di Stella Levantesi


Siamo in ritardo con l’azione globale sul clima. L’ha evidenziato il più recente rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), il principale organismo internazionale per la valutazione scientifica dei cambiamenti climatici. L’Ipcc ha sottolineato che si sta perdendo “una finestra di opportunità per assicurare un futuro vivibile e sostenibile per tutti” e nella terza parte del rapporto pubblicata il 4 aprile è stato sottolineato che senza una veloce riduzione delle emissioni al livello globale, contenere il riscaldamento entro la soglia di 1,5 gradi non sarà possibile.

L’Ipcc pubblica i suoi rapporti di valutazione dal 1990, la scienza del clima lancia l’allarme sul riscaldamento globale e sullo sfruttamento degli ecosistemi da ancora prima e, da almeno cinquant’anni, si conoscono i rischi climatici legati all’uso dei combustibili fossili – le aziende stesse ne sono al corrente da decenni. Eppure, siamo comunque in ritardo nella lotta al cambiamento climatico.

In parte questo ritardo è dovuto agli sforzi delle aziende di combustibili fossili e dei loro gruppi di pressione che – dagli anni settanta e soprattutto negli Stati Uniti – hanno promosso la disinformazione sul clima attraverso azioni di lobby, finanziamenti e strategie di comunicazione estremamente efficaci. L’obiettivo principale era ritardare e ostacolare l’iniziativa politica sul clima perché una regolamentazione governativa sulle emissioni avrebbe significato perdere profitti immensi. Ma le ragioni di chi promuove i combustibili fossili non sono solo economiche, e spesso s’intrecciano ad altre dimensioni che hanno a che fare con l’ideologia politica, la psicologia e il senso d’identità.

Riconoscere queste dinamiche aiuta a comprendere le motivazioni di chi agisce contro le politiche climatiche e la transizione energetica, e offre l’opportunità di trovare elementi comuni nelle caratteristiche e nell’azione di individui, gruppi e aziende impegnati nell’ostacolare l’azione sul clima al livello globale.

Il negazionismo dei cambiamenti climatici può essere inteso come un’espressione di protezione dell’identità di gruppo

Questo, inoltre, rende evidente quanto la crisi climatica derivi da un cortocircuito sistemico che non riguarda “solo” l’ambiente. Nelle sue cause oltre che nelle sue conseguenze, infatti, la crisi climatica interseca ogni dimensione, da quella economica a quella sociale.

Mantenere e aumentare la produzione di combustibili fossili, per esempio, è una questione di profitto, ma anche di potere e di conservazione dello status quo.

La difesa dei combustibili fossili, esplicita o velata (attraverso tattiche come il greenwashing, per esempio), coincide con la difesa di alcuni valori identitari e a sua volta con il negazionismo del cambiamento climatico, un fenomeno che comprende tutti gli sforzi mirati a ritardare la transizione energetica. In molti casi questo va di pari passo con il conservatorismo politico, il libertarismo economico o l’estremismo ideologico. Non è un caso, infatti, che alcuni studi di scienze sociali riconoscano la sovrapposizione tra negazionismo climatico e populismo, sovranismo o xeno scetticismo, un atteggiamento di diffidenza e discriminazione verso l’altro, caratteristico di alcune tendenze xenofobe.

I sociologi statunitensi Aaron McCright e Riley Dunlap sostengono che il negazionismo dei cambiamenti climatici può essere inteso come un’espressione di protezione dell’identità di gruppo e la giustificazione di un sistema sociale da cui traggono beneficio i negazionisti.

Alla base, è il combustibile fossile stesso a rappresentare un’identità. Questa associazione identitaria avviene su più piani ma è caratteristica soprattutto di chi beneficia della ricchezza derivante dalla produzione dei combustibili fossili e dunque mette in campo strategie di ostruzione alle politiche climatiche. Le radici di queste interrelazioni sono storiche, in particolare negli Stati Uniti: estrarre e bruciare carburante fossile era l’espressione diretta dell’americanità bianca e maschile. Nella dimensione conservatrice, l’America è il petrolio, l’America è l’uomo bianco e di conseguenza l’uomo bianco è il petrolio.

Questa realtà ha, in un certo senso, delineato anche una dinamica opposta, per cui l’ambientalismo è associato a una dimensione femminile che, in una simile prospettiva, se espresso, diventa prova di una presunta fragilità. Il meccanismo è stato osservato da una serie di studi dell’università della Pennsylvania secondo cui uomini e donne erano più propensi a mettere in discussione l’orientamento sessuale di un uomo se si impegnava in comportamenti ambientalisti etichettati come “femminili”, come l’uso di borse per la spesa riutilizzabili.

Mascolinità industriale 
Il ricercatore e autore Martin Hultman parla di un “pacchetto di valori” direttamente collegati alla “mascolinità industriale del breadwinner” (chi porta a casa il pane, il capofamiglia). Hultman, insieme al ricercatore Jonas Anshelm, è autore di uno studio della Chalmers university of technology in Svezia secondo cui i negazionisti del cambiamento climatico sono strettamente intrecciati con la “mascolinità industriale in declino” e, per questo, tentano di salvare la società che la garantisce.

Salvarla a qualunque costo, dunque anche esercitando violenza e autoritarismo. Sul piano sistemico, questo approccio è ereditato dal cosiddetto dualismo, per cui la separazione fabbricata tra uomo e natura – associata spesso a una dimensione femminile – legittima lo sfruttamento, l’abuso e il possesso. Cara Daggett, autrice e ricercatrice presso il dipartimento di scienze politiche dell’università della Virginia, la chiama petromascolinità, un termine introdotto per la prima volta nel 2018 con un suo articolo pubblicato sulla rivista accademica Millennium.

L’uso dei combustibili fossili, scrive Daggett, è “una reazione compensativa e violenta” contro le rivendicazioni ecologiche e di genere. Non è una coincidenza, sostiene, che gli uomini americani bianchi e conservatori siano tra i più attivi negazionisti del clima e i principali sostenitori dei combustibili fossili in occidente.

L’interazione tra negazionismo climatico e sistemi patriarcali è ancora poco studiata. E anche sulle associazioni tra energia e mascolinità tossica c’è poca letteratura accademica. Tuttavia, osserva Daggett, l’identità maschile e gli ordini patriarcali che essa sostiene sono importanti per comprendere a fondo la mancanza di risposte politiche al problema della crisi climatica.

La petromascolinità è l’espressione più violenta del desiderio di potere e dello stile di vita garantito dal sistema fondato sui combustibili fossili

Il cambiamento climatico, il sistema di combustibili fossili e una “ipermascolinità” occidentale sono dimensioni che s’intrecciano diventando problemi che si amplificano a vicenda. “Sotto l’ossessione dell’ipermascolinità si rivela una paura di fondo”, sostiene Daggett: che si riveli la sua fragilità. In questa prospettiva, debolezza equivale a perdere mascolinità. Evitare di perderla dunque, o recuperarla, si traduce nel desiderio di mantenere il sistema fossile, anche con la violenza o l’autoritarismo.

Nel 2019, l’allora ministra dell’ambiente canadese Catherine McKenna stava camminando con i suoi figli per strada quando un’auto si era accostata accanto a loro. “Vaffanculo, Barbie del clima”, le aveva urlato contro l’uomo seduto alla guida. L’insulto era stato usato per la prima volta nel 2017 dal politico canadese Gerry Ritz (cosa per cui si è poi scusato) e da allora l’etichetta associata alla ex ministra è stata usata molte volte, soprattutto sui social network. Un’analisi di Conor Anderson del Climate lab all’università di Toronto sulle risposte ai tweet di McKenna dal 4 novembre 2015, il giorno in cui è stata nominata ministra, all’8 settembre 2019, il giorno in cui ha annunciato di aver chiesto una scorta a causa dei continui abusi verbali, ha rivelato che la ministra è stata chiamata “Barbie del clima” 6.961 volte, oltre che pesantemente insultata.

Simili attacchi sono stati diretti ad altre donne che si battono per la causa climatica, come la deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez e l’attivista svedese Greta Thunberg. E in molti casi sono parte di una strategia: poiché mira al carattere, a caratteristiche fisiche o personali è spesso considerata un modo efficace di spostare l’attenzione dai contenuti.

Si tratta di una strategia usata spesso in politica per delegittimare l’avversario. E nel caso delle donne che si battono per il clima può scaturire anche da un atteggiamento apertamente sessista e violento. Secondo Daggett, quindi, la violenza fossile può essere compresa anche come tattica misogina, nel senso della misoginia teorizzata da Kate Manne come un insieme di pratiche del dominio patriarcale e non come un generalizzato sentimento individuale di “odio per le donne”.

Manne sostiene che la definizione tradizionale della misoginia rende troppo difficile individuarla poiché ci si attorciglia sul significato delle parole e sulle “intenzioni del colpevole”. È invece più facile riconoscere, e dunque combattere, un modello di aggressione contro chi “osa” trasgredire le norme patriarcali, in particolare, quindi, le donne o le persone lgbt+.

La petromascolinità è l’espressione più violenta del desiderio di potere e dello stile di vita garantito dal sistema fondato sui combustibili fossili. E analizzare il sistema fossile attraverso la lente della misogina offre la possibilità di riconoscere che gli ostacoli all’azione sul clima sono di natura identitaria, psicologica e socioculturale, oltre che economica, ideologica e politica. La strenua difesa dei combustibili fossili non è solo una manovra politico-economica, è la conseguenza diretta di un sentimento di paura per un mondo in declino e il rifiuto di qualsiasi passo verso un cambiamento costruttivo.


(internazionale.it, 19 aprile 2022)

di Anita Cainelli


Negli ultimi 30 anni è stato registrato un aumento esponenziale dei rischi psicosociali e di episodi di violenza (fisica o psicologica) e molestie sul luogo di lavoro (Balducci e Fraccaroli, 2019). Secondo un’elaborazione della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro su dati Istat, 1 milione e mezzo di donne (8,9% delle lavoratrici) ha subito una molestia fisica nel luogo di lavoro, mentre circa 1 milione 173 mila un ricatto a sfondo sessuale (7,5%) per l’assunzione e/o avanzamento in carriera. L’80,9% delle donne non parla della violenza subita con nessuno sul posto di lavoro e in pochi casi tali situazioni sono sfociate in denunce alle Forze dell’Ordine. Questa scelta è mossa dalla paura di non ricevere adeguata tutela (fisica e giudiziaria, oltre che economica).

È di fondamentale importanza identificare i meccanismi alla base del fenomeno per poterlo prevenire e per proteggere e supportare le vittime.

Questo progetto di ricerca, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, mira a costruire e validare uno strumento che permetta di intercettare e prevenire fenomeni di violenza – implicita ed esplicita – e di molestie nei luoghi di lavoro, con un focus particolare relativo alla violenza di genere.

Inoltre, si vuole anche indagare il ruolo delle competenze e dei punti di forza personali nel fronteggiare tali fenomeni di violenza nei contesti lavorativi, al fine di poter strutturare eventuali interventi di empowerment in ottica preventiva.

A partire dalla costruzione del protocollo, obiettivo secondario resta quello di definire al meglio i possibili indicatori di intervento in situazioni di rischio o di effettiva violenza (specialmente di genere) sul luogo di lavoro.

La ricerca prevede il coinvolgimento di lavoratori/lavoratrici maggiorenni residenti in Italia.

La Privacy dei partecipanti verrà garantita in quanto non si chiederanno informazioni che possano portare al proprio riconoscimento (verranno solo richiesti età, genere e posizione lavorativa ricoperta); inoltre, la presentazione dei risultati della ricerca avverrà solo in forma di dati aggregati.


https://psicologiaunimib.qualtrics.com/jfe/form/


(www.libreriadelledonne.it, 18 aprile 2022)

di Marta Bellingreri


Al Salone internazionale del libro d’Algeri si è propagata per giorni un’onda femminista tra gli stand e padiglioni di oltre mille case editrici. È la fiera del libro più grande del continente africano e del mondo arabo e, dopo due anni di pandemia, più di un milione di visitatori e visitatrici hanno varcato l’ingresso dell’esposizione. Numeri già consolidati da anni – il salone si è svolto tra il 24 marzo e il 1 aprile ed è alla sua venticinquesima edizione – ma che nessuno tra organizzatori ed editori si aspettava dopo la chiusura causata dal covid e una crisi socioeconomica in corso. Oltretutto a ridosso del mese di Ramadan, durante il quale le spese per cibo e vestiti aumentano. “La partecipazione del pubblico algerino ci ha stupito”, racconta Selma Hellal, fondatrice insieme a Sofiane Hadjadj della casa editrice Barzakh. “Un flusso regolare di persone curiose, interessate, che chiedono titoli che già conoscono”.

