di Tiziana Nasali


Una decina di ragazzine, fra i quattordici e i quindici anni, mesi fa ha costituito una banda con lo scopo di aggredire verbalmente e fisicamente coetanee più deboli (body shaming, insulti razzisti, schiaffi, pugni…). Le aggressioni venivano regolarmente riprese con i cellulari e poi divulgate in rete per acquisire rispetto, approvazione, notorietà e annientare la reputazione delle vittime.

Le ragazze della “Baby gang”, nome da loro scelto per la chat di WhatsApp, sono chiamate dalla stampa “mini bulle” e, a quanto si legge, non sembrano avere particolari situazioni di disagio alle spalle; il modus operandi emerso dalle indagini è lo stesso di tante altre bande di giovani adolescenti maschi.

Il fenomeno di ragazze protagoniste di atti di bullismo e cyberbullismo, ormai da qualche anno è in aumento o perlomeno così sembra dalla risonanza sui media. È vero che donne violente o sadiche ci sono sempre state – probabilmente ci saranno sempre e questo non inficia certo la libertà femminile – ma la violenza e il sadismo in passato potevano essere reazione allo stato di servitù in cui erano tenute. Oggi, invece, in un mondo in cui le donne sono ovunque, hanno la possibilità di realizzare i loro desideri e nascere donna è “un’indicibile fortuna”(1), ci si può legittimamente aspettare che le ragazze trovino “attività più onorevoli”(2) dell’essere bulle e dell’imitare i maschi.

Mi colpisce quindi che molte giovani siano ancora catturate dall’imitazione di modelli maschili, e penso che una delle ragioni per cui questo avviene, stia nella narrazione che la politica e i media, con poche lodevoli eccezioni(3), fanno della libertà femminile, continuando petulantemente a interpretarla solo come aspirazione alla parità, come se comportarsi come gli uomini fosse la cosa più desiderabile per una donna. Ma la cultura della parità, se non resta confinata al suo proprio ambito, quale può essere, ad esempio, la parità dello stipendio per lo stesso lavoro, rivela la sua miseria e riduce alla misura maschile ciò che non può esservi ridotto, le donne. E così facendo, perpetua stereotipi che inducono nelle ragazze odio nei confronti di sé stesse e delle altre e generale disvalore per il femminile. 

È la differenza sessuale il punto da cui giornalisti/e ed educatori/trici devono partire per impostare una lettura più sensata dei fatti. Non serve apostrofare le ragazzine come bulle, talvolta con malcelato compiacimento, quasi a voler sancire che non ci sono differenze fra maschi e femmine. Occorrono giornalisti/e che vadano a fare indagini serie per capire che cosa porta giovani donne a scimmiottare i peggiori comportamenti maschili (tra l’altro ci sono voluti decenni per ottenere che il femminile venisse usato per ministra, avvocata, e un attimo per passare da bullo a bulla). Che cosa inquieta dunque queste ragazze? Emma Ciciulla del collettivo femminista Le Compromesse, scrive su VD3 del 16 marzo 2022 che a quattordici anni si sentiva esposta a due input particolarmente pervasivi, i media misogini classici, come la televisione italiana, e ancora di più un certo femminismo che aveva avvicinato su Facebook e su Instagram. Un femminismo mainstream che sostiene che la libertà sia libertà di sedurre e che, da almeno una decina di anni, ha come target le giovanissime che vengono incoraggiate ad aderire senza esitazione a quegli standard di femminilità che il patriarcato pretende di imporre. Emma si riferisce in particolare a post di pagine femministe che “spingono le donne a indossare capi sessualizzanti e a esplorare quella sessualità pornificata tanto cara agli uomini”(4).

Le ragazze della Baby gang non aderiscono a uno standard di femminilità patriarcale ma assumere comportamenti di virilità, deviante o meno, a me pare sia l’altra faccia della stessa medaglia: è questa la pressione che le giovani sentono e in cui si dibattono. Ed è questa la pressione che la stampa e la politica dovrebbero indagare: le ragazzine “bulle”, violente soprattutto con le loro simili e prodotto anche di questa cultura della parità, ci dice tutta l’urgenza di cambiare linguaggio e narrazione per capire il presente. Occorre la consapevolezza che solo con una lettura significativa si può smettere di alimentare una cultura sessista, dannosa per gli stessi uomini, tanto che anche alcuni di loro iniziano a criticarla e parlano esplicitamente di mascolinità tossica. Si smetta quindi di ignorare colpevolmente il pensiero femminista, anzi si inizi a studiarlo. Soprattutto per chi opera nel settore dell’informazione, dell’educazione e della politica, non è più cosa rimandabile.


Note:


1. Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, 2011.

2. Espressione mutuata dal titolo dell’articolo di Clara Jourdan, Creare attività più onorevoli della guerrasul sito della Libreria delle donne in Contributi, 9 marzo 2022 (https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/creare-attivita-piu-onorevoli-della-guerra/).

3. Una di queste lodevoli eccezioni è costituita da Giulia Giornaliste, associazione di professioniste che si pone l’obiettivo di trattare temi che riguardano le donne con un linguaggio privo di stereotipi: https://giulia.globalist.it

4. Emma Ciciulla, Quando il “femminismo” ti vuole donna-oggetto, VD3, 16 marzo 2022, (https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/quando-il-femminismo-ti-vuole-donna-oggetto/).


(www.libreriadelledonne.it, 11 maggio 2022)

di Luciana Castellina


Quelli che abbiamo passato sono stati tre giorni nei quali si è impennata la curva dell’escalation bellica, che comincia tuttavia a produrre qualche crepa nel fronte guerriero. Succede perché le parole del segretario generale della Nato che ha annunciato l’entrata in guerra contro la Russia hanno cominciato a suscitare un po’ di paura e anche qualche irritazione nei confronti del grande alleato americano che comanda l’Alleanza atlantica: la guerra, infatti, si farà in Europa, non dall’altra parte dell’oceano, dove si continua a pensare che siccome la fanno gli altri per procura o da remoto, può essere invocata a cuor leggero.

E tuttavia, nonostante qualche inizio di riflessione autocritica, i governi europei, e chi gli Stati uniti li sostiene con fervore, marciano ancora verso la catastrofe agli ordini di Biden. Sebbene Stoltenberg non potesse esser stato più chiaro, come riporta con esattezza il quotidiano tedesco Die Welt, fra i pochi che hanno riferito senza tentare di sminuirne il significato, nel suo discorso ha detto: «I membri della Nato non accetteranno l’illegale annessione della Crimea. L’Ucraina deve vincere questa guerra perché difende il suo paese».

E questo immediatamente dopo che Zelenski, per la prima volta, aveva accennato ad un possibile negoziato, accettando che per il momento si discuta del Donbass, senza mettere sul tavolo la ben più difficile questione della Crimea.

Senza chieder conto alla Nato dell’aver praticamente dato avvio alla Terza guerra mondiale senza consultare nessuno, nell’incontro a Ramstein, base militare Usa in Germania, i più di quaranta alleati occidentali o quasi, alcuni inizialmente prudenti, stavolta non hanno battuto ciglio. E altrettanto hanno fatto i “7 Grandi”. Sebbene il segretario alla difesa americano, Lloyd Austin, abbia rafforzato la minaccia di Stoltenberg dicendo: «Ora che gli ucraini hanno ricevuto le nostre armi moderne e offensive, i russi possono esser battuti. Basta accentuare un po’ per ottenere la capitolazione di Putin».

Come? Come possibile esito, per l’appunto, di uno scontro mondiale, già peraltro innescato, visto che i più influenti quotidiani americani – rimproverati dalla Casa Bianca – e poi gli stessi Servizi Usa ci hanno informato del ruolo diretto degli Stati Uniti nella guerra ucraina già in atto.

Non so se tutti si rendano conto di cosa tutto questo significa: poiché è evidente che la Russia difficilmente può esser vinta militarmente, comunque certo non nel breve periodo ma dopo una devastazione dell’Europa prolungata per molti anni. Significa che gli orrori di quanto accade in Ucraina – giovani cadaveri di combattenti e di donne e bambini lungo le strade, case, scuole, ospedali, auto distrutte che vediamo ogni sera in tv – potremmo vederli dalle nostre finestre. Purtroppo temo ci sia una pericolosa sottovalutazione del futuro che ci aspetta se non riusciamo ad imporre un’altra linea, quella di un negoziato subito che lasci per ora perdere la Crimea e punti a trovare una soluzione per le regioni meridionali così come si è trovata in Europa per tanti altri territori dove convivono due comunità.

In questa direzione, dicevo, si è mosso qualcuno che fortunatamente si rende conto. In primo luogo il neo-confermato presidente francese Macron nel suo lungo discorso di ieri, esplicitamente rivolto a Stoltenberg ha dichiarato: «Non siamo in guerra con la Russia» per aggiungere: «Spetta all’Ucraina definire i termini del negoziato». E fra gli stessi esperti interrogati nei quotidiani show televisivi, qualcuno ha preso il coraggio di dire «forse no». Lo ha fatto con molta chiarezza Giampiero Gramaglia, dello IAI, ricordando che non c’è affatto un fronte mondiale compatto dietro l’occidente, solo l’India e la Cina rappresentano il 40% della popolazione mondiale. Analoghe posizioni in un’altra esperta, dell’Ispi.

Con la prudenza d’obbligo per un diplomatico, dubbi li ha espressi persino l’ambasciatore italiano a Kiev, Zazo, dicendo che l’Ucraina – per cui si prevede già ora una diminuzione del Pil del 50 % – ha bisogno al più presto della pace, dunque di una trattativa. E ha aggiunto «Abbiamo il dovere etico di contribuire a una soluzione».

Più oscillante il cancelliere tedesco Scholz, pressato dal suo vice Verde che pur viene da una tradizione pacifista ma ormai guerrafondaio. Prima ha infatti detto che non è vero che la Costituzione tedesca proibisce la guerra (come la nostra), la vieta solo se la fa da sola, non se la fa con l’Ue e la Nato. E però poi ha aggiunto che Berlino comunque non farà mai in Ucraina quello che il partito della guerra vorrebbe fare (in Ucraina).

Più significativo di tutti Alan Friedman, che ancora l’altro giorno ho dovuto affrontare in televisione, e che ieri ha scritto sul New York Times: «Non siamo più in una guerra indiretta contro la Russia, ma piuttosto passando a una guerra diretta. E nessuno ha preparato a questo il popolo americano e lo stesso Congresso».

E Draghi – che a Washington riceverà il premio di leader internazionale, assieme (è curioso) al presidente dell’Eni De Scalzi – che andrà a dire a Biden? Che il popolo italiano è stato invece preparato allo scontro mondiale? Forse non lo sapremo con chiarezza, così come non sappiamo quali siano gli impegni assunti con la Nato, né noi né il nostro Parlamento, dove a chiedere almeno di esser informati a quale titolo la Nato dice di parlare anche per conto dell’Italia, sono ancora pochi: Sinistra italiana, il gruppetto variegato chiamato Manifesta, un po’ di deputati 5 Stelle, e per fortuna Conte, che a nome del suo consistente partito pur al governo, sta chiedendo che, almeno, prima di entrare in guerra con la Russia ne venga informato il Parlamento.

Sola consolazione per ora, una gran mobilitazione del movimento femminista contro la guerra. Con la sua parola d’ordine: «Il femminismo si preoccupa della difesa degli umani, non degli Stati».

La Russia ha intanto celebrato la sua festa della vittoria con grande dispiegamento militare (come sempre, del resto) ma con un discorso di Putin meno minaccioso del solito se non sulla difensiva: l’attesa – annunciata da tanti – dichiarazione esplicita di guerra all’Ucraina non c’è stata.

Io comunque vi confesso che quando in questa tradizionale parata vedo sfilare i veterani, quelli sopravvissuti ai 25 milioni di russi caduti per salvare il loro paese ma anche tutti noi, mi commuovo. Mi arrabbio molto, invece, quando Putin ripete che tutto l’Occidente è nazista. È vero che è arrogante e ne ha fatte, e continua farne, di cotte e di crude, ed è altrettanto vero che la nostra democrazia è fortemente deteriorata. Ma è comunque certamente meglio del regime che Putin ha imposto alla Russia, e soprattutto che non è proprio vero che siamo tutti nazisti.


