di Rebecca Solnit


 Quando la sentenza Roe contro Wade è stata ribaltata ero a Edimburgo, nel Regno Unito. Il giorno dopo ho preso un treno per tornare a Londra e ho fatto quello che faccio di solito all’arrivo alla stazione di King’s Cross: una passeggiata fino al vecchio cimitero di Saint Pancras per visitare la tomba di Mary Wollstonecraft, autrice di Sui diritti della donna, il primo manifesto femminista. Essere lì quel giorno significava ricordare che il femminismo non è nato di recente – Wollstonecraft è morta nel 1797 – e non si è di certo fermato il 24 giugno 2022. Negli Stati Uniti le donne hanno ottenuto questo diritto meno di cinquant’anni fa, da poco tempo rispetto al libro di Wollstonecraft. 
Negli ultimi quarant’anni ho sentito dire regolarmente che il femminismo ha fallito, che non ha ottenuto nulla e che è finito. Una tesi che non tiene conto di quanto il mondo oggi sia completamente diverso (o almeno lo era) rispetto a mezzo secolo fa. Dico mondo perché è importante ricordare che il femminismo è un movimento globale, invece la sentenza Roe contro Wade e il suo rovesciamento sono state decisioni nazionali. 
Il fatto che il femminismo debba affrontare battute d’arresto e resistenze non è né sorprendente né un motivo per arrendersi. 
L’Irlanda nel 2018, l’Argentina nel 2020, il Messico nel 2021 e la Colombia nel 2022: questi paesi hanno legalizzato l’aborto. Negli ultimi cinquant’anni per le donne sono cambiate tante di quelle cose in tanti di quei posti che sarebbe difficile elencarle tutte; oggi la nostra condizione è radicalmente cambiata, in generale in meglio. Il femminismo è un movimento per i diritti umani che si sforza di cambiare cose vecchie non solo di secoli, ma in molti casi di millenni, e il fatto che debba affrontare battute d’arresto e resistenze non è né sorprendente né un motivo per arrendersi. 
Wollstonecraft non si sognava nemmeno di chiedere il voto per le donne – neanche la maggior parte degli uomini nel Regno Unito del suo tempo avevano quel diritto – né molti altri diritti che ora consideriamo acquisiti, ma non è necessario tornare al settecento per avere a che fare con la disuguaglianza di genere. Si trova più o meno ovunque da decenni. E dal punto di vista culturale la osserviamo ancora nei tentativi di controllare le donne e nei pregiudizi sulle loro capacità intellettuali e sulla loro sessualità. Mezzo secolo fa negli Stati Uniti era legale licenziare una donna se era incinta: è successo alla senatrice Elizabeth Warren, allora una giovane insegnante. Il diritto di accesso al controllo delle nascite per le coppie sposate è stato garantito solo dalla sentenza Griswold del 1965, che questa corte suprema retrograda potrebbe anche cercare di ribaltare. L’estensione ai non sposati è stata stabilita solo nel 1972. L’Equal credit opportunity act del 1974 ha reso illegale la discriminazione in base alla quale le donne non sposate avevano difficoltà a ottenere prestiti, mentre alle donne sposate si richiedeva abitualmente, oltre alla loro firma, anche quella dei mariti. 
Nella maggior parte delle regioni del mondo, inclusi il Nordamerica e l’Europa, fino a poco tempo fa il matrimonio era un rapporto in cui, per legge e per consuetudine, il marito acquisiva il controllo sul corpo della moglie e su quasi tutto quello che lei faceva, diceva e possedeva. Il concetto di stupro coniugale non è esistito fino a quando il femminismo non l’ha introdotto negli anni settanta. Il Regno Unito e gli Stati Uniti l’hanno reso illegale solo all’inizio degli anni novanta. Il giurista inglese del seicento Matthew Hale affermava che «il marito di una donna non può essere accusato di aver stuprato sua moglie, a causa del consenso matrimoniale che lei stessa gli ha dato, e che non può ritrattare». Cioè, una donna che una volta aveva detto di sì non avrebbe mai più potuto dire di no, perché aveva accettato di essere posseduta. Per inciso, la decisione della corte suprema che revoca i diritti riproduttivi cita ripetutamente Hale, noto anche per aver condannato a morte nel 1662 due anziane vedove, accusate di stregoneria. Wollstonecraft, che aveva partecipato alla Rivoluzione francese, scriveva: «In quest’epoca illuminata il diritto divino dei mariti, come il diritto divino dei re, può essere contestato senza pericolo». Contestato, ma difficilmente superato per altri due secoli. Con il controllo, con la forza e la violenza domestica gli uomini continuano a imporre le loro aspettative di dominio e a punire l’indipendenza, mentre la destra radicale cerca di riportare le donne a una condizione d’inferiorità legale e culturale, citando la Bibbia come autorità di riferimento. 
L’ultimo decennio è stato un ottovolante di conquiste e perdite, e non c’è un modo preciso per calcolare cosa ha prevalso. Le conquiste sono state radicali, ma a volte quasi impercettibili 
Oggi la corte suprema potrebbe attaccare anche l’uguaglianza tra le persone che si sposano. Da molto tempo sono convinta che questa uguaglianza, che riguarda anche le coppie dello stesso sesso, sarebbe stata impossibile se il matrimonio non fosse stato trasformato, grazie al femminismo, in un rapporto liberamente negoziato tra pari. L’uguaglianza tra i partner costituisce una minaccia per la disuguaglianza insita nel tradizionale matrimonio patriarcale, motivo per cui – insieme all’omosessualità, ovviamente – alcuni sono così riluttanti ad accettarla. Ma non è qualcosa di totalmente nuovo: una corte suprema molto diversa da quella di oggi l’ha riconosciuta nel giugno 2015, solo sette anni fa, e Svizzera e Cile l’hanno fatto nel 2021. 
L’ultimo decennio è stato un ottovolante di conquiste e perdite, e non c’è un modo preciso per calcolare cosa ha prevalso. Le conquiste sono state radicali, ma a volte quasi impercettibili. Dal 2012 una nuova epoca del femminismo ha aperto discussioni – sui social network e i mezzi d’informazione tradizionali, nella politica e in privato – sulla violenza contro le donne e le molte forme di disuguaglianza e oppressione, legali e culturali, ovvie e meno ovvie. 
Il riconoscimento delle conseguenze della violenza sulle donne si è molto diffuso e ha prodotto risultati concreti. Il movimento #MeToo è stato deriso e considerato un circo delle celebrità, ma è stata solo una delle tante manifestazioni di un’ondata femminista cominciata cinque anni prima, che ha contribuito a imporre cambiamenti nelle norme degli Stati Uniti in materia di molestie e abusi sessuali, compreso un disegno di legge approvato dal senato a febbraio che il presidente Joe Biden ha firmato all’inizio di marzo. 
La recente condanna del cantante R. Kelly a trent’anni di carcere e i vent’anni dati a Ghislaine Maxwell, la complice di Jeffrey Epstein, sono gli effetti di un cambiamento: alcune persone che prima non avevano voce sono state ascoltate in tribunale. I colpevoli che erano riusciti a farla franca per decenni – tra cui Larry Nassar, Bill Cosby, Harvey Weinstein – hanno perso la loro impunità e le conseguenze dei loro comportamenti si sono tardivamente abbattute su di loro. Ma il destino di una manciata di uomini famosi non è quello che conta di più, e punirli non è un modo per cambiare il mondo. 
Il dibattito ormai riguarda la violenza e la disuguaglianza, le intersezioni tra razza e genere, il ripensamento del genere oltre il semplice binarismo, la libertà, il desiderio, l’uguaglianza. Anche solo parlarne è liberatorio. Vedere le donne più giovani andare al di là di quello che la mia generazione provava e diceva è esaltante. Questi discorsi ci cambiano come la legge non può fare, ci aiutano a capire noi stessi e gli altri in modo nuovo, a rivedere i concetti di razza, genere, sessualità e opportunità. 
Puoi annullare un diritto con mezzi legali, ma non puoi annullare con altrettanta facilità la fede in quel diritto. Nell’ottocento le sentenze della corte suprema sui casi Dred Scott e Plessy contro Ferguson non spinsero i neri a pensare che non meritavano di vivere come cittadini liberi, gli impedì semplicemente di farlo in termini pratici. In molti stati americani le donne hanno perso l’accesso all’aborto, ma non la fiducia nel loro diritto ad averlo. L’indignazione provocata dalla sentenza della corte ci ricorda quanto è impopolare la sua decisione.

Questa è una perdita enorme. Non ci riporta al mondo prima di Roe contro Wade, perché in termini sia teorici sia pratici la società statunitense è cambiata. Le donne ormai possono accedere all’istruzione, al lavoro, alle istituzioni e alla rappresentanza politica. Crediamo molto di più in questi diritti e abbiamo un’idea più chiara di che cos’è l’uguaglianza. Il fatto che le cose siano cambiate così radicalmente rispetto al 1962, per non parlare del 1797, è la prova che il femminismo sta funzionando. Ma la terribile decisione della corte suprema ci conferma che c’è ancora molto lavoro da fare.


(Internazionale, n. 1468, 8 luglio 2022)

di Annarosa Buttarelli


Nel lontano (vicino) 1928 María Zambrano preparava la sua trasformazione della filosofia europea scrivendo articoli per le donne su “El liberal”. In questi articoli si rivela essere una delle prime radicali pensatrici della differenza sessuale, e in questi stessi articoli definisce “aristocrazia” la società delle donne che, in virtù della loro forza, potranno riscrivere il futuro del lavoro, della società, della cultura. Potremmo dire che anche oggi la riscrittura di questi tre ambiti della convivenza e della nuova civiltà sono alla portata delle capacità “aristocratiche” di noi donne e del nostro amore per il mondo. Molti e molte non riconoscono in Zambrano una pensatrice femminista perché più volte ha dichiarato «Non sono femminista, sono femminile». Nel modo che aveva a disposizione a quel tempo, con molto acume respingeva il femminismo perché allora lo si conosceva solo come vittimista e rivendicativo. Solo nel 1938 sarà pubblicato il manifesto di Virginia Woolf Le tre ghinee. La filosofa spagnola aveva la vista lunga e la sensibilità acuita dalle sue ricerche intorno all’assumersi radicalmente l’essere donna.

Aveva ragione. Gli effetti del puro emanciparsi, dell’appellarsi unicamente alla parità hanno portato alla continua puntigliosa rivendicazione di quello che io chiamo femminismo diffuso o generico: avere posti di potere in quanto donne, essere consapevoli degli abusi maschili. Ormai lo sanno anche le bambine che non basta essere biologicamente donne per essere donne “aristocratiche”, cioè pensanti nell’ordine simbolico della madre.

Infatti, giustamente, oggi ci troviamo nella necessità di interrogare di nuovo la forza delle donne.

Forse la intravvediamo con certezza, ancora una volta, nei luoghi estremi, dove c’è la guerra, le dittature, gli abusi, le violenze, i femminicidi, tutti disastri che non le fermano dall’andarsene via dai compagni crudeli. Oggi, la forza sembra ben più in difficoltà dalle nostre parti, luoghi di privilegio, luoghi dove esiste il femminismo di Stato, dove è stato infranto il noioso soffitto di cristallo, dove imperversa il gender, dove non è raro che i femminismi si dividano cocciutamente tra loro. Già sarebbe sufficiente riflettere su questo spreco di non riuscire a confliggere in modo produttivo tra posizioni all’interno del femminismo italiano, per renderci conto di quanto si sia indebolita la forza su cui ha contato felicemente il movimento politico delle donne, fin quando è esistito in Italia e fin quando si faceva nutrire dal lavoro congiunto riguardante il cambio di ordine simbolico.

