di Sarantis Thanopulos


Un paese guidato da un regime dittatoriale, avente come principale sostegno un’oligarchia mafiosa, predatrice dei beni e dei diritti del suo popolo, ha invaso un altro paese, governato da una classe dirigente largamente corrotta secondo regole approssimativamente democratiche (più sul piano formale che della sostanza). Due popoli che hanno convissuto per secoli in un modo sufficientemente pacifico con notevoli commistioni e “traffici” sul piano dei legami personali, degli scambi sociali e della cultura, si sono trovati divisi da un odio impensabile. I danni saranno incalcolabili soprattutto per il popolo ucraino (già diventato un agnello sacrificale), ma anche per i russi e per gli europei.

L’invasione è eticamente inaccettabile. L’etica è il fondamento della Polis e della politica, non un astratto insieme di valori di lusso. Fuori dall’etica c’è solo la barbarie, la morte dell’idea stessa della pace e il diritto del più spietato. Comunque vada a finire la guerra (che sia la Russia sia gli Stati Uniti non hanno alcuna fretta di concludere) la convivenza pacifica tra i popoli europei sarà gravemente ferita e attraverso le reazioni a catena, che già si intravvedono, l’intero mondo subirà una scossa destabilizzante tremenda. La corsa al riarmo è diventata un processo ineludibile e la nuova situazione di emergenza, legata a uno stato bellico in via di diventare permanente, indebolirà ulteriormente la democrazia.

L’opinione pubblica in Europa si divide ancora una volta su questioni fuorvianti, inseguendo letture geopolitiche incongrue perché si fa fatica ad accettare che le superpotenze non seguono una logica ragionevole, che il loro fare, tutto centrato sul presente immediato (anche quando assume vesti strategiche), è cieco. I presupposti delle loro azioni sono fatalmente paranoici: si basano sulla previsione delle mosse dell’avversario su una scacchiera surreale, costruita da proiezioni e avulsa dal mondo vero, abbandonato come nave alla deriva alla sua sorte.

L’Europa è in una morsa da cui non riesce a togliersi. Non può lasciare al suo destino gli ucraini senza difenderli (le conseguenze sul piano della libertà di tutti sarebbero disastrose) e non può difenderli secondo gli interessi che le sarebbero più propri (la difesa della democrazia e della libertà/parità degli scambi) perché è presa negli ingranaggi di interessi che la sovrastano e cercano, inoltre, di indebolirla. La sua costituzione politica resta fragile e le divisioni interne riflettono come sempre il prevalere dell’interesse particolare su quello generale. Il suo ancoraggio alle tradizioni democratiche è vulnerabile. Alcuni paesi sono di fatto autoritari, la destra illiberale, o apertamente totalitaria, è in crescita e la maggioranza della popolazione vive in condizioni di grande incertezza e di scontento.

Le elezioni francesi hanno mostrato un grande disorientamento dei cittadini e l’astensione enorme dal voto mette in crisi la fiducia in un futuro migliore. La grande maggioranza degli esseri umani vive in condizioni di grave povertà e illibertà. La più grande democrazia del mondo versa in grande crisi etica, culturale e politica, il partito repubblicano è sempre più spostato verso l’estrema destra e le prossime elezioni di “mezzo termine” potrebbero essere disastrose per i democratici.

Dall’Europa fino alle due sponde del Pacifico, il mondo è affettivamente e mentalmente molto confuso. Dalla pandemia siamo usciti psichicamente instabili e privi di voglia di vivere veramente. La pandemia ha reso, tuttavia, evidenti le due più importanti condizioni del disagio collettivo: la dissoluzione degli scambi, che rende il mondo totalmente iniquo e ingovernabile, e la digitalizzazione forsennata della vita che crea isolamento affettivo e disorientamento/ottusità mentale.

Resistere con forza a queste due condizioni, senza perdersi in analisi geopolitiche, è l’unico modo possibile per tornare sani.


(il manifesto, 25 giugno 2022)

di Paola Centomo


Per una ginecologa che è stata la prima primaria della Mangiagalli di Milano è impossibile smettere l’impegno, anche quando si va in pensione. Ora la dottoressa Kustermann ha a cuore un nuovo progetto: una casa che permetterà a donne e bambini vittime di violenza di riprendersi la vita. Cominciando dall’autonomia economica


A sessantotto anni Alessandra Kustermann non ha nessuna voglia di prendersi i tempi lunghi e distesi della pensione, che pure ha appena formalmente raggiunto. E anzi, accelera sulla sua ultima creatura, una casa davvero speciale per accogliere donne, con i loro bambini, che hanno subìto a lungo le violenze di un uomo e ora hanno deciso di uscire da tutta quella sofferenza.

Del resto, non ci si può aspettare altro da un medico che ha fatto della frontiera una pratica ed è sempre riuscita nel miracolo di far coincidere quello che fa con quello in cui crede. Alessandra Kustermann, tumultuosa ginecologa dalla parte delle donne, prima primaria della storia della Mangiagalli-Policlinico di Milano, i suoi fatidici “raggiunti limiti di età” se li sta giocando per trasformare una carriera di successo in una strada da aprire alle altre.

«Essendo primaria, avrei potuto lavorare ancora due anni. Ma avevo in testa l’idea di Ri-Nascita da tempo e già c’erano persone disposte a seguirmi. E poi, visto l’impegno, sentivo di avere le energie per seguire il progetto come meritava» racconta nella sua casa milanese dove, insieme a lei, al compagno e alla cagnolina Bella, vivono le fotografie, le storie, le tele di una vita certamente densissima. «Oggi aiuto le donne a ri-nascere»

Kustermann svela subito quello che ti aspetti: il carisma, la grazia, le fiamme. E una voglia di futuro da ragazza.

La sua Ri-Nascita sorgerà alla Cascina Carpana, complesso ottocentesco situato tra il parco Porto di Mare e il Parco della Vettabbia – area sud-est di Milano – di cui la onlus che lei presiede, SVS DAD (Soccorso Violenza sessuale – Donna Aiuta Donna), si è aggiudicata per 90 anni la concessione vincendo un bando del Comune: qui saranno realizzati una decina di appartamenti, mono e bilocali, dove verranno a vivere le donne e i figli nel loro nuovo inizio, e poi un ristorante, una caffetteria, una cucina didattica, un negozio di alimentari. E, ancora, un asilo per cani, un centro ippico, campetti per il calcio e il basket, un orto condiviso… E – cruciali – i laboratori per la formazione, dove le ospiti potranno imparare una professione e, nel giro dei due anni in cui vivranno alla cascina, rendersi autonome economicamente per poi uscire.

«Si chiama Ri-Nascita perché qui si rinascerà, avendo davanti tutte le potenzialità che ha in sé una vita quando nasce. Chiediamoci: perché le donne, alla fine, tornano con il partner che le maltratta? Smettiamo di risponderci che è perché lo amano. Sì, magari sì, alcune, poche. Ma le altre, le altre non hanno alternative. Come fanno a scappare da un uomo violento se non hanno una casa loro dove andare e un lavoro per mantenersi, se hanno i bambini piccoli?».

Sono ventisei anni che Kustermann fa esercizio di comprensione e rispetto delle donne che chiedono aiuto dopo il male subìto, da quando proprio alla Mangiagalli fondò il Soccorso Violenza Sessuale e Domestica, primo centro del genere a nascere in Italia dentro un ospedale pubblico. Racconta che il male nasce con un germoglio quasi banale.

«Molte donne smettono di lavorare dopo il secondo figlio, anche qui in Lombardia, che si crede?! Dopo non ce la fanno più a reinserirsi, e questo è il primo punto. Il secondo è che un partner maltrattante è, all’inizio, un maltrattante psicologico. I ricatti partono già durante la gravidanza. Tu guadagni meno di me, quindi sei tu che devi lasciare il lavoro per stare dietro al figlio! Io voglio che nostro figlio sia ben cresciuto e ben curato, lo vuoi lasciare in mano alle baby-sitter?

«Le caricano di sensi di colpa. Nel tempo diventano capaci di escalation massacranti .Oggi i bambini hanno combinato guai, è colpa tua! Tieni la casa da schifo! Poi le minacce, il terrore, le botte davanti ai figli. E, sempre, quel far sentire lei inadeguata come moglie, incapace come madre, tutto sempre sbagliato, tutto sempre negativo… Sono così spudorati, questi mariti violenti, che hanno pure le amanti, tanto lei, a quel punto, è pronta a sopportare qualsiasi cosa. Tra i violenti ci sono uomini di successo, uomini di potere: danno alla moglie i soldi per la spesa e lei deve farci la cresta se vuole comprarsi le calze».

A Ri-Nascita, dove opererà anche l’associazione di volontariato Casa di accoglienza delle donne maltrattate (Cadmi), arriveranno le donne che hanno deciso di reagire, intestandosi lo strappo alla sottomissione. «Succede quando lui fa una cosa così sbagliata che a quel punto vanno via per sempre. Certo, sono stremate e annullate: hanno da reimparare la stima per se stesse, perché di questo hanno bisogno, stima e, finalmente, rispetto. Noi vogliamo essere accanto a loro in quel momento, e se saremo riuscite a farle pensare con fiducia a se stesse e al futuro avremo fatto un ottimo lavoro. Quando Ri-Nascita sarà pronta, me ne occuperò a tempo pieno: non concepisco l’età della pensione come l’età del ritiro. Cambia solo quello di cui ti occupi».

La nostalgia, certo, crepita. «Il fatto che non faccio più nascere bambini mi addolora, sia chiaro. In tutta la mia carriera, penso che almeno 30mila parti li ho seguiti, ma l’emozione di un bambino che nasce è rimasta la stessa. Non hai idea di come ogni bambino abbia una faccia diversa, ti restituisce la certezza che ogni essere umano fin dal suo inizio sia unico. L’altra cosa bella è che sono tutti un po’ come stupefatti: hanno gli occhi un poco gonfi, ma quelli che nascono con gli occhi aperti sembra che guardino con meraviglia».

Oggi Alessandra Kustermann supervisiona una volta la settimana, come volontaria, il centro Soccorso Violenza Sessuale e Domestica e il Consultorio famigliare che ha fondato alla Mangiagalli, «un posto che è una meraviglia, dove nel ristrutturare abbiamo lasciato i pavimenti d’epoca Liberty e tutti i loro colori. È un luogo pieno di allegria, pieno di luce, pieno di donne in gravidanza che fanno yoga, mindfulness…». Alla Mangiagalli, dove il giorno dell’addio c’era tutto l’ospedale ad applaudirla (e, in regalo, le hanno portato denaro raccolto per la sua Ri-Nascita), Kustermann arriva nell’87, già con in testa il proposito di chiedere rispetto per le donne.

«Decisi che avrei fatto Medicina a quindici anni. Dicevo a tutti che volevo studiare, fare i figli, fare il medico, non volevo rinunciare a niente. Mio padre, che era un uomo molto serio per cui ciò che si inizia si deve finire, mi diceva: non ce la farai mai! Per dimostrargli che si sbagliava, feci la seconda e la terza liceo classico insieme e quindi finii le superiori a diciassette anni. Questo per sfidarlo. Una follia, una fatica pazzesca, però ero contenta, ero una rompiscatole!

«Quindi mi sono iscritta a Medicina e a vent’anni ho deciso di sposarmi. Dramma per mio padre! Allora si era maggiorenni a ventun anni e lui doveva dare il suo consenso, così mi dice: Ah, io ti do il consenso, ma lo so che non finirai Medicina! A ventidue anni, nel ’75, mentre ancora studio nasce mia figlia Viola e meno di un anno dopo la nascita del secondo, Pietro, mi laureo e vinco la sfida».

La gravidanza del secondo figlio è determinante nel segnare la via della giovanissima dottoressa. «Purtroppo con Pietro ho avuto una gravidanza patologica e quindi ho passato diversi mesi in ospedale. E lì ho realizzato che le future madri venivano trattate come delle mentecatte. Io dicevo ai medici: mio figlio non si muove, oggi appena un colpetto, sono preoccupata; era il ’79, si era appena agli albori dell’ecografia… Cosa vuole capire lei?, mi rispondevano. Nessuno mi dava retta.

Un giorno un medico mi disse: Kustermann, dai, non legga il libro di ostetricia e ginecologia! Ma io stavo preparando l’esame, non lo volevano proprio capire che studiavo Medicina. Finché una sera, dopo avermi dato la cena, conclusero di botto: il bimbo è in sofferenza fetale, facciamo subito un cesareo! Pietro è stato quasi per morire in utero. Il punto era che io dicevo che non si muoveva, ma non venivo ascoltata. Sai la sensazione orrenda che una donna non valga niente, che la sua parola non conti nulla. In quel momento ho deciso che avrei fatto la ginecologa, perché volevo cambiare il modo in cui si trattavano le donne. Oggi nessuno si permetterebbe più di non ascoltare la parola di una paziente».

Del potere che ha avuto, del potere che ha, dice: «Serve a far accadere i cambiamenti in cui si crede». Per stare dalla parte delle donnesi dice che sia dura e protettiva, combattiva ed empatica, animatrice di discussioni vivaci, ma sempre capace di costruire relazioni oltre ogni ideologia.

«Difendo in tutti i modi, come si sa, la legge 194 sull’aborto, però rispetto i medici obiettori di coscienza e ne capisco le ragioni, purché la loro obiezione sia autentica. Ma se è una soluzione di comodo non la posso tollerare. Quando ci fu il referendum sulla 194 anche mia madre, che era cattolica, la appoggiò dicendo: io non nego a un’altra donna il diritto di decidere. Quella legge ha funzionato. Oggi le interruzioni di gravidanza sono 70mila all’anno, erano 250mila nell’83, anno con i primi dati seri. Prima, 500mila: l’aborto le donne lo facevano lo stesso e ne morivano, ma ora ce lo siamo dimenticato. Devo dire che tra i giovani medici che arrivano in Mangiagalli i non obiettori sono oggi la maggioranza assoluta. È una cosa nuova, degli ultimi due-tre anni».