(il manifesto, 10 maggio 2022)

di Mariangela Mianiti


Che sia stata strumentalizzata o fraintesa, come sostiene lei, Elisabetta Franchi un risultato lo ha ottenuto. Le giovani donne, come le cinque che ho accanto in pausa pranzo a Milano, stanno discutendo di quanto sia complicato conciliare lavoro e maternità, perché è sempre quella la questione dirimente nella vita di una donna italiana. Fai figli o carriera? L’imprenditrice bolognese, che con il marchio suo omonimo fattura cento milioni di euro l’anno e vende abiti soprattutto in Europa, paesi arabi e Russia (chissà come farà ora), ha detto al convegno «Donne e Moda. Barometro 2022» organizzato da PWC Italia e il quotidiano Il foglio che nella sua impresa l’80 per cento dell’occupazione è femminile, ma se deve affidare un ruolo dirigenziale a una donna la sceglie sopra gli anta perché: «Se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello. Dopo questi giri di boa sono più libere, hanno meno sensi di colpa e sono al mio fianco h24». 
Ha aggiunto: «I figli li facciamo noi. In casa il camino lo accendiamo noi. Se investo in una donna non anta, poi questa vuole giustamente una famiglia, sposarsi, fare le vacanze, andare dal parrucchiere e se decide di far figli io mi ritrovo, come imprenditrice, con un buco in una posizione strategica e non posso permettermelo. Io ho due figlie, ho fatto due tagli cesarei organizzati e dopo due giorni ero già a lavorare con i punti che davano fastidio perché non puoi respirare, non puoi mangiare, non puoi fare nulla. È un grande sacrificio essere imprenditrice e donna». Lasciamo perdere il fatto che, come ha sottolineato nello stesso convegno Linda Laura Sabbadini, «I servizi in Italia non esistono. Solo il 12% dei bambini riesce a entrare in un asilo nido pubblico.

Nel 2000 è stata votata la legge 328 che prevedeva di aumentarli e non è mai stata applicata». Mettiamo da parte il particolare che là dove ai padri è caldamente consigliato e pagato un lungo congedo parentale (vedi Svezia) i livelli di occupazione femminile sono altissimi. Sorvoliamo sulla questione che mica tutte hanno voglia di vivere il parto come se fossero al fronte programmando cesarei e andando in ufficio con i punti addosso. Accantoniamo pure le esigenze del neonato che, magari, avrebbe voglia di strafugnarsi contro il corpo di colei che per nove mesi se l’è portato dentro. Messi in sospensione questi aspetti, una cosa mi ha colpito del pensiero di Elisabetta Franchi, quel cercare donne disponibili a viverle accanto h24, formula molto usata fra le forze dell’ordine.

C’è in quella visione, un’idea di bios funzionale solo al lavoro, un pensiero di dedizione assoluta, di cessione totale del tempo e di sé, come se, una volta svolto il compito di scodellatrice di nuove generazioni, l’ideale fosse votarsi anima e corpo a un lavoro, a un’azienda, a una missione, peraltro altrui. Quindi non più lavorare per vivere, ma vivere per lavorare. Torno alle mie giovani vicine di tavolo e sento una dire: «Che cosa ci potrebbe succedere se restassimo incinte una dopo l’altra? Che ci dicono chi deve tenere il bambino e chi no per il bene dell’azienda? E chi ci assumerebbe prima dei quaranta se tutti ragionassero come la Franchi?» 
Visto che produce abiti, sono andata a vedere la collezione Ef, tanto per capire a che tipo di donna si rivolge. Fra tubini fascianti, miniabiti con lucchetti, robe manteau paramilitari, mise da red carpet con smerli, ricami e paillettes, ho capito quando dice «Il camino lo accendiamo noi». Un camino metaforico, s’intende.


(il manifesto, 10 maggio 2022)

di Peter Freeman


Per quattro giorni le donne di Rimini sono state esposte alla cultura dello stupro. Senza difesa e senza altro riparo che starsene chiuse in casa. È accaduto durante il raduno nazionale degli Alpini nel corso del quale 400mila maschi sono calati in città e una parte di loro, secondo la più classica logica del branco, si è sentita libera di esprimere la propria idea della donna e della virilità maschile. Alcool e libagioni hanno fatto il resto, e questo non rappresenta in alcun modo un’attenuante.

Qualche testimonianza:

«Mentre tornavo a casa mi hanno fermato e al mio categorico no al loro invito a ballare mi hanno detto: scopa di più. Mi hanno fischiato, hanno cercato di abbracciarmi e toccarmi ovunque, mi hanno detto che ero una “bella passerotta giovane”. Mi sono sentita male, malissimo, tanto da piangere per tutto il tragitto».

«Sono una barista riminese. Un alpino ha provato a leccarmi sulla bocca mentre prendevo un ordine al tavolo, uno ha mimato un atto sessuale mentre mi giravo per sparecchiare. Un altro mi ha spinto in modo da farmi sedere sulle sue ginocchia. I commenti neanche li conto perché sarebbero troppi».

«Sono stata insultata per tutta la giornata, io rispondevo a tutti perché sono fatta così e mi faccio rispettare. Sino a che uno di loro è stato particolarmente pesante, io inizio a insultarlo, lui mi prende e mi dà uno schiaffo facendomi cadere».

«Ero arrivata al punto che dovevo tenermi la borsa per proteggermi il sedere e mettermi il braccio davanti al seno. Successivamente siamo andate a Marina centro, in una stradina interna siamo state seguite da tre signori sulla sessantina che ci urlavano quanto fosse possente il loro membro… un carabiniere li ha fatti allontanare. Al ritorno, ero da sola, benché al telefono con un amico: mi ha fermata uno di loro per chiedermi come raggiungere la ruota panoramica, si è presentato e quando ho dato la mano per salutare me l’ha presa e attirata contro il suo membro, io l’ho spintonato e mi sono messa a correre verso casa».

«Ci riprendevano col telefonino e commentavano: quanto siete puttane, se potessimo scoparvi».

Testimonianza di una receptionist: «dodici alpini che volevano portarmi in doccia con loro: e non so come sarebbe finita se non fosse intervenuto il mio collega, maschio».

«Per tre giorni mi hanno detto di tutto. Se mi sporgevo per passare i piatti in cucina mi sentivo urlare “che sport fai per avere questo bel culo?”».

«Sono entrata in un bar alle 8 di mattina e tre alpini ubriachi mi hanno accerchiata. Hanno iniziato a tirarmi per la giacca e a toccarmi. Nessuno intorno a me ha detto niente».

«Ero in bicicletta, mi hanno fermata e hanno cercato di farmi entrare in un capannone».

«Si muovevano in branco, si sentivano forti della penna nera in testa e hanno potuto fare quello che volevano senza che nessuno dicesse niente».

«Avevo la mascherina e hanno cominciato a gridarmi di toglierla. Poi sono passati ai commenti fisici: avevo una giacca larga e loro mi hanno toccato la pancia chiedendomi se ero incinta. Mi sono divincolata e ho dovuto farmi spazio con i gomiti per riuscire a liberarmi. Allora mi hanno gridato che sono “frigida”. Mi hanno lasciata in pace solo perché è entrata un’altra ragazza e si sono spostati verso di lei».

Le testimonianze di questo tenore sono più di 150 e sono state raccolte dalle donne di Non Una di Meno che già avevano raccolto denunce in occasione di un altro raduno nazionale degli alpini tenutosi a Trento.

Le reazioni “istituzionali”, come sempre accade in queste circostanze, sono semplicemente desolanti. Per il Ministro della Difesa, Guerini, i comportamenti denunciati «sono gravissimi», ma «sarebbe sbagliato fare generalizzazioni». Manca la frase rituale sulle “poche mele marce” ma prima o poi arriverà.

Il sindaco di Rimini, che non si è accorto proprio di nulla, non lui e nemmeno le forze dell’ordine, parla di “sfida vinta” con riferimento agli incassi.

Salvini, vabbè, lui sta con gli alpini: sono voti, quelli.

Per raschiare il fondo del barile bisogna però andare alla presa di posizione dell’Associazione Nazionale Alpini, il cui presidente, Sebastiano Favero, ha rilasciato le seguenti perle:

«Ho chiesto se ci fossero state denunce. La risposta è stata negativa. È chiaro che se ci sono denunce circoscritte e circostanziate prenderemo provvedimenti, ma al momento non ne risultano. Vogliamo i fatti». E dunque: no stupro, no fatti. Ma soprattutto: «Ci sono centinaia, se non migliaia, di giovani che pur non essendo alpini, approfittano della situazione e a costoro, per mescolarsi alla grande festa, basta infatti comperare un cappello alpino, per quanto non originale, su qualunque bancarella».

I soliti infiltrati. Molti.

Ecco, una domanda a Favero andrebbe posta. Perché mai tutti questi infiltrati, porci, violenti, maleducati, ubriaconi, molestatori seriali, cultori della “bella passerotta” da palpare e inseguire per strada, si sono precipitati proprio a Rimini? Quale ambiente pensavano di trovare lì, a un raduno nazionale degli alpini? Perché lì e non, invece, a un raduno nazionale delle ACLI?

Forse perché in un posto in cui circola un Ape Car con la scritta “Viva la gnocca”, o è esibito uno striscione “Arrivano gli alpini, f**a a nastro”, o dal palco si scandisce lo slogan “Stiamo sempre sulle cime, ma quando scendiamo a valle, attente ragazzine”, l’infiltrato respira un’aria di casa, avverte una certa disponibilità ambientale.

Chi scrive è cresciuto da ragazzo in una zona pedemontana dove aver fatto il servizio militare nel corpo degli alpini era ed è considerato un merito, ed è stato testimone diretto di almeno due raduni nazionali dell’ANA. Dunque non ha nulla contro gli alpini. Ma ricorda bene una delle canzoni che venivano talvolta cantate a quei raduni, e una strofa in particolare: «Quando che ci fu la guerra / contro l’Inghilterra e insieme alla Germania / le vulve fuggivano “zigando” Viva l’Italia e gli alpin». Ecco.

Concludo con una considerazione. Vorrei che fossero gli uomini, soprattutto gli uomini, a imbestialirsi per quello che è accaduto a Rimini. Perché è giunta l’ora di marcare la distanza da questo branco di maschi stronzi. Senza alcuna ambiguità.


Peter Freeman è giornalista (a il manifesto dal 1988 al 1999, poi collaboratore di altre testate e di Rai Cultura e Rai Storia)


(Facebook, 10 maggio 2022)

di Giuseppe Frangi


Nella storia di Corrado Levi, il caso gioca sempre un ruolo importante. Lo gioca con molta grazia e leggerezza. Nell’immediato dopoguerra, mentre era impegnato a recuperare gli anni perduti facendo l’università a tappe forzate, si era recato in visita a Ottone Rosai nel suo studio di Fiesole. Gli aveva comperato un piccolo quadro, dietro il quale Rosai aveva scritto una dedica: «A Corrado Levi con l’augurio di trovarlo pittore». Levi era iscritto ad Architettura, dove si sarebbe laureato con Carlo Mollino, ma evidentemente guardava alla sua vita come a un campo aperto e libero: del resto «Libero» era il cognome della madre che lui aveva adottato nel 1943-44 per scampare alle leggi razziali.

Levi è un «inclassificabile» in ogni senso. Lo testimoniano i biglietti da visita che con un tocco di ironia ha voluto squadernare in una doppia pagina alla fine di questo libro che colma una mancanza e finalmente ripercorre la sua storia creativa: Corrado Levi. Corpi (a cura di Beppe Finessi, con un testo di Luca Massimo Barbero, Electa, pp. 208, euro 32,00). Si dichiara architetto, e insieme «guanto giallo di savate», o boxe francese. Ma in un altro biglietto si definisce «fan di Boetti di Albini di Mollino di Klee di Schifano di Escher di Kraus di Zanichelli di Rama». Chi lo ha avuto come affascinante professore alla facoltà milanese di Architettura, si trovava davanti un maestro che non ha mai smesso di considerarsi allievo dei nomi di cui sopra, in particolare di Mollino, come più tardi di Franco Albini, «fratelli di nevrosi» per la comune ricerca della perfezione progettuale che li caratterizzava. Credeva nella virtù di «imparare l’uno dall’altro». «L’ho sempre fatto anche con gli allievi del Politecnico. Imparare guardandosi. Se non è un atto politico questo…», racconta nell’intervista a Maria Villa che correda il volume.

In una facoltà in ebollizione per le contestazioni studentesche, vara un progetto editoriale «Dalle cantine», con la sua costola «Dalle cantine frocie». Un numero speciale è dedicato a un artista-chiave per Corrado Levi, Pontormo, a cui lo lega una passione viscerale. Per Levi è un artista-chiave in ogni senso: addirittura assicura di aver ottenuto la cattedra al Politecnico dopo che Paolo Portoghesi lo aveva sorpreso, durante un’occupazione, a leggere in piedi il Diario del grande manierista. Un disegno di Pontormo, Il giocator sgambettante, è poi origine di una serie di lavori realizzati a inizi anni ottanta, «con occhi spalancati, mano attenta e cuore sognante», come sottolinea Finessi. Levi, dopo aver replicato su carta undici volte la figura pontormesca, ne ha coperto il sesso, spavaldamente ostentato, con pennellate di colori sempre diversi. Un tocco con cui sembra divertirsi a stare al gioco di «Madame Pontormo» (questo era il titolo del numero speciale della fanzine universitaria).

