole imporre quello che piace a lui». Il malumore di Serge è anche un segnale dell’età che avanza: «Sai che la vecchiaia arriva da un giorno all’altro? – dice a Jean – Un giorno ti svegli e non riesci più a rimetterti in sesto, la vecchiaia ti salta alla gola…». La vecchiaia, la malattia e la morte sono i temi di fondo del romanzo, temi ultimi, temi seri che l’autrice riesce a rendere con calibrata iro- e rispettosa leggerezza, come avviene nel personaggio di Maurice, il cugino quasi centenario, ex bon vivant relegato a letto ma che non rinuncia al suo «champagnino». Nel romanzo Maurice è l’araldo di questi tre temi, con cui anche i fratelli dovranno poi misurarsi. «Anche a me piace molto Maurice e come si confronta con la vecchiaia, la malattia e la morte. Sono i temi ricorrenti in tutte le mie opere, a partire dal mio primo dramma, Conversazione dopo un funerale, in quel caso sulla morte del padre». Anche in Serge sono i rapporti familiari a fare da argine contro l’incombere della fine: «Accettiamo che la vita sia una faccenda di solitudine – dice Jean – fintanto che c’è un futuro». E sarà lui a far riavvicinare Serge e Nana, nonostante i due lo accusino di essere «il paladino di insulsi valori familiari». Jean accetta le critiche dei fratelli, addirittura dà ragione a Nana che lo definisce «uno sfigato», eppure è la colonna portante della famiglia. «È Jean che si denigra, ma io non lo vedo così. Jean non ha stima di sé, perché non ha abbastanza forza di volontà per farsi una famiglia, resta in bilico. Ci sono molti uomini così, che si sottovalutano, che hanno la sensazione di essersi persa la loro ‘ vera vita’, ripiegando su un’idea di fallimento personale». La differenza tra i due fratelli appare evidente anche nella scelta dei libri che si portano da leggere durante il viaggio ad Auschwitz: Jean I sommersi e i salvati di Primo Levi, Serge Il blasfemo di Singer. «Ciascuno di noi si era portato il proprio frammento di storia ebraica», commenta Jean. E l’autrice spiega: «Entrambi hanno scelto libri di autori ebrei, ma la scelta di Jean rispecchia un uomo di cultura, infatti lui è un buon lettore, uno che viene da studi scientifici e si vuol documentare, Serge invece è portato ai valori materiali, dice: ‘Sai cosa mi piace di Singer? Lo spazio che dà a tutti i piatti che mangiano i personaggi’. Ma attenzione a non semplificare troppo, i personaggi non si riducono alle loro letture» Ciascuno di loro ad Auschwitz cerca se stesso, solo Nana sembra esprimere la posizione convenzionale del turista della memoria. «Nana c’è andata per un dovere morale, si compiace di assorbire buoni sentimenti». Di agghiacciante attualità lo scambio di battute tra Nana e Jean: «Com’è possibile che degli uomini abbiano fatto una cosa del genere? È inconcepibile». «È concepibile invece. E succede ancora, sai».


(Avvenire, 26 marzo 2022)

di Massimo Lizzi


Il diritto di non uccidere. Questo, tra tutti i diritti discussi sulla guerra e la resistenza, è il valore più importante. Il diritto di non combattere. Un diritto brutalmente negato alle donne trans, che cercano di mettersi in salvo oltre il confine ucraino. Perquisite nei modi più umilianti, per accertare il loro sesso anatomico, ricacciate indietro perché «uomini con il dovere di combattere per difendere la patria». Ma stavolta non è solo questione di sesso, di genere. Anche gli uomini hanno il diritto di essere non violenti. Un diritto negato ai mariti, ai padri, che cercano la salvezza insieme con le loro mogli, i loro figli. Che prima della patria mettono i legami e i doveri familiari, prima della morte eroica, l’amore per la vita. Delle donne trans racconta un reportage del Guardian, dei papà ucraini un articolo dell’Avvenire.Ma gli editoriali dei nostri giornali più autorevoli ribadiscono il diritto dell’aggredito di difendersi, di resistere all’aggressore. Ineccepibile sul piano normativo e forse anche sul piano morale. Dico forse, perché l’evoluzione che ci porta a dare un valore più grande alla vita umana, oltre a mettere in questione la legge del più forte, qualcosa dice anche al diritto di resistere. Specie nel momento in cui, nonostante la retorica del popolo unito, tutt’uno con il suo stato, la resistenza è di un esercito regolare e di milizie paramilitari. Che, per forza, espongono tutto il popolo alla violenza distruttiva dell’invasore. Il diritto non chiude il discorso su ciò che è più opportuno, saggio, umano. Un generale ucraino si è offerto come ostaggio ai russi, per far evacuare i bambini da Mariupol. Un gesto sopra il diritto del resistente.A favore del sostegno armato alla resistenza ci sono discorsi pericolosamente insensati ed altri politicamente più fondati. I primi dicono che Putin capisce solo il linguaggio della forza. Ma questa idea è speculare al pensiero di Putin, che tra l’altro possiede, lui davvero, potenti armi di distruzione di massa. Inoltre, nessun linguaggio è efficace, se ambiguo o confuso nel messaggio. Cosa vogliono ottenere i forzuti: il compromesso accettabile o la sconfitta mortificante del nemico? Più fondato è il discorso che punta a mantenere un minimo di equilibrio nei rapporti di forza militari, per ottenere equilibrio nei rapporti di forza negoziali. Ma questo vale solo se si arriva presto al negoziato. Se la prospettiva, invece, è la guerra per procura, il nuovo Afghanistan, sarà la rovina di tutte le parti in lotta. La Russia verrà trafitta da tanti pungiglioni ucraini, che faranno la fine delle api. Allora, perorare il diritto dell’Ucraina alla resistenza diventa una crudele ipocrisia. Quanto dico sul fronte ucraino, vale lo stesso e di più sul fronte russo. Onore ai fuggiaschi, agli obiettori, agli ammutinati, ai disertori. Perché, sopra ogni Costituzione patriottica, ogni legge marziale, ogni malinteso senso della dignità e dell’orgoglio nazionale, vale il diritto di vivere, il diritto di non uccidere.


