di Danila Baldo


Inizia oggi una serie di quattro interviste ad artiste accomunate dal fatto di essere donne, di aver rappresentato l’essere donne nel mondo e di aver fatto conoscere, con la loro arte – produzioni, attività, mostre – il loro sguardo sulla realtà. Che cosa sia la realtà è la più sottile e complessa delle disquisizioni filosofiche: se è ciò che si vede o ciò che è velato, ciò che appare alla luce del sole o ciò che è nell’ombra, ciò che è al di qua o al di là dello specchio… in ogni caso l’artista si pone in un luogo altro che fa cogliere sprazzi di realtà non visibili immediatamente, colti nella mediazione delle sue emozioni, sentimenti e visioni. E aiuta tutte e tutti noi, ri-creandola, a comprendere e ri-conoscere la realtà in cui siamo immersi, come pesci nell’acqua.

Iniziamo con l’artista emiliana Clelia Mori.

Ci parli della tua ultima fatica, la mostra che a Matera città della Cultura 2019 è stata intitolata Il mistero (negato) del corpo che non tace e che ha avuto altre esposizioni, prima del lockdown che ha bloccato tutto: società, scuola, rappresentazioni artistiche?

Bella questa idea della realtà ri-creata dall’arte: racconta molto della visione artistica. Sì, ha proprio bloccato tutto il Covid, anche per me dopo Matera. Comunque dopo averla esposta in parte a Mestre con Le Vicine di casa e Alessandra De Perini che mi ha creduta per prima, a Brescia con la Cgil, a Reggio Emilia con la Fondazione Tricolore e a Foggia alla Merlettaia, quest’opera è approdata, con la partecipazione preziosa della critica Katia Ricci, a Matera alla Biblioteca Provinciale, a cura della fondazione Basilicata Futuro e della Cgil e col Patrocinio della Provincia, dove volevo assolutamente andasse, visto che riguardava le donne della Basilicata. Mi serviva portarla là per unirle idealmente a tutte le donne d’Europa e della terra.

Questa serie di più di 40 opere tra tute, carte e lenzuola, sul mistero del corpo femminile, è nata perché mi sono sentita negata come donna insieme alle operaie della Fca di Melfi quando ho letto, nel 2015, che non volevano più le tute bianche di ordinanza, uguali a quelle degli uomini, perché si macchiavano di sangue mestruale. Mi era sembrato assurdo che il nostro corpo fosse considerato uguale a quello degli uomini. È un’uguaglianza ottusa che continua ancora oggi in tutte le fabbriche di questa multinazionale. Non capivo come fosse possibile non vedere che al mondo ci siamo anche noi e che ogni donna e uomo nasce sempre da un corpo di donna. Un corpo misterioso e anarchico che Marchionne pensava di poter cancellare col bianco, ma che non tace mai e il bianco mitizzato lo ha tradito. Ho pensato che dovevo far uscire quelle tute dalla fabbrica, renderle un’opera d’arte ed esporle. Far vedere questa violenza simbolica. Ho cercato un’operaia che me le regalasse e dopo più di un anno, al cambio della mise, gentilissima, me le ha mandate.

Confidavo mi arrivassero sporche, ne avevamo parlato. È un periodo che in arte va di moda il sangue e volevo usarlo anch’io, avevo perfino un motivo molto serio che mi toglieva dall’idea dell’esibizione. Ma le quattro tute usate, il ritratto di chi ci aveva vissuto dentro, mi arrivarono pulite e stirate e non potevo macchiarle apposta fingendo.

E allora?

Eh, lentamente mi sono resa conto che dovevo lavorare sui simboli: ricamarle e dipingerle io. Non aveva senso insistere sul sangue reale se le operaie avevano rifiutato le tute proprio per proteggere la loro libertà di dire a chi, quando e come volevano il loro mistero. Una libertà che rivendicavano per tutte noi. Anche la mia amica operaia me l’aveva detto mandandomele pulite. Non dovevo proprio scioccare nessuno col sangue vero. Ormai era puerile. Era il nostro mistero negato che doveva stare al centro del mio lavoro. La sua voluta in-visibilità.

E sulla nostra in-visibilità ho lavorato.

Alle maglie ho delegato l’invisibilità con fili bianchi e oro che mi serviva per indicare la nostra preziosità corporea e ai calzoni la visibilità con cerchi di filo rosso e macchie rosse di acrilico. Ma quando le ho esposte a Mestre chi le vedeva non si stupiva come me.

E allora ho capito che dovevo affrontare il nostro mistero togliendolo dal tabù in cui è relegato. Ho cercato una forma, ma nessuna funzionava e finalmente è arrivata liberatoria l’unica vera: la macchia di sangue mestruale sui pannolini. E quella ho ricamato enorme, con materici fili rossi, bianchi e oro, a punto croce, una tecnica persino ironica nella sua xx cromosomica, per sbatterci contro al tabù su grandi lenzuola usate, filate e tessute da altre donne su cui avevano anche amato. Chiudendo un cerchio tra donne sulla nostra preziosità.

Ma ricamavi già nelle tue opere?

No. Ma una volta scartato il sangue vero, concettualmente superato, non potevo certo usare pennellate forti e sgocciolanti. Troppo maschili, vistose e false per parlare del nostro Sangue di vita che è differente da quello di morte, ferita o malattia e va detto. Perché noi siamo le Creatrici del tempo e dello spazio ogni volta che creiamo una vita. Un tempo che non è quello dell’orologio e della storia maschile, ma quello della vita vera che parla, ride, piange e ama. Uno dei miei lavori è proprio sulla capacità creatrice della nostra differenza sessuale: Creatrici del tempo. Concetto spaziale 2020. È basato sulla mia storia fertile che racconto con tredici pallini: uno per ogni mestruazione, per ogni anno dall’inizio fino alla fine, con la riga vuota della gravidanza. È il tempo dell’umanità che io ho creato e che creiamo tutte dandogli spazio in ogni parte del mondo. Tredici è il numero di mestruazioni che ogni donna in genere dovrebbe avere in un anno e lo si trova dividendo i giorni dell’anno per 28, lo stacco di tempo anche lunare tra una apparizione mestruale e l’altra.

Così mi è sembrata molto naturale e meditativa la levità del ricamare, senza fare una tovaglia da tè, rispetto alle pennellate energiche. In fondo erano le coordinate artistiche di sempre quelle che usavo: spazio, segno, materia, luce, cambiava solo la tecnica. Non ho il mito artistico della riconoscibilità personale della critica e del mercato. L’arte è un linguaggio, mi serve per parlare e per farlo da libera credo vadano anche ribaltate le richieste dei canoni, anche se rassicurano, se serve per ri-creare la realtà osservata da un’altra prospettiva. Per me è l’altro meraviglioso linguaggio che possiedo. So che questa lingua è da sempre arrivata prima della parola: la stimola e la contiene ed è quella che uso e amo da sempre. È il lavoro dell’arte.

Qual è stato il percorso scolastico e culturale che ti ha portata a esprimerti con le arti visive?

Sono Maestra d’Arte diplomata al Toschi di Parma. Una scuola che ho scelto contro la volontà della famiglia molto preoccupata del mio futuro che mi voleva al liceo. Devo però ringraziare i miei genitori che hanno creduto in me in tempi economici ancora difficili. Mi hanno regalato da contadini la libertà del mio desiderio e del mio piacere della vita. Amavo il segno fin dalle aste e i puntini dell’asilo. Costringere la mia mano a fare quello che voleva il mio cervello era una goduria espressiva estrema che non ho più abbandonato. Certo non è stato semplice insegnare, lavorare e dipingere, fare la casalinga e la madre, ma non potevo non parlare con questa lingua: era la mia più originale e profonda e l’ho sempre coltivata strappandola alle incombenze del quotidiano. Strapparla è stato creativo per il desiderio. Se non l’avessi usata non sarei più stata me stessa. Così, forte della mia conquistata e scolastica sapienza pittorica, ho passato il tempo a sublimare, a distruggere e ricostruire quello che avevo imparato a scuola tra ricerca di sintesi linguistiche, cromatiche e spaziali. Non è stato facile, molte sensazioni contrapposte mi agitavano ogni volta che lavoravo e cercavo di cambiare strada insieme all’idea di sbagliare, ma ad un certo punto ho cominciato a dare fiducia solo alle mie emozioni. A pescare nel loro farsi con l’obiettivo di dirle con tutta la libertà che mi potevo dare, guardando più il mio mondo sensoriale che a quello che mi dava l’esterno: il fuori mi deconcentrava. Lì sono diventata libera come artista.

Hai incontrato personalità artistiche che ti hanno particolarmente colpita o indirizzata, nel tuo percorso?

Non ho avuto tanto tempo per coltivare questi aspetti, lontani geograficamente da me, oltre a compagni e compagne di scuola. Abito in mezzo ai campi da sempre. Ma ho guardato molto artiste e artisti famosi che amavo, da quelli storici a quelli moderni. Pian piano li ho introiettati e digeriti grazie anche a una coscienza sempre più femminista che mi ha permesso critiche a convenzioni artistiche che mitizzavo. Un’altra idea di spazio nell’opera è la mia ultima liberatoria conquista: uno spazio della vita, non solo quello freddo, geometrico, acido di un taglio che ho adorato.

Ci fai qualche nome di artisti o artiste amate?

Nel mio Istituto d’arte, negli anni sessanta, le artiste non erano contemplate, nonostante avessi una insegnante di storia dell’arte. Lei seguiva i canoni classici che erano costituiti soprattutto dalla visione maschile e con quelli mi sono confrontata. Ho amato tutti i grandi nomi della storia dell’arte. Ogni nome era una scoperta di un mondo pittorico diverso e intenso per una ragazza che veniva dalla campagna: dai capolavori dell’arte greca e romana a quelli del medioevo che ritrovavo anche a Parma con l’Antelami, dove c’erano anche il Correggio e il Parmigianino, ai fiorentini e ai romani del Rinascimento e su fino all’impressionismo per fermarci a prima del futurismo. Il resto me lo sono fatta da sola. Ma lì ho imparato a confrontarmi con la pittura maschile senza sentirmi a disagio se poi non li condividevo più. Lì ho imparato un senso dell’armonia compositiva che ancora mi guida, anche se ho cambiato linguaggio espressivo, per cercare me stessa nel dire. E adesso so che sono una artista, donna, e che si vede nel mio lavoro. Credo ci sia un modo femminile di fare arte visiva nelle nostre opere e non solo se ricami. L’ho capito guardando i quadri di Joan Mitchell un giorno. Non so l’inglese e credevo di guardare i dipinti di un uomo. Ma quando sono arrivata davanti a certi suoi segni compositivi ho visto che avevano la stessa mia matrice informale e ho scoperto stupita che guardavo invece una donna artista. È un tema grande questo, tacitato troppo spesso con l’affermazione che l’arte, quando è arte, è sempre arte e non c’entra chi la fa. C’è una verità critica dentro questa affermazione che però a me non basta, perché sento che c’è anche altro. Sarebbe interessante se si provasse a guardare l’arte delle donne dal di fuori dei rassicuranti canoni storici che in qualche modo limitano studi più approfonditi, meno monotoni e omologanti. Siamo in un tempo in cui ci si può permettere qualche strutturale cambiamento mentale. Penso alla magica libertà di Maria Lai come artista donna nel suo filo azzurro che lega Ulassai alla montagna, che non trovo guardando altro, o alla leggerezza ironica delle foto di Tomaso Binga nuda e mai scontata nel suo Alfabetiere. O ai disegni scarni e urticanti di Carol Rama o a Marina Abramović mentre pulisce una montagna di ossa sanguinanti sulla prima guerra in Europa dopo la seconda guerra mondiale e sento che solo delle donne potevano arrivare lì.

Ritieni che la nostra società, con tutte le problematiche economiche, sociali e geopolitiche che si trova ad affrontare, dia il giusto spazio all’arte o alla cultura in generale? Abbiamo anche dovuto sentire, negli anni scorsi: «Con la cultura non si mangia». Pensi che sia ancora vero?

È un tasto dolente questo, soprattutto per le donne che vogliono fare arte. Difficile trovare spazi per artiste come me che non seguono sempre regole consolidate. Tomaso Binga (nome d’arte di Bianca Pucciarelli), una delle più brave e irriverenti artiste italiane viventi (ora ha ben novantun anni), mi ha detto da poco che lei ha cominciato a diventare famosa a ottant’anni e che avevo ancora molto tempo davanti… In fin dei conti io voglio parlare col segno e la luce del colore e il resto alla fine non mi riguarda. Preziosa è la libertà artistica che mi sono data con l’indipendenza economica e a quella libertà mi tengo ben stretta.

Quali sono state le tematiche che hai principalmente affrontato?