Il fatto è che la forza delle donne agisce soprattutto attraverso la parola, come ha sottolineato più volte Lia Cigarini durante l’ultima redazione allargata di VD. I tagli simbolici fatti dalla politica delle donne sono stati decisivi e lo sarebbero ancora di più ora, in un momento storico in cui la parola è passata ancora una volta, inaspettatamente, a chi decide guerre e mainstream, la corrente popolar-populista che veicola (soprattutto attraverso i social) i contenuti che poi diventano leggi, decisioni ad alto livello gerarchico, cambi di passo dell’economia. Le stagioni di Via Dogana cartacea hanno avuto voce in capitolo proprio perché ogni numero operava un taglio simbolico. Ma non è mai bastata solo l’egemonia della parola, i tagli simbolici si fanno anche con un agire fatto di gesti inaspettati e dirompenti come quello di Nancy Pelosi che straccia davanti alle telecamere i fogli del discorso che stava facendo Trump. Ci si sarebbe aspettate qualcosa di simile da parte della deludente Kamala Harris.

Così le due zelanti e impaurite leader di Finlandia e Svezia, dichiaratamente femministe, fanno un taglio simbolico all’incontrario chiedendo di aderire alla Nato: fanno un vulnus al presidio pacifista che le donne di tutto il mondo tentano di tenere saldo. Ma perché questa solidità non è efficace? Secondo me, non lo è perché priva di tagli simbolici, di parole e di gesti materiali che squarcino la densa cortina del mainstream. E poi manca la costatazione che non c’è forza senza il terreno su cui nasce: il desiderio. La fonte necessaria ad alimentare qualsiasi agire in cui serve coraggio, determinazione, intelligenza del presente, mente fuoriuscita dal seduttivo paradigma binario, dicotomico. Di fronte alla potenza d’urto di questo paradigma, rinforzatosi con le solitudini regalate dalla pandemia e con la successiva occupazione dell’attenzione da parte dell’adesione di vertice alla guerrafondaia Nato, si è rivelato a occhio nudo il depotenziamento del desiderio femminile generale e dunque anche della forza femminile che serve per aprire conflitti simbolici e reali, e per condurli fino a ottenere la trasformazione desiderata. Cosa è accaduto? A me pare che abbia ragione María Zambrano quando diffida del femminismo europeo generico che, al massimo e in contingenze drammatiche, può solo ritrarsi sulla soglia della resistenza. Fondare la propria intelligenza sulla rivendicazione conduce alla fine del desiderio, alla sospensione dell’invenzione politica. Se poi rammentiamo che il desiderio e la forza si generano e si alimentano nelle relazioni, specialmente tra noi donne deboli in narcisismo, possiamo comprendere quanto sia letale l’affievolirsi o il distruggersi delle relazioni, tanto più quando i vari gruppi coltivano senza alcuna potenza generativa il proprio orticello.

Nel presente è riservata una sorte diversa a chi tra di noi basa le relazioni e il lavoro politico sull’autorità femminile, la vera e unica possibilità per agire che rimane in un mondo che corre verso l’abisso. Nel pieno del mio impegno quotidiano in molti diversi contesti di vita e di lavoro posso osservare quanto la mia forza si nutra del desiderio di dare voce e gesti, attraverso la mia voce e i miei gesti, all’autorità “aristocratica” femminile. Se io desiderassi solamente la mia personale affermazione o mi illudessi dell’efficacia della persuasione pedagogica argomentativa, e non mi facessi forza delle relazioni in cui sono immersa fiduciosamente, avrei perso forza e desiderio da molto tempo. L’autorità femminile è difficile da assumere, ci dobbiamo rendere conto di questo, perché per assumerla (se ci è riconosciuta) occorre avere la mente trasformata in modo da poter creare tagli simbolici. Perciò sono super necessari momenti di formazione e di trasformazione, altrimenti le giovani generazioni di donne sapranno forse difendersi dalle violenze maschili o da quelle delle loro simili collaborazioniste, ma non avranno la possibilità di accedere al privilegio dell’aristocratica autorità femminile.


(Via Dogana, 3 – www.libreriadelledonne.it, 3 luglio 2022)

di Anna Di Salvo


Nell’estate del 2000, donne di Catania, Catanzaro, Milano, Foggia e Roma, si trovarono insieme nell’incontro stanziale “Politica con vista”, al centro valdese Adelfia di Scoglitti (Ragusa), per dare vita alle Città Vicine: un tessuto di relazioni tra donne e qualche uomo di città diverse che da allora in poi, nei ventidue anni di attività, hanno “riedificato” le città, divenute man mano più di trenta, alla luce del desiderio femminile. 
Tra le organizzatrici di quell’incontro e le fondatrici delle Città Vicine nel luglio 2000 c’era Vivien Briante, che nel maggio scorso è stata strappata a questo mondo lasciandoci sgomente e addolorate. Vivien è stata una femminista brillante e attiva nel progetto del Se-No del gruppo Le Lune (dal 1987 al 1992) e nel divenire della politica delle relazioni della Città Felice a Catania. Infatti dal 1992, insieme ad altre donne di Catania, con La Città Felice avevamo alimentato la nostra passione politica con il pensiero e la pratica della differenza sessuale, seguendo l’elaborazione e il percorso della Libreria delle donne di Milano che avevamo avuto modo di conoscere e approfondire nei convegni al Centro Virginia Woolf di Roma e al Circolo della rosa di Milano nella sede di via Correnti nonché ai campi valdesi di “Agape”. Proprio in quel periodo prese l’avvio anche la nostra collaborazione con la rivista “Via Dogana” che si proponeva con una edizione rinnovata e ricca riguardo alle esperienze e al pensiero: un importante stimolo per noi, anche grazie alle presentazioni mensili dei numeri della rivista che organizzammo a Catania, di crescere politicamente e creare autorità in città per l’originalità di pensiero e pratiche che proponevamo e mettevamo in essere. 
Fu quindi dal 1987 al 2005 un lungo periodo di attività politica trascorso con Vivien Briante, molto intenso e appassionato in cui vennero prodotti scritti, iniziative e mostre… Poi, con grande dispiacere da parte mia e di molte, Vivien prese la decisione di lasciarci e dedicarsi principalmente alla Chiesa Valdese di Catania, e profuse il suo impegno per consolidarne la fertile attività, nonché collaborare alla divulgazione e alla valorizzazione della dottrina valdese a Catania. Il suo modo disciplinato e intelligente di condurre la pratica e l’elaborazione politica insieme ad altre e altri sia nell’ambito delle Città Vicine che della Città Felice, rimane una modalità e un riferimento prezioso del quale le donne e gli uomini che l’hanno conosciuta e lavorato con lei sapranno tenere conto e fare tesoro.


(www.libreriadelledonne.it, 6 luglio 2022)

di Elena Fausta Gadeschi


Lisetta Carmi era un mondo. Un mondo di libertà, coerenza, altruismo, capacità di ascolto e spirito di osservazione. Un po’ pianista, un po’ fotografa, un po’ mistica e un po’ antropologa, nella sua lunga vita ha sempre lavorato “nel segno degli ultimi”, per “dare voce a chi non ce l’ha” con una sensibilità che le ha permesso di toccare il cuore delle persone prima con la musica poi con le immagini e infine con la preghiera. Un’esistenza moltiplicata per cinque e distesa come un lungo pentagramma nell’arco di 98 anni, festeggiati lo scorso febbraio.

Nata a Genova il 15 febbraio 1924, Annalisa detta Lisetta apparteneva a una famiglia borghese di origine ebraica. A 12 anni inizia a studiare pianoforte, ma nel 1938 le leggi razziali la toccano da vicino perché viene espulsa dalla scuola. Riesce ugualmente a seguire le lezioni e a sostenere esami di livello presso il Conservatorio di Genova, ma con l’inizio della seconda guerra mondiale la sua famiglia è costretta a spostarsi in Svizzera, dove Lisetta continua con lo studio presso il conservatorio di Zurigo. Dopo il 1945 torna in Italia, si diploma in pianoforte e intraprende la sua carriera di concertista che l’accompagnerà fino al 1960 quando smette per dedicarsi a un’altra passione, la fotografia. La decisione di abbandonare la musica arriva come un atto di ribellione quando, volendo prendere parte allo sciopero di protesta indetto dalla Camera del Lavoro di Genova il 30 giugno 1960, il suo maestro Alfredo They si oppone, perché spaventato da una possibile lesione alle mani che potrebbe impedirle di continuare a suonare: “Ricordo benissimo di avergli risposto che se le mie mani erano più importanti del resto dell’umanità, avrei smesso di suonare il pianoforte”.

Avendo toccato con mano la discriminazione ai tempi delle leggi razziali, Lisetta non può accettare che si ignorino gli umili, gli emarginati, gli indifesi. Con una nuova Agfa Silette con nove rullini, acquistata in Puglia mentre era in visita alla comunità ebraica di San Nicandro Garganico, inizia il suo nuovo viaggio nel mondo. Abbandonata la carriera di concertista e ricevuti apprezzamenti per le sue istantanee, fa della fotografia la sua professione e del mezzo uno “strumento per la ricerca di verità”.

Dopo alcuni anni come fotografa di scena, nel 1964 è a Genova per un reportage sulle condizioni dei camalli, termine dialettale usato per identificare gli scaricatori di porto. Le fotografie vengono diffuse attraverso una serie di mostre. Prima fra tutte, quella alla Casa della Cultura di Genova-Calata del Porto organizzata dalla Filp-Cgil. Molto apprezzato, il suo lavoro viene esposto anche in altre città italiane ed estere, arrivando persino in Unione Sovietica. In questi anni inizia a collaborare con Il Mondo, Vie Nuove e L’Espresso. Nel dicembre 1965 è a Parigi, dove effettua un reportage sulla metropolitana, ma il suo lavoro più celebre incomincerà l’anno successivo dopo un incontro per così dire fatale che Lisetta Carmi fa, grazie all’amico Mauro Gasperini, con la comunità di travestiti che occupava l’ex ghetto ebraico di Genova prima ancora che la definizione di Lgbtq esistesse.

Da qui nasce un vero e proprio legame alimentato attivamente per sei anni, in cui la donna fotografa la realtà di quella comunità. Queste foto, inizialmente presentate solo in bianco e nero e in seguito ristampate a colori, oltre a essere del tutto insolite e percepite come scandalose dal sentimento comune dell’epoca, vanno nuovamente a mettere in luce il sentimento di vicinanza di Lisetta Carmi verso figure emarginate dalla società, riscontrabile nella maggior parte dei suoi reportage. Le fotografie, accompagnate dai testi delle interviste dello psichiatra Elvio Fachinelli, verranno poi raccolte nel libro I travestiti pubblicato nel 1972 da Sergio Donnabella, che fonda appositamente la casa editrice Essedi.

Nessuno prima di lei in Italia aveva pensato di puntare l’obiettivo verso questa comunità, tenuta lontana dal resto della popolazione da un perbenismo e una moralità che impediscono persino ai lavori della Carmi di avere diffusione nei circuiti delle librerie. Inizialmente il volume viene rifiutato dai canali di vendita ufficiali per i contenuti ritenuti scandalosi, ma con il corso del tempo acquisisce sempre più successo. In queste immagini le donne non sono immortalate con gusto voyeuristico, ma con sensibilità e garbo, e un profondo senso di rispetto, che si deve a chi non si riconosce nel corpo in cui è nato ed è in cerca di una nuova identità. “Tutto è iniziato con una festa di Capodanno a cui sono stata invitata – raccontava al Corriere –, ho scoperto la sofferenza e la solitudine di persone davvero perbene. Da allora non ho mai venduto una fotografia di quella serie perché avevo paura di rovinare questa amicizia, pensi che la Morena mi ha fatto chiamare prima di morire.”

Con questa comunità di persone Lisetta sente un’affinità che rompe ogni barriera e le consente di ottenere la loro fiducia. “Grazie alla comunità trans ho imparato ad accettarmi – racconterà –. Quando ero piccola guardavo i miei fratelli Eugenio e Marcello pensando che avrei voluto essere un maschio come loro. Sapevo che non mi sarei mai sposata, e rifiutavo il ruolo che veniva chiesto di occupare alle donne. I travestiti mi hanno fatto capire che tutti abbiamo il diritto di decidere chi siamo.” Rossetti, mascara, pizzi, calze a rete. La sensualità di queste immagini è evidente, ma non passa mai il segno. L’ispirazione sembra quasi pittorica, di quegli orientalisti dell’Ottocento che dipingevano donne adagiate su morbidi divani, tra sete e broccati, in stanze che trasudano piacere e vanità, malinconia e godimento.