Maya Oubadi, 33 anni, anche lei fondatrice ed editrice della piccola e preziosa Editions Motifs, era impaziente ed emozionata soprattutto per la presentazione della loro nuova rivista femminista bilingue, La Place, in arabo algerino El Blasa (il posto). “La rivista è appena nata, il numero zero è stato lanciato l’8 marzo”, ha esordito. “Da tempo però mi chiedevo: che cosa manca nell’offerta editoriale? Volevo creare qualcosa che non trova spazio altrove. E la risposta era evidente: il femminismo, i racconti femministi, il posto, la place appunto, per il pensiero femminista. Percorsi di militanti e lotte del passato e del presente, ma anche profili, esperienze di donne che non ti aspetteresti di leggere”. Ed è così che insieme alla sua amica Saadia Gacem, antropologa del diritto e attivista che collabora all’Archivio di lotte di donne in Algeria, hanno messo su una rivista dai colori accesi perché così volevano apparire: con grandi caratteri per non rischiare di essere invisibili, al contrario prendersi tutto lo spazio possibile.

Con lo stesso spirito pochi anni fa Oubadi aveva fondato Edition Motifs per pubblicare la rivista di critica letteraria Fasl (virgola in arabo), sempre bilingue arabo e francese, che è giunta al suo quinto numero. “Scrittori e scrittrici creano le loro opere, ma non ci sono abbastanza finestre per parlare in profondità della letteratura. Le pagine di cultura dei giornali sono poche e devono coprire anche il cinema, la musica, le arti. Per me letteratura significa andare in profondità”. Stessa intuizione per il femminismo, racconta seduta di fronte alla pila fosforescente di copie di La Place. “Sappiamo che ci sono state riviste femministe algerine, come tanti sono i collettivi e le associazioni. Ma ne esistono oggi? Ognuna delle nostre storie è una microstoria, la loro composizione forma la riflessione della rivista, la nostra analisi del mondo”.

Un punto di vista differente 
La scelta del titolo è stata frutto di un lungo processo. Si ispira a quello di uno dei bellissimi romanzi di Annie Ernaux, Il posto. “L’autrice femminista francese è ampiamente tradotta e letta nel mondo arabo. Solo che il sostantivo in arabo standard per il posto, al makan, non ha una risonanza diretta nel pubblico locale. Invece in arabo algerino era perfetto: El Blasa!”. Con questo termine, Maya Oubadi e Saadia Gacem sfidano contemporaneamente uno stereotipo, una frase ripetuta spesso alle donne in Algeria, “blastek fil cusina”, il tuo posto è in cucina. In questo caso invece il posto della rivista è al Salone internazionale del libro tra migliaia di titoli.

Sfogliando le pagine dalla carta spessa, di un bianco avorio, ci si imbatte nell’intervista con un’attrice teatrale e psicologa di Orano, nella lista dei femminicidi in Algeria nel 2021, nelle cronache giudiziarie di un divorzio basato sugli abusi e in quelle sulla maternità, oltre a racconti di lotta femminista dagli anni ottanta all’hirak del 2019, il movimento di sollevamento popolare algerino che ha portato alla fine del ventennio del presidente Bouteflika. Tre anni dopo però la speranza che l’hirak aveva acceso in milioni di algerini si è spenta. Al cambiamento del presidente non ha corrisposto un cambiamento di sistema. “L’hirak mi mancava già prima che terminasse”, ricorda Oubadi. “Avevo intuito che non bastava scendere in strada e ci siamo tutti un po’ depressi quando è finito davvero. Ma portare avanti il mio lavoro mi ha motivato: bisogna continuare a fare”. E con questo numero zero, sembra che lei e Gacem abbiano pubblicato solo una parte di una lunga lista di donne da ascoltare, coinvolgere, ripubblicare. “Il femminismo l’ho scoperto leggendo, fa parte di una di quelle rivelazioni”, dice Oubadi, “non vedo perché ad altre persone non possa succedere la stessa cosa con La Place”.

Selma Hellal, una delle fondatrici delle edizioni Barzakh, la propria epifania l’ha avuta quando, proprio nel periodo in cui cominciava l’hirak nel 2019, si è ritrovata tra le mani un testo sullo stupro, scritto dall’autrice algerina Souad Labbize. “Questi momenti nella vita di un editore sono davvero pochi. Il breve, poetico, efficace testo di Labbize si è imposto su di me”, racconta Hellal, interrotta spesso da lettori e lettrici al suo stand di Barzakh. “Nei momenti di crisi, come editrice mi sono chiesta spesso a che servisse pubblicare testi, cosa può mai cambiare. Nei giorni dell’hirak ho dato un senso a queste domande e non solo ho pubblicato Dire le viol (dire lo stupro) in arabo e francese, ma ho cominciato a distribuirlo gratuitamente. La riflessione dolorosa, l’urlo di questa scrittrice nell’impossibilità di dirlo a sua madre mi ha fatto pensare che tutti dovessero leggerlo. Era il mio modo di partecipare alla rivoluzione”. L’eco suscitata dal testo è stata confermata a distanza di tre anni quando l’ha contattata al telefono una donna che in tono di rimprovero le ha detto: “E perché non l’hai distribuito pure agli imam nelle moschee?”.

Nella sua coscienza di editrice qualcosa si era già mosso in precedenza: si chiedeva perché ci fossero poche pubblicazioni di donne nel suo catalogo. “Spesso le donne si nascondono dietro pseudonimi. Volevo cominciare a pubblicare più autrici ma anche suscitare in loro il desiderio di scrivere”. L’esordio di Assia Djebar, Le soif (La sete), scritto quando Djebar aveva solo vent’anni nel 1957, per Hellal era più che un capolavoro, “ma era introvabile. Solo ripubblicandolo poteva tornare a essere letto”.

Contro le discriminazioni 
Al più grande padiglione della fiera, dedicato quest’anno all’Italia, paese ospite di questa edizione, anche l’arabista Jolanda Guardi riparte dalla scrittura negli anni della lotta anticoloniale francese. “Le donne hanno un punto di vista differente. La narrazione dell’indipendenza algerina l’hanno fatta gli uomini, nonostante le donne abbiano avuto un ruolo fondamentale durante la battaglia. La prima che ha cominciato a scriverne è stata Zouhour Wanissi, prima dell’indipendenza, dalla madrasa al hurra (scuola libera) dove si insegnava l’arabo di nascosto. Poi Ahlam Mosteghanemi ha ripercorso gli ideali della rivoluzione e come stessero andando le cose dopo l’indipendenza. Infine, è arrivato il decennio nero, gli anni novanta, con il terrorismo e la guerra civile. Anche lì è stata necessaria una riscrittura da parte delle donne. L’ha fatto nei primi anni duemila Fadhila el Faroukh”. Oggi però, secondo Guardi, nella costellazione di scritture al femminile è più difficile fare un nome. “Gli uomini sono la maggior parte degli scrittori in arabo. Le donne scrivono più in francese. Ho tradotto dall’arabo Il bianco e il nero di Amal Bouchareb, che vive in Italia. Sono qui in ascolto, per trovare nuovi talenti e portare libri a casa. Prontissima per una nuova traduzione”.

Prima della lunga fila che precede i metal detector all’ingresso del salone, uno stand tutto al femminile ha una sua coda a parte, con ragazzi o ragazze curiose di capire di cosa si tratta. Oltre alle studenti con la divisa scolastica, si avvicinano coppie di amiche per chiedere. È la web radio Voix des femmes (Voci di donne), che insieme alle associazioni Tbd e Salamat, presidia il salone per informare sulla violenza online. “Molte ragazze sono insultate sui profili social, ricattate con foto, non tutte sanno come rispondere. Siamo qui per fare un sondaggio e approfondire l’argomento”, spiega Samira Dehri, tra le fondatrici della radio. “Altre invece, anche tra le giovanissime, sono molto forti, ci hanno raccontato di essersi difese, di aver risposto ‘non mi parlare in questo modo’ ai loro aggressori online. La generazione precedente aveva paura. Oggi le ragazze sono più consapevoli. Sono femministe senza sapere di esserlo”.

La radio è presente al Salone del libro per parlare di tutte le scrittrici e le iniziative al femminile, come la rivista La Place. “Facciamo rete, ci sosteniamo a vicenda. Difficile che le donne siano ascoltate come esperte ma piuttosto vengono chiamate per raccontare la loro testimonianza. Noi pensiamo il mondo e le donne nei mezzi d’informazione in maniera diversa”.

Amal Hadjaj è una delle fondatrici del Journal Féministe Algérien, presente al salone, e riguardo ai giornali e allo spazio per il racconto femminista la pensa proprio come Dehri, Hellal, Gacem e Oubadi. E aggiunge: “Deve cambiare il linguaggio, dobbiamo avere un linguaggio femminista e algerino”. Non a caso quando il giorno della chiusura il Salone del libro ha pubblicato il numero delle persone che hanno visitato la grande fiera “1,3 milioni di visitatori” con la precisazione “*escluse donne incinte e bambini”, il Journal Féministe Algérien ha immediatamente denunciato insieme ad altre reti “le statistiche ufficiali che escludono le donne e identificano quelle incinte come categoria minore, tanto da non comparire”, ricordando che “la discriminazione è punita dalla legge algerina e la costituzione garantisce l’uguaglianza tra cittadini e cittadine”. La pagina ufficiale del salone ha cancellato quell’asterisco che escludeva. Una piccola battaglia vinta. Le femministe algerine non risparmiano le critiche a nessuno.


(Internazionale, 17 aprile 2022)

di Arianna Di Genova


Biennale Arte 59. La rassegna internazionale raccontata dalla curatrice ufficiale della mostra


Già nel 2017, quando era stata chiamata a curare il padiglione Italia, Cecilia Alemani si era incamminata in direzione della linea fantastica che aveva attraversato il ’900, in pittura come in letteratura. Coerente con quella intuizione intrisa di magie e allucinazioni, torna in Laguna dall’America in cui vive, questa volta per imbastire il grande puzzle della mostra ufficiale della Biennale. E lo affida a un buon 80% di presenza femminile (213 in tutto le e gli «ospiti») e alla scrematura onirica de Il latte dei sogni (23 aprile – 27 novembre), stesso titolo del quadernetto privato che raccoglieva le storie eccentriche, intessute di mutazioni e ibridazioni tra specie, inventate dalla inglese-messicana Leonora Carrington, scrittrice e artista convinta che ognuno di noi possedesse «un’anima animale, un proprio bestiario interiore».

La sua mostra è modulata nell’alternanza di presente e passato, con produzioni recenti e «capsule del tempo». Può spiegarci meglio? 
Ho immaginato una mostra che potesse unire temporalità e mondi differenti. Ovviamente, la rassegna ha guardato tanto al contemporaneo, a produzioni degli ultimi due anni, ma si è anche volta al passato, alla storia stessa della Biennale e dell’arte in generale, per intrecciare una costellazione di lavori – soprattutto del ’900 – che potessero dialogare con quelli contemporanei (nell’allestimento, le due «linee» sono parzialmente separate). Vorrei che le «capsule» offrissero allo spettatore delle lenti per leggere l’arte, compresa quella più vicina al nostro tempo. Surrealismo, Futurismo, Bauhaus mi permettevano di focalizzare l’attenzione sulla produzione di opere di artiste che hanno militato in quei movimenti ma che sono state dimenticate. Era un modo per ricucire quella storia e intersecarla con il contemporaneo. La storia non è qualcosa di fisso e archiviato, ma va ripescata e reinterpretata.