Quanto ai numeri delle violenze, invece, non c’è riscatto. «La violenza sulle donne è ancora terribile. I numeri di femminicidi sono gli stessi da 15 anni e, anzi, ho l’impressione che stiano aumentando i casi in cui gli uomini si vendicano con l’uccisione dei figli. Per quanto riguarda anche la violenza sessuale, noi siamo il centro di riferimento per tutte le violenze di Milano e provincia, quindi qualunque ospedale, qualunque caserma dei carabinieri manda le vittime in Mangiagalli. Circa 500 l’anno. Certo, sono aumentate le donne che denunciano.

«Sono cresciute pure le violenze sessuali legate alle feste e al consumo di droga, anche se la droga dello stupro più diffusa rimane l’alcol. I ragazzi e le ragazze bevono, ormai lo sappiamo. Quando vado nelle scuole ai ragazzi dico: guardate che non c’è un valido consenso sessuale nel momento in cui una ragazza è ubriaca. E alle ragazze dico: ragazze, state attente, tornate a casa tutte insieme, non lasciate mai l’ultima da sola».

A fine 2023 Cascina Carpana sarà ultimata e pronta a fare irruzione nella vita di donne che, in questo momento, neanche possono immaginarsela un’esistenza nuova e lieve.

«Ci saranno animali della fattoria in libertà. Tanti bambini nel cortile e nella nostra scuola di circo, i bambini della cascina e quelli che verranno da fuori, perché Ri-Nascita sarà un luogo aperto a tutti. Nella grande cucina verranno preparati i pranzi del ristorante, che se non sarà stellato, poco ci manca, perché vorrei che le donne ospiti imparassero a lavorare anche nella ristorazione di lusso, per il loro domani. Gestiranno un bed&breakfast per accogliere i viaggiatori. L’associazione sportiva dilettantistica CampaCavallo si occuperà dell’ippoterapia e i cavalli terranno compagnia ai loro figli. Impareranno un mestiere anche nei laboratori di sartoria ed ebanisteria di design. Ho già chiesto la collaborazione all’Istituto Europeo di Design, alla Naba, alla Scuola del Design del Politecnico».

Kustermann chiama i rinforzi, la società civile risponde: «Carlo Ratti (il famoso architetto-ingegnere-urbanista che insegna al Mit di Boston, Ndr) si è offerto di realizzare il progetto di ristrutturazione della cascina, la Sda dell’università Bocconi mi ha appena assicurato che i suoi docenti terranno corsi di economia domestica alle donne di Ri-Nascita…» (Se volete donare: retedeldono.it/it/progetti/svs-dad-onlus/svs-donna-aiuta-donna).


(Io Donna, 25 giugno 2022)

di Monica Benedetti


Insegno da quindici anni nel Liceo che ho frequentato da ragazza; per questo, e per molti altri motivi, è un luogo che abito con passione e con convinzione. È una scuola che ha un Dirigente Scolastico (DS) che non si meriterebbe affatto: un maschio prepotente e confuso, spaventato ma protervo, che cerca di coprire le proprie incapacità esercitando il potere di cui dispone in modo arbitrario, eccessivo e, quel che è peggio, stupido.

Per anni ho visto colleghe e colleghi chiedere il trasferimento, gettando la spugna dopo angherie o conflitti settoriali sulle questioni più varie. La motivazione della “resa” era più o meno sempre la stessa: qui, con questo tizio, non c’è niente da fare. Qui non si riesce a cambiare nulla. Il mondo è grande: da un’altra parte potrò finalmente fare bene il mio lavoro.

Ecco, il mondo sarà pure grande e non biasimo quelle/i che approfittano di tale grandezza; tuttavia questa scuola è il mio mondo almeno finché ci sto, quindi per me il trasferimento non è mai stata un’opzione contemplabile. Per me, semmai, se ne deve andare il DS. Anch’io negli ultimi anni ho avuto con lui vari scontri, che mi hanno dato estrema visibilità tra le colleghe/i. Mi ha vista perfino lui, che ha imparato a temermi. L’origine della sua paura è buffa nella sua semplicità: una donna ribelle è una mezza pazza, ma le pazze, si sa, sono imprevedibili, quindi meglio non pestare loro i piedi. Finora infatti me l’ero (se l’era) cavata più o meno così: mi ha tolto ogni incarico di coordinamento, non mi ha mai coinvolta in nessuna commissione o gruppo di lavoro, quando non poteva evitarlo ha accolto ogni mia proposta facendo buon viso a cattivo gioco, usando la vecchia prassi del vigile quieto vivere, quella per intenderci che vigeva nella casa dei miei genitori, dalla quale sono scappata appena ho potuto, perché appunto non funziona per chi, come me, ha imparato la politica del desiderio.

Quest’anno però qualcosa è cambiato. Una collega che stimo mi ha convinta a candidarmi al Consiglio di Istituto, dove sono stata eletta, in lista con un collega, a furor di popolo. Gli organi rappresentativi saranno ormai svuotati di potere, ma ho sperimentato che si possono riempire velocemente di autorità. Già alle prime sedute il mio collega e io abbiamo cominciato a snocciolare irregolarità contabili (ricompense ai suoi fedelissimi/e camuffate da Progetti educativi): di fronte alla componente genitori e alunni/e ha dovuto giustificare e rettificare. Abbiamo anche avanzato alcune proposte a favore di studentesse e studenti in difficoltà economica, come il comodato d’uso dei libri di testo. La nostra è una scuola ricca, ma il DS non ha mai ritenuto di dover spendere soldi pubblici per gli “utenti” poveri. Che abbia fatto carriera anche grazie a quest’idea oggi così popolare?

Gli sarebbe ancora andata bene se, a novembre, la mia alunna F. (così la chiamerò, la mia ragazzina), di diciassette anni, non si fosse improvvisamente ammalata. La diagnosi è stata terribile: a causa di una malattia genetica rara, nel giro di tre settimane è diventata quasi cieca, senza alcuna possibilità di guarigione. In casi come questi, la scuola ha la facoltà di utilizzare dei fondi appositi, interni ma anche regionali, per attivare un progetto di “istruzione domiciliare”, opportunamente regolamentato. È una procedura che abbiamo usato spesso, generalmente per ragazze con disturbi alimentari o psicologici. Stavolta però il DS ha pensato di agire diversamente. I genitori di F., entrambi extracomunitari, gli hanno comunicato subito l’accaduto, chiedendo aiuto perché volevano che la loro figlia mantenesse, in qualsiasi modo possibile, un contatto con la scuola. Lui ha menato il can per l’aia: per giorni non ha risposto alle loro mail poi, un po’ alla don Abbondio, ha comunicato che per un progetto di istruzione domiciliare occorrevano “certe carte” (senza dire quali), infine ha proposto alla ragazza di ritirarsi da scuola, per pensare esclusivamente alla sua salute. Questo avvisando solo la coordinatrice di classe (una dei suoi vassalli/e) ma non le altre docenti della classe.

A questo punto la madre di F. mi ha telefonato e mi ha raccontato tutto. Era, ovviamente, disperata. Mi ha telefonato il 2 gennaio, domenica, giustificandosi con queste parole: “È domenica, ci sono le vacanze di Natale, ma F. mi ha detto che potevo farlo”. Le ho risposto che aveva fatto bene a dare retta a sua figlia.

Io sapevo che F. era malata, perché l’avevo già contattata quando mi ero accorta che non veniva più a scuola. Ascoltando il racconto di sua madre ho sentito la mia forza trasformarsi in furia, ma in una furia lucida, una “furia con pensiero”, un tutt’uno come una palla di fuoco da cui mi sono lasciata incendiare. Riprendiamoci anche i roghi: sono nostri!

Per cui mi sono data da fare, e la lotta è iniziata. Non la chiamo “guerra”, per ovvi motivi, ma nemmeno “conflitto”, perché “lotta” rende conto del fatto che mi ci sono calata anima, ma anche corpo: per settimane ho telefonato, scritto, inseguito tutti/e quelle che mi potevano aiutare a denunciare, smascherare, fermare, correggere, costringere a cacciare i soldi e le risorse necessari per poter permettere a F. di proseguire gli studi e mantenere i legami con i suoi compagni/e. Ho braccato il DS in Consiglio di Istituto, in Consiglio di Classe, nei corridoi; ho chiamato i sindacati, le rappresentanti di classe, le colleghe, la stampa. Durante una riunione, di fronte alle minacce del DS, mi sono messa perfino ad urlare, cosa che non faccio mai. Il corpo: è indispensabile nella lotta tanto quanto il pensiero e le parole.

A proposito di parole, poi. Bisogna lottare in lingua materna, come ho imparato da combattenti eccezionali: le mie zie analfabete, le contadine del Sud d’Italia nel dopoguerra (ce ne ha parlato Luciana Viviani in “Rosso antico”) e Angela Davis. Quindi, in un contesto istituzionale, non ho avuto paura di scrivere e di dire che per me non aveva alcun senso pontificare sull’educazione civica: quella per cui mi muovevo era una giustizia così alta che se non avessi speso tutte le mie energie per sostenere il desiderio della mia studentessa di restare a scuola, non avrei più avuto il coraggio di guardarmi nello specchio la mattina. Inutile scrivere sui documenti ufficiali che la scuola è una Comunità Educante: una comunità è tale se chi vi partecipa è disposto a considerare il problema del/la singolo/a un problema di tutti/e. Altrimenti è fuffa buona per riempire fogli bianchi e teste vuote.

Così, anche nei testi che ho spedito a organi o figure istituzionali (all’Ufficio Scolastico Provinciale, ai sindacati, al DS stesso, alla coordinatrice del dipartimento Inclusione), ho infilato parole come “esistenza, ragazza, amiche, bisogno, urgenza, desiderio, sogni, fiducia, amarezza, vulnerabilità, ascolto, coraggio, sono arrabbiata ma non ostile”.

Alcune mie colleghe della classe di F. mi hanno aiutata. Nessuna di loro è femminista, nessuna di loro è particolarmente combattiva, tuttavia mi stimano e hanno sentito che mi stavo schierando contro un’ingiustizia insopportabile e inaccettabile.

La matrice della forza femminile è materna. Questo lo so bene, ma detta così non sarei forse stata capita, eppure avevo bisogno che capissero bene quale forza mi animava, in modo da poter contare su di loro senza paura che, se il gioco si fosse fatto veramente duro, si tirassero indietro proprio quando sarebbe stato necessario restare unite. Quindi ho detto loro, fin da subito: sappiate che farò per F. quello che farei per mia figlia, né di più né di meno. Tanto per essere chiara. Nessuna ha mollato.

La forza nasce dall’azione, e se ne alimenta. Il potere è statico e sfrutta il tempo a proprio vantaggio. Per cui, durante la lotta, ho temuto di non farcela, per puro logoramento fisico. Per settimane ho dormito male, e poco perché, per non togliere tempo a mia figlia, mi sono ridotta a scrivere di notte, a telefonare mentre guidavo, a fare lezione stordita dalla stanchezza. Ma le relazioni che ho intessuto nel frattempo sono state il mio alimento e la mia amaca. Nei momenti di scoraggiamento, mi ripetevo come un mantra l’insegnamento di Alessandro, un mio giovane, carissimo amico: “Chi sceglie il potere rinuncia all’amore”. Il mio premio era, e sarebbe stato, l’amore reciproco tra F. e me, l’amore per la mia scuola e per la giustizia. Tanto mi doveva bastare.

Ci sono state anche colleghe che hanno ignorato i miei appelli, anzi, si sono schierate con il DS aiutandolo a dimostrare che la soluzione di mediazione poteva semmai consistere nel creare per F. un percorso di “sparizione facilitata”: promozione eventualmente garantita, ma senza un reale percorso di apprendimento e di cura. Lavoro con troppe donne il cui desiderio è tramortito. Ho però verificato che niente è più efficace per risvegliarlo quanto mostrare con godimento la vitalità del proprio. A chi mi chiedeva se non fossi stanca, o scoraggiata, rispondevo: “Sì, ma vi ricordo che la lotta è energetica!” e nel dirlo a loro, lo ripetevo a me stessa, constatando ogni volta quanto questo fosse profondamente vero.

Nella mia lotta mi hanno sostenuta alcuni uomini. Uno è Alessandro, di cui parlavo prima, l’altro è il collega eletto con me in Consiglio di Istituto, e alcuni amici. Ho smesso da tempo di stupirmi del fatto che ci siano donne che sostengono il simbolico del potere, sessista e classista; comincio invece a notare che sempre più uomini capiscono la matrice del mio agire, la apprezzano, la condividono e la sostengono. Sono uomini che, per varie ragioni e in momenti diversi della loro vita, hanno smesso di sentirsi parte del patriarcato. Hanno constatato cioè, più o meno come è successo a moltissime donne, che per uniformarsi all’identità prescritta come accettabile in quel simbolico, avrebbero dovuto abbracciare un’esistenza miserabile da tutti quei punti di vista che contano veramente.

Mi ha sollevata fare esperienza – mentre lottavo contro un uomo – della simpatia e dell’ammirazione di un altro tipo di uomo. Con quelli del primo tipo, come il mio DS, non credo sia possibile mediare, o perlomeno io non intendo farlo. Non sentono ragione: hanno fatto la loro scelta. Come dice Alessandro: non si può chiedere a un Creonte di non essere re, perché lui vuole essere re. Con quelli del secondo tipo bisogna invece riconoscersi ed allearsi: sono uomini che hanno riconosciuto (pur tra le mille contraddizioni e lacerazioni che ben conosciamo) l’assoluta preponderanza del materno nelle loro vite. Non vogliono pertanto essere dei re: vogliono essere uomini liberi.

La forza femminile agita è immediatamente riconoscibile, anche quando viene momentaneamente sconfitta: un bersaglio per gli uomini e le donne di potere, un’ispirazione per uomini e donne che credono che quello in cui viviamo non è l’unico, né tantomeno il migliore, dei mondi possibili.

Comunque alla fine ce l’abbiamo fatta, F. e io. Lei è stata promossa in quarta, e non certo per qualche sconto pietoso, ma perché siamo riuscite tutte/i, noi compagni/e di lotta, a metterla nelle condizioni di continuare a imparare. E io posso continuare a guardarmi allo specchio la mattina, dove vedo l’immagine di una donna non addomesticata né addomesticabile, esattamente quella che mi sento e che voglio continuare ad essere.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 25 giugno 2022)

di Doranna Lupi


In seguito ai numerosi racconti di donne molestate durante l’adunata degli Alpini di Rimini tra il 5 e l’8 maggio, DORA donne in Valle d’Aosta ha deciso di inviare una lettera aperta all’Associazione Regionale degli Alpini esprimendo solidarietà alle donne che hanno denunciato molestie, aggressioni verbali e comportamenti lesivi del corpo e della dignità femminile, chiedendo poi un confronto con questi uomini, per individuare forme di collaborazione e di prevenzione costruttive.