Dopo quasi un ventennio di scoperte, battaglie e viaggi tra Israele, Palestina, Sud America e Afghanistan, così come aveva incominciato, abbandona la fotografa e abbraccia la religione: “in 18 anni ho fatto quello che si fa in 50”. Fatale il suo incontro in India con il maestro yogi Babaji Herakhan Baba. Anche qui una svolta, Lisetta considera finito il suo lavoro di fotografa e si dedica a mettere in piedi un luogo di spiritualità in Puglia, a Cisternino, dove aveva comperato un trullo e dove vivrà quasi cinquant’anni della sua lunghissima vita, lasciando al comune una parte delle sue foto e centinaia di libri. “Quando qualcuno sta in un posto deve lasciare qualche testimonianza, è importante” spiegava. “All’inizio è stato duro, le persone qui non avevano nessuna apertura verso il divino”, poi ne sono accorse tante da tutto il mondo. “Voglio essere cremata e poi dispersa in mare, nessuna tomba per me, voglio lasciare il segno negli esseri umani.” Queste le ultime volontà di Lisetta Corti, che ha regalato agli ultimi bellezza, spiritualità e voce.


(https://www.elle.com/it/, 6 luglio 2022)

di Vita Cosentino


Parlare di forza femminile per questo numero di Via Dogana 3 mi porta subito a chiarire che non mi riferisco a quella legata al protagonismo individuale, su cui ha puntato da anni il neoliberismo e che è ampiamente incentivata nella nostra società. Mi interessa analizzare la forza femminile politica, capire come scaturisce e come si alimenta quella forza trasformativa che ha sempre una radice relazionale.

L’essenziale è stato detto da Emma Ciciulla nella sua relazione introduttiva: oggi si può parlare di una forza femminile che nasce e cresce nel rapporto con la madre. Non mi dilungo su questo e rimando alla lettura del suo testo e al commento che ne fa Laura Colombo. Voglio solo sottolineare che lo si può ben considerare un frutto della politica delle donne, di decenni di lavoro teorico e di pratiche trasformative di sé, di riattivazione della madre nei rapporti tra donne, soprattutto quando, come nel mio caso, la relazione è stata molto conflittuale. Sarà importante vedere a che cosa aprirà negli anni a venire un cambiamento così profondo e di base.

Nell’agire, fermo restando che l’elemento propulsivo è il desiderio, spesso ciò che trattiene una donna è proprio il dubbio rispetto all’avere o no forza. Indugiare su questa domanda è un laccio inutile che si può sciogliere. Non esiste, infatti, la donna forte a priori. La forza nasce nel movimento, nasce nell’azione. Una donna comincia a conoscere la sua forza nel momento in cui comincia a intraprendere un’azione, a farne progetto.

Questo ho imparato da Angela Putino, molti anni fa, quando cominciammo la politica delle donne nei luoghi di lavoro e di studio. Ricordo soprattutto due suoi scritti, usciti nel 1988, davvero orientanti: “La donna guerriera” (DWF n. 7) e “Cosmo” pubblicato dalla nostra Libreria nel fascicolo “Quattro giovedì e un venerdì per la filosofia”.

Angela vedeva come leva della forza “l’inaddomesticato”, cioè quella parte femminile che non si conforma. Scriveva che nella forza «si sperimenta ciò che è inaddomesticato rispetto alle opinioni e alle strutture esistenti». L’agire quindi non è sforzo o volontarismo, è stare nei contesti in cui ci si trova a vivere, ma con “indipendenza simbolica”, per usare parole di Luisa Muraro. È aprire in quei contesti delle contese simboliche e materiali.

A questo criterio mi sono attenuta fedelmente e se guardo alle mie imprese del passato, come per esempio l’autoriforma della scuola, e del presente, come Via Dogana, mi sento di individuare almeno due componenti della forza. La prima riguarda la tenuta nel tempo: la forza non scaturisce dal saltellare da un progetto all’altro, ma dal continuare a lavorare al proprio, mettendosi sempre di nuovo in gioco, perché solo così si ha una misura politica nel mondo. L’altra componente essenziale è un’azione che si fa spazio comune. A partire da una, due relazioni di fiducia coinvolgere anche altre e altri. Scaturisce più forza da un agire che non è solo per sé, ma anche con e per altre e altri. Questa è l’esperienza dell’autoriforma: è stata attrattiva anche per donne non femministe e per uomini non tossici. C’è da aggiungere che l’idea di autoriforma oltrepassa lo specifico della scuola e si può applicare a molti ambiti. Dipende esclusivamente dalle soggettività che si mettono in gioco ed entrano in relazione per trasformare e trasformarsi, senza far conto su progetti di legge o finanziamenti. È stata e può ancora essere per donne e per uomini una forma politica femminista, basata sulla politica relazionale.

Da ultimo. Mi sembra importante ciò che ha detto Emma C. sugli uomini e la vulnerabilità. Ho da poco ascoltato un’interpretazione di Ida Dominijanni riguardo alla guerra in corso in Ucraina. La leggeva come rivalsa maschile, come un riprendersi il primato della distruttività rispetto a un virus che nella sua infima piccolezza ha fatto vedere la sua potenza, mostrando con crudezza la vulnerabilità di noi umani.

Proprio in virtù di questo svelamento, la pandemia ha fatto emergere la necessità di ripensare il mondo con altre categorie. Ora quelle aperture ad altri criteri e ad altre misure sembrano polverizzate, spazzate via dalla logica più arrogante e distruttiva della strutturazione maschile del mondo: la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti.

Quella che stiamo vivendo è una guerra con le armi, con le parole e con le sanzioni economiche e porterà sempre più sofferenze in una spirale infernale a cui nessuna di noi potrà sottrarsi perché viviamo in un mondo globalizzato che mostra sempre più nettamente, nel bene e nel male, la sua interdipendenza.

Durante la pandemia si è affermato il principio «Nessuno e nessuna si salva da solo o da sola». Vale a maggior ragione oggi in cui a un virus che non demorde si somma la guerra, la siccità, la crisi climatica e quella economica.

C’è molto da pensare e da cambiare. In Italia ci sono molteplici centri di elaborazione femminista attivi e propositivi, ma troppo spesso procedono ognuno per la propria strada. Non è così che si crea la forza di cui abbiamo bisogno. È il momento di incrementare gli scambi e il confronto per dare maggiore forza a una parola femminile sul mondo.


(#VD3, www.libreriadelledonne.it, 6 luglio 2022)

di Daniela Santoro


Mediazione e vulnerabilità: messe così potrebbero sembrare due parole lanciate a caso nel vuoto, eppure durante la riunione del 12 giugno hanno echeggiato a lungo nelle mura della Libreria. Mediazione. Quattro sillabe, piana, sostantivo deverbale di “mediare”. Si potrebbe continuare nella sua analisi morfolessicale e sarebbe più semplice, infatti come possiamo parlare di mediazione nel secolo della solitudine? Questa è una domanda che in primis pongo a me stessa e che poi voglio allargare ai miei coetanei, tra generazione zeta e millennials. In una società che ci ha sempre di più educato all’individualismo, riusciamo davvero a parlare di mediazione? Ho molte remore a rispondere affermativamente a questa domanda: con chi si può mediare in una cella di isolamento? Non c’è mediazione dove non ci sono le relazioni. E queste, in una sorta di divide et impera del ventesimo secolo, sono osteggiate sotto tutti i fronti. Il neoliberismo ci vuole soli e isolati, educati alla solitudine, disimparando il gruppo. Senza dimenticare il catalizzatore di questa reazione: i social network. Quanto si crea nell’ecosistema virtuale non è altro che una cassa di risonanza, di opinioni sempre uguali, discorsi sempre uguali, facce sempre uguali. Tutti belli, imperturbabili, perfetti, forti, senza macchia e senza paura. Alle relazioni si sostituiscono le connessioni momentanee, il dialogo si trasforma in un misero commento e siamo sempre più soli.

Riflettendo su questo nuovo paradigma sociale, ho trovato una risposta alla domanda che qualche mese fa mi era stata posta da Vita Cosentino e Laura Giordano in relazione al progetto Le Compromesse: «È possibile creare un gruppo come il vostro o è stato puramente un caso fortunato?». Sì, stato un caso fortunato ma mosso dalla necessità di trovare una risposta a questo vuoto. Da Facebook siamo riuscite ad andare oltre le singole infinitesimali interazioni e siamo riuscite a creare un gruppo, a creare delle relazioni forti, ad aprire un canale di dialogo intenso e continuo. Ma come? Ci siamo spogliate della fittizia perfezione del virtuale e ci siamo tese la mano a vicenda, ne avevamo bisogno: l’istinto primordiale del fare gruppo in un momento difficile come la pandemia ha prevalso, abbiamo messo davanti le nostre vulnerabilità e le nostre mancanze. Così, ciascuna con le proprie difficoltà è stata utile alle altre, e viceversa, in uno scambio continuo seppur virtuale. Siamo riuscite a ribaltare l’individualismo tipico dei social e a creare un gruppo di mediazione che ci ha permesso (e tutt’ora ci permette) di crescere. Abbiamo scoperto le nostre carte e riflettuto sulle nostre divergenze e differenze. Come in un grande puzzle ci siamo completate nell’autocoscienza e nel dialogo, senza paura di mostrare ogni lato di noi. Quando penso alla parola “mediazione” penso proprio a tutto questo, alla riscoperta delle relazioni e delle proprie vulnerabilità, senza le quali questa non vi sarebbe. Dunque tutte queste parole in libertà vorrei che fossero per le mie coetanee una spinta, una spinta verso la ricerca del gruppo, lasciandosi alle spalle la solitudine forzata. Le Compromesse sono state per me una luce verso l’ignoto, in un periodo di forte incertezza. Ho trovato delle mani tese, pronte ad accogliermi, e io stessa ho teso la mano: per la prima volta mi sono sentita parte di qualcosa. Qualcosa che è nato come semplice gruppo di scambio e poi, proprio grazie alla sua conformazione “collettiva”, è diventato politica contro la società e il patriarcato che vogliono le donne isolate e nemiche. Da qui è nata la community di Instagram e del Blog, che cresce sempre di più, dove cerchiamo di fare spazio ad altre donne che vogliono lasciarsi alle spalle la solitudine neoliberista ricevendo delle mani tese ad ascoltarle, accoglierle, a non farle sentire più sole. Le Compromesse sono per me una risposta all’isolamento, sono un modo per gridare, finalmente, «Non sei sola».


(#VD3, www.libreriadelledonne.it, 6 luglio 2022)

di Marina Terragni


«Abbiamo riavviato il riconoscimento dei figli nati in Italia da coppie omogenitoriali»: le parole con cui il sindaco Beppe Sala ha annunciato il suo personale “regalo” al Pride hanno inizialmente ingenerato qualche confusione. Infatti i figli nati “in Italia” per iniziativa – e giocoforza non “da” – coppie omogenitoriali sono solo i figli di donne unite con altre donne. I figli delle coppie di uomini nascono in Ucraina, in Canada, in California o in altre nazioni mete di turismo procreativo, ma in Italia no perché il nostro paese, così come la stragrandissima maggioranza dei paesi del mondo – nei fatti si tratta già quasi di un reato universale – vieta e punisce il ricorso a utero in affitto.

Si è comunque capito a breve giro che la decisione del sindaco di Milano riguarderà anche i bambini nati da gestazione per altri.