Possiamo rintracciare un filo conduttore per orientarsi nella esposizione tra Giardini, Corderie e Arsenale?  
Anche ingenuamente, mi piace dire che a una mostra ci vado perché voglio imparare, non solo sentirmi engaged. Le capsule storiche possono aiutare a capire che alcune tematiche – come la metamorfosi o il cyborg – non sono una mia invenzione. Naturalmente, la metamorfosi è un tema che nella storia dell’arte è presente da centinaia di anni, anche nel lavoro di artiste oggi poco conosciute. Operavano spesso accanto ai loro colleghi uomini portando avanti le loro ricerche. E, le loro produzioni sono diventate anche più contemporanee e attuali, soprattutto alla luce della pandemia.

La parola «sogno» rimanda a una sospensione temporale, a un fluttuare della coscienza… È una cancellazione di quel che stiamo vivendo?  
No, casomai la dimensione onirica è una metodologia utilizzata dagli artisti per processare proprio i traumi del presente. Non è una fuga, un voltare le spalle all’urgenza del momento. Mi sembra di poter dire che è uno strumento che gli artisti hanno usato nell’isolamento cui siamo stati costretti. La solitudine ha favorito il ricorso all’introspezione, all’inconscio per rielaborare quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni. Non solo il contenuto dei lavori è interessante, ma anche lo stile scelto per confrontarsi con quel trauma. C’è molta pittura, è una mostra fisica e materiale, rifugge dall’arte più concettuale e astratta. È un percorso che si deve attraversare col proprio corpo. Forse è il risultato di averla preparata tramite lo schermo e la mediazione del computer, con incontri e visite in studio online. È ciò che volevo vedere e non potevo durante la pandemia – la fisicità di un quadro o la presenza scultorea di un’installazione.

Oltre alla preponderante presenza di artiste c’è una attenzione alle culture indigene e alla loro lingua creativa. Una corrispondenza di intenti che risuona con alcuni padiglioni e che sembra indicare uno spostamento della Storia… 
Ovviamente, io parlo dal mio punto di vista che è quello di donna bianca, occidentale, privilegiata, però mi interessava portare a Venezia delle simbologie e visioni del mondo diverse dalla mia, che espandessero il concetto di storia. L’idea di fondo è: «Cosa stiamo narrando?». Chiamo tutto ciò «mito» in modo generico, quelle narrazioni parallele che non obbediscono ai canoni cui siamo abituati. Questo approccio è nato quando preparavo il mio padiglione Italia. Avevo ripreso gli studi di Ernesto De Martino, lui era affascinatissimo dalla cultura orale, quella non scritta dei tanti rituali del sud Italia. Volevo dare spazio a una formulazione diversa.

Ci sono alcune muse ispiratrici per disegnare un immaginario quadrilatero magico della rassegna? 
C’è Leonora Carrington, naturalmente e accanto a lei – nell’ipotetico quadrilatero – metterei Magdalene Odundo (nata a Nairobi nel 1950, in Kenya, vive e lavora in Inghilterra), che realizza bellissime ceramiche a forma di corpo come contenitore di vita. Poi, Barbara Kruger, per lo shock di scoprire quanto il suo lavoro con gli slogan femministi degli anni 80 sia ancora così rilevante – è da notare, forse, la nostra società non si sta evolvendo così tanto. E Belkis Ayon (L’Avana, 1967 -1999), artista cubana che racconta strane mitologie africane esportate ai Caraibi e le rivisita in chiave matriarcale e femminista. Un lavoro potente il suo.

Molte opere pongono in primo piano le altre specie… 
La considerazione di un mondo popolato da tante creature viventi rappresenta una parte fondamentale degli artisti presenti nel percorso della mostra. Si dà spazio al desiderio di immaginare un pianeta in cui il rapporto fra esseri umani e natura sia meno di sfruttamento, non gerarchico, più orizzontale e simbiotico. Questo è ciò che dice anche Rosi Braidotti e che sottolineano altre filosofe del postumano. Siamo arrivati a un punto di non ritorno. Il virus, una forza invisibile, ha capovolto il nostro modo di pensarci, abbattendo la nostra «superiorità» come specie.

Infine, una domanda extra: lei vive in America, cosa pensa della «cancel culture»? 
In Italia non si ha molta voglia di capire cosa sia. Non si tratta di censure. Certamente, l’America è una società estrema, senza mediazioni. Ma è un processo difficile: per comprendere quel che è accaduto nello spazio pubblico ai monumenti dobbiamo interrogarci su cosa sia successo nel ’700, nell’800, o semplicemente ottanta/cento anni fa. È un esercizio utile per mostrare che siamo una società viva. La storia deve poter cambiare. Non c’è niente di male a contestualizzare un oggetto nello spazio pubblico, soprattutto se è simbolico. Ma il problema è che al fondamento di tutto ciò, al tavolo delle decisioni si deve sedere chi si sente offeso dalla statua o monumento. Se continuiamo a parlarne fra noi non ha nessun senso.


(Alias – il manifesto, 16 aprile 2022)

di A. Ma.


Il salone “Un sogno chiamato bebè”, previsto il 21 e 22 maggio nel capoluogo lombardo, è stato rinviato di un anno


“Un sogno chiamato bebè” non approda in Italia. Almeno per ora. La fiera della procreazione assistita, in programma il prossimo maggio a Milano dopo aver trovato spazio in diverse capitali europee (Parigi, Berlino, ma anche Colonia e Monaco), è stata rinviata di un anno «a causa di circostanze al di fuori del nostro controllo», come fanno sapere gli organizzatori con una newsletter recapitata oggi agli iscritti.

Una «decisione difficile», si legge ancora nella comunicazione. Il Salone avrebbe dovuto svolgersi a Milano il 21 e 22 maggio in uno spazio di via Mecenate, alla periferia est della città. L’annuncio dello sbarco in Italia era stato accolto con molti interrogativi: in Italia la legge sulla procreazione medicalmente assistita proibisce la pubblicità e la promozione di tecniche di surrogazione di maternità (la Gravidanza per altri) e anche della donazione di gameti. Naturalmente gli organizzatori avevano assicurato che nulla di tutto questo sarebbe accaduto, ma avendo ben presente ciò che è successo ad esempio alla analoga fiera che si è svolta a Parigi all’inizio di settembre 2021, qualche dubbio è lecito. Anche in Francia l’utero in affitto è vietato così come la sua pubblicizzazione, ma questo divieto non è stato rispettato, come abbiamo documentato, da sponsor, seminari, promozioni di cliniche estere tutto compreso.

Sta di fatto che la notizia che a Milano ci sarebbe stata per la prima volta una fiera che commercializza servizi sanitari legati alla nascita di bambini aveva suscitato numerose perplessità. Il senatore Gasparri aveva presentato una interrogazione al ministero della Salute in cui chiedeva di «evitare in Italia qualsiasi azione illegale che facendo leva sulla voglia di genitorialità sfrutta persone deboli, in questo caso soprattutto donne, e non ha alcun rispetto per la vita dei bambini, trattati come un prodotto da banco».

Nella stessa città di Milano la notizia non aveva lasciato indifferente le associazioni femministe mobilitate contro la legalizzazione della maternità surrogata. Con una lettera aperta al sindaco Giuseppe Sala, la Rete per l’inviolabilità del corpo femminile aveva denunciato la visione mercantilista della vita umana e del corpo femminile che sta dietro alle pratiche che vengono suggerite in saloni di questo tipo e aveva chiesto un intervento delle autorità: «Nello spazio, ancorché privato, si preannuncia un reato ai sensi della legge 40/2004 che non solo vieta e sanziona la gestazione per altri realizzata in Italia, ma punisce anche la semplice propaganda, là dove afferma che “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro” (articolo 12, comma 6)». Infine, la consigliera comunale dell’opposizione Deborah Giovanati (Lega) aveva firmato una interrogazione urgente al sindaco e all’assessore alla Parità del Comune di Milano, mentre il segretario del Centro di aiuto alla Vita Mangiagalli Francesco Migliarese aveva suggerito che «la vita umana non si manipola, non si compra e non si vende» e chiedeva che il sindaco «impedisca lo svolgimento di questa controversa iniziativa commerciale».

Almeno per un altro anno, comunque, il pericolo è scongiurato.


(Avvenire, 15 aprile 2022)

di Adele Longo


Nell’introduzione del libro Controra edito da Les Flâneurs di Bari, l’autrice Katia Ricci ne racconta la genesi: l’aver salvato dallo sgombero della casa dei suoi genitori fotografie, lettere che raccontano la storia della sua famiglia, pensando di leggerle al momento opportuno, quando ne avesse avuto tempo e desiderio.

Parecchi anni dopo Katia prende in mano questo materiale: ha tempo a disposizione per il lockdown e soprattutto negli ultimi anni ha fatto parte della comunità di “storia vivente” di Foggia, pratica avviata da Marirì Martinengo con la comunità di Milano.

Una pratica che vuole portare alla luce un nodo irrisolto dentro di sé, raccontando la propria storia a partire dal corpo, dal proprio vissuto, un racconto che certamente necessita di uno scavo solitario, ma che soprattutto emerge e si forma nelle relazioni all’interno di una comunità di ricerca, un lavorio lento, continuo, basato sull’ascolto e sulla fiducia. Ed è così che una storia personale diventa condivisa e nello scambio si crea una parola autorevole che produce cambiamenti personali e simbolici.

Nel libro la storia personale si intreccia con oltre mezzo secolo di storia politica e sociale italiana e del sud in particolare. La storia di suo padre Pasqualino, unico figlio maschio sopravvissuto di una famiglia di proprietari terrieri di Rignano. L’incontro con la bellissima Anna conosciuta a Potenza, dove era ufficiale dell’esercito, e di cui si era subito innamorato a tal punto da sposarla nonostante l’ostilità dei genitori.

La nascita dei quattro figli, i ricordi indelebili di Katia dell’infanzia trascorsa in campagna, il rumore delle spighe di grano battute dal vento, le scorribande nei terreni rocciosi, gli animali, i racconti di Giuseppina.

Sono gli anni della guerra, la liberazione, il dopoguerra, le tradizioni contadine che andavano man mano cambiando, le riforme come quella agraria, la politica della DC, la Cassa per il Mezzogiorno, riforme mai risolutive per il sud disastrato, anzi, una politica sbagliata che faceva infuriare Pasqualino che non lesina passione nell’impegnarsi politicamente per il bene del suo paese.

Racconto, narrazione per indagare e affrontare un nodo che Katia si porta dentro da sempre: il conflitto con suo padre, mai risolto neanche con la sua morte.

Da dove nasce il bisogno di riconciliazione, il desiderio di andare a fondo nei luoghi più segreti dell’essere, le viscere come le chiama María Zambrano, di superare la loro resistenza per sbrogliare, mettere in parola, dare senso ad un groviglio di emozioni?

Nell’introduzione Katia scrive: «È in nome di mia madre che cercherò di riconciliarmi con mio padre e sciogliere la ruggine che sento in me perché, come tanti uomini, pensava che fosse suo diritto imporre il suo punto di vista, magari con uno schiaffo, alla donna che pure amava appassionatamente e forse malamente».

C’è un cambio di prospettiva, uno spostamento di sguardo che segna un nuovo inizio, e che avviene grazie all’incontro e alla relazione con le altre donne della comunità.

Non è la rabbia, la ribellione verso il padre, con tutto il suo carico di valori patriarcali, a guidarla in questo cammino, ma si affida all’amore della madre per suo padre, un amore che acquista valore e dignità. È la fiducia nella madre, per il suo insegnamento, modo di fare, il suo amore tenace per Pasqualino che se da giovane suscitava in Katia rabbia e ribellione, ora rappresenta la spinta ad andare oltre, a capire un uomo difficile, perennemente scontento, a tratti violento ma anche capace, come testimoniano le lettere, di passione, di tenerezza di un amore profondo irrinunciabile.

Ne viene fuori il ritratto di un uomo dibattuto tra il senso di responsabilità verso la sua famiglia di origine e il risentimento verso di essa perché gli impediva di essere sé stesso nel lavoro e negli affetti, che gli impediva di fare prevalere quell’anima leggera, gentile e affettuosa che era in lui.

Inoltre, mi pare molto significativo e rivelatore il sogno epifanico di cui Katia scrive nell’introduzione. Sogna di stare dietro una porta o una gabbia un po’ socchiusa che però ha paura di aprire perché teme si nasconda un pericolo. Ma subito dopo si sorprende a pensare che dietro quella porta ci poteva essere «al contrario qualcosa di interessante e di bello che avrei voluto vedere e fare uscire».