Sono sempre partita dal corpo: l’immagine che mi interessava di più, in particolare dal mio corpo di donna. Era quello che conoscevo meglio in un periodo in cui dipingere un modello era abbastanza superato. E dal mio sono arrivata al nostro, passando attraverso la ricerca di una sintesi del segno che fin dall’Istituto d’Arte mi attraeva. Andandomene pian piano dal corpo esteriore per ritrovarlo nella sua essenza più interiore, dopo essere passata dal trionfo del segno cromatico dell’informale di anni fa. Mi è servito per rendermi indipendente dalla forma reale. Ho persino fatto una serie di quaranta lavori su Le violon d’Ingres di Man Ray, una bellissima foto venduta da poco a un prezzo mai visto, irridendo la sua idea che il corpo di donna si possa suonare come un violino e poi appoggiare in un angolo nell’attesa del suo prossimo uso. L’ho fatto pensando all’Estasi di Teresa d’Avila del Bernini in Santa Maria della Vittoria a Roma e alla Kiki di Man Ray, chiedendomi chi tra le due donne abbia avuto di più da un amore. Sembra da come Man Ray ha architettato la foto di Kiki che lei vivesse nella sua ombra, ma nella sua biografia Kiki gli dedica circa una mezza pagina. Ho cercato anche di capire con questo lavoro se la forma corporea femminile avesse un modo femminile di essere vista, ma cambia solo l’interpretazione perché questa forma è già data per sempre a chi la guarda. Quello che non aveva capito Marchionne e chi pensa che si possa cambiare la definizione di donna per noi donne.

E i tuoi progetti in corso o futuri?

Il Mistero (negato) del corpo che non tace è un tema infinito. Ha così tante sfaccettature che sto ancora lavorandoci. È così vasto e complesso che ogni cosa che ci accade intorno lo riguarda e propone un altro punto di vista da cui osservarlo per cercare nuove soluzioni a quelle asfittiche dentro cui siamo come in una prigione. La rivoluzione della tenerezza è un altro punto di osservazione che ho rappresentato, da una recente splendida omelia sul grembo di Maria di Papa Francesco, dove afferma che «Gesù è cresciuto giorno dopo giorno nel suo grembo». Maria è stata sempre dipinta col bambino già nato in braccio e mai incinta, se togliamo la Madonna del parto di Piero della Francesca, e penso che col suo grembo si rivaluta finalmente quello di tutte. È un punto fermo sulle capacità del nostro corpo che prima non c’era. Ho realizzato quest’opera con uno zig zag enorme rosa: lo zig zag, un segno primordiale, per la rivoluzione, e il rosa femminile per la tenerezza, sempre a punto croce su di un grande lenzuolo.

Penso sia un passaggio dovuto al mio lavoro sul corpo delle donne. E oggi con questa terribile guerra in Ucraina parlare del mistero della madre e del nostro corpo – come matria in alternativa alla patria – mi sembra un liberatorio e auspicabile cambio di sguardo e lì sto lavorando nel mio nuovo lenzuolo appena iniziato. Poi esporrò una serie di 10 grandi carte disegnate su Genoeffa Cocconi Cervi, la madre dei Sette Fratelli Cervi uccisi nel ’43 dai fascisti. L’ottava vittima in quella famiglia, ancora in parte misconosciuta proprio perché una madre, morta poco dopo loro nel ’44, e sarà all’Istituto Cervi qui vicino in novembre. Genoeffa: una Maria laica.

Ringraziamo Clelia Mori per le interessantissime riflessioni e considerazioni, utili ad allargare anche i nostri orizzonti nella comprensione della realtà in cui viviamo.


(vitaminevaganti.com/Arti visive, Conversazioni, numero 168, 28 maggio 2022)

Lo spazio delle donne di Daniela Brogi, Einaudi 2022. Se vogliamo cambiare il mondo, la cultura e la politica dobbiamo sapere che “lo spazio delle donne è lo spazio della storia”. E assumerci con autorità tutti i rischi necessari per “depatriarcalizzare” letteratura e arte. Lia Cigarini e Giordana Masotto dialogano con l’autrice Daniela Brogi. Intervento di Luisa Muraro dal pubblico.


L’incontro sarà trasmesso in streaming sul canale YouTube della Libreria: https://youtu.be/l_18NcouwSY


Per acquistare online Lo spazio delle donne: https://www.bookdealer.it/goto/9788806250980/607

di Alessandra Quattrocchi


Con un Meridiano in due volumi che raccoglie i suoi romanzi in una nuova traduzione, finalmente anche l’Italia rende giustizia alla scrittrice inglese. Che si è imposta con le armi delle sue eroine: ironia, allegria, rigore


È una verità universalmente riconosciuta – per dirla con l’incipit di Orgoglio e pregiudizio, il più amato dei suoi romanzi – che Jane Austen sia stata ammessa tardi, troppo tardi, nel Canone dei grandi scrittori. Finalmente anche in Italia le si rende giustizia con un’edizione di riferimento, un Meridiano Mondadori in due volumi (il primo è appena uscito), curato da Liliana Rampello e con la traduzione di Susanna Basso per tutti e sei i romanzi dell’autrice, scritti fra il 1803 e il 1816.

«Austen è stata tradotta molto, in tanti modi, dal meglio al peggio» spiega Rampello. «Adesso si offre al suo pubblico sterminato un’unica voce e un ampio apparato di commento. Una piccola magia che ci permette di accedere alla scrittrice con un percorso diverso.»

Ed è essenziale per sfatare il mito una volta per tutte: Austen non è un’autrice “per donne”, non scrisse romanzi “rosa”, sebbene sul suo nome sia nato un vero brand, un impero di imitazioni, sequel, prequel, gadget, film, serie tv. La fortuna dei period drama in costume forse è dovuta anche alla nostalgia per un mondo che ci appare più semplice, «grazie alle tante regole» spiega Rampello. «Le classi sociali sono definite dalle case, dagli abiti, elementi che aiutano a visualizzare le cose. La differenza però è che leggendo i romanzi scompare la patina romantica ed emerge l’ironia, che rovescia la realtà e ce la fa vedere spolpata.» Allora Austen si rivela come la grande innovatrice e il genio che fu, nei temi che tratta, nei personaggi, nel linguaggio, nella scrittura narrativa.

«Le sue eroine sono protagoniste del loro destino. Il tema universale – ed è per questo che lei è letta ovunque – è quello della felicità individuale, alla luce del desiderio femminile» sottolinea ancora Rampello. «Ma la libertà interiore si incrocia con la necessità del matrimonio; sicché le sue protagoniste si sposano bene, e rompono non solo la struttura patriarcale ma anche la ferrea divisione in classi. Insomma, è lei che costruisce davvero il romanzo di formazione femminile, perché la formazione al maschile non è compatibile con la vita delle ragazze. Però non si mette mai in una posizione vittimista, non fa rivendicazioni, regala alle sue protagoniste la libertà di muoversi in un mondo codificato, e le fa vincere, secondo una geografia morale ferma e precisa, che implica l’assunzione di responsabilità.»

Ballando ballando

Le tante norme, però, non uccidono la vitalità: emblematiche le tante scene di ballo, «la fortissima sensualità dei due ballerini che devono seguire le regole ferree dei passi mentre i corpi si sfiorano appena, come i meccanismi umani che lei sa indurre per allusione»; e si sa che Jane amava ballare. Altro tema cruciale, la presenza non solo delle eroine, ma di un intreccio fittissimo di relazioni fra donne: madri figlie sorelle amiche parenti. «Andare da sole nel mondo degli uomini è perdente. Ma Austen ha uno sguardo limpido su entrambi i sessi»: i suoi romanzi sono popolati anche di donne meschine – come l’intrigante Lucy Steele in Ragione e sentimento – o sciocchissime – come Lydia Bennet in Orgoglio e pregiudizio. E ancora, la struttura: «mette in gioco tutto questo in romanzi dove esplode una vocazione fortemente teatrale, shakespeariana». Monologhi, dialoghi, scene corali che dipingono i rapporti e tracciano ritratti fulminanti. «Tutto ciò la rende estremamente moderna.»

Il primo volume del Meridiano contiene i primi tre romanzi: L’abbazia di Northanger, Ragione e sentimento e Orgoglio e pregiudizio, oltre a una selezione dei Juvenilia, gli scritti giovanili sempre più studiati dalla critica. I romanzi, come gli ultimi tre che usciranno nel secondo volume, hanno la “voce” di Susanna Basso. Operazione editoriale necessaria perché, dice Rampello, «la traduzione è un passo interpretativo e quindi critico, a tutti i livelli; abbiamo un debito grandissimo per questa versione che riesce anche a rendere la maturazione progressiva della scrittrice».

Per voce sola

Susanna Basso è traduttrice di lungo corso che ha all’attivo fra l’altro i capolavori contemporanei di Ian McEwan, Kazuo Ishiguro, Julian Barnes, Alice Munro. Per un impegno come l’integrale di Austen, dice, è servita un po’ di sconsideratezza: «Ho attraversato molti momenti di crisi, ma era impossibile dire di no. Tradurre Jane Austen è straordinario; tanto più ritradurre Orgoglio e pregiudizio. Lo avevo già fatto nel 1999 per Sperling&Kupfer, ma questa versione è diversa, anche perché è cambiata la mia posizione di lettrice del testo, con vent’anni in più».

Tradurre Austen significa rendere in italiano la soavità della sua lingua sarcastica. «Si affronta nella speranza di riuscire a “dire quasi la stessa cosa”, il che è di per sé anche una definizione dell’ironia. Con la pazienza, grazie al sostegno redazionale che si crea intorno a un Meridiano, cercando di restituire l’allegria incrollabile di tono, di lingua.» Altra sfida: il discorso indiretto libero, cioè quell’artifizio moderno che proprio Austen cominciò a usare massicciamente, con cui lo scrittore trascrive i pensieri del/la protagonista fuori dalle virgolette, così che si mescolano con la voce autoriale. «Austen ci dà degli indizi: studiando i manoscritti vediamo dove usa i trattini invece della punteggiatura, e sono pause di riflessione, incertezze, così come le esclamazioni: lì il discorso appartiene ai personaggi, perché la sua voce autoriale non conosce pause né enfasi.»

E ancora: quella di Austen è una lingua complessa nella sua eleganza, un periodare lungo pieno di secondarie e giravolte: c’è la tentazione di spezzare, traducendo? «Fuori dai dialoghi, che sono un motore narrativo quasi teatrale, e hanno leggi di traduzione un po’ diversi, posso dire che no, non si spezzano le frasi di Jane Austen. L’italiano offre una sintassi così ricca che si può lasciare il ritmo originale, e del resto è proprio l’autrice a offrire una bussola incredibile, bisogna andarle dietro.»

Mistero svelato

Tre anni di traduzione in ordine cronologico; adesso, dice Basso, la spaventa affrontare Mansfield Park, il più cupo, doloroso, stratificato dei capolavori austeniani. Noi lettori aspettiamo il progetto integrale perché in Italia si comprenda meglio il “mistero Austen”. Un mistero che tale non è. Austen crebbe, sì, nella canonica del padre pastore protestante; con pochi soldi ma con libero accesso a un’ampia biblioteca, e in una baldoria di giovani, fra i numerosi fratelli maggiori, la sorella Cassandra e gli studenti del padre, le recite teatrali inscenate per gioco, le serate in cui leggeva le sue creazioni al pubblico familiare, esercitando lo spirito satirico e il gusto del paradosso. Vediamo dietro di lei la figura del padre – che le regalò il quaderno per la bella copia del secondo volume dei Juvenilia, e uno scrittoio portatile oggi alla British Library – e che la incoraggiò strenuamente nei suoi primi tentativi editoriali.

Il padre: per tante scrittrici ottocentesche la figura che cementa la capacità di credere in se stesse. Benché Austen abbia pubblicato fino alla sua prematura morte firmandosi semplicemente «a Lady», dalle sue lettere sappiamo bene quale fiducia avesse nel proprio talento. «Questo Meridiano dà molte risposte a un universo di questioni», dice Rampello, «e alla spaccatura storica della critica, fra detrattori e adoratori». Stiamo riscrivendo il Canone? «Sono cinquant’anni che le donne scavano e studiano; non si tratta solo di riscoprire scrittrici, ma di riposizionare la letteratura e la critica delle donne. Abbiamo il vantaggio che leggiamo tutto, uomini e donne, mentre persino Italo Calvino in Perché leggere i classici scriveva, paternalisticamente, “Amo Jane Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia”. Noi siamo tante e ci occupiamo di letteratura senza pregiudizi. C’è molto da affermare; con la serenità con cui Austen affermò se stessa.»


(la Repubblica, 13 maggio 2022)

a cura di Lorenza Marchese


Il saggio di Lorenza Marchese ci parla dell’avversione femminile nei confronti della guerra attraverso alcune celeberrime personagge della tragedia greca. Ringraziamo Lorenza per aver raccolto lo stimolo che abbiamo voluto offrire con la pubblicazione di “C’è una terza via” e aderito all’invito della redazione a portare il proprio contributo al tema delle donne e la guerra (ndr Eredibibliotecadonne.it).


Nella primavera del 415 a.C. in piena guerra del Peloponneso, il teatro di Dioniso sulle pendici dell’Acropoli è stipato di spettatori accorsi per assistere alle rappresentazioni di commedie e tragedie che si svolgevano ad Atene nell’ambito delle Grandi Dionisie, solenni feste ateniesi. Le rappresentazioni erano di tipo competitivo. Euripide, presenta “Le Troiane” ma non vince, arriva al secondo posto. Non c’è da stupirsi perché il grande tragediografo presenta una tragedia in cui prevale l’antimilitarismo. “Le Troiane” è un’accorata denuncia degli orrori della guerra.