La legge 40/04 che regola la materia non si presta a equivoci e punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro non soltanto chi realizza ma anche chi “pubblicizza” la gestazione per altri. Non meno nette le successive sentenze, a cominciare da quella della Corte costituzionale (272/2017), relatore Giuliano Amato, che rafforza il divieto definendo l’utero in affitto «una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Un’altra sentenza del 2019, stavolta della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ha ribadito che a tutela dell’ordine pubblico e soprattutto del diritto del minore alla verità sulle proprie origini non può essere trascritto nei registri dello stato civile italiano il provvedimento di un giudice straniero che afferma il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero da maternità surrogata e un soggetto italiano che non abbia con lo stesso alcun rapporto biologico. La stessa sentenza indica come possibile strada per il/la partner del padre biologico l’istituto dell’adozione in casi particolari.

Di questo istituto si è detto che il procedimento è spesso molto lento, e soprattutto che non istituisce legami giuridici tra l’adottato e i parenti dell’adottante: problematica però superata da un’ulteriore sentenza della Corte costituzionale – marzo 2022 – che pur ribadendo l’assoluto disvalore costituito dalla maternità surrogata e l’impossibilità di una trascrizione “automatica” dell’atto di nascita, riconosce detti legami giuridici e invita il Parlamento a legiferare sullo status filiationis di questi bambini.

Il Parlamento al momento non ha legiferato, e in forza di questo il sindaco Sala ha ritenuto di dover fare “la sua parte”. Ma può essere questa definita “la sua parte”?

L’anagrafe è competenza dello Stato centrale e i riferimenti per gli amministratori locali, anche quelli che abbiano ambizioni nazionali, sono necessariamente la legge dello Stato e le sentenze. E come abbiamo visto oggi sia la legge sia le sentenze indicano l’adozione come unica strada per il “genitore intenzionale”, oltre a ribadire il fermo giudizio negativo sulla gestazione per altri.

La trascrizione automatica di questi atti di nascita realizzati all’estero sembra dunque aggirare le norme attualmente in vigore a livello nazionale: in sostanza il “regalo” del sindaco Sala al Pride non sembrerebbe essere nelle sue disponibilità, e non può presumere di interpretare la volontà della maggioranza dei cittadini che può essere rappresentata solo dal legislatore. Soprattutto quel “regalo” rimuove di fatto il principale disincentivo per chi valuti di ricorrere a questa pratica, quindi si distanzia dal giudizio negativo sul “disvalore” utero in affitto espresso dalla legge e invariabilmente ribadito dalle sentenze. 

Ma i bambini? questo l’argomento principe di chi sostiene la trascrizione automatica di questi atti di nascita. Quei bambini godranno dei diritti garantiti a ogni altro bambino, dal pediatra alla scuola, e potranno “godere” anche del secondo genitore che li adotterà. Ma non godranno mai del prioritario diritto, essendo oggetti di un contratto commerciale tra ricchi committenti e donne in stato di bisogno, a non essere separati dalla madre che li ha appena dati alla luce, pilastro insostituibile di quello che viene definito superiore interesse del minore (best interest).

Quella ferita, procurata con un atto di compravendita, non si sanerà mai. In una prospettiva di riduzione del danno per i bambini la pratica dell’utero in affitto va dunque in ogni modo disincentivata – come avviene, meglio ribadirlo, nella stragrandissima parte del mondo tranne una ventina di nazioni su 206 – e non va agevolata con atti amministrativi.

Un’ultima notazione di qualche significato. Una donna che dà alla luce un bambino – mater semper certa – è tenuta a dichiarare il vero sulla paternità del suo bambino (se la donna è sposata, a meno di un disconoscimento esplicito, la paternità è attribuita in automatico al marito). Nel caso di falsa dichiarazione quella madre, se scoperta, viene perseguita proprio in forza del superiore interesse del minore alla verità sulle proprie origini oltre che per ragioni di ordine pubblico.

Le coppie cosiddette omogenitoriali avrebbero dunque licenza di dichiarare palesemente il falso in atto pubblico – di più: l’impossibile – indicando un secondo padre o una seconda madre senza essere perseguiti.

Ma l’art. 3 della Costituzione ci dichiara uguali davanti alla legge: è possibile fondare una diseguaglianza sulla base dell’orientamento sessuale?


(Avvenire, 5 luglio 2022)

di firmatarie e firmatari


Alla Ministra dell’Università e della Ricerca, al Ministro dell’Istruzione,

alle Studiose, agli Studiosi, alle Case Editrici


Esimia Ministra, esimio Ministro, illustri Colleghe e Colleghi, spettabili Case Editrici, siamo un gruppo di docenti della Scuola e dell’Università che da anni si impegna tra l’altro, insieme alle studentesse e agli studenti, nel portare i testi classici antichi e moderni in strada e nei teatri, tra la gente, e nel proporli pubblicamente non come modelli valoriali universali e fuori dal tempo ma come portatori di idee e pratiche altre con cui sfregare il tempo presente: perché esso vi faccia i conti, si lasci da esse criticare e aiutare a diventare più consapevole di sé.

Vi scriviamo questa lettera aperta perché grande è la nostra preoccupazione per le forme di violenza dilaganti, in particolare quella bellica e quella patriarcale.

Nonostante tutti gli avanzamenti fatti in molti campi, gli esseri umani vivono costantemente immersi in una dimensione violenta e rischiano di lasciarla in eredità alle generazioni future: sia come realtà concreta, sia come categoria per pensare la gestione dei conflitti e il rapporto tra le differenze; o forse come realtà concreta in quanto frutto di categorie che modellano il modo di pensare la gestione dei conflitti e il rapporto tra le differenze.

In tale quadro generale, non possiamo non notare che i nostri libri di testo, pur con tutti i meritevoli aggiornamenti, restano tuttavia dentro la struttura di pensiero di cui dicevamo e, per l’importanza da essi rivestita nell’istruzione, contribuiscono a riprodurla e a ratificarla.

In particolare, benché il nostro discorso valga anche per tutti gli altri ambiti disciplinari, è soprattutto e in primo luogo nella manualistica della Storia che avvertiamo la necessità di modifiche urgenti e sostanziali. La Storia, infatti, concorre forse più di altre discipline a creare la cornice metacognitiva generale di chi studia: facendo vedere gli avvenimenti trascorsi attraverso lenti che focalizzano certi aspetti piuttosto che altri, presentando come fattori di cambiamento alcuni tipi di azione e non altri, essa educa a pensare ben precisi orizzonti di possibilità e ad agire all’interno di questi, e in tal modo si costituisce non solo come analisi del passato ma anche come profezia del futuro.

Ora, la narrazione manualistica della Storia, nonostante ormai opportunamente comprenda aspetti della vita sociale delle varie epoche e abbia ampliato il suo interesse per il mondo non occidentale, continua a essere dominata da un’ottica politico-militare e dal filo rosso delle guerre e del ruolo maschile.

Gli orizzonti geografici e temporali si sono allargati ma il racconto – la trama, il contenuto, ciò che risulta in primo piano come motore del processo storico – è ancora fondato su categorie di pensiero proprie del patriarcato e di una mentalità competitiva e violenta.

Tale racconto resta talmente affollato di forza militare e di genere maschile che non lascia immaginare altre forme di sviluppo della temporalità che non siano violente e/o maschili, e finisce per far credere che la violenza appartenga addirittura alla natura umana e sia normale, ineluttabile, o contenibile solo attraverso istituzioni, nazionali o internazionali, di carattere giuridico.

O, peggio ancora, come viene fuori con chiarezza nella narrazione dominante a proposito dell’attuale aggressione all’Ucraina in cui le istituzioni risultano inefficaci, contenibile solo con il ricorso ad altra violenza – sia pure di difesa.

Noi crediamo che, per cacciare davvero la guerra e il patriarcato fuori dalla storia, sia indispensabile cambiare il paradigma culturale, promuovere un sapere diverso da quello appena presentato e dare spazio al racconto della costruzione della pace con mezzi pacifici, mettere in luce il ruolo delle donne e dei popoli che hanno contribuito alle trasformazioni storiche senza ricorrere alle armi; meglio ancora, dipanare per mezzo di queste categorie il filo della Storia intera.

Ciò sembra al momento un obiettivo lontano: forse semplicemente, dalla ricerca e dall’editoria attuali, esso nemmeno è posto come obiettivo.

Eppure, i singoli studi in questa direzione sono ormai numerosissimi e, anche se per lo più costituiscono lavori sparsi, capita a volte che se ne diano di già coordinati tra loro all’interno di una cornice diacronica in volumi collettanei o in atti di convegno, che potrebbero costituire una buona base per organici e completi manuali in grado di rispondere alle esigenze che stiamo qui rappresentando (basti ricordare soltanto i volumi della Storia delle donne in Occidente, curata da Georges Duby e Michelle Perrot, e quelli della Politica dell’Azione Nonviolenta di Gene Sharp).

Noi Vi chiediamo pertanto di adoperarvi, secondo i vostri specifici ruoli, per l’elaborazione e l’attuazione di organici e strutturati progetti di redazione di manuali, scolastici e universitari, che espressamente valorizzino il ruolo delle dinamiche nonviolente e la parte attiva svolta dalle donne nel corso della storia – manuali che abbiano il coraggio di profetizzare un futuro in netta cesura con quello attualmente all’orizzonte ed esercitino a pensare la pace e a vedere che le concrete possibilità di costruirla attivamente senza fare ricorso alla violenza sono state più numerose di quelle che siamo abituati a credere.

Inoltre, poiché la forma della scrittura, non meno dei contenuti, costituisce veicolo di un preciso modo di pensare, Vi chiediamo che tali manuali presentino un linguaggio adeguato al cambiamento di paradigma auspicato, e superino il lessico del maschile indifferenziato, dell’impersonalità, del preteso oggettivismo per fare un passo culturale decisivo verso un uso delle parole consapevole della loro non neutralità. Confidando che vogliate accogliere il nostro appello, in attesa di vostre concrete risposte, Vi porgiamo i nostri più cordiali saluti.


Comitato Scientifico di “Classici Contro” (Palermo)

Comitato Scientifico di “Classici in strada”

Movimento Nonviolento (Centro di Palermo)

(seguono nomi di 30 docenti della Scuola o dell’Università, in parte aderenti al Movimento Nonviolento)


(https://ilmanifesto.it/lettera-aperta-sui-manuali-scolastici-e-universitari, 5 luglio 2022)

di Donatella Massara


Questa è la notizia che mi è stato proposto di pubblicare sul gruppo Facebook La Biblioteca femminista.


«Marie-Claire Chevalier è morta.

Quel nome probabilmente non dirà molto. È però l’origine di una delle più grandi leggi femministe, nel senso nobile del termine, del Novecento.

Marie-Claire è stata stuprata all’età di 16 anni. Da questo stupro, rimane incinta e decide di abortire. Visto che questo atto era illegale in Francia all’epoca, viene denunciata dal suo stupratore e la fantastica Gisèle Halimi, avvocata, difende Marie-Claire in un processo che si svolge nel 1972. Il processo di Bobigny. L’effetto mediatico è mostruoso, Marie-Claire viene assolta, e la legge Veil che consente la IVG [interruzione volontaria di gravidanza, Ndr] sarà adottata il 17 gennaio 1975. Liberando così Marie-Claire e migliaia di donne del passato, presente e a venire.

Quasi 47 anni dopo l’approvazione di questa legge, Marie-Claire è morta e ha raggiunto Gisèle e Simone (Simone Veil, ministra della sanità francese che varò l’omonima legge, NdR).

Grazie ragazze.»

Grandissime!!! Avevo 22 anni quando nel marzo del 1973 distribuii “fra le donne del quartiere” il volantino che raccontava la battaglia di Gisèle Halimi con Marie-Claire Chevalier e Simone de Beauvoir. Iniziava la lotta per la libertà di aborto, per una gravidanza decisa dalle donne per l’auto determinazione del corpo femminile. Allora ero una ragazza. Mi dichiaravo femminista da alcuni anni. Non conoscevo le donne di via Cherubini che fonderanno poi la Libreria delle donne. Ero una lupa solitaria. Non ricordo neanche da chi fosse stato stampato quel volantino, probabilmente dal Partito radicale. Non mi importava. Sapevo che quanto stava succedendo andava bene, molto bene.