È un’epifania, un’illuminazione: l’ostacolo, la porta, la barriera può essere spostata, perché dietro ci può essere qualcosa di interessante, di bello, che non fa paura ma al contrario è una forza rigeneratrice che libera bellezza, il senso profondo della vita.


(donne e altri, 15 aprile 2022)

di Redazione


Sono gli scatti in bianco e nero di Letizia Battaglia, la famosa fotogiornalista siciliana di fama internazionale, i protagonisti della seconda installazione temporanea di Meraviglioso Reale, la nuova edizione del progetto di arte pubblica dell’associazione Off Site Art che, in partnership con l’organizzazione no-profit statunitense ArtBridge e grazie al patrocinio della Regione Abruzzo, del Comune dell’Aquila e dell’Università dell’Aquila, dal 2014 accompagna i lavori di riedificazione del centro storico dell’Aquila. “Continua il racconto magico dell’arte pubblica di Off Site Art” spiega Camilla Carè, la curatrice di Meraviglioso Reale che per questa nuova installazione ha selezionato le immagini della fotogiornalista palermitana in grado di mostrare un mondo nuovo, nato dalla spaccatura tra sogno e realtà. “Di Letizia Battaglia abbiamo voluto selezionare quegli scatti che più raccontano la purezza, della natura e dell’incanto, per condividere con tutta la città quel suo sguardo che si fa bellezza poetica. “Sono anni che fotografo la bellezza” è la voce di Letizia Battaglia. “La bellezza è innocenza, la freschezza del comportamento. Con la macchina fotografica cerco lo sguardo puro, quella parte di bellezza che lotta. La mia fotografia è un atto d’amore, è conoscenza, è guardare pieni di incanto chi può trasmetterti la meraviglia”.


letizia battaglia casa delle donne


Dopo le immagini di Honey Long & Prue Stent, il duo australiano con base a Melbourne che hanno inaugurato il nuovo ciclo di opere lo scorso ottobre, sono proprio gli scatti della fotografa palermitana, promotrice e sguardo inedito di arte e femminismo, a ricoprire i ponteggi e le impalcature, in un allestimento di Moliri Edilmaca, di un luogo d’eccezione: la nuova Casa delle Donne che vedrà la luce in piazzale Collemaggio all’Aquila. Luogo di accoglienza e di incontro, la sede definitiva della Casa delle Donne, oggi operativa nella sede provvisoria in località San Francesco, è destinata a diventare un punto di riferimento femminile e femminista, luogo di cultura, di ricerca e di servizio. Il progetto della Casa è stato promosso dall’Associazione Donne TerreMutate, che nasce con la finalità di realizzare e gestire una Casa delle Donne a L’Aquila, unitamente all’Associazione Donatella Tellini (Biblioteca e Centro antiviolenza delle donne) e condiviso con Rivista Leggendaria, Donne in Nero, Coordinamento donne SPI-CGIL e Rete delle donne CGIL. Il progetto esecutivo e i lavori di ristrutturazione dell’immobile sono stati affidati al Provveditorato alle Opere Pubbliche, in accordo con il Comune e la Provincia dell’Aquila, quest’ultima proprietaria dell’immobile. “È rappresentativo che siano proprio le immagini di Letizia Battaglia a ricoprire la futura Casa delle Donne. Dà un senso a quello che questo luogo sarà per la città: uno spazio per fare politica, per conservare la memoria e la conoscenza storica dei percorsi di emancipazione e liberazione femminile, dare cittadinanza e riconoscibilità al pensiero e alla pratica delle donne, per contrastare la cultura patriarcale. In un certo senso anche lei si aggiunge all’impegno delle donne e delle realtà associative che si sono fatte carico della tessitura delle relazioni e del tessuto urbano dell’Aquila”. “La Casa delle Donne – sostiene l’associazione Off Site Art in una nota di direttivo – è un crocevia di vissuti, storie, necessità ed esperienze comunitarie. Il contributo artistico di Letizia Battaglia si inserisce in questo percorso di lotta, resilienza e ricostruzione del tessuto urbano e sociale dell’Aquila”.


letizia battaglia casa delle donne


(www.ilcapoluogo.it, 22 febbraio 2022)

di redazione il manifesto


Fu lei la prima a giungere sul posto, il 6 gennaio 1980, e a fotografare il corpo di Piersanti Mattarella. Assassinato. Palermo – diceva – «è piena di cose, belle e brutte. Come un amore. Palermo è come una bambina, che vuole crescere, diventare grande, diventare la maestra, o la principessa, sognare di poter essere una persona felice».

Letizia Battaglia, la grande fotoreporter che iniziò la sua carriera all’Ora, in un mondo popolato solo di uomini, è morta all’età di 87 anni. Era nata nella sua Sicilia nel 1935 (dove tornò sempre, dopo essersi trasferita a Milano e a Parigi), luogo che il suo obiettivo raccontò infaticabile, nelle ombre e nelle luci, con i morti ammazzati dalla mafia, le processioni religiose, la sfrontatezza delle ragazzine figlie della miseria. Ribelle con le sue immagini senza censure, fondò l’agenzia Informazione fotografica e diresse il Laboratorio d’If, dove in molti sono cresciuti con il suo insegnamento (compresa sua figlia Shobha). A lei fu attribuito il prestigioso premio Eugene Smith, la sua vita è raccontata nel documentario Shooting the mafia di Kim Longinatto e poi l’omaggio di Franco Maresco nel film La mafia non è più quella di una volta. Già nel 2008 era apparsa in un cameo in Palermo Shooting di Wim Wenders.

Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 si è occupata anche di politica. È stata consigliera comunale con i Verdi e assessora comunale in una delle giunte guidate da Leoluca Orlando. «Palermo perde una donna straordinaria, un punto di riferimento. Letizia Battaglia era un simbolo riconosciuto internazionalmente dell’arte, una bandiera nel cammino di liberazione della città di Palermo dal governo della mafia», l’ha ricordata il sindaco Leoluca Orlando.


(il manifesto, 14 aprile 2022)

a cura di Laura Minguzzi


Pubblichiamo l’introduzione all’incontro del 26 marzo 2022 tenutosi presso la Libreria delle donne per la presentazione del libro di Vittoria Longoni Madre Natura. La Dea, i conflitti e le epidemie nel mondo greco (2021) edito da Enciclopediadelledonne.it


L’autrice, grecista e femminista, esplora nei testi classici antichi le tracce di una diversa concezione della divinità cosmica e di un orizzonte di valori alternativo al dominio patriarcale. La sua è una voce che come recita il titolo di questo incontro rappresenta una forza che si oppone alle guerre. Ci lega una relazione più che decennale, nata nella scuola, eravamo e siamo insegnanti, basata sull’amore per le lingue antiche e moderne. Quando ho proposto il suo libro non mi/ci aspettava/mo certo di trovarmi/ci in questa situazione di doppia emergenza, la pandemia e la guerra in Ucraina e in questo pericoloso tornante epocale, causato dalla pulsione, soprattutto maschile, a fare schieramenti armati. Noto nell’arena pubblica una profonda difficoltà a fare ricorso al discernimento, qualità umana che fa leva sul primun vivere di radice femminile e materna. Sento una grande responsabilità per il momento storico che stiamo vivendo. La scrittura di Vittoria è ispirata dalla fiducia nella relazione, nella parola e nella mantica.

L’anno scorso alla fine di novembre ho visto uno spettacolo multimediale Resurrexit Cassandra, un monologo di Sonia Bergamasco. Stavamo riprendendo a respirare pur con la mascherina e mi sentivo molto speranzosa. Cassandra risorge e parla: richiamata dalle tenebre, dal buio cui la sua giusta e veritiera profezia l’aveva condannata. È un buon segno mi sono detta: la profezia come provocazione al cambiamento. Costretta oggi a resuscitare per portare un messaggio, pronunciare un ulteriore avvertimento: quello della scomparsa della vita sul pianeta se non ci sarà un autentico e radicale cambio di civiltà. Come recita il titolo di questo incontro La forza che si oppone alle guerre, abbiamo visto una giovane donna di origine russo/ucraina, Marina Ovsyànnikova, giornalista del primo canale della TV di Stato russa che come Antigone, contro il re Creonte, si è esposta con un cartello e una frase che non era uno slogan, ma un grido di denuncia, contro la guerra fratricida in corso e le menzogne di Stato. Ha rotto il silenzio sulla narrazione bugiarda del potere e con la sua forza soggettiva, singolare, ha deciso di risvegliare dal sonno della ragione il popolo russo ed è immediatamente suonato il gong in tutto il pianeta. Il suo gesto di rottura ha fatto il giro del mondo. Una forza simbolica, un altro genere di forza. Non poteva più tacere, ha gridato la verità con grave rischio della vita per sé e per i figli, oltre al licenziamento immediato.

Vittoria Longoni dà alla sapienza femminile dei miti ancestrali una seconda chance. Se sapremo ascoltare e approfittarne. La sapienza arcaica e la manifestazione della libertà femminile possono congiungere ciò che i muri separano, ristabilire l’ascolto dal dentro al fuori. È un’altra forma di forza che si oppone alla Legge brutale dei rapporti di forza, quella distruttiva delle guerre fratricide. La nostra generazione che ha messo al mondo la libertà femminile, fa parlare l’esperienza soggettiva del rapporto con la natura vivente che rifugge da un principio universale astratto ed essenzialista. In quanto pensiero dell’esperienza ci differenzia da, esprime differenza sessuata, non nascondendo la propria origine. Parliamo di un sentire proprio che si annida in ciascuna/o di noi che produce parole sapienti e veritiere, una postura interiore da decifrare e comunicare collettivamente per scrivere un’altra storia. Ciò che scrive Vittoria è sia nuovo che antichissimo.

Nel capitolo La Legge brutale dei rapporti di forza, Vittoria Longoni scrive che non a caso i due termini greci loimòs e limòs (peste e carestia) sono riportati da Erodoto nelle sue Storie a proposito di Creta, quasi come sinonimi. “Poiché i Cretesi avevano partecipato alla guerra di Troia accanto a Menelao, al loro ritorno per punizione divina, furono colpiti da carestia e da un’epidemia. Nel mondo greco anche le epidemie e la peste sono attribuite alla ubris e all’arroganza degli uomini che ricorrono alle guerre per risolvere i conflitti e imporre le leggi e il potere a discapito della Madre Natura o della Dea Madre1 (pag.169).

A proposito di Diotima, i discorsi della “straniera di Mantinea”, nel Simposio, scrive Vittoria, sono un amalgama complesso e lei prova a tradurre dall’originale alcuni passi che trova vicini alla sua sensibilità e consiglia di non interpretarli secondo le teorie platoniche, accostandosi alle espressioni ricorrenti “sia secondo il corpo che secondo l’anima”, in modo che i due ambiti siano connessi e non separati né considerati l’uno superiore all’altro. “L’Amore è un grande demone, daimon in greco, qualcosa di intermedio tra divino e mortale. La sua funzione è di essere messaggero e interprete tra persone umane e divinità. Dato che l’amore è questo, desiderio e tensione […] La sua attività consiste in un partorire nella bellezza, sia secondo il corpo sia secondo l’anima. Tutti gli esseri umani concepiscono, sia nel corpo sia nell’anima. L’amore non è amore del bello, come credi tu. È desiderio di generare e partorire nel bello…”.2

Il ragionamento platonico procede poi per successive astrazioni sempre più lontane dai corpi sessuati. Si propone il raggiungimento di un “termine ultimo” e a questo punto, scrive Vittoria Longoni, non si parla più di Amore come dàimon, come ricerca, che non consente mai del tutto il possesso del bene. Nel suo libro Vittoria Longoni scrive che l’oracolo di Delfi in origine era la sede di una divinità femminile. Lo stesso afferma la storica medievale Maria Milagros Rivera-Garretas in La verità assente della filosofia: la storia vivente3, “…Il tempio greco più celebrato per la conoscenza maschile (il “Conosci te stesso” ndr), quello di Apollo a Delfi, fu un tempio violentemente usurpato, nel secolo VIII a.C. dal patriarcato, alla Grande Dea della Terra, la dea preclassica di Delfi…Era fin dal Neolitico un importantissimo luogo di culto della Dea Madre e di oracolo delle pitonesse, indovine e sibille, dalle cui viscere sgorgavano le risposte profetiche……

A proposito della profezia nel mondo greco, a Femonoe, prima profetessa di Apollo, inventrice dell’esametro, viene attribuita l’invenzione del motto delfico “conosci te stesso”: possiamo quindi supporre un’origine femminile e oracolare anche per la filosofia. Troviamo un testo di Femonoe nel Libro dei sogni di Artemidoro che la descrive intenta a discutere questioni filosofiche. Femonoe si dedicò anche a studi sugli uccelli e all’interpretazione del loro volo, citata da Plinio ne La Storia naturale. Nell’epica e nel teatro antico ha grande rilievo la figura di Cassandra, la figlia di Priamo, desiderata da Apollo, che non volle ricambiare l’amore del dio: ne ricevette il dono della profezia ma anche la sciagura di non essere creduta. 