Euripide seduto su uno scanno. Altorilievo in marmo, II sec. d.C. Museo del Louvre. Incisi sulla stele i titoli delle sue tragedie.

Euripide nasce a Salamina nel 485 a.C. Negli anni della sua maturità artistica vive con angoscia le alterne fasi della devastante Guerra del Peloponneso senza vivere abbastanza per vederne la conclusione. È un uomo del V secolo, cresciuto in una società patriarcale, ma ha la sensibilità e il coraggio di far parlare le donne, le donne dei vinti destinate a una vita indegna come schiave o concubine degli uomini che avevano ucciso i loro figli, i mariti, i fratelli. Il tragediografo ateniese condivide il loro tormento e parla con la loro voce.

Le donne Troiane hanno perso tutto ma non la dignità e la loro vita continua nel ricordo dell’eroismo e del coraggio dei loro uomini. In questa tragedia i Greci, i vincitori che non avevano avuto rispetto nemmeno dei sacri altari, escono totalmente annientati sul piano etico e umano. Per i quindicimila spettatori, tanto poteva contenere il teatro a quel tempo, questa tragedia è come un pugno nello stomaco. Infatti soltanto alcuni mesi prima Atene aveva intimato all’isola di Melo di aderire alla lega Delio-Attica. I cittadini di Melo, pur dichiarandosi neutrali nella contesa con Sparta, si ribellano a questa costrizione e scelgono la libertà. Al rifiuto gli Ateniesi reagiscono con la violenza e come riporta Tucidide nel V libro della sua Guerra del Peloponneso «passarono per le armi tutti i Meli adulti che caddero in loro potere e misero in vendita come schiavi i piccoli e le donne». Non solo, nel 415 a.C. Atene è ormai lanciata verso la spedizione militare in Sicilia contro Siracusa. Un’altra guerra si profilava all’orizzonte, altre morti e distruzioni. “Le Troiane” avrebbe potuto essere un avvertimento che Euripide rivolgeva agli ateniesi a non intraprendere di nuovo iniziative belliche devastanti.

Per Euripide le donne di Melo sono Ecuba, Cassandra, Andromaca, le protagoniste coraggiose e dignitose della tragedia.

Ormai Troia, espugnata con l’inganno, è in fiamme e le donne aspettano di conoscere il loro destino. Ecuba, la regina, donna forte e carismatica, è il sostegno della figlia Cassandra e della amata nuora Andromaca. Si comporta come regina, affronta in un serrato testa a testa Elena, che ritiene responsabile della rovina della città e incita Menelao a ucciderla: «Ti lodo Menelao se ucciderai la tua sposa. Ma evita di rivederla, che ella non ti prenda col desiderio. Cattura infatti gli sguardi degli uomini, distrugge le città, incendia le case. Tali incantesimi ella possiede. Io la conosco, anche tu e quanti hanno sofferto». Ecuba viene destinata come schiava a Ulisse che lei odia e disprezza: «Ahimè, ad un uomo abominevole, infido ho avuto in sorte di essere schiava, avverso alla giustizia, mostro che viola la legge».

E infatti, come poteva Ecuba non odiare Ulisse, che le aveva strappato la giovane figlia Polissena per portarla alla morte, destinata ad essere sgozzata sulla tomba di Achille? Euripide nove anni prima, nel 424 a.C., aveva presentato “Ecuba”, tragedia che esalta il coraggio di una madre che vendica a mani nude la morte del figlio più piccolo Polidoro, ucciso a tradimento dal re tracio Polimestore, e che cerca disperatamente di difendere la figlia. Polissena, un’altra vittima innocente, preferisce morire piuttosto che vivere da schiava, porge il collo agli Achei che assistono annichiliti alla sua morte. Prima di morire così la fanciulla si rivolge agli Achei: «Argivi che avete distrutto la mia Città, sono io che ho deciso di morire. Offrirò io la mia gola senza paura. In nome di dio, affinché io muoia libera, uccidetemi lasciando libero il mio corpo: sarebbe vergogna per me che sono di stirpe regale, ricevere tra i morti il nome di schiava».

Sacrificio degli innocenti. Polissena è sgozzata da Neottolemo. Anfora tirrenica, Pittore Thimiades, 570-550 a.C. British Museum-Londra.

Ma torniamo a “Le Troiane”. Cassandra, la sacerdotessa e profetessa che era stata violentata da Aiace Oileo davanti all’altare di Athena, viene scelta da Agamennone come concubina. Cassandra è forte come la madre, non si assoggetta, medita vendetta: «Ucciderò l’illustre sovrano degli Achei e devasterò la sua casa vendicando i fratelli e il padre mio». Cassandra esalta il coraggio dei Troiani che avevano combattuto per una causa giusta e dice: «Deve evitare la guerra chi è assennato. Ma se uno giungesse a tanto corona non turpe per la città è il morire degnamente e indegnamente morire è invece infamante».

Lo stupro delle donne dei vinti. Cassandra si aggrappa disperatamente alla statua di Athena per sfuggire alla violenza di Aiace Olileo. Tondo di Kylix attica, pittore di Krodos, 440-430 a.C. Museo del Louvre.

Andromaca, la amata moglie di Ettore, viene destinata a Neottolemo, il figlio di chi le aveva ucciso il marito. Le viene strappato dalle braccia il piccolo Astianatte che sarà scaraventato dall’alto delle mura di Troia. La stirpe dei Priamidi doveva essere annientata.

La violenza verso gli innocenti. Neottolemo, il figlio di Achille, afferra per i capelli il piccolo Astianatte e lo getta dalle mura. Anfora attica, Pittore di Alkimaco, 460 a.C. Museo Archeologico di Spagna.

Andromaca non può far nulla. Se si fosse opposta il corpo del figlio non avrebbe avuto sepoltura, unica concessione degli Achei verso un bimbo di cui avevano paura. Tocca a Ecuba vedere il corpo sfracellato del nipotino che le viene portato sullo scudo con cui il padre aveva combattuto. Lo strazio di Ecuba è duplice. Rivede infatti lo scudo del figlio tanto amato a cui così si rivolge: «O tu che il braccio bello di Ettore proteggevi, tu hai perduto il tuo custode migliore. Come dolce nella tua impugnatura resta l’impronta e nei bordi ben torniti dello scudo il sudore che Ettore spesso dalla fronte stillava nelle fatiche, quando ti avvicinava al suo mento».

Quando un figlio è pronto per la battaglia. Ettore armato di tutto punto ha già imbracciato il suo scudo e saluta i genitori. Madre e figlio si guardano intensamente. Il padre Priamo è commosso. Anfora attica, Pittore di Ettore, 450-440 a.C. Museo Gregoriano Etrusco – Roma.

La spedizione militare ateniese in Sicilia termina tragicamente nel 413 a.C.. Atene sconfitta è annientata e sconvolta. Nel 412 a.C. Euripide presenta la sua tragi-commedia “Elena”. Non si conosce il responso della giuria verso un’opera che stravolgeva completamente il mito che era all’origine del racconto omerico della guerra di Troia. La Elena in carne e ossa di cui parla Euripide non era a Troia ma in Egitto. Paride era stato ingannato da Era, la moglie di Zeus, e aveva portato a Troia una nuvola evanescente, un eidolon, che svanisce quando Menelao giunge in Egitto durante il suo avventuroso viaggio di ritorno in patria. Menelao, stupefatto, ritrova la moglie che lo aveva aspettato fedele per tanti anni. 

Ma allora, secondo Euripide, per chi e perché tanti uomini avevano combattuto? Per chi e perché tanti uomini avevano perso la vita? È lui che dà la risposta: «È pazzo chi cerca la gloria a suon di lancia nelle battaglie, è un rozzo modo di porre fine ai problemi dell’umanità. Se le decisioni vengono affidate alla lotta di sangue, la violenza non abbandonerà mai le città degli uomini. Grazie ad essa alla fine hanno ottenuto solo un posto sotto la terra troiana: eppure si poteva risolvere con le parole la contesa sorta per te, Elena».


(https://eredibibliotecadonne.wordpress.com, 24 maggio 2022)

Corpi Celesti di Jokha Alharthi, Bompiani 2022. In sapiente alternanza fra passato e presente, animata dal desiderio di confrontarsi con antiche regole e sovvertirle, l’autrice intreccia le vicende del protagonista con quelle di tre sorelle e dei loro figli, sullo sfondo dell’Oman di oggi, con le sue luci e ombre. Jokha Alharthi, scrittrice omanita, vincitrice nel 2019 del Man Booker International Prize, dialoga con Viviana Mazza, giornalista del Corriere della Sera. Introduce Mirella Maifreda.

Accesso con mascherina FFP2

Per acquistare online Corpi celesti:

https://www.bookdealer.it/goto/9788830103221/607

di Associazioni femministe


Abbiamo deciso di sospendere domenica 22 maggio il presidio di pace alla Statua della Libertà di Palermo per partecipare alle manifestazioni per il trentennale della strage di Capaci. Ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, brutalmente assassinati dalla mafia e non solo, è necessario per una società fondata sui valori della giustizia, della verità e della pace, messi oggi pesantemente in discussione dalla guerra in corso.

L’aveva capito bene Pio La Torre, quando denunciò con forza e lucidità che l’installazione dei missili a Comiso da parte degli Stati Uniti avrebbe trasformato la Sicilia in una portaerei nel Mediterraneo e avrebbe dato ulteriore spazio agli interessi mafiosi. Contro tale mortifera prospettiva creò un largo movimento di popolo per la pace e il disarmo e anche per questo venne barbaramente ucciso insieme a Rosario Di Salvo.

Il presidio di pace si farà ogni giovedì a partire dal 26 maggio, dalle 18.00 alle 20.00, alla Statua della Libertà:

– Per riaffermare gli strumenti della cultura e della diplomazia come uniche vie per la pace

– Perché si ponga fine alla guerra in Ucraina e ad ogni guerra nel mondo

– Perché si interrompa la corsa agli armamenti e la conseguente produzione di armi

– Per una Europa del disarmo e della pace

– Per sostituire alla logica della forza e del dominio la logica dell’attenzione e della cura

– Per realizzare un vero progresso umano fatto di coesistenza cooperativa

– Per la smilitarizzazione del nostro territorio con particolare riferimento alle basi di Niscemi e Sigonella.

Dinanzi al monumento dedicato ai caduti di guerra continueremo a ribadire il nostro No ai caduti, eroi, martiri di guerra e riempiremo la piazza di corpi, parole e pensieri di vita e di pace!


Abbiamo cambiato il giorno e l’ora per permettere una più larga partecipazione.

UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Donne caffè filosofico Bonetti – Il femminile è politico – #Governo di lei – Donne no Muos no War – CIF – Emily – FIDAPA sez. Palermo Felicissima – Associazione Donne Islamiche Fatima – LAB.ZEN 2 – Le Onde – Arcilesbica


(https://www.bibliotecadelledonnecentrodiconsulenzalegale-udipalermo.it, 22 maggio 2022)

di Franca Fortunato


La tragedia della guerra che si sta consumando nel cuore dell’Europa ci restituisce immagini di donne molto diverse se il nostro sguardo, dentro e fuori l’Ucraina, si sposta dalla scena del potere, dove le donne parlano la lingua degli uomini, alle donne “comuni”, che parlano la lingua della vita. Da donne delle istituzioni europee e dei Parlamenti dei vari Paesi, da premier di Stati o dalla portavoce dell’Allenza atlantica, non sono arrivate parole o gesti discordanti da quelle degli uomini:  “gli ucraini vinceranno”,  “armi”, sempre più armi, “sanzioni”, sempre più sanzioni, a costo di strangolare i popoli europei non meno di quello russo, “nessuna trattativa fino alla vittoria”, pur sapendo del rischio di una guerra nucleare e di una crisi alimentare globale preannunciata e non scongiurata, quasi fosse un cataclisma naturale. Il tutto accompagnato da parole quali “libertà”, “autodeterminazione”, “valori occidentali”, “democrazia”, “bene” e “male”. Parole di uomini quelle della vice prima ministra ucraina, Iryna Vereščuk, che ad ogni apparizione televisiva ribadisce che con il nemico non si tratta, lo si annienta. Ma quello che ogni volta (mi) colpisce è l’odio che traspare dalle sue parole, non tanto contro Putin quanto contro tutto il popolo russo, come se lì non ci fossero state e non ci siano manifestazioni e proteste, col rischio di finire in carcere, o dimissioni e prese di posizioni contro la guerra, insomma una resistenza non violenta. Resistenza quotidiana attraverso atti simbolici come indossare abiti azzurri e gialli, portare un nastro verde al braccio, o portare in tv, nel giorno della parata della Vittoria, un cartello con scritto: «Il sangue di migliaia di ucraini e centinaia dei loro bambini assassinati è sulle tue mani. La tv e le autorità mentono. No alla guerra» o cartelli sul territorio con l’immagine di un veterano che dice: «Mi vergogno di voi nipoti. Noi abbiamo combattuto per la pace, voi avete scelto la guerra». Resistenza del movimento degli obiettori di coscienza la cui coordinatrice, Elena Popova, arrestata e poi rilasciata mentre distribuiva volantini che incitavano le madri a non mandare i propri figli in guerra, sostiene con avvocati i soldati che si rifiutano di andare in guerra o di tornarci, o i “disertori” all’interno delle forze armate. Parole vicine alla vita, al dolore delle madri, senza odio, sono quelle di un’anziana russa ucraina: «A chi serve questa guerra? Non riesco a capire, io sono una russa, loro sono russi. Perché sono venuti qui a uccidere i nostri bambini? Perché se hanno gli stessi bambini che abbiamo noi? Ho chiesto al soldato russo se anche lui aveva figli. Lui ha detto di sì. Gli ho chiesto perché sono venuti per uccidere i nostri bambini e lui non ha saputo rispondere». Parole di vita dette con gli occhi dalle due amiche Albina (russa) e Irina (ucraina), mentre reggono la croce il Venerdì Santo. Parole di vita di Alissa (russa) e Olia (ucraina), amiche chef di Londra, dove con un appello hanno coinvolto i ristoratori nell’aiuto a profughe ucraine. Parole di vita di Kseniya Forte, russa d’origine, che a Cremona ha aperto la sua casa a una madre ucraina con due bambini e con la suocera. «Vita e la sua famiglia non sapevano che io fossi russa. In auto, di ritorno dalla stazione vedendo che parlavo russo, me lo hanno chiesto. Io sono di San Pietroburgo, è un problema?» La risposta è stata: «Nessun problema. È stata l’inizio di un’amicizia». Parole e gesti di donne che, tra tanto odio, sangue e violenza, tessono e custodiscono i fili della pace e dell’umano, al di là e oltre la barbarie della guerra.