La richiesta è stata accolta insieme alla proposta di invitare al confronto anche Beppe Pavan, che da trent’anni si interroga in gruppi di autocoscienza sulla propria maschilità e fa parte di Maschile Plurale. Dopo l’incontro però Beppe era amareggiato per la posizione irremovibile degli alpini, espressa anche a livello nazionale, di mero risentimento per tutto il clamore causato dal comportamento di pochi balordi che avevano infangato l’onore del Corpo degli Alpini. Ho capito e in parte condiviso la sua frustrazione nel trovarsi di fronte all’ennesima rimozione, all’incapacità di vedere le connessioni tra questi comportamenti e gli stereotipi misogini e sessisti ancora diffusi e radicati negli uomini. Nonostante questo, ascoltando Beppe, cresceva in me lo stupore. In realtà era accaduto qualcosa di assolutamente nuovo e impensato. Già a suo tempo avevo trovato straordinario che le donne fossero finalmente riuscite a rompere il silenzio sulle molestie che da sempre gli uomini in divisa o no, in tempo di pace e di guerra, in branco o da soli, creando un’atmosfera intrisa di cameratismo maschile, pensano di poter infliggere alle giovani donne che incontrano. Le donne coinvolte a Rimini non hanno più pensato che questa fosse la normalità perché il femminismo ha cambiato profondamente gli immaginari: la goliardia del branco, i gesti osceni, le avances indesiderate (catcalling) sono diventati molestie e le palpate occasionali violenza sui corpi delle donne. Grazie al coraggio delle molte che hanno deciso di esporsi, denunciando pubblicamente ciò che è avvenuto nelle piazze, nelle strade e nei locali della città, a Rimini sono state raccolte più di cinquecento testimonianze che hanno consentito di portare quanto accaduto all’attenzione delle autorità e dei media. È stato un #metoo italiano che solo la forza delle donne poteva far emergere ed esprimere con tanta rilevanza. Una bufera che ha costretto il presidente dell’Associazione nazionale alpini Sebastiano Favero, suo malgrado, a chiedere scusa e dar conto di comportamenti che non sono più accettati dalle donne e quindi diventati inaccettabili per tutte e tutti. Oggi, quello che era un diritto implicito degli uomini lo viviamo come un attentato alla dignità umana, come un crimine, e pretendiamo che tutta questa violenza psicologica e fisica diventi impensabile anche per gli uomini.

Infatti, tornando al racconto di Beppe, l’altro aspetto che mi è parso sorprendente è che in una sede regionale dell’Associazione del Corpo degli Alpini a qualcuno fosse venuto in mente di accettare un confronto con delle femministe che mettevano in discussione fatti, comportamenti da sempre socialmente accolti con grande indulgenza, quasi con simpatia e, come se non bastasse, grazie alla loro mediazione, che fosse possibile vedere come doveroso accogliere la presenza di un uomo che fa un percorso di autocoscienza maschile, mettendo in discussione i cliché di una maschilità considerata tossica. Senza ombra di dubbio si è trattato di un fatto di grande rilevanza simbolica.

Aveva ragione Beppe a lamentare la resistenza maschile al cambiamento e la loro incapacità di mettersi in discussione. Gli uomini, con alcune importanti eccezioni, stentano a recepire questi cambiamenti epocali, concreti e visibili in ogni ambito ma, nonostante la loro riluttanza, proprio grazie alla forza circolante delle donne, non possono più fare a meno di tenerne conto.

Credo sia necessario continuare, con tenacia, a negoziare tra uomini e donne attraverso il dialogo, per arrivare a elaborare insieme nuove forme di convivenza, rispettose della libertà e dei desideri reciproci.

Marcel Gauchet, guardando le nuove generazioni, parla della discordanza del desiderio che si è venuta a creare tra uomini e donne con la fine del dominio maschile, soprattutto la discordanza del desiderio erotico e procreativo. Questo ha creato nei due sessi punti di riferimento, attitudini e prospettive esistenziali potenzialmente divergenti (Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile).

Credo sia un’intuizione su cui lavorare insieme, donne con uomini che vogliono essere uomini giusti, come afferma Ivan Jablonka (Uomini giusti dal patriarcato alle nuove maschilità). Nell’ebraismo l’uomo giusto è l’uomo normale, capace di distinguere il bene dal male, che si assume le proprie responsabilità rifiutando l’indifferenza. Questo è ciò che le donne chiedono agli uomini, in tempo di pace e di guerra, perché anche loro escano dall’inferno patriarcale.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 25 giugno 2021)

Self-help poster e video di Marie Déhé e Haydée Touitou, 2021/2022.

Come prendersi cura del proprio corpo? Due giovani artiste parigine, Déhé

fotografa e Touitou poeta, nel 2021 hanno creato un poster. La risposta è stata

molto positiva. Così ora ne hanno fatto un video e vengono alla Libreria delle donne

di Milano per farne la prima presentazione. Alla proiezione segue il dialogo

di Giorgia Baschirotto con le autrici (in inglese con traduzione).

Ristampa del poster in vendita in Libreria.

Accesso con mascherina FFP2

di Grazia Villa


I commenti di Laura Colombo e Tiziana Nasali all’intervento di Federica D’Alessio sul disegno di legge presentato dalla senatrice Alessandra Maiorino, ispirato al cd. modello nordico, recentemente pubblicati sul sito della Libreria, mi spingono a prendere parola ancora sul tema prostituzione.


Un percorso politico

Dagli incontri in Libreria delle donne del 2018 e dopo la diffusione di Stupro a pagamento di Rachel Moran e di Il mito Pretty Woman di Julie Bindel sono nate e cresciute relazioni, pensieri e azioni politiche.

Un dibattito sempre aperto: dalla domanda Quanto ci tocca la prostituzione? del saggio di Luciana Tavernini nel libro Né sesso né lavoro all’affermazione «la prostituzione ci riguarda tutti e tutte» dell’incontro di Via Dogana 3.

Con le molte presentazioni di questi tre libri si sono rafforzate le relazioni già esistenti, come quella con le attiviste di Resistenza Femminista, e ne sono sorte di nuove con donne di altre associazioni e gruppi femministi, non già come mero agglomerato di sigle, ma attraverso relazioni duali che si sono consolidate e hanno determinato uno spostamento di orizzonti e un agire politico condiviso. Tra queste: la nascita all’interno dell’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne del gruppo Prostituzione che ha messo a tema il rapporto tra religione, patriarcato e prostituzione; la costruzione di una Rete abolizionista, con la stesura di un Manifesto per abolire la prostituzione.

Lo spostamento maggiore credo sia stato determinato dalla scelta di dare autorità alla parola delle sopravvissute e di organizzare con loro seminari e incontri on line, di andare nelle scuole per coinvolgere ragazze e ragazzi e infine di prendere in esame anche le proposte di legge abolizioniste, compresa ora quella presentata dalla senatrice Alessandra Maiorino.

Non è la prima proposta ispirata al modello nordico, come ho avuto modo di analizzare in Né sesso né lavoro, ma oggi assume un carattere di originalità forse più che per alcuni contenuti, per l’iter seguito nella sua stesura.

La presentazione del ddl trae origine, per la prima volta dopo l’approvazione della legge Merlin, da una poderosa indagine del Senato e da una lunga serie di audizioni, sulla spinta degli esiti della sentenza della Corte costituzionale del 2019 che ha riaffermato la legittimità della stessa legge Merlin, riconoscendo di fatto la sua attualità e applicabilità.

Prima di giungere al deposito del disegno di legge sono stati organizzati numerosi confronti, anche vivaci, che hanno coinvolto molte donne impegnate nella lotta per l’abolizione della prostituzione, la maggior parte slegate dall’appartenenza politica della stessa senatrice.

Ho avuto modo di partecipare a questi incontri, tutti diretti ad analizzare il fenomeno prostitutivo, dove sono stati ribaditi i suoi legami con il patriarcato e le logiche mercantili e si è affermato con forza che nessuna distinzione può essere introdotta tra prostituzione libera o coatta, entrambe basate «sulla taciuta disponibilità del corpo femminile per un maschio pagante». È stata assunta soprattutto la forte nominazione dell’atto prostitutivo come stupro a pagamento, come atto di sopraffazione violenta in sé, indipendentemente dalle circostanze in cui si consuma, con la conseguente scelta di smascherare la falsa rappresentazione del sex work.

Da qui l’interrogativo sulla necessità o meno di modificare la stessa legge Merlin e sull’opportunità di introdurre in Italia il “modello nordico”.

Anche all’interno di questo dibattito si è posta la questione messa a fuoco negli articoli di Laura Colombo e di Tiziana Nasali, spesso sollevata direttamente da parte mia, sull’efficacia di un rafforzamento del sistema sanzionatorio in materia di prostituzione e sulla necessità di allargare la fattispecie di reato prevista dall’art. 3 della legge Merlin con l’introduzione di uno strumento repressivo che non riguardasse solo i reati connessi allo sfruttamento della prostituzione, bensì anche il mero acquisto di prestazioni sessuali. 

L’interrogativo riguarda tutte le conseguenze giuridiche da trarre, una volta abbracciata la definizione di stupro a pagamento e di violenza sessuale per l’atto prostitutivo, consegnatoci dalle donne sopravvissute al sistema prostitutivo. Tutto ciò rispetto all’ordinamento esistente, al diritto penale e alla sua efficacia deterrente, a normative fortemente segnate dal diritto sessuato al maschile, al rischio del legiferare sui corpi delle donne.

L’esperienza maturata da molte di noi in materia di violenza contro le donne (sessuale, domestica, psicologica, economica) fino al femminicidio, circa la problematicità del rapporto tra diritto punitivo dei comportamenti maschili e la mancata diminuzione dei reati, tra la condanna sociale che passa dalla censura di una codificazione alla reale presa di coscienza degli uomini del disvalore della violenza maschile, ci metteva in guardia sulla scelta di optare per una nuova fattispecie di reato, ma non poteva esimerci dal confronto con lo strumento penale, una volta acceduto al termine… “stupro”.

Il dubbio riguardava la valutazione proprio dello spostamento, anche sul piano simbolico, del focus dalla “vittima” al “cliente” (tutti termini virgolettati perché pronunciati solo per poi bandirli) attuabile attraverso la sanzione, pur se graduata, del cd. acquisto di prestazioni sessuali: se, come e quanto possa contribuire ad aumentare una possibile presa di coscienza degli uomini prostitutori, nella certezza comunque che nessuna legge possa sostituire tale processo di autocoscienza!

La legislatrice ha sottoposto, anche su questo punto, il testo di legge al vaglio di sopravvissute, giuriste, operatrici dei centri antiviolenza, esperte sulle diverse applicazioni del modello nordico in Svezia, Norvegia, Francia.

Dopo una prima direzione di proporre una nuova legge in materia di prostituzione, anche grazie a questi serrati confronti, la scelta è stata quella di salvaguardare non solo lo spirito, ma anche l’impianto della Legge Merlin, ritenuta non sacrificabile, ancora attuale, un vero e proprio faro non solo nella disciplina in materia, ma anche per la sua posizione rivoluzionaria sul rapporto tra i sessi.

La decisione pertanto è stata quella di mantenere intatta la disciplina dell’art. 3 della stessa legge aggiungendo un art. 3/bis che prevede l’introduzione della punizione di chi «compie atti sessuali con persone che esercitano la prostituzione, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità».

In un primo tempo con la sola sanzione amministrativa, seguita da una ammonizione prefettizia in caso di comportamenti “non episodici”. La sanzione penale scatterebbe successivamente in seguito alla reiterazione di tali comportamenti, in violazione della stessa ammonizione prefettizia.

Non tutte queste soluzioni di tecnica legislativa sono state condivise, alcune potrebbero ancora comportare dei correttivi in sede di approvazione del disegno di legge.

In particolare le osservazioni sollevate da parte di alcune di noi avvocate riguardano la decisione di ricorrere al meccanismo dell’ammonizione prefettizia, già utilizzato per lo stalking e rivelatosi pressoché fallimentare, nonché ai percorsi di recupero del prostitutore assimilati a quelli destinati alla violenza (ahimè ormai definita di genere), che non sempre hanno portato frutti di cambiamento né comportamentale, né sociale, soprattutto se utilizzati malamente come scorciatoie rispetto all’applicazione della pena e quindi eliminando anche l’effetto deterrente della stessa.

Quindi alcune delle osservazioni e criticità espresse negli articoli pubblicati sul sito della Libreria sono non solo condivisibili, ma sono state oggetto di esame e hanno trovato soluzioni a volte accettabili, altre ancora perfettibili.


Interrogativi per un confronto

Qui vorrei riprendere invece le argomentazioni che mi hanno lasciato perplessa e che mi inducono a porre ulteriori interrogativi per riaprire eventualmente un confronto libero.

Il dibattito sulla prostituzione riguarda il tema della libertà sessuale (addirittura della libertà femminile!) oppure riguarda la violenza e la mercificazione dei corpi delle donne? Si tratta di autodeterminazione o di stupro a pagamento?

Se dalle donne alla cui parola abbiamo dato autorità, lo scambio sesso-denaro viene sempre considerato un atto di sopraffazione, qualificato come violenza e come stupro, la sua punizione entra nel merito della relazione tra i sessi oppure si limita a sanzionare la commissione di un reato?

Il modello nordico è un modello proibizionista? Il suo scopo è veramente quello di reprimere il desiderio sessuale maschile, proibendone o limitandone le pur sempre lecite e libere pulsioni? Non interviene invece sul potere, sul rapporto di forza sottostante al diritto di comprare e sottomettere al mercato la libertà sessuale?