(massimolizzi.wordpress.com, 26 marzo 2022)

di Umberto De Giovannangeli


Cosa si può dire che non sia già stato detto o scritto di una giovane signora novantenne, il cui vissuto riempirebbe due vite. Giovane, Edith Bruck lo è nella testa e nel cuore, in una straordinaria capacità narrativa che fa pensare ed emozionare. Di origine ungherese, Edit Bruck è nata in una povera, numerosa famiglia ebrea. Nel 1944, poco più che bambina, il suo primo viaggio la porta nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio, approda definitivamente in Italia, adottandone la lingua. Nel 1962 pubblica il volume di racconti Andremo in città, da cui il marito Nelo Risi trae l’omonimo film. Nelle sue opere ha reso testimonianza dell’evento nero del XX secolo. Ha ricevuto diversi premi letterari ed è stata tradotta in più lingue.

Tra le sue opere pubblicate in Italia ricordiamo: Chi ti ama così (Marsilio 1994), L’amore offeso (Marsilio 2002), Lettera da Francoforte (Mondadori 2004), Specchi (Storia e Letteratura 2005), Andremo in città (L’Ancora del Mediterraneo 2006), Quanta stella c’è nel cielo (Garzanti 2009), Privato (Garzanti 2010), Mio splendido disastro (Lampi di Stampa 2011), La donna dal cappotto verde (Garzanti 2012), Il sogno rapito (Garzanti 2014), Signora Auschwitz. Il dono della parola (Marsilio 2014), Chi ti ama così (Marsilio 2015), La rondine sul termosifone (La Nave di Teseo, 2017), Versi vissuti. Poesie (1975-1990) (eum, 2018), Ti lascio dormire (La Nave di Teseo, 2019), Il pane perduto (La Nave di Teseo, 2021), Tempi (La Nave di Teseo, 2021) e Lettera alla madre (La Nave di Teseo, 2022). Una confessione personale. Nel trascrivere le sue parole, per una volta mi sono sentito un privilegiato.

Il mondo assiste sgomento alla guerra in Ucraina. Chi sia l’aggredito e chi l’aggressore è fuori discussione. Ma le chiedo: esiste una “guerra giusta” che possa cancellarne una sbagliata? 
Mai, mai. Nessuna guerra è giusta. E nessuna guerra è paragonabile ad un’altra guerra. Nessun disastro si rimedia con un altro disastro. Ognuno è disastro per conto suo, per ragioni diverse, per politiche diverse, interessi diversi. È molto triste ma è così.

Non c’è da avere un po’ paura di un pensiero unico “interventista” e di una informazione che indossa la divisa militare e accusa i pacifisti di essere, in sostanza, al servizio di Putin? 
Guai ad assoggettarsi a un pensiero unico. Ognuno deve pensare con la propria testa, ma purtroppo non te lo lasciano fare, perché ti mettono nella testa quello che vogliono. Il potere ha sempre fatto questo. Vuole rincretinire un popolo intero, o immaginare di riuscirci. È una cosa allucinante, perché sta risuccedendo di nuovo. Anche se non è paragonabile un dittatore con un altro. Fanno la gara ad essere uno peggio dell’altro. Il pensiero unico fa pensare al nazismo. Un popolo colto, quello tedesco, nel cuore dell’Europa, e tutti applaudivano insieme a quel caporale nazista innalzatosi a Fuhrer, e lo facevano forse per sentirsi più forti. Chi urla sembra che abbia ragione. E questo è il problema.

In molti in queste drammatiche settimane, si sono cimentati nella riscrittura della storia, avanzando parallelismi molto gravi, come quello tra Putin a Hitler. 
Non sono d’accordo. È assolutamente sbagliato azzardare paragoni del genere. Sono due dittatori diversi, motivi diversi e credo che un dittatore come Hitler non è rinato ancora.