La politica entra sempre in gioco nel percorso di Levi. Ma entra attraverso pertugi imprevisti, mai con un andamento obbligante. La politica per lui è esperienza, e il corpo è il territorio immancabile di questa esperienza. Come scrive Finessi il corpo resta sempre «un territorio capace di rappresentare al meglio il suo pensiero, contenerlo, amplificarlo, permettendogli di mostrare la sua ricerca, tra ascolto, sperimentazione e humour». Quando sceglie di aderire al FUORI, lo fa anche «per attingere alle linfe colorate dei collettivi individuali, delle notti trascorse tra Artaud, Genet, l’illeggibile groviglio di Eliogabalo» (Massimo Barbero). Quando nel 2015 intercetta la ferita sociale dei migranti, decide di indossare uno sull’altro i vestiti abbandonati da chi era approdato sulla costa pugliese. Politica, anche in questo caso, è «lasciarsi attraversare dalle cose», prendersi addosso la realtà. La foto scattata per fissare quella performance, firmata da Finessi, rimanda in modo dolce ma perentorio ai corpi e alle vite assenti ma reali degli «arrivati».

Una decina di anni prima, avendo deciso di ristrutturare un vecchio riad a Marrakech per ricavarne un atelier, aveva lavorato al fianco dei muratori. Alla fine si era fatto dare le loro tute da lavoro, che ha poi montato in un assemblaggio circolare: praticamente ne è nato un rosone di impronta operaia. Il suo abito da cantiere è invece un’opera a parte, in forma di composizione danzante, come a comunicare la dimensione di un’inedita scioltezza. «Se non fossi così ingenuo nel manifestare le cose forse non avrei queste qualità», dice di se stesso, quasi per spiegare la semplicità ineffabile di tante sue soluzioni.

È una «levità», come la definisce Massimo Barbero, che caratterizza anche la sua esperienza pittorica, vera sorpresa di questo libro. Levi agisce in punta di pennello, con un segno che spesso è quasi stenografico. Si riconosce a monte il tocco del De Pisis più struggente e fuggitivo, o l’orizzonte errante di Licini. Levi si muove su quelle tracce ma è debitore a Mario Schifano, di cui da giovane è stato assistente, del raggiungimento di un’autocoscienza pittorica. Era accaduto a inizi anni ottanta, durante un’estate ad Ansedonia; un giorno Levi d’istinto aveva iniziato a lavorare su grandi tele distendendole nel prato. Vedendolo dall’alto Schifano aveva proclamato un «habemus pinctor» (sic), che per Levi è risuonato come un imprimatur importantissimo. Lui poi ricorda come Schifano lo richiamasse spesso all’idea della relatività: «L’ho interpretata come possibilità di non considerare l’opera un assoluto, ma come entità viva nello spazio e nel tempo, un furore».

Nelle pagine del libro scorrono le grandi tele di quegli anni; sembrano tutte pervase da fremiti fuggenti; la pittura avanza per accenni, per scosse leggere, dense di desiderio e di dolcezza. Lo sguardo di Levi, anche in pittura, è sempre uno sguardo amico, uno sguardo trepidante, soprattutto laddove l’intenzione è più scopertamente e teneramente erotica. È un «voler bene» al mondo che si esplicita nelle forme più inattese, con la capacità di abbracciare più pensieri. «Levi inizia tra le arti un percorso costruito attraverso acuti sincretismi», scrive Massimo Barbero. «L’arte, la visione, la società, il respirare quieto e profondo del rapace e del palombaro senza risparmiarsi campi di interesse ed escursioni».

Tra queste escursioni ce ne sono di fondamentali, come quella che lo ha portato a una relazione speciale con Carol Rama (documentata nelle meravigliose pagine ripubblicate in È andata così, Electa, 2009). Alla Biennale del 1993, su invito di Achille Bonito Oliva, Levi aveva allestito una sala personale a lei dedicata, stipando i lavori per nuclei omogenei ai quattro angoli; ogni angolo era allestito con criteri diversi, o affastellando le opere o disponendole ordinate. A vegliare la sala, appeso a un filo che scendeva dal soffitto, c’era un omaggio di Carol al suo curatore, Il chiodo di Corrado, un giubbino di pelle nera, imbottito sulla schiena di camere d’aria. Era un allestimento che restituiva tutta la pregnanza fisica di quelle opere-corpo, «buchi di me» come le aveva definite la stessa Carol Rama.

Di sorpresa in sorpresa il libro porta a riscoprire quell’intervento realizzato per «Rapido fine», una rassegna organizzata nel 1986 da un gruppo di artisti negli spazi della Zenith, fabbrica abbandonata a Ferrara. Levi si era fatto vivo portando un presepe e allestendolo con grande cura in un angolo dell’edificio. Il senso di quel gesto era semplicemente di donare un oggetto pieno di sentimento a quel luogo in rovina. C’è sempre una quota di stupore nelle azioni artistiche di Corrado Levi. Come scrive Barbero, l’arte per lui è ogni volta «un inciampo libero».


(il manifesto, 8 maggio 2022)

Ida Dominijanni


Ho vissuto e commentato tutte le guerre che hanno punteggiato il disordine mondiale post-89 da una posizione di minoranza, e spesso di minoranza nella minoranza. Nel 1990 ero contro la Guerra del Golfo, voluta dagli Usa e autorizzata dall’Onu contro Saddam Hussein che si era annesso il Kuwait: l’annessione di Saddam era illegittima, ma la rilegittimazione della guerra come strumento di risoluzione di una controversia internazionale avrebbe aperto una nuova epoca belligerante dopo la pace armata della Guerra fredda, come infatti è puntualmente avvenuto. Nel 1998 ero contro “l’intervento umanitario” in Kosovo (così venne chiamata allora la guerra della Nato nella ex Jugoslavia, con una mistificazione linguistico-politica analoga a quella della “operazione speciale” di Putin in Ucraina): le ragioni dei kosovari andavano certamente sostenute, ma le bombe sopra Belgrado mi parevano il modo peggiore di farlo e le conseguenze le stiamo pagando ancora adesso, Putin essendosela, come si dice, legata al dito. Nel 2001 il
mio cuore e la mia testa stavano interamente dalla parte dei newyorkesi colpiti dall’attentato alle Torri gemelle (ragion per cui, lo dico a chi oggi mi dà della putinista, all’epoca nella sinistra radicale ero bollata come filoamericana), ma la revanche bellicista decisa da George W.Bush e dai neocon mi pareva la meno adatta a contrastare una minaccia virale come il terrorismo suicida; lo scorso agosto, dopo 20 lunghi anni, abbiamo visto com’è andata a finire. A maggior ragione nel 2003 ero contro la guerra in Iraq, giustificata dagli Usa sulla base della madre di tutte le fake news, il supposto possesso di armi chimiche da parte di Saddam; anche in quel caso, era facile profezia che da quella guerra sarebbe derivato solo un incremento
del disordine mondiale, segnatamente nel Medio Oriente, con costi altissimi segnatamente per l’Europa.

Mi fermo qui, tralasciando la Siria, la Libia e altre avventure militari. Aggiungo però due cose. La prima: in ciascuna di queste circostanze la mia postura spontanea è stata più quella della critica interna al fronte occidentale a cui appartengo che quella della condanna reiterata del nemico di turno. Condannare i dittatori o i fondamentalisti o gli autocrati per chi vive in democrazia è ovvio. Meno ovvio è vigilare ogni volta perché nelle guerre fatte in nome dei valori occidentali e della democrazia non siano proprio i
valori occidentali, la democrazia e lo Stato di diritto a rimetterci le penne, come spesso invece accade e sta accadendo anche oggi: il problema delle guerre non è solo vincerle, è vincerle senza perdersi. Seconda cosa: in ciascuna di queste circostanze la prospettiva femminista mi ha messo spesso in attrito con lo stesso fronte pacifista, cui non ho risparmiato critiche per il suo linguaggio talvolta altrettanto fallico di quello interventista, per le assonanze patriarcali e misogine riscontrabili nell’uno come nell’altro, per la condivisione da parte di entrambi di una ferrea logica amico-nemico che non è la mia.


L’arruolamento delle opinioni

In ciascuna di queste circostanze, l’entrata in guerra, più o meno diretta, ha comportato l’immediata militarizzazione e polarizzazione del dibattito pubblico: o con me o contro di me, o con la democrazia o con il dittatore di turno, o con l’Occidente laico e pluralista o con i fondamentalisti. Ma mai come in questi due mesi di guerra in Ucraina l’arruolamento delle opinioni conformi e la scomunica di quelle difformi ha travalicato il limite della decenza, con una regressione galoppante rispetto a venti anni fa. Venti anni fa – lo testimonia il mio 2001. Un archivio, il libro in cui ho raccolto il mio lavoro sull’11 settembre e le war on terror – era legittimo, anzi dovuto, interrogarsi sugli errori della politica americana in Medio Oriente durante e dopo la Guerra fredda che spiegavano, senza giustificarla, l’insorgenza del
terrorismo internazionale. Era legittimo, anzi dovuto, distinguere fra la Jihad e l’insieme del mondo islamico, così come fra la politica della Casa Bianca e del Pentagono e gli umori compositi della società americana, o fra i governi e le opinioni pubbliche europee. Era consentito indagare le segrete simmetrie fra i toni messianici della crociata contro l’Occidente in nome di Allah dei fondamentalisti islamici e quella in nome della democrazia dell’Occidente contro l’Islam. Era possibile contrastare la propaganda di guerra occidentale sulla guerra in Afghanistan come “guerra di liberazione delle donne dal burqa” spiegando che le donne non si liberano con la guerra fra maschi e che il patriarcato, a differenti gradi di oppressione femminile, è una struttura socio-simbolica planetaria dalla quale l’Occidente non è affatto immune. E da pacifisti si poteva, anzi si doveva, professarsi contro il terrorismo islamico e contro la risposta revanchista americana senza per questo essere tacciati di equidistanza.
Niente di paragonabile è possibile dire oggi in Italia. Da quando Putin ha invaso l’Ucraina la prospettiva pacifista è messa al bando, ogni giorno c’è una lista di proscrizione con i nomi e i cognomi dei non allineati. Appena cerchi di ragionare sulle origini vicine e lontane della guerra stai giustificando Putin, se non premetti a ogni riga che scrivi che c’è un aggressore e un aggredito sei una collaborazionista, se osi criticare Zelensky sei indifferente alle sofferenze degli ucraini, se dici che la resistenza ucraina è diversa da quella italiana il giorno dopo qualcuno chiede lo scioglimento dell’Anpi, se azzardi che le guerre difficilmente scoppiano fra buoni e cattivi ma più spesso fra cattivi e cattivissimi sei equidistante, se contesti l’escalation del conflitto perseguita allegramente da Putin, da Zelensky e dall’Occidente sei antiamericana e via così, e se fai notare che questo andazzo è segno evidente di un pessimo stato della nostra democrazia sei o una nostalgica dell’Urss o un’amante clandestina degli autocrati. Confesso che per settimane mi sono volutamente sottratta a questo tintinnare di sciabole testosteronico e isterico che lascio volentieri a chi ne gode. Più utile mi pare domandarsi a quali derive psicologiche, politiche e cognitive sia dovuto un tale incarognimento del dibattito pubblico e un tale imbarbarimento dell’arena mediatica.

La scia della pandemia
Tanto per cominciare dai fattori psicologici, la sequenza pandemia-guerra, solitamente evocata per ipotizzare una demenziale sovrapposizione fra no-vax e pacifisti, va considerata piuttosto per la scia di aggressività che la pandemia ha lasciato dietro di sé. Ferita a morte nella sua smania di onnipotenza da un microrganismo sconosciuto capace di hackerare il capitalismo globale, la politica dei grandi della terra si arma e satura con nuove morti la mancata elaborazione del lutto per le vittime della pandemia. Una guerra reale prende il posto della guerra metaforica al virus e il primato della distruttività torna saldamente nelle mani della specie umana; e forse sta qui la radice inconfessabile di tanto godimento per una retorica dell’escalation inconcepibile solo pochi anni fa. Su questa base di godimento inconscio c’è ampio spazio tanto per l’evocazione continua di un futuro apocalittico quanto per la convocazione ossessiva dei fantasmi del passato: col risultato che non si sa più se siamo nella prima, nella seconda o
nella terza guerra mondiale, ed è più facile liquidare un interlocutore scomodo dandogli del nostalgico dello stalinismo che confrontarsi sui problemi effettivi del presente.
Nazionalismo e indignazione Fra i quali spicca, a dispetto dei muri innalzati fra “noi” e gli “autocrati”,
l’ideologia nazionalista che dal campo sovranista tracima in varie gradazioni fin dentro il campo democratico. È allo scontro fra due nazionalismi che stiamo assistendo nel teatro ucraino: da una parte il nazionalismo etnico di Putin, basato sulla comunità di destino della stirpe russa e sul tradizionalismo
neoconservatore dei Dugin e dei Kirill, dall’altro il nazionalismo dei confini, patriottico ed eroico, di Zelensky. Ma nascono dalla stessa matrice nazionalista il richiamo perentorio alla compattezza e il tracciamento del nemico interno che impazzano sulla stampa italiana mainstream, dove fin dal
primo giorno di guerra la preoccupazione principale è stata quella di individuare e stigmatizzare “il fronte interno” dei non allineati, e dove ogni giorno sventola la bandiera di una democrazia senza pluralismo e senza opposizione. A riprova che come in tutte le guerre gli indicatori più precisi delle poste in gioco vengono più da quello che segretamente accomuna che da quello che esplicitamente divide i campi contrapposti. Si aggiunge a questo, l’ha notato un Habermas non casualmente passato sotto silenzio nel dibattito italiano, il dilagare dopo l’89 di una concezione etica della politica che sostituisce con l’indignazione la capacità di mediazione, sì che quello che importa è ribadire la condanna del nemico più che cercare una soluzione pacifica che renda possibile conviverci. Che è precisamente il dispositivo retorico con cui qualunque tentativo di ragionare sulle cause, le conseguenze e le soluzioni di questa guerra viene azzittito con la perentoria richiesta di ribadire fino all’estenuazione che c’è un aggressore e un aggredito, che l’aggressore è un criminale, che il problema è come annientarlo o dargli l’ergastolo e che chi ragiona altrimenti se ne fa complice.