La nuova disciplina legifera sui corpi delle donne oppure sulla mercificazione dell’atto sessuale al di là dello sfruttamento? Si entra ancora «nel merito dell’intimità del corpo» come accadeva prima della legge Merlin, con l’invasività sui corpi delle donne ad opera del sistema poliziesco, cui fa riferimento Silvia Niccolai (citata)?

La legge Merlin ha ordinato la chiusura delle case di prostituzione entro soli sei mesi di entrata in vigore della legge, con sanzioni pesanti per l’inottemperanza, ha introdotto fattispecie penali ad hoc sulla prostituzione, mentre i suoi detrattori ritenevano sufficienti le disposizioni del codice Rocco (vedi ancora Niccolai), possiamo affermare allora che «abbia fatto un vuoto normativo»?

Certamente è un esempio di diritto sessuato femminile, ma possiamo annoverarla tra le disposizioni di un diritto leggero? Se è vero che non ha legiferato sui corpi, ma agendo sul meccanismo dello sfruttamento e della sua dura punizione, non ha introdotto un di più di normazione, anziché un di meno, attingendo alle regole di un diritto “forte”?

Una norma penale crea sempre un soggetto debole da proteggere? Alcune disposizioni di diritto forte sono a salvaguardia della dignità umana, della vita del pianeta, del futuro delle generazioni e sono dunque a sostegno della forza e non già della debolezza: nel caso della prostituzione non vanno forse nella direzione di sostenere chi intraprende un percorso di liberazione e di sottrazione al potere maschile, per cui esigere una punizione e una riparazione diventano espressioni di autonomia e non già di vulnerabilità?

Alla stessa direzione, infine, sono da ascrivere le altre novità del disegno di legge Maiorino tutte orientate a rafforzare i percorsi di uscita dalla prostituzione, altro baluardo del modello nordico, poco conosciuto e meno menzionato rispetto al contestato volto della repressione, in realtà vitale per il riscatto delle donne che decidono di liberarsi da violenze e schiavitù.

Le domande che mi sono permessa di porre sono forse retoriche e sottendono una mia posizione, c’è ancora molto su cui ragionare, magari insieme a chi ha intrapreso un percorso frutto di una pratica politica tra donne, nata dal desiderio di mettere in atto un diritto esperienziale, il più possibile sottratto al diritto sessuato maschile.

Certamente questa pratica politica non potrà avere né come unico scopo, né come obiettivo principale l’approvazione di una legge, come sappiamo strumento utile, a volte necessario, a volte dannoso, a volte da eliminare, sul quale sempre vigilare con un «pensiero operante», anche questo un lascito di Lina Merlin.

Nel difficile rapporto tra diritto positivo e corpi delle donne rimangono in sospeso molte disposizioni, oggi quelle sulla GPA o sulla cd. “identità di genere”, che hanno generato e genereranno ancora conflitti, anche tra donne, magari le stesse protagoniste del percorso narrato.

Le relazioni politiche che abbiamo costruito potranno creare uno spostamento anche in queste materie? Lo scopriremo, se decideremo di non sottrarci alla sfida!


(www.libreriadelledonne.it, 23 giugno 2022)

di Marina Terragni


Michele Serra è un amico e apprezzo molto che si sia assunto la responsabilità di rompere il silenzio da sinistra – finalmente – sull’insopportabile ingiustizia dei corpi maschili negli sport femminili (L’Amaca su La Repubblica ieri, 22 giugno), ingiustizia contro la quale lottiamo da molto tempo (qui troverete un’infinità di testi su questo tema). Un appunto, se possibile: avrei evitato di usare la definizione cisgender, imposta dal transattivismo, e nella quale la stragrande maggioranza delle donne del mondo, atlete e non atlete, non intende riconoscersi.

Ancorché tardivo, visto che arriva dopo che le federazioni mondiali di molti sport – dal ciclismo al nuoto al rugby e ora si attende l’atletica – hanno riconosciuto che i corpi maschili nelle categorie femminili sono unfair (sleali), il segnale è molto interessante. Certo, se fosse arrivato prima si sarebbero risparmiate molte sofferenze alle atlete e alle non atlete che si sono strette intorno alla loro battaglia, ma meglio tardi che mai.

Il segnale è interessante perché insieme a molti altri segnali che arrivano in simultanea ci dice che i progressisti e i liberal si stanno finalmente rendendo conto che continuare a sposare acriticamente e “correttamente” la causa transattivista e queer li porterà rapidamente a sbattere: per “rapidamente” intendo, per esempio, le elezioni di midterm a novembre negli USA.

Il banco di prova è stata la Virginia, conquistata dai repubblicani nel novembre scorso: il conservatore Glenn Youngkin, ha raccontato proprio La Repubblica, ha vinto in quanto «capace di rompere tutti i tabù democratici, liquidando la questione transgender a scuola, la sessualità fluida, promettendo di chiudere i programmi scolastici che si fondavano sull’analisi critica della teoria della razza».

Ad annunciare il cambio di rotta è scesa in campo nientemeno che l’ex-segretaria di Stato e candidata alla presidenza Hillary Clinton in un’intervista al Financial Times, frenando bruscamente sulle politiche trans-friendly inaugurate dall’amministrazione Obama – detto trans-president – e perseguite con determinazione dal presidente Joe Biden: uno tra suoi primissimi executive order, giorno 1 da neoeletto, era stata la riammissione delle atlete transgender nelle categorie sportive femminili, il che può dare l’idea del peso politico della questione. Se andiamo avanti per questa strada, ha detto in sostanza Hillary, ci giochiamo la presidenza.

Altro indizio, il cambio di vento al New York Times, quotidiano dei liberal USA: captando il malcontento dei lettori in un clamoroso editoriale pubblicato il 18 marzo scorso aveva ammesso il «silenziamento sociale» e la «de-pluralizzazione»: «La solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista» mentre oggi molti progressisti sono «diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro» assumendo atteggiamenti di ipocrisia e censura che per lungo tempo sono stati tipici della destra.

Una delle questioni sulle quali il New York Times ha deciso di rompere il silenzio è il dramma delle bambine e dei bambini gender nonconforming – sempre di più – avviati precocemente alla transizione con la somministrazione di puberty blocker e ormoni, scandalo medico che qualcuno ha paragonato alla lobotomia del secolo scorso e che rappresenta una ferita aperta per il manierismo trans-filico progressista (sempre Joe Biden, giusto un paio di mesi fa, aveva diffuso un documento a favore dell’ormonizzazione dei minori contro il quale c’è stata la rivolta di migliaia di pediatri americani).

Messi tutti insieme, questi segnali indicano il tentativo liberal – verosimilmente tardivo – di cambiare strada, tentativo al quale fatalmente si allineeranno, chi prima chi poi, i partiti progressisti di tutto l’Occidente. PD compreso, che al momento resta incagliato nell’insensatezza dello “o Zan o morte” (scelta che priverà il Paese di una buona legge contro l’omotransfobia: bastava ripescare il vecchio ddl Scalfarotto, come più volte abbiamo detto, per trovare una maggioranza parlamentare: proposta apprezzata solo da Italia Viva) e in una colpevole confusione sulle priorità in agenda, malcelata da un dirittismo a costo zero.

Non si sa se essere contente oppure no: anni di battaglie a mani nude, di umiliazioni, di marginalizzazione, di deplatformizzazione e di sprezzante non-ascolto su un’infinità di questioni, dall’utero in affitto all’identità di genere: andava bene confrontarsi perfino con Fedez e con le porno-influencer, con noi mai. E ora il muro invalicabile che abbiamo avuto davanti si sta riempiendo di crepe, in gran parte per mere ragioni di opportunismo elettoralistico (e nel caso dei media, di sopravvivenza: disdette di abbonamenti come se piovesse).

Ci toccherà assistere allo spettacolo di chi ci ha così tenacemente ostacolato che tenta di andare all’incasso dei guadagni della nostra fatica.

Amen, quello che conta è il risultato. Ma conta anche tenere gli occhi bene aperti, non fare un solo passo indietro, non rinunciare al proprio protagonismo, non cedere a facili lusinghe. La strada è ancora lunga e accidentata.


(Feminist Post, 23 giugno 2022)

di Francesca Traìna


Ho conosciuto Patrizia Cavalli negli anni novanta a Palermo. Un’amica comune me l’aveva presentata. Una sera andammo ai Cantieri Culturali per assistere ad un monologo di Piera degli Esposti. Lo spettacolo non era ancora finito quando Patrizia, visibilmente infreddolita, mi chiese di accompagnarla all’hotel Sole dove alloggiava. Una lunga passeggiata in quella notte di tarda primavera tanto serena ma tanto sferzata da un vento gelido di tramontana da far battere i denti. Parlammo a lungo di Palermo, delle sue contraddizioni e di poesia. La lasciai all’ingresso dell’hotel, la seguii con lo sguardo mentre con passi veloci raggiungeva la hall.

Ora lei si è incamminata per una strada senza ritorno, la stessa intrapresa, poco tempo fa, da un’altra grande poeta: Biancamaria Frabotta.

Mi sembra di intravederla nell’andamento musicale delle sue poesie, graffiare lo spazio e il tempo con l’ironia per compagna.

Quasi tutte le poesie di Patrizia Cavalli sono comparse in questi ultimi anni su riviste o su collane di prestigiose editrici. Non ci meraviglia questa scelta già compiuta dall’autrice nel 1992 in occasione della pubblicazione di Poesie dove infatti riunì altre precedenti raccolte.

È il suo originalissimo stile percepibile anche nella scansione cronologica delle varie pubblicazioni e nella collocazione dei versi nell’arco temporale della poesia. I suoi sono piccoli passi di danza sospesi nella vastità di Roma, nella quotidianità, nelle piazze, nelle strade, nella casa.

Movenze suggestive che preludono al ritmo finale di ogni singola raccolta, quasi un trionfo, dove i movimenti preparatori defluiscono, per esaltarlo, nel registro espressivo di un’arte inafferrabile eppure tecnicamente complessa, ariosa, sonora.

E anche nelle ultime pubblicazioni ritroviamo intatti il coraggio, l’ironia, la capacità di prendersi in giro, il tono colloquiale, quella leggerezza che pare distanziarla dal pathos che pure è presente nei suoi versi. Mi restano in mente elementi di arricchimento e di maturazione colti nella denuncia civile al centro del poemetto: “Aria pubblica”. Una consapevolezza nuova che dà anche nuovo senso politico ai versi laddove rivendica la bellezza delle piazze di Roma ormai trasformate in lunapark, in distese di bottiglie e lattine vuote o ingombre di tavoli, ombrelli, sedie, cellulari, insegne. Tutto concorre a mortificarne la magnificenza e anche se si allontana da quelle piazze vendute insieme alla città, il chiasso la insegue, offende l’udito, attraversa porte e doppi vetri, si insedia nei pensieri.

Questa è Roma, tuttavia amata e cantata da Patrizia Cavalli, quella stessa Roma che Gabriella Ferri seppe amare e cantare con l’intensità irriverente e magica degli stornelli. E c’è anche, nei suoi scritti, un accostamento inquietante all’idea di morte tanto da intitolare Morti perché si muore, un segmento del libro Pigre divinità e pigra sorte.

La morte non sembra essere attesa disperante per Cavalli, ma consapevolezza di qualcosa che verrà a donare il silenzio negato dalla vita. L’accento è sereno ma al contempo amaro, come se tutto trovasse improvvisamente giustificazione e desse senso ad ogni gesto, perfino alle “scandalose e stolte” feste di compleanno. Tranne poi a ripetere a se stessa e a chi è in ascolto: Pietà per me che resto qui sospesa. Si sposta solo il margine d’attesa poi giunge, ineluttabile, l’interruzione:

Ah, ma è evidente, muoio … lo fanno tutti / dovrò farlo anch’io … ma in questi istanti incerti / io sono certamente un’immortale. Ecco, ancora, la leggerezza, quel lieve straniamento che coincide con il punto più alto dell’autoirrisione.

E nelle sue dense raccolte non può mancare l’amore. Le donne amate o da amare, quelle con le quali condividere l’avventura triste e gioiosa della vita, sono parte dei suoi libri e lo sono con le delizie, gli errori, le cattiverie di cui possono essere capaci l’amore e la vita.

Cavalli sa raccontarle queste donne, senza ipocrisie, calandole nella fisicità della relazione amorosa o astraendole in un giuoco di immagini riversate nella parola poetica che, se pur leggera, ha la fine tessitura del dolore e raccontandole racconta se stessa, la propria intimità a dispetto delle ottuse convenzioni sociali: Prendimi adesso tra le tue braccia / adesso sciolta da me raccoglimi / non per ridarmi forza / ma perché io possa arrendermi.

Rileggendo questi versi viene da chiedersi se sia stata la donna amata il riferimento o quella morte che da lungo tempo Patrizia Cavalli presagiva, alla quale tendeva le braccia come amante fedele per arrendersi infine ma, “ad armi pari”.


(https://www.facebook.com/, 22 giugno 2022)

di Rinalda Carati


Vorrei tornare sulla questione della mediazione. Mi sembra importante rispetto al modo in cui può esprimersi la forza delle donne. Alla mediazione io credo – ma come sempre non ho altro che le mie esperienze e la riflessione su quanto accade dentro (quel dentro che è sempre anche un fuori) di me – si può andare solo avendo una posizione precisa forte e chiara. Perché ci sono casi in cui è possibile cambiare posizione, ma ce ne sono alcuni altri nei quali questo non si può fare. Ed è lì, io credo, che si innestano i conflitti tra donne distruttivi. Perché si va avanti pensando che è necessario trovare un punto di accordo, magari lo si accetta formalmente: ma in realtà si è sbattuto contro qualcosa che soggettivamente è irrinunciabile, non disponibile. E dopo si accumulano – senza averne neanche troppa consapevolezza, temo – rancore e sfiducia in se stesse e nelle altre. Non è facile sapere cosa è soggettivamente irrinunciabile: ci sono cose grandi e facili (ad es. una di queste per me è la guerra: la guerra non si deve fare, punto). Ma ce ne sono altre che sono molto più personali e ognuna deve trovare le sue. Io ho sperimentato che tenendo chiara la mia posizione, difendendola e articolandola, ottengo a volte risultati migliori. Perché in quei casi quello che cambia non è la mia posizione o quella dell’altra: cambia la natura della relazione. Mi viene da dire: la relazione si riassesta su un piano superiore di “realtà” e sfugge a qualunque contenuto “ideologico”. In parte mi pare sia così. Ma in parte credo che questo movimento abbia a che fare con il “sopportare il disordine”, espressione che prendo da Rosetta Stella, che la aveva usata anche come titolo di uno dei suoi bellissimi libri. Sopportare non è subire. È avere a che fare. Qualcosa che sta vicino all’opera della madre, quindi all’autorità femminile: Rosetta diceva che una donna quando mette al mondo comprime i suoi organi interni per fare spazio. Fare spazio ad altro che è ignoto. Non si sa… Non si sa nulla. Eppure si fa.