(Il Quotidiano del Sud, 21 maggio 2022)

L’Associazione Lucrezia Marinelli presenta il film Pétite Maman di Céline Sciamma, Francia, 2021. Cosa succederebbe se madre e figlia si incontrassero in un tempo in cui la madre ha la stessa età della figlia bambina? Céline Sciamma gioca con il tempo sperimentando incanti e possibilità come in una magia o in una fiaba. Un viaggio nella memoria e nei ricordi che interroga le relazioni familiari e in primo luogo quelle tra madre e figlia. Presenta Silvana Ferrari.

di Antonella Nappi e Giovanna Cifoletti


Noi che ragioniamo di femminismo e di salute nell’associazione Difendiamo la salute, abbiamo pensato dal primo giorno della guerra in Ucraina che quel governo dovesse arrendersi a un cessate il fuoco con l’invasore russo. Ciò si imponeva data la disparità delle forze, le sofferenze e i lutti, e la certezza da parte nostra di non volere partecipare a una guerra per nessuna ragione.

Siamo convinte che le ragioni di chi confligge possono essere comprese da chi non è accecato dall’odio, né dalla necessità di combattere per mettere in salvo il suo corpo. La popolazione che fugge dalla guerra è la stessa che vuole si trovi un accordo; deve essere aiutata a farlo: perché le guerre servono i ricchi e distruggono la possibilità di vivere dei poveri. Ci vogliono mediatori che non introducano altri interessi ma soltanto quelli di salvare le vite, gli affetti, i beni già posseduti: le case, le città; e quella di non aggravare con le armi le condizioni ambientali.

Chi aggredisce deve essere ascoltato, indotto a parlare; si può trovare un compromesso tra i governi in lotta, se sospinti dai popoli e da governi che volessero essere davvero neutrali, questo perché i ragionamenti sulle necessità economiche e politiche hanno riferimenti compatibili per tutto il mondo. Sono i dirigenti generalmente a privilegiare il loro proprio pensiero, le relazioni tra loro, i principi astratti o le strategie guerresche, quando possono agire senza essere controllati dai loro popoli.

Forse perché i governi sono sempre stati maschili e siamo abituate a sopportare mille oppressioni per sopravvivere, ma anche a cercare di migliorare la nostra posizione con i mezzi che individuiamo personalmente, generalmente noi donne davanti alle armi pensiamo si debba salvare la vita. La politica delle donne inoltre ha insegnato a disertare quella maschile per creare tra noi pratiche nuove e consapevolezze che anche gli uomini possono esercitare. La resistenza che conosciamo è quella di trovare la nostra voce e farla sentire: dal gruppo degli amici alla famiglia, dai luoghi del lavoro alle istituzioni, al governo; la strada percorribile è per noi la nostra sussistenza e poi quella delle progressive libertà in relazioni civili.

La guerra civile tra antirussi e filorussi martoriava da anni i corpi degli ucraini, molte ucraine ce lo hanno testimoniato. Difficile vivere a fianco di due influenze opposte provenendo da quella russa e contemporaneamente ubriacati, come gli occidentali, dall’immagine del consumo, dalle immagini di libertà di parola e di associazione e d’impresa; senza sapere però, come in Italia sappiamo, che non contano niente in termini di potere e che quest’ultima crea anche enormi difficoltà e fallimenti.

Così anche le elezioni: senza informazione colta e veritiera, senza partecipazione politica totalmente aperta all’eleggibilità, senza controllo popolare sull’organizzazione al voto, esse sono oggi una delega al potere assoluto. La democrazia occidentale serve i ricchi, è un paravento dietro al quale tutto è indirizzato alla creazione di grossi capitali. E la guerra non fa che aumentare tale mancanza di democrazia.

In ogni governo si nasconde una dittatura possibile, il furto dei beni pubblici e le tangenti che affliggono ogni popolo vanno combattuti con armi civili all’interno del proprio paese, è questa la resistenza pacifica, la conflittualità da ragionare e controllare che ciascuno offre alla pace di tutti i popoli. La propaganda occidentale al consumo, irresponsabile degli inquinanti che produce, è un inganno che va mostrato.

Anche per l’Europa e non solo per la Russia, una zona indipendente da entrambe le influenze sarebbe utile: governi indipendenti lungo i confini della Russia andrebbero preservati e sostenuti congiuntamente da queste. Includere in Europa o nella Nato quegli Stati che lo hanno chiesto, come è successo, solleva oggi molti commenti negativi se non viene concordato proprio con la Russia.

La guerra è stata preparata con consapevolezza da anni, da più soggetti politici, nell’evidenza che le pressioni sulla Russia erano per questa difficili da sopportare: era presente una guerra fredda tra più stati di cui nessuno ha voluto tenere conto e ora che i fatti sono divenuti espliciti e gravissimi bisogna creare un’ampia ragionevole contrattazione tenendo conto anche del pensiero politico creato dalle donne: questo privilegia, data la loro esperienza, le possibilità di sopravvivere rispetto ai principi.

La popolazione europea che ha goduto la pace per settantacinque anni non sopporta neppure l’idea della guerra. Questa guerra del resto non è legittimata rispetto alle leggi e ai trattati esistenti. I giovani di Fridays for future chiedevano pace in piazza il 26 marzo e concordavano con il nostro cartello che diceva: «Arrendetevi, solo diplomazia». È l’unica soluzione per non morire in Ucraina e per non rischiare una guerra mondiale. Anche le manifestazioni del 25 aprile in Italia l’hanno preteso. I governanti invece, specie quelli italiani, sono molto combattivi per una virilità retoricamente intesa; ricordano con affetto le contrapposizioni politiche del passato invece di partecipare alla resistenza nell’oggi: quella che domanda di affrontare le problematiche ambientali e quelle sociali che sono le stesse per tutto il mondo. Vivono nella logica del servilismo atlantico e valorizzano le relazioni di potere.

Il governo italiano ha compreso di recente, solo tramite i sondaggi, che la maggioranza degli italiani non vuole più inviare armi e vuole ritirare ogni sanzione perché le considera guerra alla Russia, all’Europa e al mondo intero. Di conseguenza ha deciso che gli italiani devono cambiare opinione: ha diffuso direttive di censura ai media e chiesto interventi conseguenti a chi più è in vista. Fin da marzo il governo si era fatto delegare, da un parlamento unanime, le direttive sugli invii di armi e la scelta riguardo le sanzioni fino al 31 dicembre. Questa è la nostra inesistente democrazia: non vuole sfigurare nelle relazioni internazionali, non vuole mostrare alcun amore per il proprio paese; questo è il rigore maschilista che ha sempre delegato alle femmine la cura dei corpi e della vita, sbeffeggiandole politicamente. Vuole anche nascondere quanti sbagli ha fatto nel disinteressarsi delle tensioni e mire degli Stati con cui si allinea. Le basi militari che permettiamo agli americani, inutili per noi e dannose perché ci hanno coinvolto in molte guerre di aggressione, divengono per il governo un vanto quando l’alleato le mette in funzione.

Vorremmo impedire che il pianeta subisca nuovi inquinamenti con l’attività militare e vengano affamati moltissimi popoli: quelli già martoriati da altre guerre. Impedire il ritrattare delle scelte già prese in favore dell’ambiente e della salute dei cittadini: come riarmarsi e riutilizzare il carbone; sconvolgere gli approvvigionamenti già decisi, già pagati dal lavoro umano e dai territori. Vorremmo impedire soprattutto l’arretramento democratico della prassi politica in atto nel nostro paese, in Europa e nel mondo.

Dovrebbero invece tutti gli Stati, come scrivono i Disarmisti esigenti in partenariato con la WILPF (Women’s International League for Peace and Freedom), occuparsi di quella guerra mossa dal pianeta contro di noi: abbiamo disturbato i suoi equilibri ambientali e dobbiamo ripristinarli. I pacifisti italiani che a Comiso hanno lottato contro le basi militari americane e poi sono diventati maggioranza lottando contro il nucleare, indicano la nuova resistenza: è restare responsabili di sé e delle esigenze degli altri, di quelle della natura soprattutto che è l’autorità che a buon diritto ci comanda.

La storia delle donne ha dimostrato che esse hanno subito tutti i tipi di governo a partire da quello famigliare, sono state tolleranti rispetto alle molte diverse oppressioni per cercare però la sopravvivenza: dove e come la vedevano, e molte di loro se lo dicevano con chiarezza. Scappavano: in compagnia soltanto di se stesse, quando potevano farlo; si avventuravano in nuove relazioni e nuovi contesti ovunque vedessero un poco di libertà e una migliore indipendenza. In Italia le contadine del nord sono andate in Francia a lavorare in fabbrica a tredici anni, la notte studiavano la lingua. L’andare in città a prestare servizio l’hanno fatto generazioni di bambine e ragazze e donne che lasciavano ad altre i figli. Le prime a emigrare in Italia dai paesi più poveri dagli anni ’60 sono state donne, solo recentemente assistiamo al giungere degli uomini. Un governo vale l’altro si arriva a pensare, dal momento che ci si deve sempre attivare per allargare le libertà di pensiero, di lavoro, di salute a livello personale e collettivo, e ciò è possibile in pace.

La capacità di sostenersi delle donne è divenuta sempre più capacità di dirsi in politica e di dirsi differenti da quanto il potere pretende da loro. Anche gli uomini cominciano a dirsi differenti tra loro; molti sanno ormai che la forza è quella di resistere ai propri impulsi aggressivi, ai condizionamenti che non condividono, quella di argomentare i propri sentimenti e desideri.


(www.libreriadelledonne.it, 19 maggio 2022)

di Umberto De Giovannangeli


Ha dedicato la sua vita alla difesa dei più indifesi. Nell’amata Africa come nella Napoli diventata oggi la sua città. Per lui, solidarietà, pace, giustizia sociale non sono solo parole ma valori da praticare là dove s’incontra la sofferenza, la rabbia ma anche la voglia di riscatto dei “dannati della terra”, come quelli da lui incontrati, “vissuti”, a Korogocho (“Caos, confusione”), una delle baraccopoli che attorniano Nairobi, capitale del Kenya. Questo e tanto altro è Alex Zanotelli, 84 anni portati benissimo, missionario comboniano, icona vivente del pacifismo italiano. Sulla guerra ha idee molto chiare.

Si dice: senza le armi fornite alla resistenza ucraina dagli Stati Uniti e dall’Europa, i russi avrebbero già conquistato l’Ucraina. Padre Alex, lei che all’invio di armi si è sempre dichiarato contrario, si sente per questo un “sodale di Putin”?

In questa lista di proscrizione dovrebbero mettere anche Papa Francesco. Ma non si azzardano a farlo, semmai provano a silenziare le sue vibranti denunce contro la guerra e le spese militari. Quello che è avvenuto lo riassumo in pochissime parole. Chi ha vinto è il complesso militare-industriale. Prima di tutto degli Stati Uniti e poi dei nostri complessi militari-industriali. Sono i produttori di armi che hanno vinto. E adesso avranno una gran fortuna in avanti. Ci hanno portato alla guerra in Ucraina, ma non si fermeranno qui. Si arriverà quasi certamente ad una nuova cortina di ferro, i blocchi. Ci stiamo già armando adesso e se ci si arma ci si prepara ad altre guerre. È questa la follia umana. Siamo pazzi. Io non ho altre parole.