La realtà fatta immagine
Infine ma non ultimo, ogni guerra è figlia del regime di verità e dell’ambiente cognitivo della sua epoca. Trent’anni fa, Jean Baudrillard commentava la Guerra del Golfo sostenendo che paradossalmente era come se non fosse mai avvenuta: entravamo nell’era digitale, e le immagini algide e smaterializzate dell’operazione Desert Storm, con le sue bombe “intelligenti” che illuminavano le notti del deserto iracheno inquadrate dalle telecamere fisse, suggerivano che la guerra potesse emanciparsi dalla
materialità cruda dei corpi feriti, amputati, massacrati. La guerra c’era e non c’era, come i fantasmi: la sua spettralizzazione serviva a renderla accettabile in un Occidente che la stava rilegittimando come continuazione della politica con altri mezzi, e pazienza se le bombe intelligenti distruggevano persone e cose come quelle stupide: l’Iraq era lontano, le responsabilità dell’aggressore occidentale sfumavano in quella lontananza, i civili che ci rimettevano la pelle erano, in quella come nelle guerre d’inizio secolo,
casualties, errori, effetti collaterali indesiderati. Oggi tutto funziona al contrario. L’Ucraina è vicina, il teatro della guerra è dentro l’Occidente, l’aggressore è dietro l’angolo e fino all’altro ieri ci facevamo affari ma viene orientalizzato assecondando l’immaginario russofobico della Guerra fredda, i civili ammazzati non sono più casualties, ma effetto di una volontà crudele, le telecamere digitali sono in mano a chiunque e tutto, ma proprio tutto, dev’essere visibile, dalle unghie laccate delle donne ammazzate a Bucha agli avanzi di cibo nelle cucine delle case bombardate di Mariupol: la pornografia dell’orrore, che nelle guerre del dopo 11 settembre attribuivamo ai video degli jihadisti sugli ostaggi sgozzati, adesso la maneggiamo noi. E la verità è affidata tutto e solo all’evidenza e all’immediatezza dell’immagine: quello che si vede è vero, quello che non si vede non esiste. Questo regime della visibilità totale è indubitabilmente democratico, tanto più se confrontato al regime totalitario della menzogna sistematica e della negazione dell’evidenza in cui si barcamenano le tv di stato russe e la propaganda del Cremlino. Ma ha anch’esso i suoi effetti collaterali tutt’altro che trascurabili. Nel flusso ininterrotto del fermo-immagine sparisce il peso di quello che non si vede, il deposito della storia, l’analisi dei precedenti e degli effetti: chi va a ricercarli diventa non solo un dietrologo e un giustificazionista dell’aggressore, ma anche un negazionista della realtà, perché la realtà è solo quella certificata dalle immagini. L’informazione si adegua e si scinde: sul campo diventa racconto e testimonianza soggettiva affidata alla presa diretta emozionale, l’interpretazione è affidata solo in minima parte a competenze credibili, per il resto essendo appannaggio di una rosa di opinionisti convocati su qualsivoglia questione, dal Covid alla geopolitica, che saltellano dai giornali ai talk show senza soluzione di continuità, legittimati da un potere della firma che andrebbe usato con discrezione e viene invece brandito come una clava al servizio di un establishment ideologico e politico presidiato dalla concentrazione della proprietà delle testate. La “verità” di questa guerra è anche il precipitato di decenni di precarizzazione e gerarchizzazione della professione giornalistica. In cui i non garantiti vanno al fronte e i garantiti compilano pagelle di lealtà patriottica e liste di proscrizione.


(centroriformastato.it, 8 maggio 2022)

Una sorprendente genealogia. L’autorità femminile nel management dall’800 a oggi di Luisa Pogliana, Guerini 2022. Una ricerca imperdibile per dare forza, idee e radicamento a chi vuole cambiare il lavoro a partire dal nesso vita/lavoro. La scommessa chiave dell’oggi, aperta a donne e uomini che vogliono mettere in discussione il potere e la sua radice misogina. Giordana Masotto apre lo scambio con l’autrice Luisa Pogliana e con Anna Deambrosis Head of Change Management.


In anteprima in Libreria!

di Lucetta Scaraffia


Nel corso del dibattito che si sta svolgendo su questo giornale sulla possibilità di avere un figlio attraverso il ricorso all’utero in affitto è tornata più volte, da parte dei sostenitori o meglio sostenitrici di tale pratica, una accusa: chi è contrario la definisce utero in affitto, mentre dovrebbe dire «gestazione per altri» che diventa l’acronimo GPA.

Il motivo di tale accusa è evidente: la parola affitto richiama l’aspetto venale – le madri surrogate vengono sempre pagate – mentre la dizione «per altri» maschera l’operazione come un atto altruistico. Che il conflitto su questo tema sia anche una battaglia linguistica lo spiega uno dei saggi contenuti nel libro uscito in Francia Les marchés de la maternité, opera di femministe di sinistra contrarie alla GPA, fra cui la più nota senza dubbio è Sylviane Agacinski che ha già scritto molto sul tema. Il termine gestazione poi viene sostituito a gravidanza, che pure non cambierebbe l’acronimo, perché è meno legato all’essere umano, e quindi agli aspetti affettivi, come conferma anche il fatto che in tutto il discorso il nome madre tende a scomparire.

Gravidanza, maternità, diventano così parole obsolete, sostituite da termini generali che cancellino il vecchio modo di pensare. «Per altri» è legato al dono e alla gratuità, anche se si tratta di una transazione commerciale fra acquirenti e commercianti, che eseguono un contratto nel quale sono negoziati l’acquisto e la vendita di un bambino e l’affitto dell’utero di una donna. La sigla GPA suggerisce quindi una negazione, cioè la negazione di una gravidanza pagata che cerca di divenire negazione della gravidanza stessa, divenuta gestazione, un fatto solo biologico, come per gli animali. Ma in fondo nega anche la biologia, cioè il fatto che la madre e il feto sono così legati che le cellule del feto si mescolano a quelle della madre e restano per almeno 27 anni dopo la nascita. E soprattutto nega il fatto che la madre surrogata, durante la gravidanza, deve staccarsi dal suo corpo e dalle sue sensazioni profonde per prepararsi alla separazione dal figlio, deve negare i legami che sta tessendo con il bambino.

La manipolazione della filiazione comincia quindi da una manipolazione del linguaggio. La negazione di un principio giuridico basilare – «la madre è quella che partorisce» – stabilisce infatti che la filiazione può venir stabilita per convenzione, attraverso un contratto. Ma il contratto è possibile? Una persona non ha un corpo, è un corpo, fatto insieme di materia e di spirito, non può quindi né venderlo né affittarlo, a meno di tornare alla schiavitù. I diritti dell’uomo sanciscono infatti l’indisponibilità del corpo umano. Così un bambino, un nuovo essere umano, non può essere venduto né ceduto, quale che sia il materiale biologico con il quale è stato concepito. In caso di GPA invece entrambi diventano oggetto di vendita e di profitto. La GPA fa del bambino un prodotto che si comanda, si fabbrica e si consegna. Si tratta, afferma con chiarezza Agacinski di una «appropriazione mercantile della fecondità femminile». Concetto ribadito dalla più apprezzata delle femministe italiane, Luisa Muraro.

Nella nostra società in cui nascono pochi bambini la gravidanza è ipervalorizzata, e lo resta anche nel caso di utero in affitto – descritto come dono unico a una coppia che non può averne – grazie all’altruismo sbandierato dalle madri portatrici che maschera l’aspetto mercantile dell’operazione.

Queste donne, che per 25.000/30.000 dollari accettano rischi medici che possono anche portarle alla morte, sanno che l’altruismo esibito è necessario sia per mantenere la stima di se stesse che per raccogliere la stima sociale. Sanno che socialmente è insostenibile vendere una gravidanza e un bambino. Si tratta di una retorica che per di più nasconde un evidente sfruttamento: le somme che ricevono le madri in affitto sono una minima parte di quello che pagano i committenti, cioè, negli Stati Uniti – dove forse lo sfruttamento è meno grave – una somma che va da 100.000 a 150.000 dollari. L’esibizione di altruismo serve solo a legittimare tali pratiche. I soldi sono il motore della GPA, ma le donne non si vendono, piuttosto sono vendute a caro prezzo e sfruttate finanziariamente.

Il desiderio di figlio di coppie abbienti diventa così un’arma di sottomissione delle persone più deboli – donne e bambini – e di degradazione dell’essere umano. A chi non sa riconoscere il limite del suo desiderio la legge, ricorda Simone Weil, deve saper opporre la proibizione.


(La Stampa, 6 maggio 2022)

di Ingrid Colanicchia


Volantini, scritte su banconote, monete ed etichette dei prezzi, graffiti, adesivi, performance, azioni sui social media: più la repressione dell’apparato statale si fa sentire, più le femministe russe si ingegnano per trovare nuove forme di protesta, nuovi modi di dire “Нет Войне”, no alla guerra. Dal manifesto (https://www.micromega.net/appellomovimento-femminista-guerra/) diffuso a pochi giorni dall’inizio dell’invasione e tradotto in moltissime lingue, il Feminist Anti-War Movement (gruppo auto-organizzato e decentralizzato in contatto con circa 45 organizzazioni femministe sparse in tutto il Paese, che attualmente conta sul proprio canale Telegram – https://t.me/femagainstwar – più di 30mila iscritte) non si è fermato un attimo.

«Gli atti di resistenza quotidiani non hanno lo scopo di attirare l’attenzione dei media: sono progettati per attrarre direttamente il pubblico», spiega Maria Silina (https://theconversation.com/russias-feminists-are-protesting-the-war-and-its-propaganda-with-stickers-postersperformance-and-gra6ti-179989), storica dell’arte sovietica ed esperta della scena artistica russa contemporanea. Gli adesivi “No alla guerra” sono molto diffusi, racconta, ma ci sono anche altre tattiche di “infiltrazione artistica”: per esempio i manifesti che, imitando lo stile delle affissioni municipali ufficiali, sembrano a un primo sguardo manifesti di persone scomparse ma in realtà contengono informazioni sui soldati russi che sono stati uccisi o sono dispersi, e invitano a opporsi alla guerra. Oppure i messaggi di pace scritti su banconote e monete nell’idea che gli anziani, principali fruitori di denaro contante, siano i più colpiti dalla propaganda ufficiale e che questo approccio possa sensibilizzarli. O ancora le performance, come quelle delle “donne in nero”, fino all’espressione in pubblico di dolore: «Piangere sui mezzi pubblici – spiega Silina – consente ai passeggeri di assistere a emozioni che sono in gran parte represse e censurate dalla propaganda apertamente militarista».

Azioni (sul canale Telegram del movimento è possibile farsi un’idea più precisa della mole di gesti di protesta) che vanno incontro a tutti i rischi derivanti dalle repressive leggi volute da Putin all’indomani dell’invasione, che impongono pene detentive fino a 15 anni per coloro che denunciano la guerra e i crimini della Russia. A metà aprile Amnesty riportava (https://www.amnesty.org/en/latest/news/2022/04/russia-artist-detained-amid-clampdown-on-anti-war-feminists/) come, stando ai dati forniti dal Feminist Anti-War Movement, fossero almeno 100 le attiviste arrestate, perquisite o minacciate. Tra loro l’artista Aleksandra Skochilenko arrestata l’11 aprile con l’accusa di “discredito delle forze armate russe”: avrebbe sostituito i cartellini dei prezzi sugli scaffali di un supermercato con scritte contro la guerra. Il 13 aprile un tribunale di San Pietroburgo ha ordinato la sua detenzione preventiva, almeno fino al 1° giugno. «Le autorità russe continuano a dichiarare guerra ai diritti umani del popolo russo», ha denunciato Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale. «Tutti gli attivisti detenuti per aver partecipato pacificamente ad atti di dissenso contro la guerra devono essere rilasciati immediatamente e incondizionatamente. La repressione di questo movimento contro la guerra guidato dalle femministe rappresenta l’ennesimo disperato tentativo di mettere a tacere le critiche all’invasione russa dell’Ucraina».