Fare spazio, credo, è grossomodo il contrario di questa orribile cosa che è tanto di moda adesso e che viene riassunta con la parola “inclusività”. Viene venduta sul mercato delle parole come il passo avanti del nostro tempo rispetto al passato, mi pare: ma ha a che fare più che altro con le fratrie. Vuol dire: se non sei accettata, se non ti sei schierata, se non fai parte di questo o quello o quell’altro ancora non hai nemmeno diritto di parola. Non esiste nulla fuori dallo schieramento. Tutto deve essere ricondotto al già esistente e semplice. Tutto quello che viene raccontato come “nuovo” deve essere soltanto una ripetizione del già saputo. Ma io so che c’è altro. C’è sempre.

Allora il lavoro che a me sembra di dover continuare a fare è esattamente fare spazio. Non ho bisogno di essere d’accordo con le altre. Ho bisogno che ci sia scambio anche nel disaccordo, cioè che non ci siano solo ordinate caselline in cui aggiustare tutto, seguo una strada, non presumo di sapere che produce una “soluzione”. Ma per questo, dovrei poter dire che credo che le donne che in questo momento scelgono di essere incluse nelle fratrie – esistono, eccome se esistono – sono sventurate. Non so come si fa a farlo bene. Ma penso che avesse ragione Ursula K. LeGuin. In uno dei suoi saggi scriveva, più o meno: non sono più ai tempi della mia miseria quando tutto quello che avevo a cui aggrapparmi era “Le tre ghinee”. Abbiamo ritrovato le nostre madri: questa volta, facciamo attenzione a non perderle.

Tutto questo, come ovvio,  riporta anche alla questione maschile: Ida Dominijanni ha visto esprimersi desiderio di guerra in loro (non tutti come sempre ma molti, e in alcuni casi a me è sembrato piacere, non solo desiderio). Lo ricollega al trauma del Covid. Ai tempi, Rosetta faceva notare come la guerra a Kabul avesse un collegamento con il trauma delle torri gemelle. Forse le donne che si fanno includere nelle fratrie cercano di curare i maschi offrendo sostegno alla sofferenza e alla follia? Potrebbe essere, anche perché una delle cose che a volte mi vengono fatte notare è: non sei empatica. Non lo so. Comunque, quel tipo di cure non funziona più. Ma lo dico io. Loro, gli uomini, cosa dicono?

Post-scriptum: Non sono capace di fare nulla da sola. Quindi tutto quello che dico viene anche da altre donne: in questo caso, oltre a Rosetta Stella, desidero ringraziare Stefania Ferrando e Silvia Niccolai.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 22 giugno 2022)

di Francesca Pasini


«Ora le donne sono ovunque e lavorano a fianco degli uomini, spesso portando una propria misura per modificare il contesto in cui si trovano», così si legge nell’invito del 12 giugno.

Livia Alga individua, nel “corpo libero” della danza e della ginnastica, la resistenza e l’abbandono alla gravità, mentre nella radicegreca, Tla, Tlein, sopportare/osare, evidenzia la “forza di essere vittime o eroi”.

Una possibile, o forse necessaria, fluidità che riduce la contrapposizione alleato/nemico dei Poemi Omerici, dove peraltro – sottolinea Livia Alga – il potere delle dee è alternato alla vulnerabilità. Un riferimento simbolico importante per la dicotomia uomo-donna: i poemi omerici sono, infatti, l’opera “globale” che segna l’origine dell’Occidente.

Nell’arte la fluidità sopportare/osare si può tradurre in osservare/inventare, nel senso che davanti a un’opera dobbiamo autorizzarci a prendere parola partendo da chi siamo.

L’identità neutro-maschile ha usato l’invenzione come sinonimo di superamento, cioè un’altra versione di amico/nemico, pacificata dall’arte.

Oggi, però, le differenze linguistiche sessuate hanno aggiunto una lingua in più, facilitata dalla pronuncia delle donne in tutto il mondo.

Alla Biennale di Venezia ci sono più donne che uomini. Tutto a posto? No. In questa Biennale si percepisce anche una popolarizzazione della presenza delle donne, basata sulla quantità più che sulla molteplicità linguistica.

Faccio un parallelo azzardato: il patriarcato ha ceduto il campo alle “fratrie” che governano le multinazionali, anche dell’arte e i rapporti personali, «enfatizzando – come dice Lia Cigarini – il narcisismo maschile, spesso violento». Le donne introducono un linguaggio in più che non elimina la differenza, come tradizionalmente si pensa avvenga nell’arte, la aggiunge. Questo limita il narcisismo maschile perché si apre un campo gravitazionale dove gli uomini possono esercitare una dissidenza rispetto al “loro” soggetto neutro, e usare le differenze linguistiche sessuate come un’occasione e non una minaccia da affrontare con la violenza.

Era, però, necessario che le opere delle artiste fossero tante quante, o almeno non più separabili da quelle degli uomini, interferendo così con le misure abituali della forza di gravità dell’arte.

Quando una figura prende corpo, sapere chi l’ha creata è altrettanto importante dei colori perché aiuta a collegare la libertà di esprimersi all’intuizione anonima, per secoli inglobata, prima, nell’idea del divino, poi, nella rivoluzione delle avanguardie del Novecento. Le grandiose idee dell’arte sono correttamente diventate elementi di conoscenza del mondo.

Ma, come diceva Carla Lonzi, «l’intuizione è un modo di vivere, e non un mistero da chiarire attraverso un’analisi razionale» (Scritti sull’Arte). Questo è l’apporto della presenza delle donne.

Ogni invenzione ha un punto iniziale, che poi viene assorbito e copiato. Oggi le donne hanno la forza di suggerire agli uomini di imitare il loro sistema linguistico, politico, affettivo, partendo da sé. Anche questa è per me un’opera d’arte.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 22 giugno 2022)

di Emma Ciciulla


Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 La forza delle donne, domenica 12 giugno 2022


Quando in redazione si è delineata l’idea di lavorare sulla forza femminile e ci siamo chieste su come oggi si possa generare ed esprimere, in modo del tutto spontaneo e ancora poco chiaro persino a me stessa, durante un dibattito sono intervenuta esprimendo il forte desiderio di parlare di mia madre.

L’impulso che ho provato in quel momento proveniva dalla consapevolezza di avere un legame molto forte e profondo con lei, e dentro di me sentivo come questo aspetto della mia vita fosse centrale nel mio percorso femminista: tuttavia, finché non ho sviscerato l’argomento in modo più puntuale con le altre, quale fosse il preciso collegamento tra la forza trasformativa delle donne e il mio personale rapporto madre-figlia non mi era del tutto chiaro.

La questione mi è apparsa più chiara quando sono stata sollecitata, durante una videochiamata di gruppo, a chiedermi a cosa mi servisse questo legame con la mamma nella mia vita e in che modo potesse essere spesa la forza che mi dà.

Ho riflettuto sulla questione, ripensando anche a discussioni passate avvenute con Le Compromesse, e ho fatto un tentativo di mettere insieme questi spunti.

Sintonizzarmi sul rapporto con mia mamma mi ha fatto capire quanto lei sia in grado di amarmi in modo del tutto incondizionato, e quanto aver ricevuto questo amore profondissimo da quando sono nata mi abbia strutturata come persona. Avere una madre sempre disponibile ad ascoltarmi, a darmi sostegno, ma anche a lasciarmi andare quando necessario, ha lasciato dentro di me due impronte molto importanti.

Per prima cosa, volere così tanto mia mamma accanto mi ha fatto desiderare e cercare le altre donne. Riflettere su questo aspetto mi ha riportata a quando è nato un germe delle Compromesse: accadde anche grazie al fatto che scrissi nel gruppo Facebook di femministe che frequentavo virtualmente di fare una videochiamata tutte insieme, e in quell’occasione ho conosciuto quelle che ora sono le mie compagne.

Riconoscere l’importanza della prima donna della mia vita mi ha dato una spinta inconscia verso i legami con le mie pari: l’amore ricevuto ha generato dentro di me una forza affiliativa molto forte, anche se talvolta nascosta dall’introversione.

Inoltre, guardando più da vicino il rapporto con mia madre, unitamente allo studiare psicologia, ho iniziato a sostenere sempre di più la convinzione che gli esseri umani siano profondamente dipendenti, e che questa nostra natura sostanzialmente vulnerabile sia nascosta dalla maggior parte di noi perché fonte di vergogna.

Viviamo in una società che demonizza l’espressione emotiva, la comunicazione dei sentiti e il chiedere aiuto; che incoraggia una modalità relazionale a mio avviso improntata in senso maschile: la vulnerabilità va mascherata, in favore di uno sfoggio di iper-indipendenza e autosufficienza. Ritengo che contrastare questo senso di forza intesa come “affermazione del sé senza l’altro”, sostituendolo con un’ammissione globale di dipendenza dall’altro (dove quel primo “altro” è la madre) possa essere un primo passo per esportare la forza femminile nelle relazioni.

Personalmente, sento di spendere questa forza anzitutto nei miei gruppi femministi con le mie compagne: nella nostra pratica politica, ammettere di essere vulnerabili è in sostanza il primo passo da fare per procedere poi con l’autocoscienza. Infatti, per riuscire a riconoscersi nell’altra (quindi a ritrovare anche i propri dolori nel racconto dell’altra) l’assunto di partenza è che ci sia una radice di vulnerabilità da condividere.

Il progetto delle Compromesse rappresenta un primo tentativo virtuale di fare proprio questo: abbiamo trovato una forza nel nostro gruppo e vogliamo raccontarla alle altre.

Resta da chiedersi, tutte insieme, come esportare l’accettazione della dipendenza al di fuori dei gruppi femministi, sia con le donne ma anche nel rapporto con gli uomini; proprio loro sono infatti i primi a incoraggiare, per socializzazione, il rifiuto della dipendenza.

È da questa dipendenza dall’altro che nasce invece il presupposto per la comunicazione, generando la possibilità di fare qualcosa insieme: questa possibilità è l’esatto contrario dell’individualismo e del bastare a se stessi a tutti i costi di cui parlavo prima; ritrovarsi con le altre in virtù del riconoscimento del bisogno reciproco di relazione può mettere in circolo una forza contraria a quella cui siamo abituati, e ben più gratificante.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 21 giugno 2022)

di Laura Colombo


Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 La forza delle donne, domenica 12 giugno 2022


Sono nella redazione di via Dogana da qualche mese, da quando è iniziato lo scambio con le ragazze del gruppo Le Compromesse. Come ha detto Traudel Sattler durante lo scorso incontro, con loro è iniziato un percorso che da subito si è delineato come una pratica di parola nel senso del femminismo originario, ovvero uno scambio non codificato e senza un ordine precostituito, ma con un orizzonte preciso, quello di Via Dogana 3, e della possibilità di estendere lo scambio negli appuntamenti della redazione allargata, come oggi qui.

È questo il contesto in cui è stato concepito anche La forza femminile, una sera in cui si parlava delle pratiche in gioco nei piccoli gruppi, della relazione tra donne e, nel momento in cui la parola forza ha fatto capolino tra noi, Emma Ciciulla è intervenuta con slancio a parlare della relazione con sua madre e abbiamo appena sentito quanto è forte, appassionata e coinvolgente la sua testimonianza.

Io credo che quello che Emma ci ha appena detto sia di fondamentale importanza per diverse ragioni. Innanzi tutto, perché marca il rivolgimento e il guadagno sul piano del simbolico portato dal femminismo negli ultimi decenni. Luce Irigaray nel suo libro Il corpo a corpo con la madre ha illustrato magistralmente la distruzione della relazione genealogica tra madre e figlia a opera del patriarcato. Ha messo in luce tutti i segni di sofferenza che hanno afflitto l’esperienza personale e la realtà sociale, segni enigmatici finché non è stata fatta luce sulla violenza profonda portata dalla distruzione della relazione genealogica madre-figlia. Luisa Muraro nel suo libro L’ordine simbolico della madre invita a tornare alla madre, ad avere riconoscenza verso di lei e verso le altre donne che ne continuano l’opera, a costruire una genealogia. In altri termini, sottolinea la necessità di imparare a praticare la relazione con la madre nella vita adulta. Questi sono gesti che portano a sottrarsi all’ordine simbolico maschile, rendendo così possibile la dicibilità dell’esperienza femminile.

È interessante rileggere il numero 55 di Via Dogana, del 2001, intitolato Dedicato alla forza femminile. In particolare, nell’articolo di Montserrat Guntín y Gurguí è evidente che il pensiero di Luisa Muraro e Luce Irigaray sono il lievito di una trasformazione irreversibile, ma l’esperienza del rapporto con la madre reale è segnata da contraddizione e dolore: “il mio amore per lei si trasformò in un odio che raggiunse più o meno la stessa enormità che aveva avuto il mio attaccamento”. Nondimeno c’è la consapevolezza, unita a un gesto intenzionale e deliberato, di strapparsi al destino di un rapporto dicotomico che prevede solo l’assoluto dell’amore e dell’odio, l’obliterazione della relazione, dando senso e misura alla relazione con la madre, perché “permette la relazione con la vita e con le e gli altri, apre al circolo virtuoso della forza che mi portò al mondo… la stessa che mi ha portato fin qui”.

Emma ha mostrato che si è compiuto il passaggio a una relazione armoniosa con la madre che fa guadagnare nello stesso tempo indipendenza simbolica, quindi il rapporto madre-figlia fa ordine laddove regnava disordine e negazione, è significato nel senso della differenza sessuale, è al di fuori dell’ordine patriarcale. Di più, dove c’era intenzionalità e sforzo per riconoscere la madre, oggi c’è una realtà differente, modificata, in cui amore e riconoscenza per la madre sono possibili, insomma, una realtà che non cancella più il rapporto madre-figlia.