In sintesi, con le parole di Virginia Woolf accenno al motivo per cui ho ripreso lo studio della lingua greca, ho seguito i corsi di Vittoria per dodici anni e ho potuto leggere i testi in originale: il desiderio della lingua madre, della verità piena corporea, profumata della lingua materna… 

Dal Lettore Comune di Virginia Woolf, un breve saggio dal titolo “Sul fatto di non sapere il greco” Virginia analizza i personaggi di alcune tragedie per esempio il mito di Elettra di Sofocle e il loro linguaggio. Frasi laconiche, semplici esclamazioni di gioia, di disperazione, di odio e le paragona per esempio a Jane Austen che con una frase sostiene tutto il romanzo in Emma: “Io ballerò con lui”.

Si chiede Virginia non sarà forse che leggiamo nei greci ciò che essi non si sognavano mai di scrivere? Non è che scopriamo nella poesia greca non proprio quello che c’è ma quello che ci manca? Dietro ogni riga a volte ci sembra ammassata l’intera Grecia? Una terra non ancora depredata, un mare non ancora inquinato… Ogni parola è rinforzata da un rigore che sembra traboccare dall’ulivo, dal tempio, dai corpi.  La causa di questo splendore è la lingua… perciò è inutile leggere il greco tradotto… Ci mancano i suoni, gli accenti, il ritmo della lingua madre… Con il rumore del mare nell’orecchio (nell’Odissea) attorniati dai vigneti, dai prati, dai ruscelli avvertono meglio di noi la presenza di un fato implacabile e proprio ai greci noi ci rivolgiamo quando siamo saturi di imprecisione e di confusione, saturi di cristianesimo e delle consolazioni, saturi della nostra epoca…


(www.libreriadelledonne.it, 26 marzo 2022)


Ripostiamo la vignetta di Alice Milani, pubblicata sul sito Anpi, che sarà il manifesto per il 25 aprile.

La redazione del sito



(www.anpi.it, 14 aprile 2022)

di Maddalena Iodice


Caos urbano, incalzante ritmo frenetico di una città che ha voglia di produrre, creare, innovare: Milano. La creatività però ha bisogno di essere alimentata, si tratta di un nutrimento che passa dalla mente e dal corpo, da momenti di raccoglimento e di scambio, in bilico tra l’arte del sapersi concedere del tempo per se stessi, e quella di condividere con gli altri. Segue un indirizzario che di Milano racconta alcuni luoghi speciali, nella forma e nel concetto, da scoprire in solitaria o in compagnia. A ognuno la possibilità di disegnare nuove geografie urbane, e di scoprire questi luoghi al proprio ritmo, rigenerando corpo e mente.

Leggere e non solo

LIBRERIA DELLE DONNE


Cosa fare a Pasqua a Milano per rigenerare corpo e mente

Fondata nel 1975, oggi si trova in Via Pietro Calvi 29. Realtà dinamica e composita, vende libri, ovviamente, ma è anche autrice di pubblicazioni in proprio, e organizza stimolanti momenti di scambio e confronto tra riunioni, discussioni e proiezioni di film. Allo stesso indirizzo, nei locali adiacenti, ha sede anche il Circolo della Rosa, luogo d’incontro che invita alla relazione, dove è possibile comprare un libro, sedersi in salotto e consultare un testo, magari bevendo un aperitivo. Per dirlo con le parole del suo manifesto, La Libreria delle Donne è “un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia.”

Pausa benessere 
YOU OFF

Nel cuore delle Cinque Vie, c’è un piccolo luogo in cui si respira armonia. Nato dopo dieci anni di esperienza e ricerca, YOU OFF propone due tipologie di trattamento volte a modellare, ossigenare e riattivare il corpo attraverso movimenti intensi e dinamici. Se siete abituate a un tradizionale massaggio rilassante, forse il loro protocollo vi sembrerà molto più vigoroso del solito, ma già dopo due sedute sentirete i benefici di questo ri-attivamento profondo.

In cerca di artisti emergenti 
L.U.P.O

Lorenzelli. Upcoming. Projects. Organization. Fondato da Massimiliano Lorenzelli in Corso Buenos Aires 2, questo angolo di bellezza e silenzio, riparato dalla vivacità dei bastioni, propone un programma dedicato alla ricerca di artisti emergenti, italiani e internazionali, con l’obiettivo di promuovere la sperimentazione artistica. Attualmente in corso e aperta al pubblico fino al 28 Maggio, 2022, 1), la personale di Edoardo Caimi (b. 1989), che tra istinto e sopravvivenza esplora l’intimo rapporto con un paesaggio futuribile e desolato.

Shopping casa (e oltre) 
NEW BAHAMA

Concepito e fondato dalla carismatica Gaia Venuti, si tratta di uno spazio creativo e luogo d’incontro, nel quale scoprire cose belle e speciali di brand come Mapi, Eroine999, Anticamera, Cabinet, Milano tra le righe, Rio Grande, o inventare e trasformare la propria dimora assieme a Gaia e il suo progetto di interior design GaiaHomeProject. 
Lo spazio riceve solo su appuntamento e propone periodicamente nuovi fresh sales dedicati a talentuosi progetti milanesi.

Un tatuaggio gentile 
ROOTS TATTOO STUDIO

In uno stabile d’epoca in Via Gaspare Bugatti 12, sorge un luminoso open space curato nei dettagli e nei colori, questo luogo infuso di contaminazioni anni ’60-’70 e dettagli art deco, fa subito sentire a casa. E forse, una delle maggiori doti della sua fondatrice, la tatuatrice Lucille Ninivaggi, è quella di mettere l’umanità al centro di ogni suo progetto, dai suoi Tatuaggi Gentili, al luogo appunto, in cui li realizza. Quella di Roots Tattoo Studio è una dimensione intima e creativa dove affidarsi alle mani di unici tatuatori e godere del piacere della condivisione attraverso un ricco calendario di Workshop.

Il CO-WORKING tra architettura e design 
DOPO?

Nel quartiere Corvetto in Via Boncompagni 51/10 è nato uno spazio per il lavoro culturale e la ricreazione condivisa con l’obiettivo di indagare le nuove forme del lavoro contemporaneo.

Nato sotto l’impulso di un’imprenditoria giovane e creativa, tra collettivi e professionisti attivi nel mondo dell’architettura e del design, DOPO? è co-working e luogo di scambio con un ricco calendario di eventi, presentazioni e talk. Meta di cultura e per la cultura, in quella che sta diventando una delle zone più vibranti nel panorama artistico milanese.

Slow living 
CASCINA NASCOSTA

C’è un’antica cascina lombarda dalla tipica struttura a corte che si nasconde, letteralmente, all’interno di Parco Sempione, un luogo che vuole contribuire al contesto cittadino promuovendo un approccio inclusivo e sostenibile alla condivisione di spazi ed esperienze. Un’oasi immersa nel verde, dove mangiare le prelibatezze stagionali della Latteria di Cascina Nascosta, curiosare tra mercatini di artigianato up-cycling o ritrovare equilibrio con la lezione di Yoga Hatha Flow della domenica.

Yoga 
NALU YOGA

Nel cuore di Milano, il centro Nalu Yoga celebra la bellezza del multiculturalismo in uno spazio, dove regnano serenità e silenzio. La scuola offre un ricco programma di lezioni a vari livelli, dal Vinyasa, all’Hatha, dal Kundalini, allo Yin, promuovendo una visione secondo cui la Yoga è una disciplina per tutti e se in un primo momento l’approccio al tappetino è puramente fisico, lasciare che questa pratica entri nel ritmo della nostra quotidianità, la cambierà per sempre, e in meglio. La scuola ha un team di insegnanti molto valido, consigliatissima la lezione del Lunedi alle 18.30 con Annalisa Franzi.

Coffe break 
EUTOPIA

Pasticceria e cucina, un laboratorio artigianale indipendente che privilegiando prodotti di stagione da agricoltura naturale, biodinamica o biologica, dedica a ogni suo prodotto il piacere e l’allegria di un dolce fatto nella cucina di casa. 
Questa ricerca di qualità e autenticità, la si assapora nei gusti tondi ed equilibrati dei dolci o dei pranzi salati, e ne si è avvolti entrando nel locale dove le magiche e fantasiose illustrazioni dell’artista milanese Flaminia Veronesi riempiono lo spazio, dagli interventi pittorici a muro, al packaging dei prodotti.


(www.vogue.it, 13 aprile 2022)

  1. (8

di Antonio Spadaro


Sono state sollevate obiezioni circa l’idea di Papa Francesco di far portare la Croce nella XIII stazione della Via Crucis al Colosseo a una donna ucraina e una donna russa. Insieme. Lo stesso ambasciatore ucraino presso la Santa Sede in un tweet ha affermato che la sua rappresentanza diplomatica «capisce e condivide la preoccupazione generale in Ucraina e in molte altre comunità».

Qual è il senso di questo gesto scandaloso? Non è la prima volta che l’aggressore e l’aggredito sono immersi da Francesco nella stessa preghiera. Era accaduto il 25 marzo scorso quando Francesco aveva compiuto il gesto umile di consacrare al Cuore immacolato di Maria la Russia e l’Ucraina. Insieme, come sorelle, e non come nemiche, innestando il suo gesto in continuità con quello che Pio XII compì nel 1942, durante la Seconda guerra mondiale.

Occorre comprendere una cosa: Francesco non è un politico: è un pastore. Chiaro che ha una visione del mondo che, in sintesi è questa, così come l’ha riassunta di recente: «Si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri». La sua idea sulla guerra basata sui «nuovi imperialismi» (plurale) è altrettanto chiara. Mentre il patriarca di Mosca Kirill la vede come una «guerra metafisica» del bene contro il male, Francesco la definisce «inaccettabile aggressione armata», «guerra ripugnante», «massacro insensato», «invasione», «barbarie», ma soprattutto «atto sacrilego». E dice direttamente a Kirill che «la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù»

Ecco: il linguaggio di Gesù. E qual è questo linguaggio? «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Matteo 5). Il Papa fa proprio quel messaggio della Conferenza episcopale dei vescovi cattolici ucraini che tempo fa aveva chiesto di pregare anche «per coloro che hanno iniziato la guerra e sono stati accecati dall’aggressione. Proteggiamo i nostri cuori dall’odio e dalla rabbia contro i nostri nemici. Cristo dà una chiara istruzione di pregare per loro e di benedirli».

Francesco agisce secondo lo spirito evangelico, che è di riconciliazione anche contro ogni speranza visibile durante questa guerra di aggressione. Traduce, dunque, Francesco in un tweet di ieri: «Il Signore non ci divide in buoni e cattivi, in amici e nemici. Per Lui siamo tutti figli amati». Il suo interesse primo non è la geopolitica, ma – come ha detto tre giorni dopo lo scoppio della guerra – la «gente comune, che vuole la pace; e che in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra». Fratelli tutti, dunque. Figli tutti. Da qui il grido «Fermatevi!», seconda persona plurale.