Sapevo che eravamo oltre i diritti perché il diritto deriva da un’affermazione contro un sopruso, da una potenza politica o è una spartizione. Sul corpo femminile e la gravidanza NON si legifera, le donne decidono del proprio corpo e di se stesse. Di questo ero convinta. Logico. Non sapevo che alle donne del quartiere stavo dando una bomba simbolica da lanciare contro il potere soprattutto maschile. O meglio: stavo dando un taglio simbolico dal potere maschile. Quello che è stato messo in scena in questi giorni di abrogazione americana del diritto di aborto. Il taglio simbolico c’è stato. Non c’è ricucitura possibile. Lo stiamo vedendo.


(www.libreriadelledonne.it, 4 luglio 2022)

di Franca Fortunato


«Bella Giuditta. Spiga rigogliosa, petalo di rosa, rosa nel bicchiere» sono le parole con cui si chiude la ballata che la cantastorie Francesca Prestia ha dedicato a Giuditta Levato e da cui martedì sera ha preso il via su Rai Storia la seconda puntata di “Donne di Calabria”. Storia di una donna, una contadina, uccisa per aver difeso, insieme ad altre/i, il diritto di coltivare le terre abbandonate e assicurare a se stessa e ai suoi figli una vita dignitosa nella Calabria povera del secondo dopoguerra. Tra immagini e filmati di repertorio, interviste e testimonianze, la storia di Giuditta, raccontata dall’attrice Camilla Tagliaferri, si è concentrata esclusivamente sulla tragedia, riproponendo l’immagine della “martire” e dell’“eroina”, come se la sua vita fosse iniziata e finita nell’arco di una giornata. Anche lei ha avuto una madre, un padre, un’infanzia e un’adolescenza nel periodo più buio e triste della storia della Calabria e del Paese: era nata nel 1915, si è sposata, ha avuto dei figli, si è iscritta al Partito comunista, ha costituto una cooperativa agricola, aveva delle amiche, avrà avuto i suoi sogni, le sue gioie e i suoi dolori, insomma aveva alle spalle una vita vissuta, che aveva fatto di lei la donna che era diventata. È di lei che volevo sapere più di quanto sapessi già.

Nel giorno della tragedia, quando con le compagne e i compagni della cooperativa si scontrò con il latifondista, il barone Pietro Mazza, che rivendicava la proprietà della terra come “roba mia”, abbiamo visto la dignità, il coraggio e la forza con cui seppe tenergli testa fino allo sparo del mezzadro, che l’ha colpita a morte insieme alla creatura che portava in grembo. È il ricordo commosso del figlio Carmine, allora bambino, che ci ha portato dentro quel dramma e ha aperto uno spiraglio sulla donna. «Il giorno dell’uccisione mia madre prima di andare via mi ha detto di aiutare la nonna, perché era anziana. Vivevamo con lei mio fratello e io. Quando abbiamo sentito uno scoppio, abbiamo capito subito che era uno sparo e mia nonna mi disse di andare a vedere, c’era anche il nonno lì. Con un mio amico siamo corsi a piedi scalzi. In un minuto ero lì. Non mi hanno fatto avvicinare, perdeva sangue, c’era mio nonno e altra gente intorno a lei. C’era un altro gruppo di uomini intorno a quello che aveva sparato. I carabinieri arrivarono in calesse dopo un’ora, mentre mia madre era ancora a terra. L’hanno portata a casa e messa sul letto. Ci voleva un mezzo per portarla all’ospedale a Catanzaro, ma non si trovava facilmente. Dopo un’altra ora si è trovato un camioncino. Quella sera stessa o la sera dopo è venuta mia zia a prendermi perché sapeva che volevo vedere la mamma per l’ultima volta. Prima mi ha dovuto comprare un paio di scarpe, non potevo andare scalzo. Ho visto che mia mamma faceva fatica a respirare quando parlava. L’ho baciata, mi ha abbracciato forte e poi non l’ho vista più. Al funerale c’era la bandiera rossa, il prete non è venuto.» «Di giorno lavorava, la sera andava a ballare con le altre amiche. Non mi portava mai con lei alle riunioni. Il suo impegno politico era dentro la cooperativa.» Il coraggio, la forza, la passione politica e l’amore per la libertà di Giuditta rivivono nell’intervista di Caterina Trovato, storica bracciante di Badolato; rivivono nelle lotte bracciantili di Melissa, dove venne uccisa Angelina Mauro, e nelle lotte delle raccoglitrici di gelsomini, ricordate nella trasmissione. Donne dimenticate, sconosciute alle giovani generazioni, per cui ben vengano trasmissioni come “Donne di Calabria”.


(Il Quotidiano del Sud, 2 luglio 2022)

di Pinella Leocata


Catania. Nel cortile della Cgil, promossa da La Città Felice e moderata da Anna Di Salvo, si è tenuta la presentazione della biografia che la scrittrice inglese del Novecento Vita Sackville-West dedicò nel 1927 alla sua collega conterranea Aphra Behn, nata del 1640. Una scrittrice fino ad allora espulsa dal canone della letteratura e considerata un’autrice minore, oltre che oscena e dissoluta. Sackville-West, per prima, insieme a Virginia Woolf – con la quale ebbe un intenso sodalizio intellettuale e amoroso – la sottrae al disprezzo e ne mette in evidenza la modernità e il valore pionieristico riconoscendola tra le capostipiti di una genealogia femminile che comincia proprio nel Seicento.

A fare “dialogare” a distanza le tre scrittrici è Stefania Arcara, docente di letteratura inglese al Disum di Catania e componente del Centro studi di genere Genus, nella sua prefazione al testo di Sackville-West Aphra Behn. L’incomparabile Astrea (VandA edizioni). Astrea è il nome di penna con cui la scrittrice, poetessa e commediografa del Seicento firmava le sue opere per le quali fu definita “geniale”, “incomparabile”, ma anche “sgualdrina” e “poetessa oscena”. Una vita avventurosa, la sua. Nasce a Londra, parte con la famiglia per l’America del Sud per raggiungere il Suriname, un dominio olandese, ma il padre muore durante il viaggio. In Suriname incontrerà un principe nero divenuto schiavo cui dedicherà il suo romanzo più noto, Oroonoko, il primo romanzo antirazzista della letteratura inglese. Tornata in Inghilterra si sposa con tale Behn che la introduce alla corte di Carlo II per il quale accetterà di trasferirsi ad Anversa come spia. Qui, abbandonata dagli inglesi e non pagata, viene messa in prigione per debiti. Quando viene liberata, con l’aiuto della madre, comincia la sua carriera di scrittrice.

Aphra Behn – sottolinea Stefania Arcara – è una figura dalla forte valenza simbolica. È una borghese che, con la propria determinazione e con coraggio, s’impone nel mercato editoriale degli uomini e a teatro, soprattutto per le sue commedie comiche. «Un’impresa difficile dal momento che non usa un umorismo misogino». È l’unica voce femminile del teatro della Restaurazione quando, sconfitti i Puritani, i teatri riaprono, ritorna la monarchia ed esplode il libertinismo e l’edonismo. Usa battute, doppi sensi, ambienta le scene in camera da letto, come facevano tanti autori maschi, ma lei era una donna e questo non viene tollerato. Di qui gli attacchi e le accuse di plagio o di oscenità. Lei si difende e critica le posizioni dei suoi detrattori nelle prefazioni e postfazioni ai suoi testi e rivendica – per una donna che non ha un’educazione classica, in un Paese che non lo consentiva – il diritto a scrivere commedie e a guadagnarsi da vivere grazie alla scrittura. Scelte di vita e di lavoro che ispireranno l’opera di Vita Sackville-West e di Virginia Woolf, in particolare nel testo Le tre ghinee del 1938.

Sackville-West presenta la biografia di Aphra Behn come un ritratto dell’anima. La descrive come una donna che vuole divertirsi, avere successo, rozza – come nel gusto del tempo – dal linguaggio sboccato, anticonformista, amante di uomini e donne. E nello stesso tempo ne esalta la fondamentale onestà e il grande idealismo. È contro il puritanesimo, eppure critica il libertinismo di cui comprende la radice patriarcale. Ma le sue opere, sottolinea Maria Grazia Nicolosi – docente di letteratura inglese al Disum e componente del Centro di studi di genere – non hanno valore solo in quanto precorritrici del romanzo moderno, ma anche dal punto di vista artistico per la qualità della scrittura. Le sue storie non finiscono quasi mai con il matrimonio, che l’autrice considerava un contratto sesso-economico che penalizza le donne, e spesso le sue protagoniste non hanno figli. «Il matrimonio – scriveva – è un veleno per l’amore come prestare danaro lo è per l’amicizia». Ed è interessante come le due studiose catanesi mettano in evidenza il rispecchiamento tra le due scrittrici inglesi del Novecento e la loro antenata di due secoli e mezzo prima, «una genealogia che le unisce in quanto donne che, in una società patriarcale, sono riuscite a fare della scrittura la propria professione». Ed evidenziano come Aphra Behn, che scelse di fare la spia, costruisca maschere e identità plurime e avventizie anche nella sua vita reale che, in buona parte, rimane misteriosa, a partire dalle sue origini.


(La Sicilia, 2 luglio 2022)

di Paolo Pileri


Sessant’anni fa, nel 1962, usciva “Primavera silenziosa” di Rachel Carson (Feltrinelli). Un libro manifesto, ma anche un manuale per imparare un attivismo ecologico fondato su dati e indicatori. La natura non è un’opinione, ma un fatto preciso. Idem la sua tutela.


Quattro anni ha impiegato Rachel Carson a scrivere “Primavera silenziosa”: notti insonni di ricerche, interviste, studi, documenti. Grazie a lei si è aperta la strada per eliminare i Ddt (diclorodifeniltricloroetano). La sua ostinazione magistrale ha svelato i danni di pesticidi ed erbicidi usati nelle terre agricole. Giornalista colta, biologa e donna rigorosa, con il suo libro meraviglioso ha smontato pezzo per pezzo l’ipocrisia mortifera che allora – e per anni a seguire – le multinazionali dell’agrofarmaco, assieme a governi, hanno fatto sorbire a tutti, addolcendo il loro egoismo con il nome-beffa rivoluzione verde.

Un abile gioco di parole per imporre come lieve e giusto ciò che non aveva nulla di lieve, di verde e di giusto, ma anzi era l’inizio di una tragedia e il vessillo di un modello spaccone che ci ha persuasi che lo sfruttamento della t/Terra è un nostro diritto. Le manomissioni di parole sono il piede di porco che da decenni viene usato per confondere la gente e allontanarla dalla verità, per gettare fumo nei loro occhi nascondendo le alternative che esistono e sono possibili.

Anni fa è stato sviluppo sostenibile, oggi il mantra è transizione ecologica, con tutta la sua corte di declinazioni. Sarà ancora come la rivoluzione verde? Abbiamo un’urgenza pazzesca di una Rachel Carson oggi o, meglio, abbiamo urgenza di divenire tutti noi Rachel. Lei ci ha lasciato un libro in eredità dal quale imparare: possiamo leggerlo, ricordarlo, discuterlo a scuola, al lavoro, in vacanza. Non dimenticare Rachel, questa sì che è vera rivoluzione verde. Quel libro è una spinta potentissima per tirar fuori la testa da questo minestrone ambiguo e melmoso che è lo storytelling sulla transizione ecologica propinato da chi non ne vuole sapere di cambiare, neanche un pochino.

“Primavera silenziosa” è un libro scritto con passione e metodo, poesia e rigore. Ed è quest’ultimo uno degli strumenti più vincenti che Rachel ha usato. Dati, indicatori, fatti, testimonianze, casi reali per mostrare concretamente che quella rivoluzione non era verde, ma nera come la pece. Non solo proclami, non solo opinioni, non solo parole, ma numeri e prove: così si fa. Come Rachel, anche noi non possiamo ingoiare qualunque transizione ci propinino, ma abbiamo bisogno di entrare nelle questioni, farle nostre, non vergognarci di dubitare anche quando ci sono poche ragioni per farlo.