Un’altra ragione per cui quello che ci ha detto Emma è importante attiene all’ordine sociale, riguarda cioè le modalità in cui l’ordine simbolico si traduce nel mondo e anche come viene veicolato dai media. Nel mese di marzo del 2021, il numero 1399 di Internazionale si intitolava Le ragazze sono forti e presentava un’inchiesta dell’Economist, una serie di interviste a ragazze in Europa e negli Stati Uniti, evidenziando la bellezza, la forza e la potenzialità delle giovani donne, oggi, in Occidente, anche se non mancano le difficoltà. Vi si legge: “Le ragazze vogliono cambiare il mondo e pensano di poterlo fare”. Le ragazze sono dappertutto, con i loro desideri e le loro ambizioni, dico io. Luisa Muraro commenta in questo modo, in un articolo scritto per il sito della Libreria delle donne: “Quasi senza saperlo, il discorso mediatico comincia a rendersi conto del segreto racchiuso nel cambio di civiltà di ragazze baldanzose e insieme pensose, capaci di amicizie profonde e durature, che coltivano la fiducia reciproca, e nelle madri vedono delle alleate e dei modelli…” (Luisa Muraro, Finalmente si comincia a capire, 11/3/2021). È quello che oggi abbiamo visto in atto nel discorso di Emma.

Però non va tutto bene: c’è una guerra nel cuore dell’Europa, di cui non vediamo la fine, c’è la crisi economica e quella ambientale. Ho riletto i quaderni di via Dogana sulla guerra[1], articoli scritti dopo l’11 settembre e allo scoppio della guerra in Iraq nel 2003. Molte riflessioni hanno come punto di partenza la storica estraneità delle donne dai luoghi di potere, che dà loro una particolare posizione fuori campo, un vantaggio nei contesti in cui i rapporti di forza sono il metro delle relazioni umane. Viene messo in evidenza che le donne mostrano un modo diverso di agire nel mondo, portano un’altra misura. In questi 20 anni le cose sono cambiate e la situazione è molto più sfumata, è meno netta, è attraversata da contraddizioni profonde.

La più importante mi sembra questa: Lia Cigarini, in una riunione di via Dogana[2], ha affermato che oggi le donne ci sono e portava esempi di circolazione dell’autorità femminile durante la crisi pandemica, sia a livello del sistema sanitario che a livello europeo, con la gestione politica della crisi da parte di Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, che si sono mosse prima trovando un accordo tra loro e poi contrattando con gli uomini. Lia sottolinea che sono donne di potere che non vanno dietro agli uomini e stanno in relazione per contrattare meglio con gli uomini.

In questo momento di guerra stiamo assistendo però a qualcosa di diverso: le donne ci sono, sono a capo di paesi europei (mi riferisco a Sanna Marin, premier della Finlandia, e Kaja Kallas, premier dell’Estonia[3]) e sono però all’interno della logica dei rapporti di forza e di potere, l’una richiedendo l’ingresso del Paese nella Nato, l’altra reclamando più truppe dell’alleanza atlantica ai confini con la Russia. Entrambe affermano di essere dalla parte giusta della storia, guidate dalla dicotomia amico/nemico, che non può che alimentare la violenza cieca e insensata della guerra.

La situazione, quindi, presenta delle contraddizioni importanti e domanda pensiero politico, come dicevo prima, nuove parole e nuove pratiche, perché la forza guadagnata sia davvero trasformativa. Lascio ora la parola a Livia Alga di Diotima per il suo intervento.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 21 giugno 2022)


[1] Guerre che ho visto; Fare pace dove c’è guerra

[2] Lia Cigarini, Autorità femminile, #VD3 20/10/2020

[3] Laura Colombo, Se le donne arrivano al potere, libreriadelledonne.it 29/4/2022

di Maria Livia Alga


Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 La forza delle donne, domenica 12 giugno 2022


Quando Vita Cosentino e Laura Colombo mi hanno invitata a pensare sulla forza femminile e sulle pratiche politiche che nascono da questa forza, la accrescono, e di questa forza si nutrono, ho sentito subito una affinità nelle parole che avevano scelto per darmi il la.

Il primo riferimento cui mi hanno rimandata è stato il numero di Via Dogana Ricominiciamo dal corpo. Mi ha toccata molto il fatto che a Verona con alcune colleghe dell’università, con le amiche del centro interculturale delle donne Casa di Ramia e del Circolo della Rosa, avevamo appena proposto il ciclo di incontri A corpo libero. Tra sistemi di potere e ricerche di senso. In questa coincidenza credo possiamo leggere un segno del bisogno diffuso e comune di un richiamo a qualcosa di radicale.

Giulia Valerio a proposito di queste forme di “regressione” scrive: “di solito attribuiamo un valore negativo alla parola regressione ma non dovrebbe proprio averlo: progressione, regressione sono due movimenti della psiche, della vita. La vita è composta di sistole e diastole. Quando ci troviamo di fronte a una difficoltà che ci sembra invalicabile regrediamo verso le sorgenti, torniamo alle nostre radici profonde per ritrovare energia diversa dall’ordinario e forze rinnovate. Durante la pandemia ciascuna di noi è stata spinta a cercare e trovare dentro di sé antidoti e rimedi; a orientarsi intuitivamente lungo una via che muove verso qualcosa di essenziale.” (“Per amore del mondo” n.17, 2020)

E aggiungo: è stato necessario pensare in modo più accurato la dimensione materiale dell’esistenza (a causa della percezione accresciuta della sua vulnerabilità) ma anche il mistero che la attraversa a partire dal respiro, il soffio vitale che la anima.

A Verona sentivamo la necessità di aprire uno spazio pubblico di dialogo sul bisogno di ritrovare la capacità di situarsi in un orizzonte di libertà in cui i sistemi di potere si relativizzano e prende peso la relazione con il senso dell’esistere, il gioco della vita.

Ci sembrava, quindi, che l’espressione “a corpo libero” nominasse una via – la via incarnata – per tenere insieme da una parte le domande che mettono in questione la giustezza delle regole sociali e il senso degli sconvolgenti accadimenti storici, e dall’altra le domande assolute sull’esistenza che ci aiutano a capire chi siamo e dove.

Ragionando su questa espressione ho messo a fuoco qualcosa che prima per me non era così chiara quando pensavo le pratiche politiche delle donne e le forze, soprattutto femminili, in gioco.

Quando infatti mi sono ritrovata a scrivere il testo introduttivo di questo ciclo di incontri ero partita da una definizione classica: “a corpo libero si genera un movimento che usa il peso corporeo per fornire resistenza alla gravità”. Su questa prima frase, giustamente, sono arrivate alcune critiche e proposte. Un’amica danzatrice, Emilia Guarino, mi ha suggerito di aggiungere che alla gravità talvolta il peso si abbandona: anche il riposo e l’abbandono alla gravità sono un momento della vitale relazione tra questi elementi. Elena Migliavacca mi ha suggerito di modificare con l’idea che il corpo non solo offre resistenza, ma gioca con la gravità. Mi sono sembrate entrambe delle svolte per pensare in modo più preciso cosa significa quando ci muoviamo “a corpo libero” nello spazio sociale e di quali forze abbiamo bisogno.

A corpo libero si genera quindi un movimento in cui il peso fa gioco con la gravità, senza strumenti o legami. Un gesto che non si vincola a una struttura esterna né si potenzia con equipaggiamenti, ma si immerge in un confronto immediato tra la densità del nostro essere e le forze fisiche che governano il mondo. Il ‘corpo libero’ è la disciplina delle ginnaste dalla inaudita capacità di saltare, avvitarsi in aria, fare ruote e capovolte. Il limite del corpo singolare si incontra con la necessità fisica che ordina il mondo, distribuisce i pesi, determina le forze e gli equilibri. Che danza si crea?

Traslando in termini politici: come possiamo abitare i limiti come fossero leve, svincolarci dai discorsi che creano contrapposizioni, dalle dicotomie che influenzano il nostro movimento? Quali forze e dis/equilibri sperimentiamo cercando un posto nel mondo mentre ci confrontiamo con le violenze quotidiane, i sistemi politici-mafiosi, la rigidità delle discipline?

Se penso la mia relazione con la gravità di questo momento storico, il peso che avverto ogni giorno nel petto al sentire le notizie, è il gesto danzante del corpo libero che più si avvicina a dire la qualità della forza che mi abita e agisco. Questa immagine suggerisce che non c’è mai una contrapposizione o una reazione ma sempre una composizione di forze, anche quando si compensano o sembrano opporsi. Il gesto danzante fa apparire la bellezza di questa composizione. Fino a quando penso al mio fare politica come un movimento a corpo libero non ne posso essere schiacciata o annichilita.

Poi la guerra si è fatta sempre più presente e incalzante, ha iniziato a occupare in modo regolare e martellante le notizie quotidiane, e si è fatto sempre più buio.

Sono nata in Sicilia nell’82, sono nata in mezzo alle guerre di mafia. Vivere mentre è in corso una guerra civile di cui non si intravede esito è stata anche una parte della mia storia. La serie tv su Raiplay sulla vita della fotografa Letizia Battaglia, Solo per passione, racconta meravigliosamente quegli anni e io, rivivendoli attraverso questa ricostruzione, mi sono sentita “sua figlia”. Certo la guerra alla mafia è stata una guerra con specifiche caratteristiche da cui poi si è generata una forza femminile specifica. Su questo vi segnalo la recentissima pubblicazione di un libro curato da Gisella Modica e Alessandra Dino Che c’entriamo noi con la mafia, una raccolta di saggi e racconti scritti da donne di diverse generazioni che esprimono al meglio questa specifica forza. Metto quindi a disposizione alcuni pensieri generati da questa genealogia, per dire, a partire da me, come guadagnare un proprio posto in un mondo che è in guerra.

Per farlo riprendo una domanda che mi appassiona da molti anni, almeno da quando mi sono laureata con la supervisione di Valeria Andò all’università di Palermo con una tesi sui modi di nominare la forza e il coraggio nei poemi omerici, indagandoli a partire dalla differenza sessuale. Vi propongo un ragionamento di natura filologica che può schiudere un orizzonte di pensiero utile a pensare i tempi difficili, le divisioni, le contrapposizioni, lo stare in mezzo alla guerra.

Esiste in greco antico una radice molto speciale che è la radice tl-, uno dei modi per dire in greco antico “forza/coraggio” in modo apparentemente paradossale. Secondo gli studiosi ha generato verbi, aggettivi, nomi che hanno a che fare con il sopportare oppure con l’osare: affermano che la netta distinzione che noi poniamo tra il sopportare e l’osare non fosse in fondo essenziale nel greco, soprattutto omerico, e attribuiscono una essenziale ambiguità della radice da tradurre opportunatamente o con sopportare o con osare, come fossero due dimensioni concepite in maniera disgiunta. Tl- non indica solo la dimensione del peso dell’anima (sopportare un’emozione) ma anche delle cose più materiali. Il nome di Atlante, il gigante che tiene sulle sue spalle l’intera volta celeste, viene da questo radicale, talanta, la bilancia, anche.

La traduzione classica di tl- indica che o si ha la forza di essere vittime o si ha la forza di essere eroi/eroine. Nella guerra di mafia, ad esempio, molte donne o uomini che hanno incarnato la forza sono state dipinte e narrate attraverso questa visione dicotomica.

Non credo in una forza che ci divide così. Il radicale tl, se si va in profondità, non racconta della distinzione che gli studiosi vorrebbero tramandarci. Racconta un’altra storia sulla forza, apre un’altra possibilità. Quando ho incontrato questo verbo mi è sembrato subito una pietra preziosa, come potesse tenere insieme due opposti e generare una terza via.

Non si tratta di una forza-coraggio esclusiva dei personaggi femminili, è propria anche di alcuni guerrieri e, in guerra, indica una forza particolare. Sono altre le parole che indicano la forza del guerriero di uccidere, brandire la lancia, affondarla nella carne del nemico (per esempio andreia da aner,andros che significa non a caso uomo maschio in greco antico).

Tlenai viene usato, invece, per tutte quelle situazioni in cui si mette in gioco una forza che trasforma: si manifesta quando la gravità della situazione che si sta vivendo viene “soppesata” grazie a una sua profonda percezione e nello stesso tempo si trova dentro di sé la possibilità di una azione. Quando Luisa Muraro scrive l’agire del patire, dice “c’è un dosaggio da fare ogni volta tra l’azione possibile e la passione inevitabile”: questa è la definizione di forza che più si avvicina al senso di questa radice. L’agire nominato da tl- non è in nessun caso centrato sull’exploit individuale o sulla performance del guerriero; è sempre radicato in una relazione. È una forza che viene giocata tutte le volte in cui la relazione alleato-nemico viene modificata in una situazione non più così dicotomica, quando i personaggi cioè perdono la certezza dei loro ruoli e  non sanno più se considerarsi alleati o nemici (per esempio Priamo che va nel campo di battaglia nemico a chiedere il corpo del figlio a chi lo ha ucciso); oppure quando ci si incontra tra stranieri e non ci sono ancora relazioni definite e chiare; quando il guerriero non si reca sul campo di battaglia per attaccare ma per proteggere qualcuno, un compagno ferito per esempio; quando la dea Afrodite, pur di salvare il suo protetto mortale, si lascia ferire. Le dee greche infatti non sono mortali, eppure sono vulnerabili. O ancora, esprime la forza del supplice, del mendicante, il coraggio di Telemaco di andare in cerca del padre.

Questa forza ha un suo nome in greco omerico. Non mi sembra che in italiano esista una parola che la nomini ma certo mi pare ce ne sia un grande bisogno.

Vi invito a ricercarla insieme.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 21 giugno 2022)

di Marina Terragni


Che cos’è una donna? È quella che ci ha messi al mondo, tutte e tutti. Su questo non può esserci alcun dubbio. Il che non significa affatto che una è donna solo se mette al mondo dei figli. Abbiamo molto lottato per la libera significazione delle nostre esistenze, a cominciare dal non-obbligo di maternità (anche se oggi, come stiamo vedendo, siamo passate a tutti gli effetti al quasi obbligo di non-maternità). Ma per dire che cos’è una donna il potere – non il dovere – essere madre è la costante di tutte le costanti. È intorno alla sua capacità di procreare – invidiata, controllata, dominata, messa a servizio – che si è storicamente costruito l’immane edificio patriarcale.