Ai pacifisti s’imputa una equidistanza, di fatto, fra gli aggrediti e l’aggressore…

Ci sono due cose importanti da tener presenti. Prima di tutto cominciamo col dire che questa storia dell’equidistanza è una gran balla. Perché la prima cosa che noi diciamo è la condanna completa della Russia o per meglio dire del governo di Putin. Non parliamo della Russia tout-court altrimenti continuiamo a demonizzare quel Paese e quel popolo tutto. È il complesso militare-industriale russo, e coloro che ne sono capo, il responsabile di quanto sta avvenendo. E non il popolo russo, e questo va tenuto sempre ben presente. Quel sistema lo condanniamo senza se e senza ma. Hanno invaso una nazione, facendo una guerra orrenda. C’è poi un secondo aspetto altrettanto importante… Vale a dire?

Riguarda la non violenza. Non si può parlare di non violenza adesso in Ucraina. Come fai a farla! La non violenza richiedeva che prima avessimo fatto tutto un lavoro per preparare il popolo ucraino a reagire. A reagire prendendo coscienza, anche facendo tesoro delle lezioni della Storia. Voglio essere molto chiaro su questo. Molto, e male, si è discusso sulla resa. So delle accuse rivolte ai pacifisti dagli interventisti in divisa: allora cosa volevate, che si arrendessero… La storia, dicevo. Pensiamo a cosa ha fatto la Danimarca nella Seconda guerra mondiale. Ben strana “resa” ai nazisti la loro. Il re girava per Copenaghen con la stella di David, e hanno portato tutti gli ebrei in Svezia, e li hanno salvati. Hanno fatto una resistenza, meglio che hanno potuto, dal basso. Hanno salvato un popolo, altrimenti Hitler avrebbe schiacciato tutto. Questa presa di coscienza, per tornare all’oggi, non è stata fatta con la Russia. Si è invece preferito imboccare un’altra strada…

Quale?

Quella di armare l’Ucraina. Il terreno è stato preparato molto bene, dal 2014 in avanti. Con un sacco di armi da parte degli Stati Uniti, degli inglesi… E allora è chiaro che si sono sentiti ringalluzziti. Ecco il lavoro della non violenza. Bisognava prima aiutare un popolo, seriamente, a capire che non poteva accettare di rimanere sottomesso, e quindi indirizzare e organizzare dal basso la resistenza non violenta. Come hanno fatto Nelson Mandela e Desmond Tutu in Sudafrica. Quello è stato un esempio di lotta popolare non violenta che ti fa scontrare con i poteri forti. Uno scontro che accetti ma senza il ricorso alle armi. Il rifiuto delle armi è tutto il contrario di una resa. Tu non puoi sottomettere a lungo un popolo che ha preso coscienza e rivendica e si batte per i propri diritti. Ma questo deve essere preparato. Un altro esempio molto bello è quello delle Filippine, quando fu abbattuta la dittatura di Marcos. Allora, i vescovi, comprendendo la gravità di una situazione che stava precipitando, chiamarono due specialisti bravissimi, che conosco personalmente, dell’Austria…

Cosa accadde, Padre Alex?

Accadde che i due passarono una settimana intera con tutti i vescovi delle Filippine ad aiutarli nell’organizzare una lotta non violenta. I vescovi “usarono” le diocesi fino a che non chiamarono nella piazza centrale di Manila una folla immensa. Marcos rispose schierando i carri armati con l’ordine di sparare. La gente, preparata alla non violenza, ha smontato tutto. Ed è caduta la dittatura di Marcos. Il popolo ha un potere enorme, una volta però che è educato. La non violenza doveva partire prima. Io non ho mai giudicato la resistenza dell’Ucraina. Loro hanno tutto il diritto a resistere. Senza gli aiuti, anche d’intelligence, che noi abbiamo fornito loro, è chiaro che un popolo non poteva resistere ad una potenza militare qual è la Russia. La non violenza attiva richiede un lavoro che parte prima. Ed è un lavoro che ha bisogno tempo e di un impegno costante. Quando un popolo scende in piazza, non c’è nessuno che possa, alla lunga, soggiogarlo. O abbracciamo la non violenza o è finita, non c’è più spazio per le guerre giuste.

Se dico Nato, lei che risponde?

Rispondo con le parole di una delle menti più profetiche che abbiamo avuto in questo Paese. Di uno che è stato l’anima della Costituzione italiana: Giuseppe Dossetti. Dossetti è stato uno dei due della Democrazia cristiana che quando si trattò di votare sull’adesione dell’Italia alla Nato, nel ’49, votò contro. Dando pubblicamente la spiegazione del suo no. Dicendo, in buona sostanza, carissimi deputati, io voto contro, per la semplice ragione che se noi aderiamo alla Nato d’ora in poi l’Italia non sarà più un Paese sovrano. La nostra politica estera la farà qualcun altro. Ha spaccato con De Gasperi e poi si è ritirato dalla politica ed è diventato monaco, dando un importante contributo teologico, assieme al cardinal Lercaro, al Concilio Vaticano secondo. Quella che dette Dossetti è l’unica risposta. Si dice, a ragione, che l’Europa non ha una politica. Non ce l’ha, ma questo sono in pochi a dirlo, perché siamo prigionieri dell’America. Son loro che fanno la nostra politica.

Si dice che la pace si fa con il nemico. Ma quando si definisce il capo dei tuoi nemici, un “macellaio” per giunta genocida. Che cosa si può dire?

Vuol dire che Biden non vuole la pace. Ecco perché la guerra si prolunga. Ed ecco perché stiamo chiedendo che siano Biden e Putin a incontrarsi. Sono loro i due responsabili. E la comunità internazionale deve spingere perché venga trovata una soluzione equa ad una situazione che non nasce il 24 febbraio ma otto anni fa. Cercando di non umiliare Putin. Purtroppo è quello che stanno facendo: creare il mostro. Questa demonizzazione non aiuta la ricerca di una pace equa. E poi, per favore, non andiamo a cercare i crimini o additare criminali. È come se noi non li avessimo fatti, in Afghanistan, in Iraq, ovunque abbiamo portato guerre. È la guerra che è criminale. Quando si usano termini come quelli utilizzati da Biden allora vuol dire che non c’è volontà. Adesso sembra che si stia aprendo qualche spiraglio. Mi auguro che loro due possano sentirsi al telefono e poi vedere come fare a sedersi poi assieme agli ucraini per trovare un quadro giuridico che permetta al popolo ucraino di andare avanti. Ognuno dovrà rinunciare a qualcosa, ma la pace val bene sacrifici. Nonostante tutto, un negoziato è sempre possibile, ci si può mettere d’accordo. Ma i combattimenti devono cessare. La posta in gioco è altissima, rischiamo grosso, una guerra nucleare, l’inverno nucleare.

Noi parliamo giustamente della sofferenza del popolo ucraino. Ma, e penso soprattutto ai grandi mass media, non s’ignorano colpevolmente altri conflitti in corso, oscurando dolori indicibili e guerre “dimenticate” come quella in Yemen…

È un tema importantissimo, questo. Fondamentale. Questa copertura mediatica incredibile che si fa della guerra in Ucraina, mostrando tutte le cose più orrende, è fatta per uno scopo ben preciso, quello di assolutizzare questo conflitto, come se fosse l’unico sulla faccia della Terra.

Invece?

Leggevo proprio ieri su Le Monde diplomatique un articolo molto ben documentato, in cui si parla di 166 zone di conflitto. 166 a livello mondiale! Alcune sono guerre che vanno avanti da anni. Lei ha menzionato lo Yemen. C’è solo da vergognarsi. L’Onu definisce quella in atto in quel Paese la crisi umanitaria più terribile che esista al mondo. Eppure noi italiani continuiamo a vendere le bombe all’Arabia Saudita che le usa poi per bombardare lo Yemen facendo strage di civili. Su questo, silenzio. E soprattutto l’Africa. Io parlo del Congo. Sono milioni e milioni i congolesi morti. È una guerra che va avanti dal ’99. E perché questo? Perché vogliamo i minerali che ci servono per i telefonini, per le batterie per le nostre macchine adesso che diventeranno elettriche. E via di questo passo. Non se ne parla. Si dice: in Russia non c’è opposizione. Come se da noi ci fosse piena libertà d’informazione. Ma quando, ma dove? Se la televisione fosse davvero un servizio, soprattutto quella pubblica, dovrebbe mettere sotto gli occhi di tutti quello che avviene. Ma ci si guarda bene dal farlo.


(Il Riformista, 18 maggio 2022)

di Redazione


Segnaliamo l’uscita dell’ultimo numero del trimestrale di azione Mag e dell’economia sociale “AP Autogestione & Politica prima” dal titolo Andavamo a mietere il grano, il grano, il grano… (n. 2-3, aprile/settembre 2022). Questo numero doppio della rivista, che esce con la collaborazione delle Citta Vicine, è particolarmente ricco di esperienze, riflessioni e rubriche e il dossier Femminismo e profezia.


Ecco il sommario:


– UNA CAROVANA DI SOGNI… anzi, di utopie concrete, per “fare la Pace”, a cura di Paolo Pasetto

– Guerra in Ucraina, crisi alimentare, transizione ecologica, a cura di Francesco Benciolini

– MALVE DI UCRAINA Associazione Femminile a Casa di Ramia -Verona, a cura di Fabiana Bussola

– ATTINGERE al SENTIRE PROPRIO: la sorgente viva della libertà femminile, a cura di Laura Minguzzi

– LA SCELTA NASCE DALLA CONOSCENZA. Fisico, sostenibile, veronese: è il primo negozio plastic-free scaligero, a cura di Tommaso Vesentini

– COMUNITÀ ENERGETICHE. Una possibile chiave di volta per la transizione ecologica, a cura di Debora Poles e Sandro Giuliari

– Dossier – FEMMINISMO E PROFEZIA, a cura di Alessandra De Perini

– I MASCHI, LA GUERRA, LA POLITICA. Appello agli uomini di valore, a cura di Simonetta Patanè 

– IL CAMBIAMENTO CHE PASSA DALLA RELAZIONE, a cura di Gemma Albanese

– EDILIZIA PUBBLICA e SOCIALE: quale stato di salute a Verona, a cura di Giuseppe Braga e Michele Ceschi

– SHAMSIA HASSANI street artist di Kabul, a cura di Anna Di Salvo

– Figure Femminili nella storia – TROTULA LA MEDICA VIRTUOSA, a cura di Anna Di Salvo 

– Spaginando. L’EREDITÀ DI GINO STRADA PER UN MONDO SENZA GUERRE, a cura di Franca Fortunato

– Letto per voi. CHTHULUCENE: sopravvivere su un pianeta infetto. Recensione del testo di Donna Haraway, a cura di Elisabetta Zamarchi

– Letto per voi. CONTRORA. Recensione del libro di Katia Ricci, a cura di Franca Fortunato


La rivista è in vendita alla Libreria delle donne. È possibile sottoscrivere l’abbonamento ad Autogestione & Politica Prima al costo di € 25 annui cliccando al seguente link: https://magverona.it/partecipa-e-sostieni-la-mag/abbonati-alla-rivista-a/

Per qualsiasi informazione rivolgersi a: Segreteria CASA COMUNE MAG – Giulia Pravato Tel. 0458100279 (dal lunedì al venerdì ore 9.00-13.00 e 14.00-18.00).


(www.libreriadelledonne.it, 18 maggio 2022)

di Secunder Kermani – BBC News Kabul


Nascosta in un quartiere residenziale, c’è una delle nuove scuole “segrete” dell’Afghanistan, che rappresenta un piccolo ma potente atto di sfida contro i talebani.

Circa una dozzina di ragazze stanno frequentando una lezione di matematica.

“Sappiamo delle minacce e siamo preoccupate”, ci dice l’unica insegnante, ma aggiunge che l’istruzione delle ragazze vale “qualsiasi rischio”.

In quasi tutte le province del Paese , i talebani hanno imposto che rimanessero chiusele scuole secondarie femminili.

Nella scuola che stiamo visitando, hanno svolto un lavoro impressionante cercando di replicare una vera classe, con file di ordinati banchi blu e bianchi.

“Facciamo del nostro meglio per tenerlo segreto”, dice l’insegnante, “ma anche se mi arrestano, mi picchiano, ne vale la pena”.

A marzo sembrava che le scuole femminili stessero per riaprire. Ma circa un’ora dopo l’arrivo delle alunne, la dirigenza talebana ha annunciato un improvviso cambiamento di rotta.

Per le studenti della scuola segreta e per molte altre ragazze, il dolore è ancora vivo.

“Sono passati due mesi ormai e le scuole non hanno ancora riaperto”, ci ha detto una diciannovenne in un’aula improvvisata. “Mi rende così triste”, ha aggiunto, coprendosi il viso con i palmi delle mani per trattenere le lacrime.

Ma c’è anche uno sentimento di lotta.

Un’altra studentessa di 15 anni ha voluto mandare un messaggio ad altre ragazze in Afghanistan: “Sii coraggiosa, se sei coraggiosa nessuno può fermarti”.

Le scuole elementari femminili sono state riaperte sotto i talebani, e in effetti hanno visto un aumento delle presenze in seguito al miglioramento della sicurezza nelle zone rurali del Paese, ma non è chiaro se e quando le ragazze più grandi potranno tornare in classe.

I talebani hanno affermato che prima è necessario mettere a punto il corretto “ambiente islamico”, ma poiché le scuole erano già separate per genere, non si capisce cosa significhi.