Per scrivere “Primavera silenziosa” dovevi mettere da parte i compromessi che annebbiano la mente. Dovevi scegliere documenti e letture che chiariscono a te e fanno capire a tutti. Davanti a noi avremo un’estate bollente, l’ennesima di un clima che non è impazzito da solo, ma per causa nostra. Regaliamoci una lettura ecologica; regaliamoci la possibilità di capire le parole dell’ecologia leggendo giganti come Carson e non assorbendo solo le frasi fatte di politici e venditori porta a porta di transizioni poco ecologiche, molto finanziarie, zero rivoluzionarie. Ogni parola che non capiamo è un calcio nel sedere che riceviamo, come diceva don Milani. Per tutelare la natura dobbiamo aumentare la padronanza del lessico della natura.

Certo, questo è faticoso, come lo è stato per Rachel Carson disvelare l’atrocità del Ddt dato dopo dato. Ma la sua costanza rigorosa ci ha salvato e questa lezione è lezione di metodo che ora è nelle nostre mani. Pensate che bello trovarci tutti in piazza, virtuale e reale, sventolando quel libro come si fa con un manifesto, pretendendo di essere presi sul serio. Come Rachel Carson seriamente fece con noi.


(Altraeconomia, rivista n. 250, luglio/agosto 2022)

di Luisa Muraro


La candidata sconfitta e la nuova sindaca, dopo il ballottaggio delle ultime amministrative, si sono incontrate e tra le due di colpo c’è stato un abbraccio, un vero abbraccio che ha cambiato il senso della prova elettorale. E che mi ha fatto ripensare al libro di Lia Cigarini, La politica del desiderio uscito da poco (Orthotes, Napoli 2022, a cura di Riccardo Fanciullacci e Stefania Ferrando).

In quell’abbraccio ho visto brillare in un lampo di fulminea bellezza l’intuizione che lo anima dall’inizio alla fine: «l’orizzonte della politica delle donne era ed è un cambio di civiltà». Si è aperto, questo orizzonte, con l’atto di aver interpretato la differenza sessuale come indipendenza femminile dalle misure maschili. E va realizzandosi nel fare dell’indipendenza femminile una mediazione necessaria anche per gli uomini.

Un cambio di civiltà è un processo plurale da cui le cose prendono, per finire, un senso nuovo ai nostri occhi, man mano del suo farsi a nostra insaputa. Come si fa, dall’interno di un tale cambiamento, a saperlo? Solo l’opera d’arte può farci vivere questa esperienza che nella realtà sembra disperdersi in una miriade di avvenimenti. Ma ecco che una vita vissuta con un’intima concentrazione forma come un filo rosso che li collega tra loro!

Tale è il caso di questo libro. La politica del desiderio, infatti, si ispira non a una idea ma a una esistenza che è andata svolgendosi con la partecipazione alla storia vissuta: la sua confezione abbraccia molti decenni, la prima parte va dal 1974 al 1994, la seconda dal 1999 al 2020. E ciò nonostante è di una straordinaria unità, libro dotato di una coerenza che nulla deve alle circostanze occasionali, che sono le più varie, e tutto alla profondità della ricerca.

C’è un’altra caratteristica che lo distingue dall’essere un libro comunemente inteso ed è che non ha un vero inizio né una vera fine. C’è un prima cui si allude nella prime pagine che è l’esperienza di altre donne e c’è un presente su cui esso si sporge nelle ultime, quelle in cui, dopo aver parlato di una torta velenosa, tossica, piena di armi, segue questo commento: ti puoi riconoscere in una civiltà solo se hai contribuito a tesserne le forme, a fare sì che vi trovi spazio ciò a cui tieni, a cominciare ovviamente dalla tua libertà.

Che è il tema di fondo di questo capolavoro. So che è un capolavoro, anche se non so come dirlo.


(www.libreriadelledonne.it, 1° luglio 2022)

di Bruna Bianchi


Finestre, balconi, abiti e zaini, vie principali delle città, stazioni della metropolitana, teatri, palazzi governativi, monumenti sono i luoghi nei quali continuano improvvisamente ad apparire cartelli e striscioni spesso con messaggi in codice, si svolgono azioni di protesta, vengono strappate o danneggiate le lettere Z, appaiono richiami a libri come 1984, ormai introvabile nelle librerie, di George Orwell. Come nei mesi precedenti, le proteste femminili, individuali e di gruppo, si rivelano le più creative e coordinate. Naturalmente la repressione nei confronti di chi protesta contro la guerra cresce. «Ho paura, ma non taccio» ha scritto Julia sul cartello che teneva tra le mani a San Pietroburgo il 12 giugno. Un resoconto di quanto accaduto negli ultimi due mesi in Russia


Mentre decine di migliaia di uomini fuggono dalla Russia per non partecipare a una guerra atrocele proteste all’interno del paese continuano. Secondo gli ultimi dati (No to War. How Russian Authorities are Suppressing Anti-War Protests1), dall’inizio del conflitto al 13 aprile i casi di arresto in base al decreto che punisce il “discredito” alle forze armate sono stati almeno 993 in 78 regioni. Sfuggono ai provvedimenti repressivi molti autori di graffiti o installazioni in vari edifici e luoghi cittadini e coloro che hanno messo in circolazione monete e banconote con messaggi contro la guerra2.

I provvedimenti adottati o entrati in vigore ad aprile hanno inasprito le pratiche repressive, i controlli, aumentato gli importi delle multe e allungato l’elenco dei reati. Ne rende conto il rapporto aggiornato di OVD-info No to War (cit.)Continuano, infatti, le chiusure dei siti internet per qualsiasi vago accenno alla guerra, le minacce e gli arresti di giornalisti e giornaliste, le pressioni per il licenziamento di attivisti e i loro amici e congiunti, la persecuzione dei collaboratori di Naval’nyj, mentre multe elevatissime colpiscono periodici, tra cui il giornale indipendente Vecherniye Vedomosti, e radio per costringere alla bancarotta e sono state inflitte le prime confische dei beni a chi è stato accusato di diffusione di false notizie (almeno quattro di questi casi sono venuti a conoscenza dell’organizzazione per i diritti umani Agora, resoconto 4-10 giugno).

Contemporaneamente, si spinge la popolazione a rendere esplicito il proprio sostegno alla guerra apponendo una sui social o sulle auto. Nella società civile non vi deve essere più alcuno spazio per i dubbi o il tacito dissenso; se non si è a favore del conflitto si è contro il conflitto, il governo, lo stato, l’esercito, e pertanto si è sempre perseguibili.

È sempre più difficile, infatti, evitare il proibito; qualsiasi accenno alla pace, anche nelle conversazioni private, può essere sanzionato. Valga per tutti l’esempio della frase citata nei social “siamo amici” pronunciata da uno dei personaggi del cartone animato per bambini “Il gatto Leopoldo”. Citarla è considerato un atto di “discredito”.

Mentre la repressione si inasprisce, i caratteri della protesta stanno in parte cambiando.

Nelle pagine che seguono – sulla base delle segnalazioni quotidiane a OVD in lingua russa –, e ai resoconti settimanali delle cause penali e civili in inglese (Russian Protest against the War with Ukraine. A Chronicle of Events, 15aprile-11giugno), tracciano un breve quadro delle proteste degli ultimi due mesi.

Letti uno dopo l’altro questi resoconti si fondono in un unico alto grido contro la guerra. Accanto a queste manifestazioni di protesta sui social e per le strade, oggi si possono leggere anche gli scritti di poeti e poetesse, scrittori e scrittici russi-e nella raccolta di testi a cura di Mario Caramitti e Massimo Maurizio, ***/*****. Voci russe contro la guerra, Università degli studi di Torino, 2022, liberamente scaricabile su collane.unito.it.

Attori, luoghi, simboli e messaggi in codice

Non sempre resoconti e segnalazioni riportano l’età e la condizione sociale degli arrestati, ma le immagini suggeriscono che appartengono a ogni classe di età – con una prevalenza di giovani, uomini e donne, spesso con bambini – e a ogni ceto sociale. Sono incappati nelle maglie della repressione giornalisti/e, artisti/e, studenti e studentesse, attivisti/e dei diritti umani, di organizzazioni giovanili e vegane, come il giovane che appare in una fotografia con il cartello “Vegan contro la guerra. Finisca questa follia” (foto).

Hanno manifestato la loro opposizione alla guerra anche due suore, un prete, un ex poliziotto e un candidato alle elezioni per il partito comunista.

Come nei mesi precedenti, finestre, balconi, abiti e zaini, vie principali delle città, stazioni della metropolitana, teatri, palazzi governativi, monumenti e altri spazi simbolici sono stati i luoghi in cui sono apparsi cartelli e striscioni, si sono svolte le performance di protesta, sono state strappate o danneggiate le lettere Z, sono stati tracciati graffiti, intonate canzoni in ucraino – talvolta prendendo a prestito il microfono da un musicista di strada – e sono stati distribuiti distintivi con la scritta «No alla guerra» o «La Russia sarà libera» (foto).

La bandiera a strisce bianca-blu-bianca, al posto di quella russa bianca-blu-rossa, è diventata il simbolo del movimento contro la guerra e ha fatto da sfondo a scritte e slogan (foto).

Tra coloro che hanno messo in atto le proteste c’è chi si è fatto arrestare più volte; l’attivista che compare in questa foto è al suo settimo arresto.

Sempre più numerosi i casi in cui i manifestanti hanno tenuto tra le mani un foglio bianco con 8 asterischi *** *****, quante sono le lettere di нет войне (No alla guerra): foto.

Evitare di scrivere qualsiasi parola sui cartelli e striscioni ha avuto lo scopo di evitare l’arresto oltre a quello di deridere. In un primo momento, infatti, gli agenti accorsi sul luogo della protesta, restavano perplessi, si consultavano sull’esistenza degli estremi per una sanzione, ma la repressione in Russia evolve rapidamente, spostando sempre in avanti i limiti del proibito e gli attori di queste forme di protesta sono stati comunque arrestati.

In un mondo in cui non si possono mai prevedere i motivi di un’accusa, i messaggi stanno diventando non solo indiretti, ma espressi in un linguaggio in codice. Per aggirare i controlli sempre più stringenti sui social, quando si vuole annunciare un’azione in cui si prevede di essere arrestati si usa la frase “vado a fare un passeggiata con il passaporto”.

Anche gli autori dei graffiti evitano messaggi espliciti. Il significato di queste opere non è stato ancora “decodificato” dalle autorità, non è stato discusso nelle aule dei tribunali e pertanto non appaiono nelle segnalazioni quotidiane di OVD. «Sono messaggi meno universali, occorre avere una certa cultura per comprenderli», ha detto in una intervista del 15 aprile Alexandra Arkhipova, la studiosa del Wilson Center che sta conducendo una ricerca sulla protesta in Russia.

Ne sono un esempio i graffiti che ritraggono le ballerine del lago dei cigni di Čajkovskij. Quando Leonid Brežnev morì, spiega Arkhipova, la televisione di stato non ne diede subito l’annuncio in attesa di trovare un accordo sul successore e trasmise in continuazione Il lago dei cigni. Le ballerine, dunque, comunicano l’auspicio che la situazione politica possa mutare radicalmente in seguito alla morte di Putin. Lo stesso auspicio è espresso dalla frase: «Brindiamo alla sciarpa e alla tabacchiera» che si riferisce all’assassinio dello zar Paolo I, strangolato con una sciarpa e finito da un colpo alla testa con una tabacchiera.

«Quando la verità è vietata, è cento volte più necessaria»

Di fronte alla volontà di mettere a tacere ogni voce di dissenso, non stupisce che molti episodi di protesta vertano sulla libertà di parola.

«Ho paura, ma non taccio» ha scritto Julia sul cartello che teneva tra le mani a San Pietroburgo il 12 giugno (foto).

«Ho il diritto di parlare» è quanto si legge sul cartello di un giovane uomo che il 26 maggio si è recato sulla Piazza Rossa, portando con sé il figlio in passeggino.

Per denunciare la censura, alcuni post sui social hanno raffigurato una Z apposta su una bocca cucita.