Ella Rossman, una delle portavoci del Feminist Anti-War Movement, parlando da Londra ha precisato (https://www.themoscowtimes.com/2022/03/29/the-feminist-face-of-russian-protests-a77106) che nelle proteste sono coinvolti, ovviamente, anche uomini, ma le donne sono predominanti. Cosa che, sottolinea l’attivista, ha comportato anche una nuova idea di agency delle donne. «Anche se le donne in Russia sono politicamente attive da anni – pensiamo al Comitato delle madri dei soldati – c’è un nuovo modo di guardare loro. Il posto di una donna non è solo la cucina. Le donne possono e devono essere socialmente e politicamente attive». Ma come mai, in Russia, in prima linea nel movimento contro la guerra ci sono proprio le femministe? Sasha, attivista di Feminist Anti-War Movement, lo spiega (https://www.connessioniprecarie.org/2022/04/22/la-formidabile-resistenza-femministe-in-russia-contro-la-guerra-e-il-patriarcato/) facendo riferimento direttamente al contesto russo: «A lungo il movimento femminista non è stato visto come un movimento politico e non ha sperimentato la repressione che ha colpito altri movimenti. Le femministe non erano prese sul serio dal governo. Se si guarda al panorama politico si nota che molti altri gruppi politici da tempo subiscono una forte repressione: gli anarchici, i sostenitori di Navalny eccetera. Noi femministe eravamo viste dal governo come delle ragazze bizzarre che facevano delle performance oppure organizzavano conferenze e festival. Forse hanno pensato che le Pussy Riot fossero abbastanza. Per essere chiari, la repressione ha colpito anche le femministe (Yulia Tsvetkova – https://www.freetsvet.net/ – rischia il carcere per i suoi disegni, siamo state molestate dalla polizia tantissime volte), ma probabilmente non siamo mai state un vero obiettivo. Prima che organizzassimo la resistenza contro la guerra, il movimento femminista non era molto strutturato. C’erano gruppi femministi in tutto il Paese, ma collaboravano a malapena tra di loro. Il movimento non era unito come oggi, anche se c’erano molte persone attive in diversi gruppi. L’autonomia dei gruppi femministi sparsi in tutto il Paese è la forza di questa resistenza femminista contro la guerra perché rende più difficile capire chi sta agendo». Sasha racconta che in questa lotta non sono sole. «Alcuni gruppi professionali, che in passato non hanno mai rilasciato alcuna dichiarazione politica, quando è iniziata la guerra si sono attivati. Ci sono state molte petizioni da parte di diversi gruppi professionali: registi, giornalisti, insegnanti, architetti, scienziati, informatici, musicisti, eccetera. Purtroppo, con l’intensificarsi della censura queste iniziative non sono più state visibili. Quando tutti questi gruppi sono scomparsi, è rimasta la Confederazione del Lavoro della Russia (KTR), e il sindacato Teacher, la cui petizione (https://www.teachnotwar.org/en) è stata diramata da migliaia di insegnanti. Questo è un fenomeno unico nella storia recente russa: gli insegnanti sono un gruppo molto vulnerabile perché la maggior parte delle scuole sono statali. Un altro gruppo molto attivo è quello degli studenti (https://t.me/studentprotiv): stanno portando avanti numerose iniziative e hanno cercato di sostenere quelle di gruppi di lavoratori, come il recente sciopero dei tassisti». Tra gli studenti che non hanno perso occasione per denunciare la criminale guerra di Putin ci sono i redattori di Doxa, giornale studentesco della Higher School of Economics di Mosca. Il 1° aprile, un tribunale della capitale ha discusso il caso che vede imputati i quattro (Armen Aramyan, Alla Gutnikova, Natalia Tyshkevich e Vladimir Metelkin) con l’accusa di coinvolgimento di minori in atti pericolosi per la loro vita (per il rischio di contrarre il Covid) per aver pubblicato un video in cui affermavano che è illegale espellere e intimidire gli studenti per la loro partecipazione a proteste e manifestazioni. All’udienza del 1° aprile, il procuratore ha chiesto che gli accusati fossero condannati a due anni di servizi sociali (è stato accontentato). Durante l’udienza gli imputati hanno rilasciato le loro dichiarazioni finali (https://lefteast.org/closing-statements-doxa-four/). Armen Aramyan ha concluso la sua con queste parole: «Il nostro Stato non è più un poliziotto fannullone che fa girare la sua mazza, ora è una vera e propria dittatura. È un criminale di guerra. È riuscito a intimidire molte persone, costringendole al silenzio, a non parlare in alcun modo di questa guerra. L’unica cosa a cui riesco a pensare in questi giorni è come prendere posizione contro una paura così forte. Come continuare ad agire e sostenere le altre persone quando tutti vogliamo scappare, nasconderci in un bozzolo o fingere che tutto questo non esista. I cittadini russi non sostengono la guerra. Sono così fortemente contrari a questa guerra che alcuni di loro non riescono nemmeno a credere che stia avvenendo proprio davanti ai loro occhi. […]. Nelle ultime settimane abbiamo assistito a tanti esempi di eroismo, giovani, spesso giovani donne, che continuano a scendere in piazza e a protestare contro la guerra, nonostante decine di migliaia di arresti e perquisizioni. Persone torturate nelle nostre stazioni di polizia, ma che non si arrendono e continuano a combattere. Oggi non abbiamo il diritto morale di fermarci, o arrenderci, o spaventarci. Ogni parola deve essere abbastanza forte da fermare i proiettili». Intanto per il 9 maggio, giorno in cui la Russia celebra la vittoria sul nazismo, il Feminist Anti-War Movement ha organizzato tre diverse forme di protesta: 1) “Day of Trouble”, una variante dell’azione #women_in_black (uscire tra le 13 e le 14 in abiti neri e legare nastri neri nello spazio cittadino); 2) “Death Regiment”, una variante dell’azione commemorativa #Mariupol5000 (installare nei cortili delle città memoriali autocostruiti dedicati agli ucraini assassinati); 3) “Blood Parade action”, «per coloro che vogliono mostrare non lutto, ma rabbia in questo giorno», «nella notte tra l’8 e il 9 maggio o durante il 9 maggio, versa della vernice rossa su quegli oggetti che lo meritano, come la lettera Z, lascia una pozza di vernice rossa vicino alle attrezzature militari, sui gradini degli uffici di arruolamento, lungo le strade per le quali passeranno i cortei di Stato. La Russia è annegata nel sangue degli ucraini, lascia che questo sangue appaia visivamente sulla superficie della città».


(Micromega.net, 6 maggio 2022)


di Redazione Ingenere.it


Sono le donne, soprattutto le straniere originarie di Romania e Bulgaria, a vedere violati i propri diritti più elementari nel settore agricolo dell’area che comprende le provincie di Matera, Taranto e Cosenza. A dirlo è il rapporto Cambia Terra. Dall’invisibilità al protagonismo delle donne in agricoltura, appena diffuso da Actionaid, che mette insieme i dati e le storie raccolti dal 2016 a oggi in quella «vasta zona del Sud Italia dove il clima e la terra fertile favoriscono le coltivazioni di ortofrutta, dalle fragole all’uva da tavola fino agli agrumi» spiega il rapporto, che è stato coordinato da Rossana Scaricabarozzi e si è avvalso della collaborazione di numerose e qualificate esperte, tra cui Stefania Prandi, giornalista e fotoreporter che già in passato si è occupata della questione.

«Sono le donne a essere richieste per garantire maggiore cura per le stagioni di raccolta e lavorazione della frutta più delicata» spiega Actionaid nella nota che ha accompagnato la pubblicazione del rapporto. «Nelle campagne le donne arrivano a guadagnare anche solo 25/28 euro al giorno mentre gli uomini ne ricevono 40. Inoltre, la pratica dei datori di lavoro sleali di dichiarare in busta paga un numero inferiore di giornate rispetto a quelle lavorate impedisce alle donne non solo di accedere all’indennità di infortunio, malattia e disoccupazione agricola, ma anche a quella di maternità».

Il rapporto ha intervistato 119 donne impiegate in agricoltura di origine rumena e bulgara all’interno del programma lanciato da Actionaid nel 2016 per indagare e intervenire sulle condizioni di vita e di lavoro delle donne in agricoltura in Puglia, Basilicata e Calabria, e tutelare i loro diritti.

Il programma, spiega Actionaid, è nato in risposta alle molteplici forme di violazioni dei diritti umani delle donne lavoratrici, e ha la mission di coinvolgere direttamente le operaie del settore agricolo rendendole protagoniste di un processo di costruzione «di risposte sostenibili alle loro esigenze, attraverso forme di collaborazione e di responsabilità condivisa a livello comunitario».

Un impegno che ha coinvolto istituzioni, sindacati, associazioni locali, imprese agricole, associazioni di datori di lavoro, partner della società civile per produrre un cambiamento concreto nella vita delle donne braccianti.

«Le operaie agricole non possono più essere escluse o lasciate ai margini degli interventi delle istituzioni, a oggi attuati senza una chiara prospettiva di genere. Continuare a farlo significa non mettere fine deliberatamente alle violazioni dei diritti e alle violenze che subiscono» spiega Grazia Moschetti, responsabile dei progetti di Actionaid nell’Arco Ionico, e secondo cui va cambiato proprio il modello agricolo.

Il rapporto raccoglie dettagliate schede e infografiche, descrive le pratiche di empowerment dispiegate dal programma Cambia Terra e fornisce un’analisi delle politiche istituzionali in corso, Piano nazionale di ripresa e resilienza incluso, per tracciare una mappa e una fotografia dell’esistente e iniziare a pianificare interventi più efficaci in futuro a partire da sei punti fondamentali raccolti in un “manifesto delle donne” che lavorano in agricoltura.


Leggi tutto il rapporto


(Ingenere.it, 5 maggio 2022)

di Doranna Lupi


Una rete che riunisce più realtà (associazioni, coordinamenti, comunità) della Chiesa italiana, che da tempo camminano insieme con metodo sinodale, di cui facciamo parte anche noi Donne Cdb e le molte altre, ha promosso una serie di incontri online aperti al pubblico per approfondire i punti del Documento preparatorio del Sinodo dei vescovi.

Il 20 marzo 2022 i gruppi di donne che partecipano alla Rete sinodale (Centro Italiano femminile della Lombardia, Coordinamento Teologhe Italiane, le Donne delle Comunità cristiane di Base e le molte altre, Donne per la Chiesa, Noi siamo il cambiamento, Ordine della Sororità) hanno convocato un’assemblea sui punti 8 -AUTORITÀ E PARTECIPAZIONE e 9 – DISCERNERE E DECIDERE, prendendo le mosse dalle parole del Vangelo di Marco «Ma lei gli replicò» (Mc 7, 28) che annunciano la “conversione” di Gesù, dopo lo straordinario dialogo con la donna siro-fenicia (una donna straniera che fece cambiare idea a Gesù). L’assemblea, articolata in momenti di preghiera, relazioni di una biblista e di una canonista, ascolto di esperienze di esercizio di un ministero autorevole di donne italiane, tedesche e brasiliane, laboratorio in 14 stanze virtuali cui hanno partecipato 170 donne e uomini con diverse competenze, ha prodotto un ricchissimo patrimonio comune di riflessioni e visioni, impossibile da ridurre nello spazio di un documento.

Il documento finale è stato inviato ufficialmente alla commissione episcopale per il sinodo il 29 aprile, giorno di ricordo della teologa, filosofa e mistica Caterina da Siena.


Invio i link per poter leggere:

– il testo finale del documento (nell’ultima pagina troverete l’elenco di tutte le associazioni che lo hanno sottoscritto) Ma lei gli replicò – DOCUMENTO https://bit.ly/3F2N19U

– l’abstract sintesi del documento, Ma lei gli replicò – ABSTRACT https://bit.ly/3vSXpNr

– il trailer che presenta in modo simpatico e incisivo il documento. Vi invito in modo particolare a leggere le frasi/slogan: sono proprio quelle che da sempre ci accompagnano e che abbiamo suggerito di inserire! TRAILER https://youtu.be/RoDlNlYEt7I


(www.libreriadelledonne.it, 4 maggio 2022)

di Laura Marchetti


La guerra di Troia Da Ecuba e da Andromaca così come da Antigone, dovremmo imparare, noi donne, una lezione. Dal grembo dobbiamo partorire figli che non possono essere uccisi.