Funzionari talebani hanno ripetutamente insistito in pubblico sulla riapertura delle scuole femminili, ma hanno anche ammesso che l’istruzione femminile è una questione “sensibile” per loro. Durante il loro precedente periodo al potere, negli anni ’90, a tutte le ragazze è stato impedito di andare a scuola, apparentemente per “problemi di sicurezza”.

Ora diverse fonti hanno detto alla BBC che pochi personaggi intransigenti, ma altamente influenti nel gruppo, sembrano ancora contrari.

In privato, altri membri talebani hanno espresso il loro disappunto per la decisione di non aprire le scuole femminili. Il ministero dell’Istruzione dei talebani è sembrato sorpreso come tutti quando la leadership ha annullato l’apertura a marzo e si ritiene che alcuni alti funzionari talebani stiano educando le loro figlie in Qatar o in Pakistan.

Nelle ultime settimane, numerosi studiosi religiosi legati ai talebani hanno emesso fatwa, o decreti religiosi a sostegno del diritto delle ragazze all’apprendimento.

Lo sceicco Rahimullah Haqqani è un religioso afgano, residente per lo più oltre il confine a Peshawar, in Pakistan. È molto rispettato dai talebani e durante un viaggio a Kabul il mese scorso ha incontrato figure di spicco all’interno del loro governo.

E’ cauto nel criticare la chiusura delle scuole ma, parlando nella sua madrassa di Peshawar, con il cellulare in mano, scorre il testo della sua “fatwa”, che condivide decreti di studiosi precedenti e resoconti della vita del Profeta Maometto.

“Non c’è alcuna giustificazione nella sharia [legge] per dire che l’istruzione femminile non è consentita. Nessuna giustificazione affatto”, dice alla BBC.

“Tutti i libri religiosi hanno affermato che l’educazione femminile è lecita e obbligatoria, perché, ad esempio, se una donna si ammala, in un ambiente islamico come l’Afghanistan o il Pakistan, e ha bisogno di cure, è molto meglio se viene curata da una dottoressa”.

Fatwa simili sono state emesse da religiosi nelle province di Herat e Paktia in Afghanistan. È un segno di quanto sia diffuso oggi il sostegno all’istruzione femminile nel Paese, anche tra i circoli conservatori, ma non è chiaro quanto influiranno i decreti.

I talebani hanno formato un comitato per esaminare la questione, ma diverse fonti che hanno legami con i talebani hanno detto alla BBC che, mentre alcuni alti ministri talebani erano d’accordo con la riapertura delle scuole femminili a marzo, l’opposizione era incentrata sulla leadership del gruppo nel città meridionale di Kandahar, dove ha sede l'”Emiro” o Leader Supremo, Mullah Haibatullah.

Dopo aver inizialmente adottato un atteggiamento più flessibile quando hanno preso il potere lo scorso agosto, i talebani hanno recentemente emesso un numero sempre maggiore di editti intransigenti, tra cui rendere obbligatorio il velo sul viso per le donne e incoraggiarle a rimanere a casa.

Nel frattempo, la loro tolleranza per il dissenso, anche nei loro stessi ranghi, sta terminando.

Un membro talebano con un ampio seguito sui social media, aveva fatto un tweet critico sulla chiusura delle scuole femminili, nonché sulle nuove regole che ordinano ai dipendenti del governo di farsi crescere la barba. Così, secondo una fonte, è stato interrogato dal dipartimento dell’intelligence talebana, e in seguito ha cancellato i suoi tweet e si è scusato per i suoi precedenti commenti sulle barbe.

Sembra esserci poca opposizione di base all’istruzione femminile in Afghanistan, ma alcune figure talebane citano preoccupazioni sul fatto che il gruppo dello Stato islamico utilizzi la questione come strumento di reclutamento, se le scuole femminili vengono aperte.

I funzionari occidentali, tuttavia, hanno anche chiarito che i progressi in materia di diritti delle donne sono fondamentali affinché i talebani possano accedere ad alcuni dei miliardi di dollari di riserve estere congelate.

Nel frattempo, le attiviste per i diritti delle donne afgane stanno cercando di garantire che una generazione di ragazze non venga lasciata indietro.

Nella scuola segreta che abbiamo visitato, tengono lezioni per una o due ore al giorno, soprattutto di matematica, biologia, chimica e fisica.

L’insegnante responsabile sa che ci sono molte altre ragazze che vorrebbero partecipare, ma sono vincolate dalla mancanza di spazio e risorse, oltre che dalla necessità di rimanere nascoste.

Non crede alla possibilità che le scuole normali aprano presto, ma è determinata a fare quello che può.

“Come donna istruita, è mio dovere”, dice alla BBC. “L’istruzione può salvarci da questa oscurità”.


(www.bbc.com, 18/05/2022)

di Monica Lanfranco


«Ci opponiamo alla gpa perché il corpo non è un bene patrimoniale e non vogliamo che lo diventi. Personalmente mi oppongo a un’economia fallita che, per cercare ancora profitti, mette sul mercato la fisiologia delle donne e le armi, oliando l’indecenza con parole svuotate di significato, come autodeterminazione o pace, che in realtà significano il contrario. Le donne non devono essere corpi di servizio riproduttivo, chi nasce non deve essere un prodotto industriale. Chi vuole diventare genitore e non può deve ricorrere ad altri percorsi perché quello della gpa è disumano».

Così Cristina Gramolini, presidente di ArciLesbica, che insieme al gruppo La Comune, alla Libreria delle donne, a Femministe libere e SNOQ libere e oltre riunite nella rete Dichiariamo danno appuntamento a Milano il 21 maggio a Palazzo Moriggia all’incontro Gravidanza e genitorialità-tra intimità e mercato.

La questione della gestazione per altri o utero in affitto, come la si chiama per evidenziare in modo inequivocabile la connessione con la compravendita della disponibilità del corpo della donna che porta in grembo una vita “in appalto”, è tema di aspro dibattito non da ora in Italia, e territorio di dispute nel mondo femminista.

Ultimo intervento favorevole alla “libera scelta”, in ordine di tempo, quello di Roberta Ravello, che dal blog del Fatto quotidiano stigmatizza l’appello della destra italiana incarnata da Giorgia Meloni che ha depositato un disegno di legge in Commissione Giustizia alla Camera per rafforzare il divieto dell’utero in affitto rendendo la maternità surrogata un reato universale.

Come spesso accade quando sul corpo, la sessualità e la famiglia la destra prende parola e propone, in antitesi con il pensiero femminista, soluzioni non facoltative ma nettamente obbligatorie, il rischio è la reazione a scudo che rigetta ogni argomentazione che critichi, in modo lontano dalla logica familista e tradizionalista, ciò che non va nella pericolosa connessione tra corpi e mercato, invocando contro la destra le categorie della “libertà” e dell’autodeterminazione per distanziarsi e chiudere ogni ulteriore riflessione.

Gena Corea, una delle autrici del testo collettivo uscito di recente e presentato online Towards the Abolition of Surrogate Motherhood (edizioni Spinifex) ha sostenuto che «la maternità surrogata non è libertà. È un crimine. Le donne non si accontenteranno della libertà spazzatura. Vogliamo la vera libertà, la sostanza, non solo l’apparenza. Vogliamo un vero nutrimento per il nostro spirito. Vogliamo la dignità umana. Lo vogliamo per tutte noi. Lo vogliamo per le donne in Thailandia, Bangladesh e Messico, nonché per le donne che non sono ancora nate».

Nel libro, accanto a un eloquente e duro rifiuto della maternità surrogata una serie di studiose e attiviste internazionali delineano le fondamentali violazioni dei diritti umani che si verificano quando la maternità surrogata viene legalizzata e respingono le nozioni neoliberali secondo cui la mercificazione del corpo delle donne può riguardare le “scelte” delle donne.

Phyllis Chesler, oggi ottantenne, della quale Einaudi tradusse e pubblicò nel 1977 il memorabile Le donne e la pazzia con un commento di Franca Ongaro Basaglia sostiene nel testo che la maternità surrogata commerciale è un matricidio, «affetta e taglia la maternità biologica» in donatrice di ovuli, madre “gestazionale” e madre adottiva. Melissa Farley sfata il mito della “scelta” nella maternità surrogata, sostenendo che in un sistema razzista e dominato dagli uomini lo sfruttamento delle donne nella maternità surrogata, come nella prostituzione, è intrinsecamente dannoso: le donne ricche non scelgono di diventare surrogate o prostitute.

«Il progetto di vita di diventare padre e madre è molto significativo per la l’autorealizzazione della persona e l’infertilità è un impedimento che porta a rivolgersi alla medicina riproduttiva – scrivono le donne della rete Dichiariamo nell’invito all’appuntamento di Milano –. Si tratta di un ambito non commerciale in Italia ma in altri paesi è un promettente campo di investimento e profitti. Esistono differenze che conviene mantenere: il corpo non è un bene patrimoniale, generare non è produrre, nascere non è essere fabbricati». Il dibattito continua.


(micromega.net, 17 maggio 2022)

di Ciro Fusco


Martedì mattina l’Associazione Luca Coscioni ha presentato alla Camera dei Deputati un’indagine che mostra che, su oltre 180 ospedali e consultori italiani che dovrebbero garantire l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), ci sono 31 strutture con il 100 per cento di obiettori di coscienza tra ginecologi, anestesisti, infermieri e assistenti sanitari ausiliari. Considerando anche le strutture con una percentuale superiore al 90 per cento si arriva a 50, e si sale a 80 contando quelle con un tasso di obiezione superiore all’80 per cento.

Sono numeri che mostrano come la legge 194, quella che regola l’aborto in Italia, non venga applicata come dovrebbe. La legge infatti garantisce ai singoli professionisti la possibilità di astenersi dal praticare interruzioni volontarie di gravidanza, ma dice anche esplicitamente che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenute «in ogni caso ad assicurare» che l’IVG si possa svolgere, vietando di fatto l’obiezione di struttura.

L’indagine presentata dall’Associazione Luca Coscioni, che dal 2002 si occupa di libertà civili e diritti umani, si chiama “Mai Dati”: è stata realizzata da Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista, e presentata alla Camera dei Deputati in occasione dei 44 anni dall’entrata in vigore della legge 194 (il 22 maggio del 1978). Una prima ricerca parziale era già stata presentata a ottobre durante il Congresso Nazionale dell’Associazione Luca Coscioni e anche questo aggiornamento non va considerato esaustivo, dal momento che prende in considerazione 180 strutture su oltre 350 che praticano l’IVG in Italia.

La raccolta dei dati è stata realizzata attraverso una richiesta di accesso civico generalizzato alle singole ASL e ai presidi ospedalieri, che prevede la possibilità di accedere a dati, documenti e informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.

Questi numeri non emergono però dalla Relazione sullo stato di applicazione della legge 194 che dovrebbe essere redatta ogni anno dal ministero della Salute, dove i dati vengono riportati aggregati per regione, e quindi senza entrare nello specifico delle singole strutture. Come spiegano Lalli e Montegiove, «non basta conoscere la percentuale media degli obiettori per regione per sapere se l’accesso all’IVG è davvero garantito in una determinata struttura sanitaria».

L’ultima relazione del ministero risale allo scorso anno e contiene i dati definitivi del 2019. Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza vengono presentati i dati nazionali e regionali che vengono richiesti annualmente dal Sistema di Sorveglianza ISS, una rete di raccolta dati dell’Istituto superiore di sanità, attraverso un questionario trimestrale nel quale ciascuna regione indica il numero complessivo di obiettori e non obiettori. Nel 2019, la quota di obiezione di coscienza tra i ginecologi, ad esempio, risultava pari al 67 per cento a livello nazionale.

Non mostrando le percentuali di obiettori nelle singole strutture, i dati del ministero non spiegano quanto avviene realmente, e cioè che alcune strutture che dovrebbero garantire l’accesso all’IGV di fatto non lo fanno perché il 100% del loro personale dedicato è obiettore. Inoltre, nella percentuale di medici non obiettori, che secondo il ministero è pari al 33 per cento, la percentuale di chi esegue realmente le IVG è più bassa, per esempio perché si parla di personale medico che lavora in ospedali nei quali non esiste il servizio IVG.

L’Associazione Luca Coscioni fa notare che «di fatto, sia il ritardo nella presentazione, sia gli indicatori e le modalità di pubblicazione dei dati (chiusi e aggregati), rendono la relazione [del ministero della Salute, ndr] un’osservazione passiva e neanche tanto veritiera della realtà», che si rivela quindi poco utile al fine di superare le diseguaglianze tra le regioni e assicurare a tutte le donne l’accesso all’interruzione di gravidanza.


(Il Post, 17 maggio 2022)

di Margaret Atwood


Nei primi anni Ottanta, scrissi un romanzo che immaginava un futuro nel quale gli Stati Uniti erano disuniti. Parte del Paese si era trasformata in una dittatura teocratica basata sui precetti e la giurisprudenza religiosa puritana del New England del XVII secolo. Lo ambientai dentro e vicino all’università di Harvard, istituzione che negli anni Ottanta era rinomata per il suo liberalismo, ma che era stata fondata tre secoli prima perlopiù come scuola di formazione per il clero puritano.