Due donne, Albina e Irina, nel Venerdì santo porteranno la Croce. Non diranno una sola parola. Neanche una richiesta di perdono o cose del genere. Niente. Sono sotto la Croce nel portarla. Scandalosamente insieme. Sarà un segno profetico mentre le tenebre sono fitte. Il loro essere insieme, figlie di Dio e sorelle di una guerra che da amiche le ha rese nemiche, è una invocazione a Dio perché ci dia la grazia della riconciliazione. La loro presenza insieme è una preghiera per chiedere una grazia che, secondo il Papa, solamente Dio può dare. La profezia si incunea nei cuori e nelle ombre della storia, facendola esplodere dall’interno come la resurrezione.

La Via Crucis è un rito con cui si ricostruisce e commemora il percorso doloroso di Gesù che si avvia alla crocifissione. Nel rito il dolore è rappresentato, introiettato, elaborato, assunto nelle piaghe e nelle cadute di Cristo. Evocare la riconciliazione nelle tenebre del dolore salva l’innocenza dei popoli, della «gente comune, che vuole la pace». Il Papa vuole che questa sporca guerra finisca, ed è per questo che mette sotto la croce di Cristo e sotto le sue parole – «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» – due amiche che la guerra ha etichettato come nemiche: una carnefice e l’altra vittima, dove la prima però in una intervista dice della sua amica «vittima»: «ho timore nell’esprimermi e nell’essere intervistata, mi sento molto più sicura e forte quando ho lei accanto a me».

E il Papa, mettendo insieme sotto la croce queste due donne che si stringono la mano nel toccare il legno insanguinato della croce, svolge il suo compito di pastore «cattolico», cioè universale. Così salva in questo tempo così duro, la cattolicità della sua fede e della sua Chiesa. La mette al riparo dal pantano dei nazionalismi e dalle alleanze – qualunque esse siano – tra trono e altare o tra parlamenti e chiese. È terribile e scandaloso. Ma questo è predicare il Vangelo di Cristo.


* direttore de «La Civiltà Cattolica»


(il manifesto, 13 aprile 2022)

di Marina Montesano


Avrei dovuto incontrare Chiara Frugoni pochi giorni fa a Genova, durante la manifestazione «La Storia in Piazza». Era attesa per parlare di donne medievali, ma poi aveva comunicato agli organizzatori di non sentirsi abbastanza bene da poter viaggiare, e aveva mandato un video di poco più di mezz’ora. Su richiesta degli organizzatori, un po’ preoccupati per la sua assenza, l’avevo introdotto in una sala gremita nonostante si sapesse che lei non ci sarebbe stata, e il pubblico aveva seguito attento il racconto di Chiara, alternato ad alcune immagini, da sempre il perno centrale dei suoi studi.

Un grande successo, tanti applausi e parole di apprezzamento, al punto che avevo pensato di mandarle una mail per complimentarmi e soprattutto per raccontarle il pomeriggio. Poi non avevo trovato l’indirizzo, poi la necessità di ripartire, gli impegni, la solita dannata fretta, e la mail non è stata spedita, con l’idea che tanto ci sarà occasione. Nel pomeriggio del 10 aprile, apprendendo la notizia della sua scomparsa, il primo pensiero è stato proprio quello dell’occasione mancata che non si ripeterà.

Non che Chiara Frugoni avesse bisogno di conferme. La sua fama è cresciuta negli anni grazie alla rara capacità di intrecciare fonti scritte e iconiche e costruirsi così una carriera inedita, accompagnata dalla pubblicazione di tante belle monografie. Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto (Einaudi 1993), Premio Viareggio per la saggistica del 1994, resta celebre e controverso per la proposta interpretativa; su Francesco era tornata molte volte: già l’anno successivo con Vita di un uomo: Francesco d’Assisi (Einaudi 1995, con introduzione di Jacques Le Goff) e poi a distanza di oltre vent’anni con Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore di Assisi (Einaudi 2015), un libro al quale teneva molto perché metteva a frutto tanti anni di osservazione dei particolari iconografici e che le aveva consentito scoperte importanti. 
Si era formata tra Roma (sia all’università sia presso l’Istituto storico italiano per il Medio Evo) e Pisa, ed aveva insegnato in entrambe le città dagli anni Settanta fino al 2000. Sul difficile rapporto con suo padre, lo storico medievista Arsenio Frugoni, evidentemente anche molto ammirato, si era aperta negli ultimi anni, anche grazie alla scrittura di memorie: consigliatissimo almeno il suo Da stelle a stelle. Memorie di un paese contadino (Laterza 2003).

Ha scritto su tanti argomenti diversi, con particolare riguardo alla storia culturale e delle idee, sempre tendo al centro il filo rosso del dialogo fra testo e immagine, un campo nel quale, soprattutto in Italia, ma non solo, ha fatto scuola.

L’impegno femminista, non militante ma saldo e convinto, in parte certamente frutto delle esperienze personali, si era fatto largo in alcuni scritti, fra i quali Una solitudine abitata. Chiara d’Assisi (Laterza 2007) nel quale scriveva: «Tutta la vita di Chiara fu segnata dall’incontro con Francesco. Tuttavia Chiara non visse all’ombra e dell’ombra di Francesco, come mi è capitato di leggere». Ecco, certamente vivere nell’ombra di altri (padri, mariti) non era per lei.

Il suo ultimo libro, quel Donne medievali. Sole, indomite, avventurose (Il Mulino 2021) che presentava a Genova, contiene una galleria di figure femminili diverse tra loro come Radegonda di Poitiers, Christine de Pizan, la leggendaria papessa Giovanna, Matilde di Canossa, Margherita Datini.

«Tutte hanno scontato con la solitudine il coraggio e la determinazione con cui hanno ricercato la piena realizzazione di sé», recita la presentazione; e sembra che Chiara Frugoni un po’ ci si riconoscesse, in queste donne alle quali la società patriarcale sembra aver fatto scontare l’indipendenza, ma che comunque sono arrivate a realizzarsi. Come concludeva nel video inviato alla «Storia in Piazza», alle donne è richiesto il doppio del lavoro di un uomo per essere considerate sue pari: ma per loro è comunque facile. Aveva strappato molte risate, quella frase era pronunciata con un sorrisetto ironico davvero molto «suo», che faceva sparire i segni della malattia. Ed è così che mi piace ricordarla.


(il manifesto, 12 aprile 2022)


È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2021 della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (190 pagine – 3,2 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it


(www.libreriadelledonne.it, 11 aprile 2022)

di Francesca Avanzini


Se ne parla ancora. Di questa donna nata nell’800 e morta in povertà nel 1957 che, per dirla brutalmente, non ha fatto niente in vita sua se non vestirsi (ma che vestiti, più abiti di scena che indumenti atti a coprire il corpo, precorrendo, come ha notato qualcuno, David Bowie e Lady Gaga) ancora oggi si parla.

Marta Morazzoni, nel corso della presentazione, tenutasi il 9 aprile presso la Libreria delle Donne di Milano, del suo libro dedicato alla marchesa Luisa Casati Stampa, Il risvolto dell’abito, dichiara, stimolata dalle domande di Laura Bosio e Rosaria Guacci, di esserne stata ossessionata, di più, contagiata. E pensare che, come spesso succede, tutto è nato da un incontro casuale o chissà, forse pilotato dall’aldilà, dato che la marchesa era un’occultista, “quando un musicista olandese mi ha chiesto di scrivere un libretto d’opera dedicato a lei. La cosa poi non è andata in porto, perché io di lei coglievo il lato borghese, lui, che poi ha fatto l’opera, quello mitico, e dunque non avevamo niente in comune. D’altra parte lei è stata il punto di incontro e scontro per molti artisti. Io, in fondo, ne ho fatto l’ultimo ritratto.”

Della sua vita eccessiva, del suo presentarsi a feste con un ghepardo al guinzaglio, accompagnata da erculei neri tinti d’oro (e salvati in extremis dal soffocamento); della chioma fiammeggiante, degli occhi bistrati e dilatati dalla belladonna per renderli più neri, oppure enfatizzati dal lucido da scarpe una volta finiti i soldi per i trucchi; del suo essere stata ritratta dai massimi artisti dell’epoca, da Boldini a Man Ray  a, unica donna, Romaine Brooks, non tanto musa ispiratrice quanto dea, perché non fu mai docile ninnolo nelle mani di chicchessia; del suo flirt con D’Annunzio, delle sue mille conquiste, tutto già si sa. Come si sa della sua enorme ricchezza proveniente dall’industria tessile, del suo matrimonio -in fondo senza amore, anche se produsse una figlia- con il marchese Casati Stampa, lui sposo per soldi, lei per il titolo.

Marta Morazzoni sceglie per lei un punto di vista inedito. “La guardo da un punto di vista laterale, la marchesa parla poco nel libro, che comincia dalla sua fine, nel 1932. La vediamo dal rovescio dell’abito, quando ha contratto debiti per 30 miliardi e il commercialista le annuncia: è tutto confiscato.” Lei non ha grandi reazioni. “Mi premeva”, continua Morazzoni, “raccontare l’impatto con la realtà, anche se lei è indifferente alle cose che le capitano.”

Un punto, questo, ben chiarito dalla scrittrice e giornalista Mariangela Mianiti durante il dibattito col pubblico: “Il denaro, per lei, è uno strumento per arrivare alla rappresentazione di se stessa. Rimane iconica anche senza denaro, fa parlare di sé ugualmente, continua a costruire se stessa come un personaggio di cui gli artisti tratteranno anche in seguito.”

Il rovescio dell’abito si riferisce anche a un’altra protagonista del romanzo, perché di fiction si tratta, non di biografia. “Non mi interessava scrivere una biografia”, chiarisce Morazzoni, “ce ne sono già di ottime, ma cogliere il lato umano al di là del mito.” Per questo le è funzionale la sartina Olga che interpreta i vestiti della marchesa ed è complice delle sue trasformazioni. Schiva e dimessa quanto l’altra è eclatante e sopra le righe, usa i guanti per toccare i preziosi lini e le sete destinati a drappeggiare il corpo divino. Inoltre la sua mano è così leggera, i punti così invisibili, che bisogna controllare il rovescio dell’abito per coglierne qualche traccia.

Olga è un personaggio inventato, ma serve all’autrice per introdursi nel mondo della marchesa, cogliere ciò che sta sotto la maschera e il travestimento.

“Non ho un’intenzione così ben chiara quando comincio a scrivere un libro”, spiega la scrittrice introducendoci nella sua fucina letteraria, “al contrario di molti non ho un piano definito.”

Quale che sia il metodo di scrittura, il mito permane, e il libro di Morazzoni vi aggiunge uno strato, invece di togliere il velo al mistero di questa folle protagonista. Bluff o artista precorritrice di tanti performer moderni, incarnazione di un’epoca e uno stile di vita e del suo tracollo, anticipatrice della modernità, oppure solo, come Madonna, ragazza non troppo avvenente che si prende una rivalsa planetaria?  O ancora, come Lady D., specchio su cui proiettare le proprie immagini?

Il mistero permane e, come tale, non è del tutto interpretabile.


(www.libreriadelledonne.it, 11 aprile 2022)

Il rovescio dell’abito di Marta Morazzoni, Guanda 2022.

Un originale controcanto per la vita eccezionale di eccessi e di cadute della marchesa Luisa Casati Stampa, la donna che, sullo sfondo di una irrequieta Milano degli Anni ’20, fece della sua vita un’opera d’arte. Marta Morazzoni, nota soprattutto per La ragazza col turbante, (Guanda 1986), tradotto in nove lingue, converserà del suo ultimo romanzo con la scrittrice Laura Bosio e con Rosaria Guacci.

Accesso con Super Green Pass e mascherina FFP2

Per acquistare online Il rovescio dell’abito:  https://www.bookdealer.it/goto/9788823528543/607

di Katrin Kuntz


L’estate scorsa, mentre i taliban avanzavano verso Kabul, una giovane politica afgana ha organizzato una protesta davanti al ministero della difesa. È scesa in strada con un cartello di cartone su cui aveva scritto un messaggio rivolto agli abitanti delle province che stavano capitolando una dopo l’altra: “Siate forti”. Shagufa Noorzai, 29 anni, a quel tempo era una delle parlamentari più giovani dell’Afghanistan. Di lì a poco Noorzai ha dovuto lasciare Kabul per fuggire dai taliban. Per dieci giorni si è nascosta in casa di amici, poi è rimasta chiusa nel suo appartamento per un mese. I taliban l’hanno cercata e l’hanno quasi catturata. Una mattina, quando suo padre ha aperto la porta di casa, l’hanno picchiato e hanno rubato la macchina blindata di servizio usata ogni giorno dal suo autista per portarla al parlamento, che da quando i taliban hanno ripreso il potere non si è più riunito. Noorzai ha perso il suo ufficio, il lavoro e quindi il reddito, e infine anche il suo paese. Ormai vive ad Atene, in Grecia, ed è qui che ci racconta la sua storia.