E le donne trans? Sono, appunto, donne trans, come ha spiegato la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, che pure avendo lottato al fianco delle persone trans nel suo paese per questa limpida risposta è stata – al solito – accusata di essere una Terf (trans-escludente).

Del resto anche numerose persone trans vengono accusate di terfismo, da Debbie Hayton a Keira Bell a Scott Newgent, nell’occhio del ciclone perché si battono contro la somministrazione di ormoni a bambine e bambini gender nonconforming (prima puberty blocker e poi farmaci cross-sex: si fa anche in Italia) aumentata in modo vertiginoso negli ultimi anni, si veda la recentissima e preoccupatissima inchiesta del New York Times; e sono contrarie al cosiddetto self-id o autocertificazione di genere.

Anche noi in Italia abbiamo sostenuto e supportato le persone trans – all’epoca quasi esclusivamente MtF, nate maschi e transitate al femminile – nella loro dura battaglia dei primi anni ’80 per la rettificazione dei documenti, battaglia conclusa con l’approvazione della legge 164/82. La legge prevede un percorso medico e psicologico per ottenere il cambiamento anagrafico ed effettivamente è un po’ invecchiata. Una legge analoga, il Gender Recognition Act in UK, è stata infatti recentemente aggiornata per velocizzare le pratiche e diminuire i costi. Ma gli inglesi hanno detto no al self-id.

Da allora, dai primi anni ’80 a oggi, che cos’è successo? Lo spiega bene il professor Robert Wintemute, attivista gay, docente esperto in diritti umani al King’s College di Londra che nel 2006 partecipò alla stesura dei famosi principi di Yogyakarta, principi che hanno orientato tutte le successive politiche trans (e che non menzionano una sola volta la parola donna). Oggi Wintemute è pentito di aver contribuito alla stesura. Dice che i diritti delle donne non sono stati considerati durante la riunione. Soprattutto ammette di «non aver considerato» che «donne trans ancora in possesso dei loro genitali maschili intatti avrebbero cercato di accedere a spazi per sole donne: nessuno allora aveva in mente una cosa del genere». Wintemute dice di aver dato per scontato che la maggior parte delle donne trans si sarebbe sottoposta a chirurgia, come in effetti avveniva in quel tempo. E conclude: «Un fattore chiave nel mio cambiamento di opinione è stato ascoltare le donne».

Vogliamo che chi soffre di disforia di genere strazi il proprio corpo con chirurgia e ormoni per adeguarlo cosmeticamente al sesso d’elezione? Noi i corpi li facciamo, e non ci piace che vengano distrutti. Ma va considerata questa novità – il pretendere di dirsi donne da parte di uomini che mantengono intatti i loro corpi maschili – e ne vanno attentamente valutate le conseguenze.

Il self-id è già in vigore in alcuni paesi, come Canada, California e altri. Questo crea molti problemi alla vita delle donne. Due esempi possono dare l’idea.

L’affermazione del diritto di essere accolti nelle case rifugio antiviolenza mette a repentaglio la sicurezza femminile. Lo dice bene la scrittrice pakistana Bina Shah, collaboratrice del New York Times: nessuna donna musulmana accetterà di condividere spazi così intimi con uomini, piuttosto rischierà di morire per mano del marito violento. Vuole dire che è “escludente”?

Un altro esempio: detenuti con corpi maschili intatti che ottengono di essere trasferiti nei reparti femminili. Strazianti le lettere delle detenute canadesi, californiane, dello stato di Washington: «Il mio nome è Danielle F., sono detenuta nel CIW (California Institution for Women). Ho paura di questa cosa. Sono una vittima di violenza domestica e stupro. Che succederà se uno di questi sex offender che hanno il pene ci violenta?». «Il mio nome è Heather Knauff, WF 7697. Permettere questo è oltraggioso e non etico. Ci sono già uomini che sono diventati donne che sono tornate a essere uomini per sfruttare questo sistema debole che abbandona la popolazione delle donne già svantaggiate a soffrire ancora di più». Molti di questi detenuti che si dicono donne non sono nemmeno in terapia ormonale.

I casi di molestie e violenze sessuali si moltiplicano, anche le guardie carcerarie danno l’allarme: “escludenti” pure loro? Nel frattempo vengono distribuiti preservativi gratuiti e una guida su come ottenere un aborto in prigione. Secondo Amie Ichikawa, attivista per i diritti delle donne detenute, è come se la legge avesse «dato l’ok perché ci violentassero, visto che ha un piano per occuparsi delle conseguenze». Si sono già verificati peraltro casi di gravidanze, come nel carcere femminile Edna Mahan, New Jersey, che ne ha dato notizia.

Il self-id è questo e molto altro. Sono i grotteschi ori a Lia Thomas, Valentina Petrillo e altri atleti nati uomini che sbaragliano ogni primato femminile senza che lo strabordante chiacchiericcio dei media sportivi abbia mai il coraggio di affrontare la questione (l’organizzazione femminista che se ne occupa è Save Women’s Sport). Sono i corpi maschili che invadono le statistiche femminili, usufruiscono di quote lavorative e politiche riservate, si fanno largo tra le donne perché, come affermato anche recentemente da The Queen of Gender Judith Butler su The Guardian, «la categoria donne deve aprirsi per fare spazio ad altri soggetti».

“Fare spazio ad altri soggetti” è una formula che descrive bene il destino femminile nel patriarcato: un fare spazio che oggi si spinge fino al paradosso che per una donna dirsi donna è diventato un atto aggressivo ed escludente, mentre per chiunque non sia nato donna è affermato come un diritto.

Sul perché stia capitando questo ci sarebbe moltissimo da dire, e ci sarebbero anche tante altre cose da raccontare, qui non c’è spazio. Va tuttavia osservato che di tutto questo Michela Marzano nel suo testo a sostegno delle “donne con il pene” non ha fatto il minimo cenno: le importa così poco delle sue simili? E come mai?


Marina Terragni

per WDI (Women’s Declaration International)

e per Rete per l’Inviolabilità del Corpo Femminile


(la Repubblica, 20 giugno 2022)

di Rosalba Castelletti


L’etichetta di “coscienza di San Pietroburgo” non le piace. «La coscienza serve solo a nasconderla. E molto spesso viene usata a sproposito». Eppure a resistere contro la «follia» dell’“operazione militare speciale” c’è rimasta quasi solo lei. Elena Osipova, pittrice ed ex insegnante d’arte, scende in strada a San Pietroburgo con i suoi poster, disegnati tutti da lei, nonostante gli acciacchi dei suoi 76 anni, i continui fermi della polizia e le provocazioni dei cosiddetti titushki. Milano le ha conferito la cittadinanza ordinaria.

«E qui in Russia non vengo neppure nominata», dice mentre ci versa un tè e ci offre un prjanik, un panforte. «L’ho preso al forno qui sotto», sorride facendo un cenno oltre la finestra al primo piano di un appartamento che condivide con una coppia più giovane. Una kommunalka (*) dove vivevano i suoi nonni e sua madre. «Mio nonno è morto durante l’assedio. E io sono figlia della Grande Guerra. I miei, un’infermiera e un medico, si sono conosciuti al fronte». Osipova sgrana gli occhi chiari mentre mette in fila le parole come in un flusso di coscienza o ci mostra una tela dopo l’altra. «Molti poster non li ho più, me li hanno strappati o sequestrati».

Che cosa le dà la forza di continuare?

La gente ne ha bisogno. Ha bisogno di vedere che c’è chi la pensa come loro. Ha bisogno di non sentirsi sola. E ne ho bisogno anch’io. Ecco perché continuo a scendere in piazza. Lo faccio soprattutto per i giovani. Pensavamo che almeno loro non avrebbero vissuto l’orrore di una guerra e invece ora c’è anche la minaccia nucleare. Anche se quando è iniziato tutto, neppure ci credevo.

A che cosa?

Non riuscivo a credere che in tanti potessero sostenere questa operazione. Sono scesa in piazza per capire se fosse vero e ho incrociato tanti giovani in Prospettiva Nevskij. L’unica cosa che potevano fare era gridare: “No alla guerra”. Ora non si può fare più neppure quello. Io ero lì con un mio vecchio poster: una mummia, due corvi con il becco insanguinato e un verso di Marina Cvetaeva. Era un poster del 2014. Era già tutto previsto.

Si aspettava già allora che si potesse arrivare a questo punto?

No, ma ricordo che già nel 2014 c’erano gli ideologi del Russkij Mir, del Mondo Russo, e quelli che si vantavano di avere ucciso nel Donbass. E la colpa principale è la loro. Sono l’intelligencija e usano la loro influenza per instillare odio. Ai nostri dicono che vanno in Ucraina a combattere il nazismo, invece sono loro a compiere azioni fasciste.

Questi ragazzi diventano assassini.

Uccidere ti cambia, ti resta dentro. La Russia ha già subito tante prove, ma stavolta è diverso. Ci si uccide tra fratelli. E tutto questo fa paura. Tanti russi credono che sia tutto inutile, che contro questa follia non si possa lottare e perciò vanno via.

Lei invece scende in piazza da vent’anni…

La prima volta fu dopo l’assedio del teatro Dubrovka. È stato solo l’inizio. Poi c’è stata la tragedia di Beslan, l’uccisione di Anna Politkovskaja….

Che cosa spera per il futuro della Russia?

Oggi ho paura. A volte quasi invidio chi è morto di Covid. Ma spero che chi è andato via ritorni con un esercito buono che ci venga a liberare e cambi tutto velocemente…

Non crede che il cambiamento possa arrivare da dentro?

Tutti quelli che potevano fare qualcosa sono andati via. Se le tragedie di Dubrovka e Beslan fossero successe altrove, sarebbe già cambiato il governo. Qui invece al potere sono sempre gli stessi. E il loro mestiere è uccidere.

(*) Un tipo di abitazione, tipica dei primi quarant’anni di vita dell’Unione Sovietica e tuttora esistente nei Paesi ex-sovietici, in cui più nuclei familiari condividono i servizi, la cucina e il corridoio, occupando in forma privata uno o due locali. NdR


(la Repubblica, 19 giugno 2022)

di Umberto Rossi


Ricordiamo tutti quella scena di 2001: Odissea nello spazio nella quale Kubrick immagina – per metterla in termini antropologici – il primo dispositivo culturale: un osso con il quale uno dei nostri antenati quadrumani abbatte un suo avversario. La cultura avrebbe dunque inizio, per un pessimista e misantropo come Kubrick, con un’arma e un assassinio. Per Ursula Le Guin, invece, come ci spiega nel saggio La teoria letteraria del sacchetto della spesa, il primo dispositivo culturale deve essere stato un recipiente, qualcosa per portare a casa il cibo raccolto in giro, che consente dunque di conservare, non di distruggere.

Questo sovvertimento di tutte le mitologie che mettono alle origini dell’umanità qualche eroe armato (e ovviamente maschio) è un’immagine che ben rappresenta la raccolta I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo (a cura di Veronica Raimo, BigSur, pp. 249, € 18,00), selezione tratta da una ben più ricca antologia uscita nel Regno Unito quattro anni fa, autentico «sacchetto della spesa» contenente scritti assai diversi: discorsi di accettazione di premi letterari, saggi sulla scrittura, introduzioni a riedizioni di romanzi, brevi pezzi a carattere autobiografico, riflessioni occasionali, anche un vero e proprio monologo, «Mi presento», scritto per essere recitato, allo scopo di evidenziare e scardinare i pregiudizi di genere impliciti nel linguaggio. Scrittrice prolifica, nella sua lunga carriera Ursula K. Le Guin ha attraversato i due territori solo in apparenza distanti – ma in realtà contigui – della fantascienza e del fantasy, lasciandoci alcune pietre miliari.

I temi di affezione

Nei vari pezzi inclusi nei Sogni si spiegano da soli la scrittrice esplicita ciò che nella sua narrativa è criptato, nascosto nella tessitura delle trame, rappresentato in modo anamorfico: il suo rapporto con l’antropologia, con la California, con l’ondata femminista degli anni Settanta. Figlia del grande antropologo Alfred L. Kroeber, Le Guin ne eredita l’interesse per le culture native della California, alcune delle quali spazzate via dagli insediamenti dei bianchi succedutisi dalla metà dell’Ottocento in poi. Emblematica è la storia di Ishi, tratteggiata in uno degli scritti nella raccolta, «Zii indiani di Ursula Kroeber Le Guin»; Ishi era l’unico superstite di un’intera cultura nativa, l’ultimo a parlarne la lingua, e a poterla insegnare a Kroeber. Il contatto con queste civiltà, e il caparbio tentativo degli antropologi di comprenderle, si rispecchieranno nel rapporto con civiltà aliene su pianeti extrasolari ripetutamente messo in scena da Le Guin nel ciclo fantascientifico Hainish. Si parte dal presupposto che le popolazioni dei vari pianeti (inclusa quella terrestre) discendano tutte da un’originaria specie umanoide colonizzatrice, perché nei mondi di Le Guin non c’è spazio per le farneticazioni pseudoscientifiche razziste; c’è invece attenzione ai complessi processi di mediazione, di traduzione, di comprensione e fraintendimento che intercorrono negli incontri-scontri tra civiltà.

Teatro di questi processi è stata la California fin dai primi insediamenti umani, poi con la colonizzazione spagnola, quindi con l’annessione agli Stati Uniti, infine con l’immigrazione di massa dagli anni Trenta in poi: è un territorio alieno, questo, più a ovest del mitico west, terminale della frontiera che secondo lo storico Frederick Jackson Turner ha plasmato il carattere degli Stati Uniti (incluso l’amore morboso per pistole e fucili). Non è un caso se lo stato sul Pacifico ha ospitato, oltre a Le Guin, anche Philip K. Dick, suo compagno di high school, più vecchio di un solo anno, con il quale Ursula intratteneva una corrispondenza intermittente; ma mentre Dick ambienta alcuni dei suoi migliori romanzi tra San Francisco e Los Angeles (da L’uomo nell’alto castello a Un oscuro scrutare), Le Guin traspone sempre questo estremo ovest su altri mondi, dove si ripresenta in una serie di affascinanti variazioni l’incontro tra culture e la loro difficile convivenza. Talvolta, come nel romanzo breve Il mondo della foresta (1972) l’incontro diventa guerra, o meglio guerriglia, in una straniata raffigurazione del Vietnam che allora infuriava; altre volte, come nei Reietti dell’altro pianeta (1974) l’incontro tra una società utopica anarchica e una sorta di distopia capitalistica planetaria non porta apparentemente a nulla, se non a svelare limiti e contraddizioni di entrambe le civiltà.