Nel XII Canto dell’Iliade c’è un passo che parla della guerra fra la Russia e l’Ucraina (pardon: della guerra fra la Russia, la Nato e in mezzo l’Ucraina). È la scena precedente la morte di Ettore.

Sono passati dieci anni dall’assedio e Troia sta per capitolare. La vittoria da parte dei Greci aggressori è preannunciata. Ettore sta per affrontare l’ultimo duello contro Achille, un campione nelle armi, una macchina da guerra, creato dagli Dei per lo sterminio di massa.

Ettore sa che da questo duello uscirà sconfitto, torturato, morto; ma anche lui è un Eroe, epicamente (ideologicamente) addestrato alla difesa della Patria. Non può tirarsi indietro.

Priamo ed Ecuba, il padre e la madre che già tanti dolori hanno visto, compresa la progressiva distruzione della loro bella e civile città, tentano di fermarlo, di dissuaderlo da quell’incontro sicuro con l’Ade. Ma tutto è inutile. Allora Ecuba disperata – perché non c’è nulla di più tremendo della morte di un figlio – fa un gesto estremo: scopre le poppe e gliele mostra dicendo: «Abbi pietà di queste!». Si affida cioè al seno, alla sua forza nutritrice e generatrice, per ricordargli che la vita deve essere sempre più forte della morte, che se né lei né la moglie Andromaca potranno più abbracciarlo, di lui non rimarrà nemmeno il ricordo. E neanche di Troia rimarrà più nulla: solo macerie e macerie e macerie.

Anche Andromaca si unisce alla supplica di Ecuba: fermati amore mio, gli dice. Fermati perché la tua patria non sono solo le mura. La patria non è un confine, un recinto. La patria sono le mie carezze, è nostro figlio che rimarrà solo, sono le tue sorelle e i tuoi fratelli, sono i tuoi amici. La patria è quella schiava, quel lavoratore. La patria è il tuo popolo che, senza di te, senza una guida, sarà trucidato e disperso. Ma Ettore è sordo: l’onore, la sfida di un maschio verso un altro maschio, viene prima di tutto. L’esito di questo spargimento d’onore sarà il suo corpo squartato.

Si scontrano in quel momento lontano di quasi 3000 anni fa due idee della convivenza e del futuro: l’una armata, militare, che intende la Patria come un territorio da espugnare o da mantenere senza bisogno di parole. L’altra, piena di parole d’amore, che intende la Patria come una Matria, una terra delle madri in cui a prevalere sono le parti materne, anche negli uomini , anche in Priamo che è un padre/madre. Una terra dove, alla violenza e alla forza distruttrice, si contrappone il dialogo e la forza generatrice.

Da Ecuba e da Andromaca, così come da Antigone, dovremmo imparare, noi donne, una lezione. Dal grembo dobbiamo partorire figli che non possono essere uccisi. Che non possono essere squartati e torturati. Il nostro impegno storico e civile è proteggerli, custodirli. Li abbiamo attesi e questa attesa deve ricostruire in senso affettivo la storia: una generazione dopo l’altra, intessuta l’una nell’altra dalle nostre ninne-nanne, dalle nostre fiabe, dalle canzoni, dai dolci ricordi d’infanzia. Per questo noi donne sempre, sempre, dobbiamo essere contro la guerra: si chiami invasione, resistenza, liberazione. Sempre dobbiamo mostrare il seno contro le armi.

In questa guerra oscena però anche le donne si mettono l’elmetto e dicono ad Ettore di andare avanti verso il suo e il nostro disastro. Anche le donne indossano divise militari.

Anche raffinate intellettuali sono sedotte dal fascino dei campi di battaglia e dall’odore del nemico ucciso. Mettono così a rischio non solo le nostre vite, ma la Vita, l’Amore, la Voce che dice e canta: vieni, ragioniamo, facciamo pace. Mettono a rischio la genealogia della Natura custode e matrice.

E allora che conta se le donne hanno raggiunto parità di cognome? Cosa conta se questa genealogia assume tutti i disvalori del patriarcato, a cominciare dalla guerra, dal razzismo di guerra, dall’odio di guerra? Che conta una discendenza anche femminile, se questa non è materna, ovvero alternativa e trasformativa. Non conta se, nel Nome della Madre, non c’è anche il gesto di Ecuba, la sua estrema supplica.


Laura Marchetti è autrice di «Matria», edizioni Marotta e Cafiero 2021, recensito da Antonietta Lelario sul Manifesto e leggibile qui: https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/la-crisi-non-e-mai-neutra/ 


(il manifesto, 3 maggio 2022)

di Laura Giordano


Il mondo dei social network viaggia principalmente per immagini. Da Facebook a Tiktok, passando per Instagram, le parole scritte sono state via via sostituite sempre di più da foto e video che ci rappresentano nella vita quotidiana, diventando una sorta di biglietto da visita con cui da un lato ci presentiamo agli altri, cercando di mostrarci al meglio, dall’altro andiamo a mettere il naso nelle vite degli altri. È per questo motivo che sempre più spesso gli spazi virtuali con queste caratteristiche sono considerati luoghi effimeri e privi di contenuti validi, spazi per svagare lo spirito più che momenti di approfondimento e opportunità di sviluppare un pensiero complesso sulle cose.

Eppure, potenzialmente si tratta di strumenti di comunicazione molto importanti perché sono usati da milioni di persone, giovani e meno giovani, e possono diventare un mezzo per far passare pensiero. Sono in pochi a credere che un altro modo per stare nei social sia possibile e anch’io a volte me lo domando. Recentemente ho trovato esempi che qualcosa di diverso può succedere, mi ha molto colpita la pagina Instagram delle Compromesse (@lecompromesse), seguita in meno di un anno da oltre 3.500 follower. Poche sono le fotografie utilizzate eppure i post pubblicati riescono a catturare l’attenzione, molti sono i like e i commenti che aprono alla discussione che si possono leggere sotto i vari post. La pagina ha una forte identità, costruita nel tempo attraverso la pratica quotidiana del gruppo: è evidente che tutto viene ragionato, dall’uso dei colori ai formati che meglio possono mettere in evidenza i differenti aspetti dei post. In questo modo è il contenuto stesso a essere parte dell’immagine, di cui diventa difficile descrivere a parole la potenza, e che cattura l’attenzione dei visitatori della pagina Instagram.

Un contenuto forte che si presenta con una veste grafica accattivante mi pare il presupposto da cui le Compromesse sono partite per il loro lavoro in Instagram. Sono riuscite a mantener viva l’attenzione nel tempo, e lo fanno grazie al loro sguardo femminista, critico e non scontato sulla realtà. Sono loro stesse a raccontare che hanno un confronto serrato tra loro e proprio grazie a questa relazione riescono a mettere a fuoco il loro sentire e trovare le parole giuste per dirlo in un luogo dove la brevitas resta fondamentale.

Anche la Libreria delle donne in questo periodo sta lavorando a creare una sua nuova immagine digitale. Si è formata una redazione di Instagram, di cui anch’io faccio parte, che ha un duplice obiettivo: far conoscere, con parole che arrivino a tante giovani donne e uomini, il ricco patrimonio di pensiero e pratiche della Libreria e accrescere il dialogo con altre realtà femministe, nel modo agile che la realtà della rete mette a disposizione oggi. Si tratta, anche in questo caso, di una pratica costante che richiede impegno e che ci sembra funzionare. La sfida mi sembra allora che non si debba considerare persa, ogni singola realtà può provare a cambiare il modo di stare in rete per richiamare l’attenzione di chi in questi spazi cerca nuove produttive relazioni.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 3 maggio 2022)


Nella Biblioteca “la Magna Capitana” di Foggia, l’iniziativa culturale dell’Associazione La Merlettaia con le opere dell’artista Donatella Franchi


di Mattia Giuramento, montaggio di Giuseppe Alizzi


Con le interviste alla critica d’arte Katia Ricci dell’Associazione “La Merlettaia”, alla Direttrice del Polo Biblio-museale di Foggia Gabriella Berardi e all’artista Donatella Franchi.


https://www.rainews.it/tgr/puglia/video/2022/05/pug-foggia-donne-con-le-ali-mostra-arte-installazione-badanti-893a8610-7f60-4574-8c9d-8770fe78074c.html


(Rainews.it, 2 maggio 2022)

di Francesca Maffioli


La casa editrice Capovolte di Alessandria ha di recente pubblicato, nella bella collana «Intersezioni», La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto (pp. 336, 18 euro) di Verónica Gago, ricercatrice e attivista all’interno del collettivo femminista e transfemminista Ni Una Menos in Argentina. In questo testo, tradotto con perizia da Silvia Stefani, Gago si situa al crocevia fra ricerca e azione, rivolgendo lo sguardo alle lotte femministe che stanno scuotendo le strade dell’America latina dal 2016.

Il testo traccia la genesi e la ragion d’essere politica del movimento Ni Una Menos a partire dalla marea di scioperi in risposta al femminicidio della giovane Lucía Pérez. Questa mobilitazione è il punto di partenza di un movimento di protesta di massa – 500mila scioperanti nel 2017, poi 800mila nel 2018 e 2019 – agito da diversi collettivi femministi in Argentina.

Il titolo del suo libro contiene in sé la parola «potenza», sulla quale torna spesso evocando una teoria alternativa del potere. Alternativa in quanto portatrice di quella che lei chiama «indeterminatezza». Può spiegarci l’importanza di distinguere «potere» da «potenza» e il valore dell’«indeterminatezza»? 
Quando parlo di «potenza femminista» mi riferisco al processo che in questi anni ha fatto del femminismo un movimento di massa, radicale e internazionalista. Intendo la potenza come una forma di contropotere: una capacità di inventare, organizzare e andare oltre ai limiti dell’esistente, ponendo il desiderio al centro di una strategia collettiva. L’indeterminatezza qui non è né più né meno che la capacità di negare ciò che esiste e, in questo stesso gesto, aprire altri possibili. Il movimento femminista pratica una serie di rifiuti sistematici delle cose «così come sono», identifica focolai concreti di sfruttamento, impunità e depredazione, restituendo immagini precise delle violenze e della loro articolazione come un ingranaggio della vita quotidiana. Con l’occupazione di massa e prolungata delle strade si genera una relazione di forze che si traduce e si fa capillare all’interno di tutti gli ambiti, nelle forme di sensibilità ma anche nei modi di discutere la concentrazione della ricchezza, nella lingua, nei modi di vivere le corporeità e di contestare le risorse. Nel libro insisto sul fatto che non si tratta di una teoria ingenua del potere che celebra molecole desideranti disperse e spontanee o impulsi isolati.

Mi interessa molto pensare come la potenza femminista affermi un potere di altro tipo, espanda un desiderio di autonomia a una scala di massa e implichi un lavoro di produzione di alleanze come forma di durata politica. Non si tratta di una potenza personale o di una forma di «impoteramento» individuale, ma di qualcosa che emerge e si espande nell’azione collettiva e che, a partire da lì, produce forme di soggettivazione innovative.

«Nos mueve el deseo» (Ci muove il desiderio) è una delle chiavi espressive di «Ni Una Menos». Può dirci in che senso il desiderio non rappresenta l’opposto del possibile e perché, in quanto frutto di un intelletto collettivo, esso ha un potenziale cognitivo? 
Effettivamente è stato uno slogan del nostro collettivo che si è divulgato e che indica il desiderio come una forza, una capacità di mobilitazione, non come un attributo individuale che il mercato può sfruttare. Dire che ci muove il desiderio di cambiare tutto è un modo anche per sovvertire l’enunciazione vittimistica e vittimizzante che tanto piace a mezzi di comunicazione, che limitano il compito del femminismo a un conteggio necropolitico dei femminicidi. Il desiderio non è una positività ingenua né puramente affermativa. Il desiderio ha a che fare con il lutto, il dolore, con l’ingiustizia, con l’impunità, ma mettendo in primo piano una trama collettiva per la sua diffusione, che assume molte forme, linguaggi e strumenti. Costruire uno slogan politico sul desiderio è un modo per aprire una zona problematica, di indagine, che – a mio avviso – i femminismi non eludono né risolvono, ma a cui sono capaci di dare attenzione: che cosa desideriamo? Come si fa spazio al desiderio in condizioni così precarie? Cos’è questo desiderio di rivolta che ci fa continuare a stare nelle strade, nelle piazze e nelle case «tessendo» femminismo? Come leggere le controffensive che ci rispondono? Quando parlo di desiderio programmatico faccio riferimento a una politica che non può rimanere al di sotto di una pragmatica vitalista, desiderosa di rivoluzionare tutto e per questo stesso motivo dotata della capacità di reinventare quel realismo che implica vittorie puntuali, precise e concrete.