Nell’immaginaria teocrazia di Gilead, le donne avevano pochissimi diritti, come nel New England del XVII secolo. La Bibbia era stata accuratamente revisionata, e i brani selezionati erano interpretati alla lettera. Sulla base delle disposizioni riproduttive contenute nella Genesi – in particolare quelle della famiglia di Giacobbe – le mogli dei patriarchi altolocati potevano avere schiave, o ancelle, e dire ai loro mariti di procreare figli con queste ultime per poi reclamarli come propri.

Sebbene io abbia finito con il portare a termine il romanzo, intitolandolo Il racconto dell’ancella, durante la sua stesura mi interruppi parecchie volte, perché lo consideravo azzardato e inverosimile. Che sciocca! Le dittature teocratiche non appartengono soltanto a un lontano passato: sul nostro pianeta oggi ce ne sono molte. Che cosa impedisce agli Stati Uniti di diventarne una? Per esempio: abbiamo appena saputo che, secondo l’opinione della Corte Suprema degli Stati Uniti, trapelata nella sua interezza, la giurisprudenza consolidata di cinquant’anni verrebbe rovesciata a partire dalla premessa che l’aborto non è citato nella Costituzione e non è «radicato profondamente nella nostra storia e nella nostra tradizione». È abbastanza vero.

La Costituzione non dice niente della salute riproduttiva femminile. In verità, il documento originale non cita proprio le donne, che furono escluse di proposito dalla Carta costituzionale. Anche se uno degli slogan della Rivoluzione del 1776 era «nessuna tassazione senza rappresentanza» e il governo era considerato una cosa positiva, le donne non sarebbero state rappresentate o governate con il loro consenso, ma soltanto per procura, tramite i loro padri o mariti. Le donne non potevano né dare il loro benestare né negarlo, perché non avevano diritto di voto. La situazione rimase tale fino al 1920, quando fu ratificato il Diciannovesimo Emendamento, fortemente avversato da molte persone che lo ritenevano contrario alla Costituzione originaria. E lo era. Nella giurisprudenza degli Stati Uniti le donne non sono state persone molto più a lungo di quanto sono state persone. Se iniziamo ad abbattere una legge consolidata usando le motivazioni addotte dal giudice della Corte Suprema Samuel Alito, perché non abrogare il diritto di voto delle donne?

I diritti riproduttivi sono stati al centro delle recenti baruffe, ma si è parlato soltanto di una faccia della medaglia: il diritto di astenersi dal partorire. L’altra faccia di quella medaglia è il potere dello Stato di impedire la riproduzione.

La sentenza Buck v. Bell del 1927 della Corte Suprema sostenne che lo Stato poteva sterilizzare le persone senza il loro consenso. Anche se quella decisione fu revocata dai casi successivi e le leggi statali che permettevano una sterilizzazione su vasta scala furono respinte, Buck v. Bell compare ancora nei libri di giurisprudenza. Quel tipo di pensiero eugenetico un tempo era ritenuto progressista, e negli Stati Uniti si effettuarono circa settantamila sterilizzazioni, sia di donne sia di uomini, ma maggiormente di donne. Di conseguenza, una tradizione «radicata profondamente» è che gli organi riproduttivi femminili non appartengono alle donne che li possiedono. Appartengono soltanto allo Stato. Aspettate: state pensando che la vera questione non riguarda gli organi, ma i neonati? Questo solleva alcune domande. Una ghianda è una quercia? L’uovo di una chioccia è una gallina? Quando, esattamente, l’uovo umano fertilizzato diventa un vero essere umano o una persona? La “nostra” tradizione – diciamo quella degli antichi Greci, dei Romani, dei primi Cristiani – è sempre stata vaga su questo argomento. Al concepimento? Quando il cuore inizia a battere? Quando il feto si muove? La linea dura degli attivisti antiabortisti di oggi è fissa sul concepimento, che adesso si suppone essere il momento in cui «l’anima viene insufflata» in un ammasso di cellule. Ciascuna opinione di questo tipo, però, dipende dai princìpi religiosi, in particolare il fatto di credere nell’anima. Non tutti condividono questo principio. Tutti, invece, adesso rischiano di dover sottostare a leggi formulate da coloro che ci credono. Ciò che è peccato nell’ambito di un dato insieme di principi religiosi è un crimine per tutti gli altri.

Prendiamo in considerazione il Primo Emendamento, che afferma: «Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti».

Coloro che scrissero la Costituzione – consapevoli delle sanguinarie guerre di religione che avevano lacerato l’Europa fin dall’ascesa del protestantesimo – desideravano scongiurare quella trappola letale. Non avrebbe dovuto esserci una religione di Stato. Lo Stato non avrebbe precluso a nessuno di professare la religione prescelta. Avrebbe dovuto essere semplice: se si crede nella «induzione dell’anima» al concepimento, non si dovrebbe abortire, perché farlo è un peccato per quella religione. Se non ci si crede, in base alla Costituzione non si dovrebbe essere limitati dai principi religiosi altrui.

Nel caso in cui l’opinione di Alito dovesse diventare la nuova legge consolidata, gli Stati Uniti sarebbero sulla buona strada per definire una religione di Stato. Il Massachusetts nel XVII secolo aveva una religione ufficiale, e in conformità a essa i puritani impiccarono i quaccheri.

Il parere di Alito sostiene di avere i suoi presupposti nella Costituzione americana. Di fatto, il suo parere si basa sulla giurisprudenza inglese risalente al XVII secolo, epoca in cui credere nella stregoneria provocò la morte di molti innocenti. I processi alle streghe di Salem furono veri e propri processi – con giudici e giurie – ma accettarono la «evidenza spettrale». In pratica, si credette che una strega potesse inviare una sua sosia, o uno spettro, nel mondo a commettere malvagità. Di conseguenza, se una donna era addormentata nel suo letto (e per questo c’erano anche dei testimoni), ma qualcuno riferiva che stava commettendo cose sinistre a una mucca a parecchi chilometri di distanza, quella donna era giudicata colpevole di stregoneria: non aveva modo di dimostrare il contrario. Ugualmente, sarà assai difficile confutare una falsa accusa di aborto. Un semplice aborto spontaneo, o la lamentela da parte di un ex partner contrariato, sarà sufficiente a etichettare una donna come assassina. Le accuse per vendetta o rancore si moltiplicheranno, proprio come accadde con le chiamate in giudizio per stregoneria 500 anni fa.

Se il giudice Alito vuole che siate governati dalle leggi del XVII secolo, fareste bene a studiare attentamente quel periodo. È a quei tempi che intendete vivere?


(La Stampa, 15 maggio 2022 – articolo originale su The Atlantic, traduzione di Anna Bissanti)

di Maria Grosso


«Hai lavorato legalmente in Francia?». «Ho lavorato tanto per una signora, facevo la sarta e anche le pulizie». «Ma hai mai avuto una busta paga francese?». «No». «Hai ricevuto la pensione?». «No». «E in Italia?». «Ho lavorato cinque anni in fabbrica senza mai avere una busta paga, poi ho lavorato nei campi ma neanche là mettevano in regola…». 

Una mano femminile istoriata di vene, che scrive a penna su un diario, un paesaggio di campagna, che scorre dal finestrino come fossero anni a ritroso; il gocciolare dell’acqua in un lavatoio e una parete di ritratti fotografici, incorniciati da rosari pendenti: tutto questo diventa un unico flusso di memoria e di scoperta mentre le domande di cui sopra si srotolano come un gomitolo tra una nipote – una regista quasi sempre in voice over – e la nonna, Benita, nata a Vo’, Padova, nel 1930 e poi emigrata ventenne insieme al marito minatore prima in Svizzera e poi in Francia.

Ma c’è anche un tesoro sonoro, un registratore, ritrovato nel 2012, il giorno del funerale del nonno da Noémi Aubry – così si chiama la regista, classe ’81 – con dentro una cassetta e con scritte due date a matita: 1966 e 1986. Si tratta di un oggetto viaggiante grazie al quale i membri della famiglia forzatamente emigrati si scambiavano messaggi con coloro che erano rimasti in Italia.

Ecco, tra analisi sui contesti storico-politico-sociali e loro riflessi nei vissuti individuali e collettivi, Le magnétophone può ben rappresentare la ricerca tra cinema e lavoro del Working Title Film Festival di Vicenza (9-14 maggio), guidato da Marina Resta e giunto alla sua VI edizione.

Dove il punto nodale non è l’attingere del documentario alla biografia familiare – cosa anche abusata in questi anni – ma il suo far riferimento a una genealogia femminile che congiunge in un’unica interlocuzione visionaria la regista la madre la nonna e la bisnonna.

È lì che Le magnétophone va spietatamente a segno, è lì che riesce a cogliere “il lavoro”, questo sconosciuto, attraverso l’insostenibile pesantezza dei carichi sulle spalle di una donna emigrata – allora come oggi –. Un’indagine che, dopo decenni di erosione dei diritti, risulta forse ancora più ardua del processo grazie al quale Benita lavava le lenzuola con cenere e mastello al canale. Ma che pure arriva, facendo percepire cosa volesse dire fronteggiare il lavoro sfruttato fuori casa e quello di cura di una neonata e del suocero a casa, nello straniamento dell’aver lasciato giovanissima il proprio Paese e i propri genitori e ritrovandosi in un ambiente a volte diffidente se non razzista verso gli stranieri. Tanto che Benita più volte è sul punto di andarsene, tanto che sta per perdere la prima figlia perché in ospedale ha difficoltà con la lingua. Questo mentre il marito si ammala per il lavoro in miniera senza aver nemmeno raggiunto i sei anni sufficienti per la pensione. Da ragazza, con sua sorella aveva anche conosciuto il lavoro nelle risaie, le ginocchia in acqua tutto il giorno, in famiglia dormivano in nove in una stanza e sua madre Noemi la sera rammendava i calzini di tutti.

Così, tra registrazioni su fondo nero e home movies, imbarazzo, ringraziamenti per i biscotti ricevuti e promesse di scriversi presto, mentre Benita saluta i vivi e i morti, il marito che le è apparso per tanto tempo e che si è trattenuta dal toccare per evitare scomparisse, continua affettuosa e inoppugnabile la ricerca di Aubry: «Chiamo mia madre e premiamo play, voglio che i messaggi proseguano, voglio di nuovo mia nonna forte e bella con le mani che raccolgono le ortiche senza dolore».


(Alias-il manifesto, 14 maggio 2022)



Il paradigma perturbante della differenza sessuale. Una filosofia femminista di Françoise Duroux, Mimesis 2021. Dalla scommessa della differenza sessuale alla critica al concetto di genere, dalle forme della politica delle donne alle questioni che riguardano la legge, all’interno di una critica al neoliberalismo. Una pratica filosofica sessuata sostenuta da un sapere critico che viene dalla psicoanalisi. Ne discutiamo con Stefania Tarantino e Chiara Zamboni, curatrici del libro, e con Luisa Muraro.



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di Franca Fortunato


Jonas Carpignano regista e sceneggiatore italoamericano da alcuni anni vive a Gioia Tauro e negli ultimi suoi tre film, MediterraneaA Ciambra e A Chiara, ha raccontato vicende di terra di Calabria. In Mediterranea la storia di due immigrati africani, arrivati sulla costa calabrese con uno dei barconi della speranza, in A Ciambra la storia di una piccola comunità rom nei pressi di Gioia Tauro e in A Chiara la storia di una adolescente con un padre affiliato alla ’ndrangheta.

In questa trilogia non ha scelto come protagoniste/i attrici e attori famose/i ma donne e uomini “comuni”, la cui storia, nei primi due, si identifica con quella narrata nel film. Anche la protagonista di A Chiara è una ragazza comune, una adolescente diciassettenne di Gioia Tauro, Swamy Rotolo, passata dai banchi di scuola al set cinematografico e orgogliosamente balzata nei giorni scorsi alla cronaca nazionale per aver ricevuto il David di Donatello, l’Oscar italiano, come migliore attrice protagonista. Un grande riconoscimento, inaspettato, che l’ha sorpresa, ma largamente meritato.

E dire che all’inizio non voleva accettare la parte sentendosi inadeguata, ma il regista l’ha persuasa del contrario e aveva ragione. Una grande interpretazione la sua, un talento naturale che Carpignano ha saputo magistralmente dirigere e fare emergere. Swamy si è riconosciuta in Chiara, nel suo carattere determinato, testardo che non si ferma davanti a nessun ostacolo. «Io e Chiara – ha affermato in un’intervista a questo giornale – caratterialmente siamo in sostanza la stessa persona, entrambe molto determinate. Quando davanti a Chiara si presentano degli ostacoli a lei non interessa e continua ad andare avanti per il suo percorso. Sono così anch’io, testarda proprio come Chiara. Quindi ci somigliamo molto». Si è riconosciuta in lei nella volontà di decidere della propria vita come accade in una scena del film quando al padre che le dice «da adesso in poi quello che fai tu lo decide solo tuo padre» risponde «da adesso in poi quello che faccio lo decido io». È questo che ha reso la sua interpretazione convincente, vera, straordinaria. Si è calata nella storia di Chiara con convinzione perché, dice, «conosco persone che hanno vissuto una storia come quella del film».