Il tema utopico è potente in tutta l’opera di Le Guin e ben rappresentato dal saggio «Una visione non-euclidea della California come luogo freddo», compreso nei Sogni si spiegano da soli, dove ancora una volta antropologia, politica, storia e archeologia dialogano in modo originale e spiazzante. A questi temi ricorrenti s’intreccia inevitabilmente la riflessione sul genere, sulla scrittura delle donne, sulla tutt’altro che risolta questione dell’emancipazione femminile: un problema di cui, per sua stessa ammissione, Le Guin ha preso coscienza solo progressivamente, come attestano le note a piè di pagina aggiunte a «Il genere è necessario? Versione aggiornata». Qui la scrittrice, riflettendo su La mano sinistra delle tenebre, fa i conti con se stessa e la sua passata consapevolezza, solo parziale, in materia di femminismo, offrendo così prospettive inedite su uno dei suoi romanzi più noti.

Giudizi critici

A fronte delle perplessità destate dal giudizio che Le Guin dà di Hemingway (ricorrente bersaglio di una garbata ironia) e della sua maschera da macho man che oggi sappiamo essere una ingannevole finzione, non si può non restare affascinati dall’acuta rilettura di Piccole donne in «La figlia della pescatrice», o dai commenti sul tragico diario dello sventuratissimo esploratore polare R. F. Scott in «Eroi». Le Guin contrappone qui alla posa di eroismo guerresco di Ernest Shackleton (che «aveva fatto la cosa giusta ma ha detto quella sbagliata»), all’assunzione di responsabilità di Scott, che «ha ammesso completamente il proprio fallimento», senza contrapporsi a qualche nemico o avversario incarnato nei ghiacci polari. E sono queste intuizioni a costituire l’innegabile valore aggiunto di questi scritti.


(Alias – il manifesto, 19 giugno 2022)

di Franca Fortunato


Metti che donne di Palermo, Partinico, Corleone, Napoli, Locri, Roma, impegnate da anni nella lotta alle mafie si ritrovino, sollecitate da altre, a riflettere, scrivere e raccontare le pratiche politiche che le hanno viste, e le vedono, protagoniste di un’antimafia diversa da quella degli uomini, quello che ne viene fuori è un racconto corale di esperienze e pratiche di donne che, pur diverse per generazione, professioni e scelte di vita, sono accomunate dalla consapevolezza che ognuna di loro, come ognuna di noi, con la mafia c’entra, anche se non sono vittime o parenti di vittime di mafia, o appartenenti a famiglie mafiose. È quello che viene fuori leggendo il libro Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni, curato da Alessandra Dino e Gisella Modica, promotrici del progetto, e pubblicato da Mimesis. Un libro che ci racconta di donne che hanno fatto della loro professione di giornaliste, scrittrici, ricercatrici universitarie, insegnanti, della loro passione e amore per la vita e per le donne come volontarie nei Centri antiviolenza, in “Libera” e nella Casa Memoria di Felicia Impastato, uno strumento “altro” di lotta alle mafie. Una storia individuale e collettiva nella Palermo degli anni ’70 e ’80 passando per le stragi di Capaci e via D’Amelio del ’92, che ha cambiato la vita di molte e ha visto le donne e chi era cresciuta nella paura della mafia, «paura di percorrere le strade e poter essere colpita per caso, o di vedere qualcosa per sbaglio ed essere punita», protagoniste di invenzioni creative come i lenzuoli sbiancati del sangue di mafia, esposti ai balconi per dire «Non sto dalla vostra parte. Non contate su di me», o il digiuno con l’adesivo, un piattino giallo appeso al collo con scritto «Ho fame di giustizia, digiuno contro la mafia». Storia narrata alle proprie alunne e alunni da chi ne fu protagonista o testimone, per trasmettere una «memoria attiva, che si fa viva e palpitante, che si manifesta in azioni concrete». Donne che si mettono in gioco, a partire da sé, nell’incontro con altre donne, ne raccolgono i racconti, ne scrivono libri che loro o altre leggono alle proprie alunne e alunni, alcuni figlie/i di mafiosi. C’è l’antimafia “spettinata” “squattrinata”, “sciattona” di chi dirige una rivista portando orgogliosamente avanti il testimone di Pippo Fava, ucciso dalla mafia. C’è chi vive in un quartiere popolare accanto a una donna il cui marito è in carcere da anni e le due si parlano da donna a donna e «convengono che la vita che ha fatto il marito l’ha portato» a non «godersi la sua famiglia, la moglie e i figli». C’è chi scopre di dover fare i conti con un nonno che ama tanto e che è stato un mafioso. Donne che, bambine nel ’92, conoscono la mafia «dalla storia dei morti ma è attraverso chi è rimasto vivo» che incontrano «la sofferenza e la perdita» o chi incontra la ’ndrangheta nel racconto della nonna dell’uccisione del nonno, maresciallo dei carabinieri, e «negli sguardi fieri delle madri che chiedono verità e giustizia per i loro figli» e di cui scrive la storia. È l’antimafia delle donne, che a Palermo sente che «le ferite» del ’92 «si riaprono ogni qualvolta si svelano corruzioni, misteri irrisolti, complicità politiche, mandanti ed esecutori rimasti impuniti non solo per i delitti e le stragi di quegli anni, ma anche quando ci rendiamo conto che troppe sono le protezioni e le connivenze». Ferite che il risultato delle amministrative, col ritorno in campo di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, condannati per mafia, temo riaprirà e che rende questo libro ancora più prezioso, da leggere e fare leggere.


(Il Quotidiano del Sud, 18 giugno 2022)

La politica del desiderio e altri scritti, di Lia Cigarini, Orthotes 2022. La nuova edizione di questo libro dispiega la forza di un pensiero che attraversa cinquant’anni di quella inedita pratica politica che è la libertà delle donne. Una preziosa occasione per riscoprire che siamo tutte, e tutti, soggetti politici, che abbiamo la competenza simbolica per prendere la parola ed agire. Lia Cigarini dialoga con Riccardo Fanciullacci e Stefania Ferrando.

Accesso con mascherina FFP2

di Angela Strano


Un incontro volto all’arricchimento e alla condivisione. Un’occasione per trascorrere momenti assieme e trattare temi importanti e contingenti. Domenica 12 giugno in piazza Federico di Svevia si è tenuto il ventesimo Pomeriggio di bellezza, tra colori, intrecci, cartelloni, discorsi rivolti all’amore per la città. Un evento organizzato dalla Città Felice e che ha visto la convergenza di diverse realtà, quelle integrate nel circuito La Ragnatela.

Chi ha partecipato

Nel corso dell’evento si sono espressi gli/le esponenti di vari contesti catanesi. Un flash mob durato circa due ore il quale ha consentito di esternare sia attraverso il dibattito, sia mediante una mostra di cartelloni e il canto. Una volontà che converge per gli “intrecci di pace”, questo il nome del pomeriggio di bellezza. Il principio secondo cui, attraverso la valorizzazione delle idee e, ancora più in profondità, mediante le buone pratiche, si volge alla pace e all’armonia. Introduce l’evento Anna Di Salvo, spiegando ciò che si vuol trasmettere attraverso i pomeriggi di bellezza succedutisi negli anni. C’è stato l’intervento di Mirella Clausi, la quale spiega come i centri storici, compreso quello catanese, rimangono espropriati dalla loro bellezza e storia, in quanto messi a reddito col pullulare dei locali. Mirella, inoltre, vivendo proprio nei pressi della piazza, afferma che gli abitanti del quartiere manifestano il loro amore per essa.

Segue il canto popolare siciliano di Domenica Galvagno del coro UnicaVuci. L’intervento di Oriana Cannavò del centro antiviolenza Penelope, con riferimento alla casa sociale per le donne vittime di violenza, inaugurata di recente presso il quartiere di san Cristoforo. Come spiega anche la mediatrice culturale Joyce, nella sede di Penelope si vuol portare avanti la solidarietà tra donne di varie etnie vittime di abusi che vivono il quartiere. Pertanto si organizzano laboratori di cucina, cucito (sartoria sociale), arte, italiano. L’intento è pure favorire l’integrazione di queste donne e il loro inserimento sociale.

Pomeriggio di bellezza: chi ha preso la parola

Si è espressa Brunilde Zisa per Emergency, evidenziando la misura in cui dalla cura del prossimo si può creare bellezza. Ella inoltre si riferisce alla differenza femminile come fonte di ricchezza, nonché celebra l’uguaglianza e la diversità, i diritti e l’accoglienza. Ancora Cinzia Colajanni, de La Ragnatela, che definisce la città come luogo di condivisione tra cittadini/e. Uno sguardo pure verso i senzatetto, per i quali la rete antiviolenza si sta mobilitando. Segue Giusy Milazzo, anche lei de La Ragnatela e di Sunia, in difesa delle famiglie sfrattate. Interventi di Chiara Petrelli, con riferimento alla nascita della Città Felice, circa trent’anni fa, e un buon auspicio per la politica delle donne, e di Maria Merlini. Questa propone l’agire e il pensare per contribuire a cambiare il circostante. 

Ancora Giolì Vindigni, del Comitato Apriamo il porto, indicandone il potenziale se questo venisse aperto, Eliana Rasera e Domenico Stimolo, con discorsi sulla pace e la pratica politica delle donne. In ultimo, tra gli interventi, quello di Salvatore Castro del Comitato Antico Corso, il quale evidenzia il graduale smantellamento del quartiere, tra la soppressione degli ospedali in centro e la sottrazione di spazi pubblici. Per opporsi a tale scempio occorre creare comunità, tra residenti e non in quartiere, questo lo scopo del Comitato.

Gli “Intrecci di pace”

Durante l’evento si sono intrecciate delle stoffe colorate, gesto dalla valenza simbolica. Il tema portante è la pace, aspetto espresso con la mostra di cartelloni sulle massime di donne contro la guerra. Figure femminili che hanno manifestato la loro contrarietà alle logiche militariste, fatte di morte e dominio. Da Rosa Luxemburg a Hannah Arendt, passando per Virginia Woolf e Dacia Maraini. Uno sguardo pure su Marija Gimbutas, archeologa che ha avanzato importanti scoperte sulle società matrilineari, disconoscenti la guerra. Queste e altre donne le quali, col loro potenziale, hanno posto una secca opposizione a tutte le campagne militari. 

Se non si dispongono degli strumenti per porre fine a una guerra, si può tendere alla pace con le innumerevoli sfaccettature del quotidiano. Questo anche attraverso un’altra concezione della città, a misura di esseri umani, animali, spazi verdi e ampi. Fare in modo che la città non sia espropriata per le logiche di profitto e a causa dell’inquinamento, in tutte le sue forme, ma vissuta. La Città Felice ha sempre teso a questo, creare spazi di condivisione e incoraggiare il confronto tra donne che si traduce in attività politica.

Il pomeriggio di bellezza del 12 giugno è stato un incontro tanto intenso quanto simbolico. Si è trattato di aspetti su cui occorre acquisire una maggior sensibilità, viste le istanze a livello locale e globale. Un evento, come quello dell’8 marzo 2022, richiamante il potenziale femminile.


(https://catania.italiani.it/, 17 giugno 2022)

di Venezia Manifesta


Contro i femminicidi annunciati e l’inerzia delle istituzioni. Un appello


Una donna uccisa quasi ogni giorno. Proviamo però a esaminare il fenomeno sotto un’altra angolatura, che è quella giusta: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Sembra che ci sia una sorta di resa dei conti con la libertà che le donne si sono conquistate, che fa molte vittime e che assomiglia tanto alla guerra. Ci sono scelte femminili che alcuni uomini non accettano: quando troncano una catena, sfuggono da una vita asfissiante e cercano una loro autonomia o semplicemente uno spazio e un tempo per ricominciare, a partire da sé. Quando a chiudere una relazione malata sono le donne alcuni uomini si vendicano e c’è da pensare che sentano di poterlo fare, di non avere particolari freni culturali o sociali che glielo impediscano: il pensiero della vendetta, o presunta tale, si fa strada senza trovare ostacoli. Lo hanno fatto in tanti, ormai in tantissimi. Viene da credere che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni. Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale. Anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile. Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo. Il diritto alla libertà di movimento impedisce per ora misure cautelari più decise. Una volta si diceva che le donne non denunciavano, quasi a caricarle di una responsabilità. Oggi invece denunciano ma ciò non le protegge a sufficienza. Che fare dunque per frenare questa strage? Due sono i piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione. I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia. Quasi tutti questi delitti avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita. Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo. Opporre dunque alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta. L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Ci si può ispirare alle modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti. Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita. Abbiamo dato il nostro sostegno al presidio di protesta, contro i femminicidi annunciati e l’inerzia delle istituzioni, che si è tenuto al Tribunale di Vicenza, venerdì mattina 17 giugno organizzato dai comitati MovimentiAMOci e MaternaMente e dalla rete di donne sopravvissute alla violenza e delle attiviste contro la violenza sulle donne che consegneranno una lettura-denuncia al Presidente del Tribunale e che invieranno anche alla Ministra Cartabia.


Per Venezia Manifesta: Tiziana Plebani, Franca Marcomin, Maria Teresa Menotto, Stefania Bertelli, Barbara Zanon, Rosanna Marcato, Paola Di Biagi, Mara Rumiz, Valentina Fanti, Anna Messinis, Monica Sambo


Se condividi l’appello e desideri firmarlo, puoi inviare la tua adesione via email a: Veneziamanifesta@gmail.com e/o tiplebani@libero.it


(Ytali, 17 giugno 2022)