Una mattina di poco tempo fa, Noorzai e altre politiche afgane hanno attraversato i sobborghi della capitale greca a bordo di un minibus. Due ore dopo, il veicolo si è fermato in una strada stretta vicino alla centralissima piazza Omonia. Le donne sono scese. Noorzai indossava un coloratissimo soprabito ricamato, un foulard e tacchi alti. Era arrivata al nuovo posto di lavoro: la sede della Rete delle parlamentari afgane. Il suo compito ora è far sentire la sua voce affinché certe cose non siano dimenticate. È entrata nell’edificio dove ha sede il parlamento afgano in esilio e si è diretta al secondo piano, dove un’organizzazione umanitaria greca, la rete Melissa, ha messo a disposizione uno spazio. Con lei c’erano più di venti donne che fino a poco tempo fa avevano un seggio nel parlamento di Kabul. Chiacchieravano in un’atmosfera rilassata.

C’erano donne giovani e meno giovani, alcune provenienti da famiglie politicamente in vista, altre rappresentavano le minoranze presenti in Afghanistan. Erano lì per discutere come responsabilizzare e dar voce da lontano alle loro connazionali. Sanno bene che in Afghanistan la libertà delle donne è sempre più limitata. E non hanno nessuna intenzione di arrendersi.

Un luogo centrale

Per le parlamentari che hanno dovuto lasciare Kabul, Atene è diventata un luogo importante e centrale. Fino a quando i taliban hanno preso il potere nell’agosto 2021, tra camera bassa e senato le donne occupavano 69 seggi. Circa un quarto di loro oggi vive in Grecia. La Bbc ne ha rintracciate altre nove che sono rimaste in Afghanistan ma vivono nascoste. Le altre sono andate in Albania o in Turchia. Di solito, quando scappano dal loro paese, queste parlamentari rimangono ad Atene solo qualche mese, prima di ottenere nuovi visti e proseguire alla volta degli Stati Uniti, del Canada o del Regno Unito.

È sorprendente, però, che tra tanti posti siano finite proprio qui. In fondo la Grecia sembra fare il possibile per tenere fuori i profughi: per le strade si vedono spesso senzatetto provenienti dalla Siria, e quanto agli afgani, quando tentano di entrare via mare dalla Turchia, è noto che la guardia costiera greca spinge molti dei loro gommoni in acque internazionali. A causa di quei respingimenti, che violano il diritto internazionale, il governo di Atene è stato criticato da vari paesi. Tuttavia, ha accettato di accogliere le deputate afgane. In Grecia c’è perfino chi sospetta che il governo le voglia usare come paravento. Al tempo stesso, varie organizzazioni greche si sono attivate per mettere in salvo le attiviste dopo caduta di Kabul. Tra loro c’è la rete Melissa, che ha stilato un elenco di 150 afgane influenti e le ha aiutate a lasciare il paese. È così che la maggioranza è arrivata ad Atene insieme ai familiari: in tutto, circa ottocento persone.

Nell’ufficio della direttrice della rete Melissa, Noorzai, che ha fondato il parlamento in esilio insieme alla collega Nazifa Bek, racconta la sua storia. In modo fermo ma gentile, indica alle partecipanti dove sedersi. All’inizio ignora l’interprete. Ha la sicurezza di una donna che, in una società patriarcale, è riuscita ad arrivare molto in alto. «Vengo da una famiglia in cui gli ostacoli erano molti», racconta Noorzai: una famiglia pashtun dell’Helmand, una provincia molto conservatrice. I suoi genitori erano dipendenti pubblici: la madre lavorava a scuola, il padre nel settore agricolo. Entrambi l’hanno sostenuta mentre si faceva strada in politica, ricorda, «il problema erano i miei fratelli e sorelle, e i parenti». Quand’era più giovane Noorzai si è sentita spesso ripetere: «Non uscire così tardi», «Smetti di studiare e sposati! », «Questo le donne non possono farlo». Una volta, uno dei fratelli le ha addirittura offerto dei soldi perché abbandonasse gli studi. «Io però ho continuato a cercare di migliorare», racconta. Fin da bambina le piaceva leggere.

Dopo il diploma, ha seguito un corso da infermiera e accettato un lavoro con Medici senza frontiere. Si è iscritta a giurisprudenza e dal 2015 ha fatto la coordinatrice provinciale di un’organizzazione umanitaria locale attiva nella promozione dei diritti delle donne. Tra i suoi compiti rientrava l’organizzazione di laboratori per incoraggiare le donne ad avviare attività imprenditoriali a casa. Noorzai ha anche partecipato come osservatrice a processi contro uomini accusati di crimini contro le donne; è andata a parlare con giornalisti che raccontavano di quei reati da una prospettiva puramente maschile; ha anche discusso con mullah favorevoli al matrimonio forzato. «Il mio orizzonte si è allargato sempre più», dice, «e la mia rabbia è cresciuta».

Nell’Helmand Noorzai è diventata una celebrità, derisa e rispettata al tempo stesso. Qualcuno ha chiesto a suo padre se giudicasse la figlia adatta a rappresentare la provincia al parlamento nazionale. Ricorda di aver detto: «Non sono sicura». E il padre le ha risposto: «Almeno provaci». È cominciata allora quella che lei definisce «l’esperienza più forte della mia vita». Durante la campagna elettorale, tra le altre cose un attentatore suicida ha provato a farsi saltare in aria davanti a casa sua e un funzionario dell’ufficio elettorale le ha fatto capire che per assicurarsi più voti bastava passare due notti con lui, oppure dargli una bella somma di denaro. «Io però», dice Noorzai mentre gli occhi le si gonfiano di lacrime, «ce l’ho fatta senza mafia, senza soldi e senza diventare una vittima degli uomini».

La notte delle elezioni, per motivi di sicurezza, ha mandato la sua famiglia a casa di alcuni parenti. E così, nell’estate del 2018, a 26 anni, ha occupato il suo seggio nel parlamento di Kabul. In Afghanistan quell’evento ha fatto scalpore. Il suo ex ufficio è ancora visibile nelle foto su Facebook: sulla pesante scrivania di legno con decorazioni dorate spiccano pile di libri, un vaso di fiori e un computer portatile. Nelle foto Noorzai porta un foulard verde e rivolge alla camera uno sguardo disteso. All’epoca, ricorda, aveva tre segretarie e una guardia del corpo, per via delle minacce ricevute. «Nonostante questo», racconta, «ogni giorno ricevevo visitatori e mi occupavo dei loro problemi».

Conquiste vanificate

Ad Atene è venuta a trovare le politiche afgane in esilio una parlamentare europea, la tedesca Hannah Neumann, vicepresidente della sottocommissione diritti umani. Neumann si rivolge a loro da collega: «Questo è un parlamento eletto, dunque loro sono legislatrici a pieno titolo». Quando l’Unione europea discute di aiuti umanitari, dice Neumann, dovrebbe parlare con loro almeno tanto quanto con i taliban. Lei è venuta a sentire in che modo le parlamentari afghane ritengono che l’Europa dovrebbe comportarsi nei confronti del governo guidato dai taliban.

La prima a prendere la parola è Amena Afzali, ex ministra del lavoro nel governo di Hamid Karzai. Quando ha lasciato l’Afghanistan era senatrice: «Non so se parlare del paese al passato o al presente”, dice. «Eravamo un paese di persone molto istruite, di poeti, di scienziate, di menti geniali. I taliban hanno vanificato tutte le nostre conquiste». Per giunta, osserva, il paese ha enormi problemi economici, a cominciare dalla minaccia della carestia. «Vogliamo parlare anche per chi è rimasto in Afghanistan e soffre». Poi si fa avanti Malalai Ishaqzai, vestita completamente di bianco, e comincia un’accesa discussione sostenendo che l’occidente dovrebbe revocare le sanzioni contro l’Afghanistan affinché il governo possa ricominciare a pagare lo stipendio a medici e insegnanti. Invece Aziza Jalis sostiene la necessità di accelerare le evacuazioni: «Tutte quante abbiamo parenti rimasti in Afghanistan che non riescono a ottenere i documenti per partire», dice. A quelle parole una di loro, che è dovuta andar via senza la figlia, ancora priva delle carte necessarie, esce dalla sala in lacrime. A questo punto si alza Noorzai. «Chi di noi è qui in esilio», dice, «deve alzare la voce e protestare, perché serve a proteggere le donne rimaste in Afghanistan. Se il mondo tiene gli occhi puntati sulle afgane, i taliban non oseranno ucciderle».

La discussione dura due ore. Le donne parlano a voce alta, ogni tanto piangono insieme, finché una si alza in piedi con fare deciso e dichiara che le deputate sanno di non avere più potere ma i loro gesti, il loro modo di fare dimostrano che hanno fiducia in sé stesse. Hanno ancora reti solide: conoscono ambasciatori, organizzazioni umanitarie e hanno contatti con i governi. Certo, le addolora sentirsi così impotenti di fronte al disastro umanitario del loro paese. Giudicano un tradimento il ritiro delle potenze occidentali che le proteggevano. Una delle partecipanti riassume così la situazione: «Da una parte non ci ascoltano e dall’altra ci fanno fuori». In altre parole, l’Unione europea non sta facendo abbastanza per l’Afghanistan e intanto, nel paese, i taliban mettono a tacere le donne.

Al termine della riunione Noorzai si mette alla guida e ci conduce a Glyfada, il sobborgo di Atene dove le organizzazioni umanitarie le hanno messo a disposizione l’appartamento in cui abita insieme alla madre, alla sorella e a uno dei fratelli. Lungo il tragitto ci mostra al telefono alcune vecchie foto che la ritraggono – unica donna circondata da uomini – nel suo ufficio, mentre prende parte a ricevimenti ufficiali ma anche a manifestazioni di protesta di fronte al ministero della difesa. A quel tempo, per la sua campagna contro l’avanzata dei taliban, aveva scelto questo slogan: «La mia natura non accetta il silenzio».

È ormai sera quando Noorzai arriva a Glyfada. È il momento di uscire per la passeggiata quotidiana, tra negozi di lusso e ristoranti di sushi. Noorzai è giovane e sta cominciando una nuova vita. Ha chiesto un visto per il Canada, dove ha intenzione di frequentare l’università e forse aprire un sito dove vendere abiti tradizionali afgani. «Guardo avanti», dice. Ma il suo sguardo rimarrà per sempre rivolto anche al passato.