Sulla base della sua straordinaria esperienza di vita e di scrittura, le chiedo: qual è l’unicità della Shoah? 
L’unicità è che gli ebrei sono stati perseguitati, sterminati a milioni, per ragioni razziali. Non è che erano in guerra con qualcuno. Soltanto perché erano ebrei. Non erano nemici della Germania, o perché in guerra con qualcuno. Hanno portato via i neonati dalla pancia della madre fino all’ultimo anziano. La soluzione finale. Il tentativo in Europa di sterminare tutti gli ebrei. Per ragioni razziali. Come diceva Primo Levi, quella è la sua unicità. Io credo che nessuna guerra sia paragonabile e Zelensky ha sbagliato quando ha paragonato ciò che sta avvenendo in Ucraina, per quanto terribile e inaccettabile, alla Shoah. Ha fatto davvero una brutta gaffe. È stato un inciampo grave. Né si poteva chiedere aiuto in armamenti da Israele, un Paese non ancora stabilizzato, che ha ancora problemi molto grandi con i palestinesi. Non ci si rivolge a un Paese così complicato, così pieno ancora di problemi, chiedendo armi per il fatto che lui è ebreo.

A proposito di armi. Il Parlamento italiano, ha dato, a larghissima maggioranza, il via libera all’invio di armi all’Ucraina… 
No, io non sono d’accordo con questa decisione…

Perché? 
Perché un’arma porta ad un’altra arma. L’arma porta la morte. Si fornisce pane, si fornisce aiuto, si fornisce tutto. Tutto, meno che le armi. Il mondo è pieno di armi. Ne vogliamo ancora di più? Quando creano armi, le creano per uccidere. Vogliamo fare del mondo, come diceva mio marito Nelo Risi, un Museo delle armi? Le armi servono per aggredire, per uccidere. Io sono contro qualsiasi arma, anche un coltello.

Si dice spesso che senza memoria non c’è futuro. Ma la memoria non rischia a volte di essere manipolata a fini politici, o addirittura di guerra? 
Assolutamente sì. La memoria può essere manipolata. Ognuno può ricordare e far ricordare a modo suo. Per quanto riguarda noi, i pochi sopravvissuti ancora a questo mondo, dei campi di sterminio nazisti, sicuramente raccontiamo la verità. Io ho una memoria di ferro, e non mi dimentico. Possono spargere memorie false, quelle che conviene in quel momento a quel Paese, a quella politica. Possono deformare e mistificare tutto, questo è il problema. E hanno iniziato a farlo immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il popolo si adegua al potere del momento. È una tragedia umana. Chi vuole il potere è capace di tutto, di qualsiasi mistificazione. Appiattimento, negazionismo. È capitato di tutto, soprattutto con la Shoah.

La nostra attenzione è concentrata sulla guerra in Ucraina. Ma nel mondo esistono anche altre guerre, le cosiddette guerre “dimenticate”, tragedie apocalittiche che non fanno notizia, non suscitano empatia: lo Yemen, la Siria, l’Afghanistan etc. Esiste dunque una gerarchia del dolore? 
Diciamo le cose come vanno dette: c’è un razzismo nel dolore. Ci sono popoli di serie A, serie B, serie C… Non è uguale il nostro sentimento verso i perseguitati del momento. Dipende chi sono. Se sono lontani, ci toccano meno e sembra che non ci riguardino. E invece ci riguardano tutti, ovunque siano nel mondo. Perché si riflettono sulla nostra vita, sulle nostre economie, sul come siamo cittadini del mondo. È tutto legato. Viviamo in un mondo globalizzato. E guai perché non c’interessa quello che succede in Africa, in Afghanistan o in Siria… È altrettanto vicino. Il fatto è che l’Ucraina è nel cuore dell’Europa, ed è per questo che ne sentiamo molto di più la vicinanza, l’empatia. Ora si aprono le porte ai profughi dall’Ucraina. E questo è bene. Ma tra chi plaude, ci sono anche quelli che quando si è trattato di profughi di altre nazionalità, provenienze, hanno gridato all’invasione e hanno invocato i respingimenti, anche se questo voleva dire affogarli in mare o ricacciarli in qualche centro di detenzione molto simile a un lager.

Historia magistra vitae. Parole di Cicerone (De Oratore II, 9). Ma perché dalla storia, soprattutto dai suoi capitoli più tragici, non abbiamo imparato niente? 
Nulla. E questo lo ripeto da sessant’anni, quando sono invitata a parlare nelle scuole, o nei miei libri. Le cose si ripetono, anche se in forme diverse, ma la bruttura è sempre la stessa. L’uomo non sa vivere in pace neanche con se stesso.

È un destino inappellabile questo? 
Quanto vorrei dire che no, non è così. Ma da quando io sono al mondo, c’è sempre stata da qualche parte la guerra. Ora siamo più angosciati, perché la guerra è molto più vicina a noi, noi europei, e quindi siamo molto angosciati. Però dovremmo angosciarci anche per le altre guerre. Perché ogni vita ha lo stesso valore di un’altra. Che siano neri, che siano gialli, che siano credenti musulmani, cristiani, ebrei o quello che è. Ogni vita è un valore unico. Ogni essere umano è un mondo a sé.


(Il Riformista, 26 marzo 2022)