A Ekaterinburg il 4 maggio Nadežda Sayfutdinova con ago e filo la bocca se l’è cucita davvero e per questo ha rischiato l’internamento in ospedale psichiatrico. Sul poster che teneva tra le mani era scritto:

«Tacere! Non si può! Non si può tacere! 
La guerra non è pace! 
La libertà non è schiavitù! 
L’ignoranza non è forza!». 
Eccola lì la vostra ideologia 3 (foto).

Il simbolo dell’operazione speciale, la Z, è stata al centro di molte azioni di protesta; il simbolo è stato di volta in volta rimosso, strappato, bruciato, coperto di vernice rossa, oggetto di sputi e altre manomissioni, come quella di disegnarle accanto “un calcio dimostrativo”, come è accaduto a Čeboksary.

«Togliete quella Z, è il simbolo dell’omicidio. Non c’è niente di che essere orgogliosi, è una vergogna!» si poteva leggere il 12 giugno, la giornata della Federazione russa, sul pezzo di carta esibito da un manifestante di fronte al Teatro di Mosca.

Un caso che ha fatto sensazione è quello di Natalia Filonova, giornalista di Ulan-Ude, città della Siberia orientale, arrestata il 26 aprile per aver chiesto all’autista di un autobus di rimuovere la Z. L’uomo, al contrario, ha fatto scendere tutti i passeggeri e ha portato con la forza Natalia al posto di polizia.

Gli studenti dell’Università di Ekaterinburg, invece, hanno deciso una raccolta di firme per ottenere la rimozione della Z dalla facciata dell’Università. Dal 19 aprile alla fine del mese le persone che hanno firmato sono state 570, 300 delle quali studenti e studentesse.

«E il Signore disse: “cosa hai fatto?”»

Più la guerra si prolunga e più numerosi sono i cartelli che gridano il numero dei morti, in particolare di civili e bambini. Il 26 maggio è stata arrestata a Soči Anna Goretskaya che nei pressi del partito nazionalista e conservatore “Russia unita” aveva esposto il cartello: «Mariupol è completamente distrutta. In termini numerici, era uguale a Soči».

A Ekaterinburg Ivan Ljubimov ha esposto un manifesto di denuncia della violenza all’infanzia; il disegno raffigurava una bambina sul punto di essere colpita dallo scarpone di un soldato. Ha scritto Ivan: «Il male non riuscirà a trionfare. Genesi 4.11. E il Signore disse: “Cosa hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra”». «Vergogna ai criminali di guerra. Bisogna perseguire i saccheggiatori, gli stupratori e gli infanticidi» (foto).

Nella stessa città il 23 giugno un manifestante ha voluto porre sotto agli occhi dei concittadini la realtà della guerra occultata nella comunicazione pubblica: «Dal 24 febbraio in Ucraina sono morti o sono stati feriti 10.308 abitanti».

L’orrore per i crimini contro i civili ha indotto anche un prete di San Pietroburgo a diffondere un video in cui affermava che i soldati russi morti in Ucraina non sarebbero “andati in Paradiso”. Il religioso è stato arrestato per aver screditato l’esercito; due icone, un crocifisso di legno e una tonaca gli sono stati sequestrati. Con la stessa accusa un cittadino sordomuto di Tambov è stato multato di pari a oltre 500 euro per un post che raffigurava una donna in costume tradizionale ucraino nell’atto di sferzare un soldato russo. Sotto all’immagine la scritta: «Quando batto un soldato russo con un ramo di salice, è un gran giorno».

Una multa pari a 3.500 euro è stata inflitta a una giornalista di Ekaterinburg per i suoi post contro Putin, sulle stragi di Buča e Mariupol e per aver scritto: «È strano: i russi non credono alle statistiche di mortalità per Covid, ma per qualche ragione credono in una guerra che non fa vittime, né tra i russi, né tra i civili».

La drammatica realtà delle distruzioni in Ucraina è stata messa in evidenza da Valerij Myazdrikov il 22 maggio a Mosca. Questo il suo commento: «Occupanti, predoni e assassini di Putin, andate via dall’Ucraina! La Crimea è anche Ucraina! Libertà per i prigionieri politici!» (foto).

La sofferenza delle madri ucraine è stata rappresentata in un’opera di grandi dimensioni dell’artista Yelena Osipova esposta in una via di San Pietroburgo il primo maggio e accompagnata dalla scritta:

«1° maggio: Solidarietà internazionale (in alto) 
No alla guerra, no alla guerra (ai lati) 
XXI secolo! (al centro) 
La morte dell’umanità è la conseguenza della guerra» (in basso). (foto)

Una settimana dopo, il 9 maggio, giornata della vittoria, l’anziana artista è stata fermata sulla soglia di casa per impedirle di manifestare contro la guerra. Non sappiamo quale opera Yelena Osipova intendeva portare con sé, ma, a proposito degli eroi, il 27 febbraio in uno dei suoi dipinti aveva rappresentato un soldato bendato a cui la madre strappava l’arma dicendo: «Non combattere questa guerra, figlio» e l’artista aveva aggiunto le parole: «Soldato, getta il fucile. Questo è ciò che fa di te un eroe» (fonte).

Nelle segnalazioni di OVD troviamo solo un esempio di rifiuto del servizio militare, ma significativo per gli echi di un’altra terribile guerra nelle sue dichiarazioni. Saveli, un giovane di Stavropol’, nella Russia meridionale, all’inizio di aprile aveva chiesto l’esenzione e avanzato richiesta di servizio alternativo. Convocato all’ufficio di reclutamento e invitato a esporre le sue ragioni, così ha riassunto la sua risposta: «Ho spiegato la mia convinzione che la vita umana abbia un immenso valore. Ho anche raccontato che mia madre aveva fatto l’esperienza della guerra a Groznyj, che era stata sotto i colpi dell’artiglieria per un mese e che miracolosamente si è salvata, che mi diede alla luce quando era già avanti negli anni e che io non voglio mettere a rischio la mia vita». Tratto in arresto, di lui non abbiamo trovato altre notizie.

A commento del reclutamento e della sua ideologia omicida, a San Pietroburgo ha scritto il 16 giugno sul suo poster Aleksej Dudinsky:

Forse che augurare ai nostri ragazzi di tornare vivi dalle loro madri e mogli significa screditarli? 
E mandarli sotto le pallottole e i proiettili significa sostenerli? 
Russia sei sana di mente? 
Fermate la guerra!

«Uccidete tutte le guerre, maledite tutte le guerre»

Tra coloro che hanno protestato c’è chi ha voluto comunicare il suo messaggio con le parole di grandi poeti e scrittori per affermare verità universali, richiamarsi alle tradizioni culturali russe e in particolare alle parole di Tolstoj. Il 23 giugno a Ekaterinburg, un uomo è stato arrestato – fonte – per aver riprodotto nel suo poster una poesia di John Donne (1572-1631), Meditazione XVII:

Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te1.

A Pskov Ivan Kulesh è stato arrestato il 21 giugno per un post con una lunga citazione di Tolstoj tratta dallo scritto Ricredetevi! (1904) contro la guerra russo-giapponese:

E centinaia, migliaia di uomini in uniforme e con diversi strumenti di morte – la carne da cannone – storditi dalle preghiere i sermoni, gli appelli, le processioni, le immagini, i giornali, con l’angoscia nel cuore, in un coraggio apparente, lasciano parenti, mogli, figli e vanno là dove, arrischiando la loro vita, commettono l’atto più terribile: la strage di uomini che non conoscono e che non hanno fatto loro alcun male2.

Alexander Kapustin a Krasnoyarsk il 28 maggio ha voluto sferzare gli apatici con una citazione di Albert Einstein: «Il mondo sarà distrutto non da coloro che fanno il Male, ma da coloro che lo guardano senza fare nulla».

Ma il libro che è diventato il simbolo della protesta è 1984 di George Orwell. L’opera, che è andata a ruba in pochi giorni, rivela ai lettori della Russia di oggi le analogie tra la visione distopica del romanzo con la realtà del regime putiniano. Portare il libro con sé è diventato un segnale di riconoscimento. Così il 31 maggio, il giovane Aleksej Zorin si è recato davanti alla Duma con un cartello in cui aveva scritto «1984 – Possiamo replicare» (foto).

Il giorno successivo, a San Pietroburgo, Oleg Klimenchuk ha citato la poesia di Robert Roždestvenskij, Requiem, dedicata ai soldati russi morti nella Seconda guerra mondiale e che termina con le parole: «uccidete tutte le guerre, maledite tutte le guerre». Per questo Oleg è stato aggredito non lontano dalla sua abitazione.

«Mio nonno non ha combattuto per un futuro del genere»

Il 9 maggio, giornata della vittoria, si sono svolte le proteste più numerose e di aperta e dura condanna della guerra. In quel giorno sono state arrestate 125 persone; almeno 50 attivisti e attiviste, note per aver partecipato a precedenti manifestazioni di protesta, sono state quelle fermate nelle stazioni delle metropolitane, individuate attraverso il riconoscimento facciale. Un numero imprecisato di persone sono state intimidite da minacce e insulti affissi alle porte delle loro abitazioni da parte di volonterosi collaboratori del regime.

A Mosca, ma anche in altre città, su molti cartelli e striscioni spiccavano le fotografie di coloro che avevano combattuto nella guerra di liberazione in divisa militare e medaglie sul petto. Le reggevano tra le mani i nipoti.

«Ha combattuto per la pace!», ha scritto Ekaterina Voronina, «Non voleva che si ripetesse». Il nonno diceva: «Se solo non ci fosse la guerra!», «Pace al mondo!», «Non voleva la guerra!». (foto).

«Mi vergogno di voi, nipoti. Abbiamo combattuto per la pace, tu hai scelto la guerra» (Novosibirk, 9 maggio, foto).

«Hanno combattuto per la Patria. E noi?» ha scritto sul suo poster un attivista per i diritti umani che ha manifestato a Mosca di fronte al ministero della difesa (foto).

Rabbia, indignazione e desiderio di sfida hanno animato la protesta del 9 e del 12 giugno, festa della Federazione russa.

«Russia, arrestami, non me ne frega un cazzo!» (Mosca, 9 maggio, foto).

«Putin, inizia la denazificazione da te stesso» (Vladivostok, 12 giugno, foto).

Né è mancato qualche tentativo di manifestazione eclatante. L’artista e fotografo Danila Tkatchenko aveva pianificato di far esplodere 140 ordigni, installati nei condizionatori di un edificio nei pressi della Piazza Rossa che avrebbero diffuso fumo azzurro e giallo durante la parata. Scoperto, l’artista è riuscito a fuggire dalla Russia.

«Non possiamo lavarci il sangue»

Come nei mesi precedenti, le proteste femminili, individuali e di gruppo, si sono rivelate le più creative e coordinate. Il tema ricorrente è il sangue versato, le vittime della guerra. «Io sono contro la guerra, l’Ucraina è inondata di sangue» (Maria, Krasnodar, 16 maggio).

«La Russia ha le mani insanguinate fino al gomito. #No guerra» (Alexandra, 9 maggio, Samara al Monumento della gloria).

Davanti al ministero degli affari esteri della federazione russa Ljudmila Annenkova, che già aveva scontato una pena di una settimana, è stata nuovamente arrestata il 7 giugno per aver manifestato contro la guerra in abito bianco sul quale aveva sparso vernice rossa: «Non possiamo lavarci il sangue» (fonte).

A San Pietroburgo il 9 maggio, sulla prospettiva Nevsky, si è svolta una manifestazione delle Donne in Nero. Tenevano tra le mani una rosa bianca e una copia del libro di Svetlana Aleksievič, Ragazzi di zinco, una raccolta di testimonianze sulla guerra afghana dedicata agli almeno quattordicimila giovani soldati che tornarono in Russia chiusi nelle casse di zinco, e che furono sepolti di nascosto. L’azione era stata proposta dalla “Resistenza femminista contro la guerra” (foto).