(Internazionale, 8 aprile 2022)

di Stefano Mauro


Per l’omicidio di Thomas Sankara, conosciuto come “il Che Guevara africano”, ucciso insieme ad altri 12 persone durante il colpo di stato del 15 ottobre 1987, le tre sentenze di ergastolo pronunciate ieri dalla corte di Ouagadougou sono andate oltre quanto richiesto dalla procura militare, ovvero 30 anni di carcere per l’ex presidente Blaise Compaoré e il comandante della sua guardia, Hyacinthe Kafando e altri 20 anni per Diendéré, con altri otto imputati condannati a pene che vanno da 3 a 20 anni di reclusione con l’accusa di «attacco alla sicurezza dello Stato». Il verdetto ha suscitato forti reazioni in sala. È stato accolto con grande sollievo dalle parti civili e dai parenti delle vittime. «È una pagina della storia del Burkina che è appena stata voltata», ha confidato un ex ministro Sankara. Sankara voleva «decolonizzare le mentalità» nel suo paese e in Africa, dove è diventato e resta un’icona a trent’anni di distanza – lo stesso attuale presidente Damiba si è più volte ispirato nel discorso di insediamento ai suoi ideali – cosa che gli attirò le antipatie di diversi capi di stato, sia in Africa che in Occidente. Invitò l’Africa a «non pagare il suo debito con i paesi occidentali», denunciò all’Onu le guerre «imperialiste», l’apartheid, la povertà, difese il diritto dei popoli oppressi all’autodeterminazione come in Palestina o nel Sahara Occidentale. Le decisioni che prese furono rivoluzionarie come il suo impegno sulle riforme sociali con numerosi progetti che avevano l’obiettivo di eliminare la povertà e la fame del suo popolo e che riguardavano la costruzione di scuole, ospedali o riforme per la parità di genere e la centralità della donna nella società burkinabé. Posizioni politiche forti che, insieme al tentativo di creare relazioni economiche tra alcuni paesi del Sahel per raggiungere «l’autosufficienza» e la «libertà da accordi commerciali con le potenze coloniali occidentali», gli attirò le antipatie di numerosi paesi: Stati Uniti e Francia in particolare. Dopo la pronuncia del verdetto, le parti civili si sono recate al memoriale di Thomas Sankara nella capitale. Durante tutto il viaggio, una folla di persone ha seguito il corteo. «La sua rivoluzione resta nelle menti e nei cuori del nostro popolo e in quello di tutti gli africani», aveva detto all’inizio del processo la moglie Mariam Sankara. «Con la sentenza di oggi il Burkina Faso, la Terra degli uomini onesti (nella locale lingua Djoula, ndr), dimostra di aver ascoltato la volontà del popolo», ha dichiarato all’agenzia Afp dopo il verdetto.


(il manifesto, 7 aprile 2022)

di Sandra Burchi


In questi giorni fra gli aggiornamenti che riguardano la cosiddetta fine dello stato di emergenza ci aspettavamo anche quelli che riguardano lo smart working o lavoro agile. Uscire dallo stato di emergenza per questa modalità di lavoro, a cui ci siamo collettivamente abituati dal marzo 2020, significa uscire dal sistema di semplificazioni che ne hanno permesso un’applicazione così estesa e accelerata, non proprio lineare.

A quanto pare bisognerà aspettare fino alla fine di giugno. Le aziende private possono continuare a remotizzare il lavoro secondo quanto sperimentato fin qui, nelle aziende pubbliche gli accordi sono già obbligatori e anche i regolamenti sull’accessibilità, cambia la situazione dei lavoratori fragili. 
Ma abbiamo imparato il lavoro smart? e si è veramente realizzata quella rivoluzione che sgancia i lavoratori e le lavoratrici dall’obbligo del cartellino per consentire loro un’autonomia di gestione tutta impostata sul raggiungimento di obiettivi concordati? Sì e no.

Abbiamo imparato che lavorare da remoto si può, e del resto era già possibile, in molti casi non è stato fatto molto di più che attivare una Vpn, ma non si è andati molto più in là di un trasferimento a casa della prestazione. 
Quello che è stato applicato è un modello di lavoro definito da più parti “ibrido” che mescola telelavoro – con tanto di coerenza di orari di ufficio, reperibilità, incremento di sistemi di controllo – e lavoro agile – presa in carico degli obiettivi e autonomia organizzativa.

Un lavoro da casa ancora in via di definizione, con poco sforzo da parte delle imprese private e pubbliche in termini di digitalizzazione e management, ma su cui, va detto, c’è un interesse generalizzato. Arrivare a una riduzione significativa – ma non definitiva – degli spostamenti quotidiani casa-lavoro è possibile, ma bisogna evitare che diventi un “privilegio” concesso dai datori di lavoro, o un permesso strappato a maldisposti dirigenti della pubblica amministrazione.

I disagi di un trasferimento di massa, le complicazioni di una conciliazione lavoro/famiglia sperimentata nelle condizioni estreme del lockdown o del susseguirsi di quarantene, non ha ridotto l’interesse per la possibilità di arrivare a forme più flessibili e individualizzate dell’orario lavorativo. È un interesse da leggere fra le righe che non sottostima la necessità di un sistema di regole chiare che tenga in equilibrio diritti e doveri di tutti e che metta in circolo, redistribuendoli, i guadagni che sembrano evidenti da parte delle aziende (diminuire la presenza dei dipendenti in sede diminuisce i costi, va da sé).

Il desiderio di voler continuare a lavorare anche a distanza verificato da indagini e ricerche, soprattutto se letto secondo un’ottica di genere, aspira a un miglioramento di quanto sperimentato fin qui. Il lavoro agile non può essere inteso come una misura di conciliazione tout court, semmai come uno degli elementi a disposizione per una riprogettazione su larga scala dei tempi e dei luoghi del vivere e del lavorare.

La possibilità di lavorare da remoto, di organizzare diversamente il tempo quotidiano, deve essere inserita in una serie di aggiustamenti che riguardano la vita sociale nel suo complesso, welfare compreso, senza lasciare alle donne il compito di prendersi cura di tutto quello che non torna. Eppure la possibilità di adottare un modello di lavoro agile, modulare e articolato e che prevede forme di autogestione sembra rientrare nelle prospettive di molti lavoratori e lavoratrici dipendenti.

Al momento leggere questo desiderio di lavoro agile, parziale, flessibile, modulare non è difficile. Dopo due anni di pandemia da più parti si leggono i segnali di una resistenza a riprendere il ritmo come niente fosse, alle condizioni di sempre, nel quadro di un’economia della crisi a cui, anche in Italia, si è risposto con la richiesta di una disponibilità crescente da parte di chi ha un lavoro o di chi lo cerca: livelli retributivi incongrui e inadeguati e precarietà diffusa.

I luoghi di lavoro sono stati abitati da logiche che mentre inneggiano al benessere organizzativo naturalizzano la competitività o, quando va meglio, la produttività intensiva e il ritmo accelerato. Forse il desiderio di alternare lavoro a distanza e lavoro in presenza va letto semplicemente così, come il desiderio di allentare la presa, di scegliersi il modo di lavorare, di complicarsi la vita con un’organizzazione da inventare (perché non diventi più solitaria e oppressiva) ma che ritrovi un ritmo diverso.

Decelerare. È un’aspirazione più che una certezza, ma c’è. Abbiamo visto che a distanza si può anche lavorare di più, che si corre il rischio – senza un orario rigido – di lavorare sempre, lasciando il computer sempre acceso sul tavolo o in testa, ma l’aspirazione resta. Non si tratta solo di risparmiare ore di traffico, e già questo non è poco, o gli spostamenti ripetitivi che tolgono ai pendolari ogni giorno ore di vita, si tratta del desiderio di sottrarsi alle ansie di prestazione proprie e altrui.

Certo si possono trasferire a casa, ed è questo il rischio più grande su cui azionare dispositivi di protezione, ma c’è qualcosa nell’alternanza dentro-fuori (che dovrebbe essere il cuore del lavoro agile), in quella flessibilità, in quella possibilità di autogestione che lascia sperare in un miglior uso del tempo, in giornate più equilibrate e, perché no, più sensate.

Stanno succedendo altri fenomeni da leggere così, nel pieno di contraddizioni evidenti. Richieste di lavoro che vanno deserte, intere categorie che reclamano la mancanza di lavoratori e lavoratrici, dimissioni volontarie. Forse è il momento, uscendo da questa ennesima sovrapposizione di crisi, di ripensare il lavoro, semplicemente di pagarlo di più, di dotarlo dei diritti adeguati e di uscire dalla logica verso cui anche la pandemia ci ha spinti, per cui tutto quello che dovrebbe essere normale ha preso il nome di privilegio.


Sandra Burchi è ricercatrice. Ha svolto per Ires CGIL la ricerca: «Due anni di smart working. L’esperienza delle donne in Toscana»


(il manifesto, 6 aprile 2022)

di Luciana Castellina


Il pacifismo, venuto alla ribalta già in occasione della prima guerra mondiale, e poi cresciuto e diventato addirittura «Seconda potenza mondiale» – come ebbe a titolare la sua prima pagina il New York Times a commento delle manifestazioni mondiali che il 15 febbraio del 2003 si tennero contro la seconda guerra all’Irak – è tornato alla ribalta. In Italia forse più che altrove per via delle più ridicole ossessive accuse ai pacifisti che stanno animando le trasmissioni delle nostre tv: quella di essere amici di Putin, i più indulgenti degli sprovveduti idealisti, infantili, incapaci di prender atto della realtà nuda e cruda. Realisti, e consapevoli di quanto accade, e perciò autorizzati a orientare il che fare, sarebbero invece quelli che invocano le armi per fermare la guerra.

Ma davvero pensano che si possa riportare la pace in Ucraina ed evitare una generale deflagrazione bellica aumentando la potenza distruttiva delle armi e coinvolgendo altri paesi nel conflitto militare? A sentirli parlare sembrerebbe siano restati indietro al vecchio ’900, ai tempi della bella Guerra fredda, quando l’esistenza stessa di due sole grandi potenze garantiva una qualche deterrenza e il nucleare era racchiuso in grandi bombe chiaramente situate sotto il comando unico dei capi di Stato. Così non è più: è vero che la terribile bomba è tutt’ora in possesso soprattutto di due grandi potenze, Russia e Stati Uniti, ma anche oramai – questo è quel che sfugge ai «realisti» – non solo a molti altri Stati, ma anche a forze militari ufficiali e a foreign fighters, volontari o assoldati.

Le nuove tecnologie, come era naturale, conquistano anche il florido settore delle armi e oggi sul mercato ce ne sono molte che contengono la mortale energia. Anche di piccolo taglio, tattiche, a medio raggio, inserita in ogni tipo di arma. A disposizione di chi vuole. È per questo che a cominciare dal Papa si è compreso che oggi le guerre non si possono più rischiare, nemmeno quando sono giuste (e quella dell’Ucraina contro la Russia che invade è più che giusta).

Solo i dinosauri potrebbero ritenere che con l’evolversi del tempo le guerre rimangano uguali a quelle della loro epoca; o che i nuovi eroi da sacrificare (i giovani ucraini che è naturale vogliano rispondere all’aggressore) possano essere come i famosi eroi del nostro Risorgimento, fra questi quelli che sbarcarono a Sapri per combattere i Borboni. Ma che, come recita il testo che tutti conosciamo dalle elementari, «eran trecento, erano giovani e forti, e sono morti». Oggi un qualsiasi conflitto potrebbe innescarne uno che di morti potrebbe farne miliardi. 
Il pacifismo, del resto, non si caratterizza solo per dire no alle armi. È, e ha provato ad essere, un movimento che riflette su come oggi deve e può essere regolata la politica internazionale, come sia possibile non rinunciare a battersi quando si è aggrediti ma occorra farlo con strumenti più adatti, politici e non militari.

E però di cosa sia il pacifismo reale, di come in particolare sia diventato un grande movimento popolare negli anni ’80 affollando le piazze europee di giovani armati dello slogan «per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali» – mai purtroppo diventato base della politica europea dopo la caduta del Muro –, si sa poco. Ed è per questo che è preziosa l’interessante pubblicazione da parte di Sbilanciamoci di un bel libretto collettivo che ne ricostruisce la fisionomia attraverso la voce di tanti, di ogni parte del mondo, che ne sono stati, e ne sono tutt’ora, protagonisti: I pacifisti e l’Ucraina. Le alternative alla guerra in Europa, curato da Martin Köhler (pacifista tedesco che a lungo si fermò a combattere con noi a Comiso), e Giulio Marcon (è un e-book che potete trovare sul sito sbilanciamoci.info, cui si può anche chiedere di averne un po’ di copie stampate).

Fra chi scrive, docenti della John Hopkins University, della City University di New York, della London School of Economics di Londra, del Quincy Institut di N.Y., della Scuola Normale Superiore di Firenze, della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, un deputato al Bundestag tedesco della Linke, il segretario del Movimento pacifista ucraino e un giornalista del New York Times. 
Affrontati tutti i temi della vicenda attuale, anche raccontando le esperienze passate, e, inoltre, alcune – lucidissime – analisi dello stesso Kissinger su come sia facile entrare nelle guerre, ma quanto più difficile sia uscirne. «Io – dice l’ex potente sottosegretario del ministro Regan – nella mia carriera ne ho viste quattro e tutte sono terminate con ritiri unilaterali» (e ancora non aveva visto l’Afganistan). Un insegnamento per vinti e pseudovincitori.


(il manifesto, 6 aprile 2022)