Lei e Chiara appartengono alla generazione di ragazze venuta dopo l’avvento della libertà femminile e a loro appartengono anche le donne che dentro le famiglie di ’ndrangheta hanno trovato la forza di ribellarsi, per amore di sé e delle proprie figlie e figli. “Le combattenti” le chiama Marisa Manzini, sostituta procuratrice di Catanzaro, nel suo recente libro, scritto per le scuole, Donne custodi. Donne combattenti, ed. Rubbettino. Non è un caso che Chiara rievochi il nome di Giuseppina Pesce e Anna Maria Cacciola, la cui storia ha ispirato anche il film di Francesco Costabile Una Femmina, e anche lui per la protagonista Rosa ha scelto una ragazza “comune”, una giovane calabrese, Lina Siciliano, anche lei con un grande talento. Una genealogia di forza femminile, insomma, nei film come nella vita. Swamy è consapevole che «il vero punto di forza» dei due film «sia proprio la presenza centrale delle donne» e che «è da noi che anche in Calabria può iniziare la rivoluzione, il cambiamento», rivoluzione e cambiamento già in atto e lei ne è una prova. Non aveva mai pensato di entrare nel mondo del cinema ma oggi ha capito che «questa è la strada giusta da intraprendere», dopo il diploma andrà a Roma a studiare recitazione. Auguri piccola grande donna, orgoglio della Calabria ovunque tu sarai. 


(Il Quotidiano del Sud, 13 maggio 2022)

di Marina Terragni


Ripresentando il ddl Zan, al Senato con scarsissime possibilità che passi – quando invece altre soluzioni, tipo il ddl Scalfarotto, avrebbero assicurato una legge contro l’omobitransfobia – il segretario PD Letta ha più volte sottolineato che il tema dei diritti è decisivo per il suo partito.

Tema dei diritti che tuttavia è sempre posto come complementare, a latere di questioni ritenute ben più rilevanti: la guerra, certo, i temi economici ma anche semplicemente la legge elettorale.

In verità il più della partita politica oggi si gioca proprio su quelli che vengono chiamati “diritti”.

Vero che l’utero in affitto o l’ormonizzazione dei bambini o la libera identità di genere sono questioni che sembrerebbero riguardare solo una minoranza della popolazione. Ma oggi, a trentatré anni dalla fine della Guerra Fredda, sono proprio questi temi a delineare l’orizzonte in direzione del quale ci si muove, o diversamente, al quale si resiste.

Questi temi delineano quello che chiamiamo orizzonte post-umano o transumano, che pensa all’umanità naturale come arcaica e superabile. Quello che le tecnologie consentono di fare diventa immediatamente lecito e desiderabile. L’umano non costituisce più un modello per le macchine, al contrario sono le macchine ad essere modello per la corporeità umana, già a partire dal momento della riproduzione.

Lo stesso campo politico progressista che sostiene la salvaguardia della natura e dell’ambiente promuove dunque l’esautoramento della madre e la denaturazione dell’umano.

L’orizzonte transumano è presentato come destino ineluttabile, ma le cose non stanno così.

Ivan Illich, padre dell’ecologismo contemporaneo, in Gender. Per una critica storica dell’uguaglianza aveva profetizzato che le cose sarebbero potute finire in questo modo, spiegando che la scomparsa del sesso in direzione del neutro «è la condizione decisiva dell’ascesa del capitalismo e di un modo di vivere che dipende da merci prodotte industrialmente» e «degrada le donne […] più ancora degli uomini» perché «il linguaggio comune dell’epoca industriale è contemporaneamente neutro e sessista», e aveva concluso affermando che «la crescita negativa è necessaria per ridurre il sessismo».

Lotta al capitalismo sregolato e lotta per la libertà femminile, resistenza alla neutralizzazione e opposizione al mercatismo danno dunque forma a un unico obiettivo che si potrebbe definire “sopravvivenza del mondo umano”. Perché, spiega ancora Illich, «la lotta contro il sessismo coincide con gli sforzi per ridurre la distruzione dell’ambiente e con i tentativi di contestare il monopolio radicale di beni e servizi sui bisogni».

Affermare che il corpo esiste, lasciarlo pensare e parlare, è un passaggio preliminare ineludibile contro l’invadenza del patrimercato.

Resistere nel dirsi donne è la prima mossa di questa lotta non violenta.

L’alternativa al modello transumano è quella civiltà a radice femminile che non si fonda più sull’individuo e sui suoi diritti, ma tiene al centro la relazione intesa come atomo sociale indivisibile. In questa chiave, per esempio, sarebbe importante pensare a un diritto il cui soggetto è la relazione, e non più l’individuo: un lavoro immane e rivoluzionario.

È la direzione in cui vogliamo muoverci, intendendo come ultra-politici questi temi – che non possono essere evitati, come spesso accade, perché ritenuti “divisivi”: il più della partita si gioca lì.

Il modello transumano si propone come unico, ineluttabile e invincibile: non lo è.

Può essere amaro dover constatare, provenendo molte di noi da una storia di sinistra, che il modello transumano è perseguito e propagandato proprio dai progressisti e dai liberal in tutto l’Occidente democratico. Ma ci sono troppe cose da fare per stare ad amareggiarsi.


(feministpost.it, 13 maggio 2022)

di Patrizia Melluso


Françoise Duroux (1942-2015) ha insegnato all’Università di Paris VIII, dove è stata responsabile di un master sul pensiero della differenza e di un dottorato di Studi femminili, è stata una docente e una militante femminista.

Il paradigma perturbante della differenza sessuale. Una filosofia femminista di Françoise Duroux (a cura di Stefania Tarantino e Chiara Zamboni, Mimesis 2021) raccoglie alcuni degli scritti di Françoise Duroux e alcuni saggi critici. Su queste pagine [del sito della rivista online Il Paese delle donne, ndr] ne ha parlato Giovanna Borrello nella sua recensione del febbraio 2022.

Ne parliamo con Stefania Tarantino, curatrice del volume insieme a Chiara Zamboni, autrice di uno dei saggi critici e traduttrice di alcuni scritti di Duroux contenuti nel testo.

Il paradigma perturbante della differenza sessuale. Una filosofia femminista è stato oggetto di un incontro, sabato 14 maggio alle ore 18.00, alla Libreria delle donne di Milano con l’intervento delle curatrici e di Luisa Muraro.

Paradigma e perturbante, che ricorrono nel titolo del libro, sono concetti contrastanti. Paradigma è un modello, qualcosa di codificato insomma, che rimanda a una certa regolarità. Perturbante, sia che lo intendiamo come sostantivo che se lo consideriamo un aggettivo, è sempre, invece, irregolare, qualcosa che irrompe (e sconvolge) un ordine. Questo contrasto, riferito alla differenza sessuale, ne fa un paradosso?

Paradigma e perturbante sono concetti contrastanti, volutamente messi insieme. La parola paradigma rimanda al senso antico del termine e non al senso moderno legato a un insieme di regole metodologiche: paradigma era un archetipo, un esempio, qualcosa che indicava, mostrava. Platone parlava degli archetipi come realtà ideali, concepiti come eterni modelli delle passeggere realtà sensibili. Qui invece li si lega alla concretezza dei corpi e al loro legame con il divenire dove la differenza sessuale resta perturbante, un nodo che difficilmente si scioglie o si guarda per ciò che è, al di là di tutte le sovrastrutture che nel corso della storia si sono sedimentate sulla differenza sessuale stessa, irrigidendone i caratteri che invece sono transeunti, cangianti e mutevoli.

Duroux non separava vita/biografia e politica, così come Sarah Kofman non separava vita/biografia e filosofia. Entrambe, però, erano donne degli anni Settanta, e vivevano in modo molto pressante la necessità di affermare un pensiero autonomo in un mondo, politico o accademico, molto più fallocratico di quello attuale. Che cosa è cambiato, oggi, per una donna che fa filosofia?

Per una donna che oggi fa filosofia è molto più complesso perché complessa è l’epoca in cui viviamo, con l’insorgere di tante cose nuove che è necessario affrontare tenendo conto di tutti quanti gli aspetti. Rispetto al femminismo degli inizi, oggi ci si trova con un femminismo consolidato che è contrastato dai vari transfemminismi che hanno idee e posizionamenti diversi. Fare filosofia oggi e in particolare una filosofia femminista significa avere uno sguardo ampio sulla contemporaneità, sulla necessità di portare giustizia in tutti gli ambiti e per tutti gli esseri umani e, però, senza rinunciare alla soggettività femminile in quanto tale. Ecco, questa è una sfida molto importante: piuttosto che riandare in un neutro, lavorare alla moltiplicazione delle soggettività ancorandosi a quella che è la loro storia, il loro percorso. Andare verso una moltiplicazione più che in una direzione di neutralità che cancella ancora una volta la soggettività femminile nel suo aspetto ancora non conosciuto, non pienamente dispiegato.

Scrivi, nel tuo saggio, di un’iniziale associazione intuitiva fatta tra Françoise Duroux e Angela Putino. Un’intuizione che poi hai approfondito scoprendo molti punti di contatto tra le loro posizioni e con il pensiero di Virginia Woolf. Li puoi accennare?

Il pensiero di Virginia Woolf è fondamentale nel percorso teorico e femminista di Françoise Duroux (e anche di Angela Putino) che le dedica anche un libro. Ciò che Duroux apprezza in particolare è di aver visto il pericolo di un’inclusione che schiaccia ancora una volta le donne in una soggettività costruita da altri. Duroux critica il modello che le società moderne propongono riferendosi alla società delle estranee di Woolf, o all’inclusa/esclusa di cui parla un’altra autrice, Nicole Loraux. È qui il passaggio, per lei, dal patriarcato a una società fallocentrica. Occorre quindi essere vigili, essere sentinelle su questo. Virginia Woolf è una donna che ci dà tutti gli strumenti per poter vedere chiaramente questo imbroglio e per andare alla ricerca della nostra soggettività, al di là dei modelli imposti dalla modernità che sembrano tanto inclusivi e che invece sono un’ulteriore trappola per le donne.

Françoise Duroux rimarca nei suoi scritti la distanza da un femminismo che, soprattutto in Francia, ha fatto leva sull’emancipazione e sulla parità di diritti e salari. Qual è il principale punto di distanza tra il femminismo di Duroux e quello che ha puntato tutto sulla parità?

Françoise Duroux è una pensatrice della differenza sessuale che dà un taglio molto particolare a tale differenza. Ecco perché ho segnalato la vicinanza con il pensiero di Angela Putino. Per loro la differenza non è una differenza pensata in una forma essenzialistica, né fondata da rapporti sociali oggettivi, ma simbolica, fondata dall’immaginario e dal fantasma. La sua è stata una posizione “marginale” che però le ha consentito di restare indipendente dal punto di vista del pensiero. Quello che le interessava era partire da una posizione femminista di guerriera, non di vittima. È a partire dalle singolarità che si può avere quella rivoluzione simbolica e dell’immaginario che Françoise Duroux auspicava. Non bisogna dimenticare, inoltre, che lei prende da Freud l’idea che la libido sia una, che non ci siano due libido e che le forme che la soggettività incarna, a partire dalla storia vissuta, possono dare luogo a infinite variazioni. Una soggettività libera, desiderante e potente che va a sparigliare le carte dei sistemi che invece incasellano le soggettività e le loro forme. In questo senso è molto interessante la sua passione per la danza, una passione anche teorica. Nelle infinite posture che il corpo può assumere nei passi di danza, Françoise vedeva il dislocarsi di posizionamenti diversi, possibili, per le soggettività a partire dal loro vissuto concreto e reale.

Alcune femministe evocano la condizione delle donne nere, delle migranti, insomma altre subalternità, e le considerano punti privilegiati per contestare l’ordine globale del capitale neoliberale. In questo libro, invece, c’è un richiamo molto forte alla singolarità dell’esperienza della differenza, che non si può ridurre a un “insieme”. C’è un rischio che l’insieme renda insignificante la potenza della differenza?

Per Françoise Duroux, e qui c’è l’elemento di distanza con i femminismi che appiattiscono la differenza sessuale sulla questione sociale o di mero costrutto sociale: la differenza sessuale affonda nella dimensione antropologica e psico-fisica, e in questo senso è archetipica. La psicoanalisi è un’arma che Françoise Duroux usa, accogliendo di Freud alcune cose e altre no. È un po’ la stessa cosa che fa, da questo punto di vista, Sarah Kofman (ndr: a Sarah Kofman è dedicato il seminario che Tarantino ha tenuto all’Istituto per gli Studi filosofici di Napoli il 16, 17 e 18 maggio).

Di questo libro, sei curatrice ma anche una delle traduttrici. Come è stata l’esperienza della traduzione di un linguaggio così contemporaneo, polemico e provocatorio di Duroux?

Il linguaggio di Duroux è molto complesso, come dice Mireille Azzoug nella sua introduzione. Passa da un linguaggio molto forbito a un linguaggio molto più popolare, se non addirittura volgare. È stato quindi difficile restituire pienamente il significato delle sue parole e su questo è stato di grande aiuto il confronto con le mie amiche francofone e non solo. Ma come esperienza di traduzione è stato un viaggio bellissimo, un’esperienza di immersione totale nel pensiero e nella voce di Françoise Duroux.


(Il Paese delle donne rivista online-womenews.it, 13 maggio 2022)