Invece di internazionalismo lei preferisce parlare di transnazionalismo e spiega come una cartografia che alimenti risonanze globali dall’America Latina e dal Sud del pianeta sia in grado di dare voce a quello che lei chiama «corpo-territorio»; e alle lotte anti-estrattiviste delle donne indigene nere afrodiscendenti dell’America Centrale. Può dirci di più di questo «corpo-territorio»? 
È una parola chiave, un concetto potente sorto dalle lotte anti-estrattiviste. È strategica in un senso molto preciso: amplia un modo di «vedere» a partire dai corpi sperimentati come territori e dei territori vissuti come corpi. Pone una continuità politica ed epistemica, contro il taglio «individuale» dei contorni del corpo e contro la frontiera privata del territorio. È impossibile isolare il corpo individuale da quello collettivo, il corpo umano dal territorio e dal paesaggio. Il corpo-territorio riesce a mettere in gioco alcuni saperi del corpo collettivo sulla cura, l’autodifesa, l’ecologia e la ricchezza e, al tempo stesso, a sviluppare l’indeterminatezza delle sue possibilità e dei suoi saperi perché la sua esistenza dipende dal tessere alleanze. Inoltre il corpo che esiste in quanto territorio è la spazialità contrapposta alla chiusura domestica, al confinamento dei mandati, dei ruoli di genere. Quindi è una nozione «operativa» anche per varie geografie e conflittualità.

Nel suo testo lei spiega a più riprese il valore dello sciopero femminista in quanto «strumento pratico di ricerca politica». In che modo sarebbe capace di costruire una trasversalità tra corpi, conflitti e territori differenti? 
Sì, lo sciopero femminista è stato un enorme esercizio politico per ampliare in termini pratici ciò che intendiamo per lavoro, per dare delle immagini concrete alla nozione di precarietà (che può essere una nozione che dice tutto e niente al tempo stesso), e per produrre una forma di sciopero che riesca a contenere tutte quelle realtà lavorative e vitali, molte delle quali storicamente escluse dalla possibilità di questa pratica. Contestare una nozione di classe lavoratrice che contenga coloro che storicamente sono state e stati soggetti declassati e resi subalterni per questioni di genere e razza è qualcosa che lo sciopero femminista fa in termini di prassi. In questo senso mi interessa molto porre l’attenzione su come lo sciopero femminista si fa carico di coloro che non si possono fermare e al tempo stesso vogliono essere parte dello sciopero e su come lo sciopero ampli le spazialità considerate «lavorative», mentre al tempo stesso contesta ciò che si intende come conflitto se mettiamo la riproduzione sociale al primo posto. 
L’ambiguità tra ciò che sembrava rallentare e l’accelerazione della precarizzazione dei corpi, della possibilità di respirare, delle ore dedicate a giornate di lavoro che si estendevano senza pausa per dare assistenza e fare acquisti per chi non poteva, per occuparsi di questioni scolastiche e per contenere disturbi psicologici. Per questo, dopo due anni di pandemia, l’ultimo sciopero femminista è stato la chiave per elaborare questi temi e tornare a prendere le strade, dopo che ci siamo dovute reinventare nei territori dell’urgenza.

Negli otto capitoli del libro le sue analisi dialogano con le tesi di alcune figure del femminismo internazionale: tra le altre Rosa Luxemburg, Rita Segato, Suely Rolnik, Mara Viveros Vigoya, Silvia Federici e Raquel Gutiérrez Aguilar. L’ottavo capitolo si costituisce come un manifesto sintetico delle problematiche affrontate. Qual è l’importanza di un manifesto? 
Il registro del manifesto è stato molto presente in questi ultimi anni di movimento, ovviamente attualizzando una pratica storica, producendo per molte e molti una esperienza attuale di scrittura politica, di traduzione, di disseminazione di concetti, slogan ed esperienze. Nell’ultimo capitolo del libro prende forma questo impulso sintetico, con l’obiettivo anche di permettere una lettura rapida e condensata dei punti centrali. Mi affascina molto leggere il testo collettivo che si va formando nelle parole d’ordine del movimento, come espressione ingegnosa e molte volte poetica che coniuga intelligenza nei confronti dell’analisi e della chiamata all’azione, che consente traduzioni, risonanze e reinterpretazioni successive. L’importanza di questa lingua-manifesto è che essa cerca, ripetutamente, di esprimere un’urgenza e questa relazione magnetica e particolare tra le parole e le lotte.


(il manifesto, 1° maggio 2022)


La casa editrice Capovolte ha organizzato un giro di incontri in Italia con Verónica Gago, per presentare il libro La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto. Sei tappe:

PADOVA– lunedì 2 maggio, h 19.00, CSO Pedro (via Ticino 5), in collaborazione con Squeert Collettivo.

VENEZIA – martedì 3 maggio, h 10, Università Ca’ Foscari, Aula 24, San Sebastiano, Dorsoduro 1686. Con Margherita Cannavacciuolo, docente di Lingua e Letterature ispano-americane e Archivio Scritture Scrittrici Migranti. L’evento è patrocinato dall’Università.

ALESSANDRIA – martedì 3 maggio, h. 17.30, Casa delle Donne – Collettivo Non Una di Meno (Piazzetta Monserrato 1).

MILANO – mercoledì 4 maggio. Dalle 18.30, RiMake (via del Volga 4). Alle 18.30 aperitivo a cura di “Kollontai vodka antisessista”, alle 19.00 presentazione del libro. Alle 21 “Non sei sola, non sei solo” Cena a cura della Cucina popolare e solidale di RiMake. Un evento organizzato in collaborazione con Libreria Antigone e Non Una di Meno Milano.

ROMA – giovedì 5 maggio, h 19.00, Esc Atelier, Via dei Volsci 159 (San Lorenzo). Con Verónica Gago dialogano Alessandra Chiricosta, Eleonora Forenza, Miriam Tola.

NAPOLI – domenica 8 maggio, h 17.00, presso Le Scalze (Salita Pontecorvo 65), in occasione di Libbra, Festival delle librerie indipendenti in relazione, presentazione con Francesca De Rosa.


di Francesca Traìna


Ogni domenica mattina, noi dell’Udi di Palermo teniamo un presidio presso la statua della Libertà contro la guerra, con i nostri cartelli dove abbiamo scritto: FUORI LA GUERRA DALLA STORIA, NÉ FRONTIERE NÉ GUERRA SULLA NOSTRA TERRA e altro. Lo faremo fino a quando non verranno deposte le armi. Studenti di scuole, da noi contattate, eseguono piccoli concerti, canti, e noi stesse leggiamo o organizziamo brevi performance sul tema. Io ho scritto qualcosa, compresa la poesia che ho pensato di inviarvi, letta al presidio. Credo fortemente in questi messaggi simbolici che partono da noi donne che siamo storicamente fuori dalla guerra, atrocità di matrice patriarcale.


Questi giorni caduti sulla terra

come stelle battenti

partiture di fuoco,

straziate su croci di ferro,

queste notti crollate sui ponti

come lune venute dal rombo

di un nuovo big bang,

hanno acceso piccoli lumi

nei rifugi dove dorme la rosa

accanto a fagotti bambini

stretti da braccia materne.

C’è chi canta, chi appena respira,

chi emette lamenti e prega

mentre un violino suona

un motivetto allegro.

Strappate l’inverno dal cielo di Kiev,

lasciateci andare.

L’alba ci aspetta nei campi,

dobbiamo spalare la neve

per una semina nuova.

Strappate l’inverno dal cielo di Kiev,

e tu bambina senza nome

canta ancora let it go,

let it go…


(www.libreriadelledonne.it, 30 aprile 2022)

di Luigi De Biase


A Ulan Ude, nell’estremo oriente russo, si trova un enorme cranio di Lenin. È di fronte all’edificio dell’amministrazione cittadina. In quel punto ha resistito per decenni, ma una parte giorni fa l’hanno coperto con una bandiera, e sulla bandiera hanno messo la lettera “Z”, il segno che distingue soldati e blindati diretti in Ucraina. Proprio a Ulan Ude e nell’intera Buriazia il ministero della Difesa recluta gran parte dei militari impiegati a Donetsk, a Lugansk, a Kherson e Mariupol. È quella che il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ancora chiama «operazione speciale». Nei fatti si tratta di manodopera a basso costo trasportata a migliaia di chilometri di distanza per una guerra nel cuore dell’Europa.

«La nostra è una regione molto povera», ha detto al sito internet Republic.ru l’attivista buriata Aleksandra Garmazhapova: «In linea di principio per gli uomini esistono soltanto due alternative. Ci sono le occupazioni stagionali nelle province del nord. Oppure i contratti con l’esercito». Garmazhapova è cresciuta a San Pietroburgo e ha alle spalle anni di lavoro con voci importanti del panorama liberale russo, a partire dalla radio Eco di Mosca.

Oggi vive a Praga. Da lì dirige il Fondo «Buriazia libera», attraverso il quale è impegnata in importanti iniziative contro la guerra. «Siamo una piccola nazione, ma almeno cento dei nostri uomini hanno già perso la vita in Ucraina», ha detto Garmazhapova. Il numero lo hanno ricostruito attraverso fonti aperte: «Quando guardiamo ai dati personali, vediamo che molti di loro provenivano da villaggi. Erano ragazzi che cercavano soltanto un modo per tirare avanti. Molti avevano firmato contratti con l’esercito perché quella era la sola possibilità di ottenere un alloggio, o un mutuo per comprare una casa».

Il tema dei caduti è particolarmente delicato in Russia. Tutte le informazioni sono coperte com’è noto dalla legge approvata alla Duma all’inizio della guerra che prevede pene sino a quindici anni di carcere per chi pubblica resoconti diversi da quelli del ministero della Difesa. Ma i nomi e i volti dei soldati morti in guerra circolano ormai con una certa frequenza sui media locali. Aleksander Beregoshev, 18 anni, buriato dell’Altai. Yundun Dambaev, vent’anni, di Aghinskoe, nella Transbaikalia. Kirill Laptev, ventuno anni, yakuto.

Secondo Garmazhapova il ricorso in guerra a cittadini buriati segue anche un fattore per così dire psicologico. Da una parte lo stato maggiore preferisce impiegare uomini che non hanno legami personali e familiari con l’Ucraina. Ma dall’altra, «molti buriati hanno l’impressione che questa campagna offra loro l’opportunità di salire al livello degli altri cittadini russi. Sono pronti a dimenticare le discriminazioni che tutti subiscono o hanno subito a Mosca o San Pietroburgo, purché la lotta contro i “cattivi ucraini” permetta loro di essere riconosciuti dagli altri russi come pari». In questa fase, il fondo «Buriazia libera» è impegnato su tre diversi progetti. Il patrocinio legale gratuito agli uomini che non vogliono combattere. Un rapporto completo sulle vittime fra le minoranze etniche. E una lista di amministratori locali che potrebbero essere sottoposti a sanzioni. L’iniziativa di Garmazhapova non è l’unica. Esistono reti informali che hanno già permesso ad alcune centinaia di giovani in età di leva di lasciare la Russia e di evitare la guerra. Queste reti si basano sulla presenza di comunità buriate all’estero, in particolare in Mongolia, in Kazakhstan e in Kirghizistan. Connazionali generosi offrono loro un alloggio, qualche soldo e poi un lavoro. In molti casi sono intere famiglie a fuggire. Si preparano a mesi di totale anonimato, a condizioni di vita ancora più precarie rispetto a quelle che avevano in Russia, alla prospettiva di essere considerati traditori in patria e clandestini nel loro nuovo paese. È un processo migratorio che avrà conseguenze durature su tutta la regione.


(La Buriazia, il serbatoio di uomini per l’esercito di Putin, il manifesto, 29 aprile 2022)

di María-Milagros Rivera Garretas


Ciò che si suole chiamare politica – potere, categorie, agorà, ideologie, violenza, rapporti di forza, partiti, intrighi e cinismo – si è distaccata quasi completamente dalla realtà, anche molta della politica femminista. Si è talmente distaccata che, quando qualcuno nei suoi fori dice la verità, una verità concreta e reale, provoca un cataclisma. E qualcuno dei capetti che sempre girano da quelle parti chiede che cadano teste, come se non potesse nemmeno immaginare che potrebbe cadere la sua.

Non credevamo che ci sarebbe stata guerra in Ucraina, nonostante i 190.000 soldati ben armati, mi pare di ricordare, che comparvero alle sue frontiere, e nonostante l’inizio fosse stato annunciato con data e tutto sui mezzi di comunicazione del mondo intero. Abbiamo negato una realtà palpabile, documentata e mortifera. Non ci entrava in testa nonostante l’avessimo davanti agli occhi.

Non lo credevamo perché da molto tempo stavamo lesinando esistenza alla realtà. La violenza ermeneutica universitaria ci ha insegnato ad astrarla, la realtà, a spezzettarla e riporla in piccoli compartimenti scientificamente ordinati, per analizzarla. Perché la vita non distragga il pensatore. Il patriarcato del XX secolo ci ha insegnato a superarla, come se la realtà si potesse superare, come se fosse bene tentare di superarla, come se non fosse la prima risorsa della vita. Così ci siamo abituati a vivere mettendola in fuga, con una maestria che pare ormai irreversibile, o quasi. Come se la realtà non la potessimo sopportare.

Nel nostro piccolo, lo facciamo ogni giorno, continuamente, come un modo di vivere. Sono stata ammalata di un effetto secondario non banale del vaccino contro il covid-19. Il sintomo più appariscente e angoscioso era che non potevo camminare, o solo lo stretto indispensabile per muovermi per casa appoggiandomi dove trovavo e trascinando i piedi. Ogni volta che ho detto quello che mi succedeva, la raccomandazione unanime è stata che appena ci fosse un po’ di sole, uscissi a camminare. All’inizio, persino a me sembrava una buona idea. Finché mi resi conto – e in quell’istante compresi che la realtà è, oggi, una rifugiata – che nessuno poteva ammettere neanche per un attimo che il vaccino del covid avesse l’effetto di impedirti di camminare. Io non potevo camminare e mi dicevano di camminare. È possibile negare di più la realtà?

Solamente quando tornai in me e guardai solo dentro, fino a riconoscere che avrei potuto restare così per sempre, che la realtà esiste e si impone senza chiedere permesso a nessuno, che potevo attenermi ad essa e potevo perfino innamorami di essa, della realtà,(*) Dama Amore mi indicò la via.

La realtà è, oggi, una rifugiata. Ha trovato rifugio nell’ispirazione pura, nelle arti non performative e, soprattutto, nelle donne clitoridee, nelle casalinghe a tempo pieno, nelle madri a tempo pieno, in tutte le donne del mondo che si tengono ben attaccate al resto del tempo che dedichiamo, giorno per giorno, amorosamente, a essere casalinghe o madri, zie, nonne, amiche di madri…, senza mai cedere la nostra “Era”, la nostra reale sovranità. Solo lì si sa che la guerra nucleare è possibile perché la realtà è una rifugiata. Perché non le crediamo. Perché il nostro agire è superarla per cancellarla. Come se fosse possibile.

E tuttavia la realtà, buona o cattiva, fa lo stesso, è, con le donne, la cosa più bella e opulenta dell’universo, la più profonda delle esperienze umane, quella che mette in fuga la distruzione e il Male.

Lasciala entrare nella tua vita, senti il suo peso di piombo, la sua gravità e la sua verità e bellezza, familiarizzati con essa per quanto brutta o cattiva appaia, innamorati di essa e divertiti. La guerra diventerà allora impensabile per gli uomini, che sono quelli che la fanno. Non ci lasceremo cacciare nei guai antinomici.


* Prendo da Antonietta Potente nella dedica del suo libro Il miele e l’amaro. Lettura mistico-sapienziale dell’Apocalisse, Milano, Paoline, 2021.


(La guerra nuclear es posible porque la realidad es una refugiada, Duoda, 29 aprile 2022, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/1/307/. Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan)

a cura di Betti Briano


Proponiamo un articolo di Betti Briano pubblicato sul n.1/2022 del periodico dell’ANPI di Savona e Provincia “I Resistenti”, nel quale l’autrice svolge alcune riflessioni sugli attuali avvenimenti bellici, alla luce di alcuni luminosi contributi femminili al pensiero politico del ’900 sul tema della guerra. Con l’auspicio che sia di stimolo per ulteriori riflessioni e altri interventi su un accadimento destinato, come già la pandemia, a sconvolgere e trasformare le nostre vite


(Redazione Eredibibliotecadonne).


Come sempre quando il flusso emotivo rischia di sovrastare il pensiero occorre ancorarsi solidamente alla propria esperienza e alla propria storia per poter sviluppare un punto di vista a partire da sé libero e scevro da suggestioni facili e condizionamenti insidiosi. Nel momento in cui una guerra da tempo preannunciata e preparata si è fatta realtà con l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, prima ancora della paura mi sono sentita prendere da quello scetticismo e senso di estraneità che avvertivo prima che nelle stanze del potere nell’Unione Europea entrasse un po’ di saggezza femminile e che ciò contribuisse, in occasione della pandemia, ad una inversione di prospettiva politica impensata: il mettere le ragioni della vita e della salute dei cittadini e delle cittadine davanti a quelle dei conti, dei bilanci e della finanza. Mi era parso l’avvio di un percorso di inveramento della visione profetica maturata nel pieno della seconda guerra mondiale da Simone Weil (filosofa a me carissima) di un’Europa definitivamente pacificata che, alla luce dell’esito disastroso della centenaria storia degli Stati Nazione, non si costituisse come ‘stato degli stati’, ma traesse sovranità e forza costituente prima ancora che dal bisogno di patria dall’assunzione dell’umanità di ogni uomo e ogni donna; un’entità sovrannazionale che ponesse pertanto a fondamento della propria costruzione politica il riconoscimento non già dei diritti in quanto appartenenti a uno stato o nazione ma degli obblighi universali verso i ‘bisogni dell’anima’ di cui ogni essere umano è portatore in ogni tempo e in ogni luogo (1). Ci ritroviamo invece precipitati in una contesa novecentesca, giocata proprio sui principi che la costruzione europea, e non solo secondo Simone Weil, avrebbe dovuto tendenzialmente superare (nazione, sovranità, autodeterminazione ecc..) e sulle contraddizioni della convivenza di ‘patrie’ diverse in un medesimo stato nazione; un salto indietro della storia cui ha certo contribuito l’inazione della UE nei confronti delle istanze di popoli che guardavano all’Europa come ‘patria’ d’elezione e l’indifferenza verso quelli che guardavano invece alla Russia. I fatti lasciati alla loro dinamica purtroppo hanno portato alla deflagrazione delle contraddizioni non affrontate e quindi, con l’aggressione della Russia, allo scoppio di un incendio spaventoso nel cuore del continente. Gli stati europei anziché recuperare il terreno perso sul piano della politica e unirsi in un grandioso sforzo diplomatico atto a circoscrivere e spegnere l’incendio scelgono invece di alimentarlo schierandosi da una parte e armandola contro l’altra; col risultato che l’avventata rinuncia alla neutralità oltre a mettere a rischio la sicurezza dei cittadini europei preclude alla UE la possibilità di mediare tra i belligeranti e di avere voce autorevole in un auspicato processo di pacificazione. L’Europa quindi ha rinunciato a fare l’Europa, a svolgere cioè la missione per cui è stata pensata e creata; Donatella Di Cesare in un recente articolo ha parlato giustamente di “suicidio dell’Europa”.

La storia dunque ha fatto un salto indietro di quasi un secolo e ci ha ripiombati dentro una crisi di civiltà non dissimile da quella che Simone Weil aveva individuato come prodromica alla Seconda guerra mondiale e che la politica illuminata che lei aveva immaginato avrebbe dovuto scongiurare per sempre. Mi tocca con grande delusione ammettere che nemmeno la presenza di donne ai vertici del potere pare essere in grado di arrestare la dinamica della guerra quando questa si mette in moto e mi tocca constatare altresì che millenni di dominio maschile ottenuti con la violenza e con le armi non si cancellano in pochi decenni, nelle stanze della politica, nella società e neppure nelle teste. Pare infatti che il ‘risuonar dell’arme’ abbia riportato a galla desideri e sentimenti inconfessati covati a lungo nell’intimo in attesa di essere liberati e che abbia rimesso pertanto in gioco quel virilismo che la crisi del patriarcato aveva fiaccato se non proprio represso. La guerra ha rimesso al centro della scena quella che una femminista della prima ora con un’espressione forte ma quanto mai appropriata chiama “cultura del cazzo” (2). Prova ne è che all’improvviso il linguaggio fallico-militarista ha invaso ogni ambito della scena pubblica: sparite parole come cura, salute, ambiente, clima, istruzione per far posto a bombe, missili, attacco, difesa, conquista, resistenza, sacrificio, ecc.; ogni discussione ormai deve passare attraverso le dicotomie belliciste amico/nemico. alleato/avversario, aggredito/aggressore, vittoria/sconfitta, dove è d’obbligo dire che il bene sta dalla prima ed il male dalla seconda parte della coppia dicotomica. L’informazione di conseguenza si trasforma in propaganda e la sfera del parlabile si restringe alla demonizzazione del nemico e alla santificazione dell’amico; se fuoriesci dallo schema divieni bersaglio di attacchi, contumelie quando non di rappresaglie e tentativi di cancellazione della parola e oscuramento del pensiero; a stabilire cosa si può dire e cosa no un circo politico e mediatico da tempo moscio e ripetitivo a cui il vento di guerra è arrivato come una botta di testosterone a riportare in vita pulsioni falliche da tempo sopite. Si militarizza persino l’idea di pace, sottoponendola ad una trasmutazione di senso: da stato esistenziale opposto e contrario alla guerra, a ‘bene’ da conquistare invece come bottino di guerra e difendere con le armi; appare ormai una bestemmia il sostenere l’evidenza che da che mondo e mondo le armi portano guerra prima o poi e che soltanto il dialogo e la comprensione possono stabilire e mantenere la pace.

Per significare il mio stato d’animo a fronte di questo repentino salto nell’inciviltà, preferisco ricorrere al genio di Christa Wolf una tra le più grandi scrittrici del ’900, nata e vissuta nella Germania Est, che ha visto da vicino la dittatura nazista e quella sovietica, la costruzione del muro di Berlino e il suo abbattimento; le sue parole assai meglio delle mie rappresentano l’ottundimento degli animi che la forza bestiale della guerra produce avvolgendo nel medesimo vortice amici e nemici; esse raffigurano altresì mirabilmente la storica estraneità femminile all’imbarbarimento della società apportato dall’ordine patriarcale con la ‘civiltà della guerra’. In una delle sue opere più celebri, Cassandra, presenta la principessa troiana prigioniera prossima alla morte in un monologo accorato che fluisce con la lucidità di chi ha lo sguardo già rivolto all’al di là. Le sue ultime parole consegnano ai posteri il racconto della rovina di Troia, spogliata dal mito, nella nuda verità della cieca rincorsa verso la rovina, dove la superbia dei Troiani e la ferocia dei Greci convergono irresponsabilmente nel disastro finale, non viene assolto Agamennone ma neppure Priamo, non si salvano vincitori né vinti. La vicenda di Troia assurge ad archetipo dell’assurda barbarie della guerra e la voce inascoltata di Cassandra diviene simbolo del potere profetico delle donne sconfitto dal patriarcato insieme alla civiltà della pace orientata dai saperi femminili (3). Quanto l’archetipo sia tuttora attuale e parlante lascio giudicare a chi legge.

Quando non ci si può sottrarre all’attraversamento di tragedie come la guerra, è di vitale importanza, come dicevo all’inizio, raccogliere tutte le risorse disponibili per ripartire da sé e riuscire a guardare i fatti senza farsi sopraffare dall’orrore e ad agire con lucidità e secondo la propria intelligenza del reale. Anche in questo caso la mia risorsa è una grande letterata e maestra, Virginia Woolf, che in prossimità della Seconda guerra mondiale scrive Le tre ghinee, un saggio che diventerà una pietra miliare del pensiero politico delle donne (4). L’autrice immagina di rispondere a un amico pacifista che le ha chiesto di sostenere la sua associazione nella lotta contro il fascismo ed il pericolo della guerra; la sua risposta è che essendo la guerra un prodotto della cultura e del pensiero maschile, il migliore contributo che le donne possono dare per prevenire la guerra, non è di seguire gli “uomini colti” e ripetere le loro parole ma di trovare invece parole nuove e differenti percorsi; la ghinea destinata alla lotta contro la guerra pertanto andrà ad una associazione di donne che si impegni a trovare parole di pace in fedeltà alla propria esperienza. Celeberrima l’esortazione della scrittrice alle donne a pensare in proprio: «Pensare, pensare, dobbiamo. Noi non dobbiamo mai smettere di pensare dove ci conduce il corteo degli uomini colti». Son passati più di ottant’anni ma l’esortazione suona più che mai attuale ed appropriata; occorre tenere la barra dritta del pensiero, non farsi irretire dalle false verità degli ‘uomini colti’, di quelli che vorrebbero convincerci che la guerra è ineluttabile, che le armi possono essere buone o cattive a seconda di chi le imbraccia, che la pace si può costruire con la guerra, che è giusto uccidere il nemico o sacrificare l’amico e il fratello oppure bello morire per difendere la patria, la nazione come qualsivoglia ‘libertà’. A tutti costoro vorrei semplicemente contrapporre le parole che Christa Wolf fa pronunciare a Cassandra prossima alla morte: «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere». E dal momento che sto con tutta la radicalità possibile dalla parte della vita, coerentemente scelgo di devolvere la mia simbolica ghinea alle donne ucraine che hanno scelto la fuga per la vita propria e dei figli.


1. Simone Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi 2013

2. Daniela Pellegrini, Liberiamoci della bestia. Ovvero di una cultura del cazzo, VandAedizioni 2016

3. Christa Wolf, Cassandra, Ed E/o 2011

4. Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli 2010


(Eredibibliotecadonne, 29 aprile 2022)