Un altro tema che ricorre nelle proteste femminili è la denuncia delle distorsioni del discorso mediatico. L’8 maggio, nel Parco della Vittoria a Ekaterinburg, Svetlana Moleva e Galina Bastrygina sono state arrestate per aver distribuito volantini contro la guerra in cui si rivolgevano ai cittadini affinché non guardassero i notiziari televisivi, ritrovassero il proprio giudizio, la propria voce e riconoscessero il vero motivo dell’invasione: le ambizioni di Putin.

Con lo stesso scopo a San Pietroburgo Anna Anisimova si è ammanettata a una televisione con l’immagine del giornalista putiniano Vladimir Solovyov (foto).

Tra coloro che sono coraggiosamente scese in strada ci sono state anche due suore. «Pace nel Mondo» e «Noi siamo per la pace» sono stati i loro messaggi (Krasnodar, 16 maggio).

«La polizia faceva battute sullo stupro»

A inasprire la condizione di chi incappa nelle maglie della “giustizia” si sono moltiplicati abusi di ogni sorta; perquisizioni e minacce si sono estese a coinquilini sospettati di complicità, a mogli e mariti, ai figli, ai tassisti, colpevoli di aver portato i manifestanti ai luoghi delle proteste. Né mancano ritorsioni ancora più vili, come quella che ha colpito il giovane uomo che sulla Piazza Rossa il 26 maggio aveva protestato per la libertà di parola portando con sé il figlio in passeggino. Poiché l’uomo non aveva con sé il certificato di nascita, il bambino gli è stato sottratto ed è stato portato in un istituto.

Alle minacce, alla reclusione in luoghi completamente bui, al rifiuto di chiamare gli avvocati ai posti di polizia, si sono aggiunte le torture, le minacce di strangolamento, le pressioni violente sulla persona arrestata affinché firmasse una dichiarazione di aver agito “per odio politico” aggravando così la sua posizione giuridica. Le violenze hanno colpito soprattutto donne e ragazze. Nelle stanze chiuse dei posti di polizia, lo spettro della violenza sessuale è sempre incombente. «Gli agenti facevano battute sullo stupro». È quanto è accaduto a tre giovani attiviste, Anastasia, Elena e Natalia, arrestate il 24 maggio sulla Piazza Rossa benché in quel momento non stessero compiendo alcuna azione di protesta. Natalia è stata portata in una stanza separata e da lì le compagne hanno sentito urlare.

Né è mancata la volontà di infierire su persone con disabilità. Amir Amaireh, dopo essere stato minacciato di detenzione speciale in un centro per criminali, quando gli agenti si sono accorti della sua disabilità, lo hanno costretto a stare a lungo in piedi per causargli dolore alle gambe (9 giugno, Irkutsk).

Tali crudeltà non soffocheranno la protesta, lo hanno dimostrato coloro che fin dall’inizio del conflitto hanno levato la loro voce contro la guerra, e, forse, il coraggio e la forza dei loro messaggi riusciranno a scuotere l’apatia e lo scoraggiamento che affliggono la nostra società, come l’appello, semplice, ma profondo, lanciato da Ekaterina Vorobyova il 22 maggio di fronte alla cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca:

«Не привыкай к войне»: «Non abituarti alla guerra» (foto).


Note

1 Per i casi riportati da questa fonte non è sempre facile risalire con esattezza alla data in cui si è verificato l’episodio di protesta. Le imprecisioni nel testo sono dovute a questa difficoltà.

2 Sui graffiti e la protesta in Russia si veda: https://serenoregis.org/2022/04/01/graffiti-contro-la-guerra-in-ucraina/.

3 Sono queste le frasi leggibili.

4 Cito dalla traduzione italiana che compare in numerosi siti tra cui: http://www.claudiomalune.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2450:john-donne-nessun-uomo-e-unisola-meditazione-xvii&catid=768:donne-john&Itemid=86.

5 Cito dalla traduzione italiana recentemente ripubblicata da Gruppo Abele Edizioni, Torino 2022, p. 25.


(comune-info.net, 29 giugno 2022)

di Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UdiPalermo


È sempre sul corpo – e la libertà – delle donne che un patriarcato sempre più in crisi, ma sempre pericolosamente e scompostamente pronto a colpire, cerca ancora di esercitare il suo controllo, con la legge e col discorso. Un orientamento che sembra dominare a livello mondiale, con straordinaria concordanza di vedute, tanto nei regimi autocratici, quanto nelle “democrazie”.

Lo ha dimostrato da ultimo la Corte di giustizia americana con la cancellazione della sentenza #RoecontroWade che nel 1973 aveva consentito di rendere possibile l’aborto in tutti gli Stati Uniti sulla base di un’interpretazione del 14° emendamento della Costituzione che riconosceva come fondamentale il principio della riservatezza e garantiva pertanto alle donne, in tema di riproduzione, l’autodeterminazione sul proprio corpo. Da oggi la scelta delle donne, non più legittimata dalla costituzione federale, sarà di nuovo subordinata all’arbitrarietà delle decisioni politiche di ogni singolo stato.

La questione dell’aborto in Usa porta tuttavia in primo piano l’ipocrisia e il paradosso costituito da un paese dove il tasso di mortalità femminile per parto è il più alto del mondo industrializzato; che non prevede – unica nazione industrializzata – il congedo di maternità retribuito obbligatorio; dove per gli asili nido si spende circa il 2% di quanto destinato da alcuni paesi europei e dove circa il 16% dei/lle bambini/e vive in povertà; infine un paese dove, negli stati in cui l’aborto è stato o sarà vietato, ogni gravidanza non portata a termine potrà essere potenzialmente indagata come reato, anche utilizzando tutti gli strumenti di controllo digitale e dove si avanzano, come già accaduto in Italia, proposte di affermare i “diritti” del feto (lo ha ricordato con lucida analisi Jia Tolentino sul New Yorker del 24 giugno).

Siamo dunque di fronte al paradosso di un paese che si preoccupa della vita solo se in forma fetale.

“Non torneremo indietro” è lo slogan lanciato dalle americane e sebbene appaia contraddittorio rispetto agli eventi presenti, è certamente il segno che le donne contrasteranno questa ennesima controffensiva alla “rivoluzione” femminile che ha segnato il passaggio delle donne da oggetto a soggetto (di pensiero, azione, desiderio) e affermato l’autodeterminazione quale principio etico regolativo della procreazione.

Ma dovremo contrastare anche le posizioni alla Preciado, influente pensatore queer che, intervistato sul Manifesto del 26 giugno, ha affermato che «Le femministe dovrebbero smettere di pensare all’utero e al corpo femminile come qualcosa di naturale, altrimenti, mi dispiace ma non si può abortire», riducendo così l’aborto a mera “tecnologia del corpo” e cancellando ancora una volta corpo ed esperienza femminile.


(https://m.facebook.com 28 giugno 2022)

di Umberto Varischio


Dopo la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti su quello che semplicisticamente viene definito il “diritto di aborto”, ho cercato sui giornali italiani qualche articolo scritto da un uomo che riflettesse sull’accaduto e cercasse di farlo eventualmente partendo dalla propria esperienza.

Debbo dire che articoli “al maschile” ne ho trovati diversi, ma tutti (salvo quello di Alberto Leiss sul Manifesto del 28 giugno) avevano un’impostazione simile a quello di Paolo Giordano sul Corriere della Sera di sabato 26 giugno 2022. Un articolo magari condivisibile nei contenuti: la difesa dei diritti delle donne, l’analisi dei pregiudizi maschili sull’aborto, ragionamenti su cosa significa per una donna intraprendere il percorso per effettuare un aborto (sic!), ragionamenti sulla messa in discussione di questo diritto che non tocca solo le donne, ma anche gli uomini ecc. Qualche uomo, negli USA, si spinge fino a essere disponibile a cedere la sua identità digitale per evitare alla donna il pericolo di essere individuata quando si dovesse recare in un altro Stato per eseguire l’aborto o per acquistare la cd. “pillola del giorno dopo”. Tutte posizioni condivisibili ma…

Un passaggio dell’articolo di Giordano riguarda (finalmente, ho pensato leggendolo) la questione del rimosso: «A più di quarant’anni dall’approvazione della 194, l’aborto è ancora qualcosa di cui non si parla, mai, neppure in privato, con la sola eccezione degli ambienti femministi. È un rimosso obbligatorio non solo per le donne che lo affrontano da sole ma perfino per le coppie stabili». Letto, mi sono ricreduto: il rimosso era solo questo?

Quello che cercavo in questi interventi, e che non ho trovato, era un ragionamento che partisse dal concepimento (che in questo caso è un concepimento a due, una donna e un uomo), atto che non dovrebbe essere visto come un accadimento quasi inevitabile, un evento naturale che porta necessariamente alla nascita di una nuova vita.

Ma quello che non ho trovato, nell’articolo di Giordano e negli altri, è stato un ragionamento sulla sessualità maschile e sul ruolo di noi maschi nella contraccezione. Se esiste un rimosso in questo evento, secondo me, è proprio questo.


(www.libreriadelledonne.it, 27 giugno 2022)

di Letizia Paolozzi


Un pezzo del femminismo ha sempre evitato di parlare di “diritto all’aborto”. Non lo convinceva l’intromissione dello stato nel campo della sessualità, del volere o non volere diventare madre. E nemmeno la rimozione della responsabilità maschile nel causare un intervento violento sul corpo della donna. Sarebbe bastata la depenalizzazione. Quel pezzo di femminismo perse. Ma molte di noi, conoscendo le ambiguità, le incertezze, le contraddizioni del desiderio femminile rispetto alla nascita di un figlio, conservarono le loro riserve sul “diritto all’aborto”.

Il terremoto che ha colpito le donne americane mi ha ricordato quella discussione giacché il destino di tante è dipeso dalla Corte Suprema. E dal suo potere eccessivo nonché dalla sterzata conservatrice impressa da Donald Trump nominando un terzo dei nove giudici alla più alta giurisdizione degli Stati Uniti.

Nel 2020 muore a ottantasette anni il simbolo progressista, la giudice Ruth Bader Ginsburg rimpiazzata da Amy Coney Barrett, cattolica pro-life, madre di sette figli, sostenuta dalla destra religiosa.

In effetti, la lobby ultraconservatrice si è mossa efficacemente nel proporre i suoi nomi a Donald Trump il quale, d’altra parte, obbediva ai propri interessi elettorali.

Così, in quattro anni, complice la saldatura tra Paperoni e working class o respinti dalla globalizzazione, negli Usa si rovescia il rapporto di forza e la Corte sopprime in questi giorni il diritto all’aborto demandando ad ogni Stato la possibilità di adottare le sue misure e contromisure. Si teme che la prossima vittima saranno le unioni civili e la risposta, oggi, consiste nel difendere la pillola abortiva.

Offensiva reazionaria repubblicana, certo. Nonché impotenza dei democratici di fronte all’estrema destra religiosa che comincia a muoversi sul terreno antiabortista fin da subito, dalla sentenza Roe vs Wade del 1973, con una propaganda capillare, bussando alle porte, servendosi dei social, dei canali mediatici, partecipando alla vita delle comunità.

L’America è sempre più polarizzata. A farne le spese i ceti più poveri, le nere, le minoranze. Secondo il “New York Times” il 42 % di quante sono in età procreativa vive negli Stati dove verranno adottate interdizioni totali dell’aborto. In dodici di questi è stato vietato oltre le sei settimane, un periodo nel quale le donne spesso non sanno di essere in attesa di un figlio. In altri il divieto comprende anche i casi di stupro e di incesto. Spostarsi dagli Stati antiabortisti sarà una delle possibilità per quelle donne che se lo possono permettere. Secondo il Guttmacher Institute, delle 862.320 che hanno abortito negli Stati Uniti nel 2017, i tre quarti erano povere o con un basso reddito.

Ma una certa idea di ordine che ristabilisce la centralità del maschile sta dilagando: riguarda le democrazie contemporanee; riprende slancio nelle autocrazie come nella Federazione russa di Putin. Contro il sesso femminile e contro il mondo omosessuale (sappiamo che la Polonia, dove l’aborto è vietato in molti casi, intende registrare le gravidanze attraverso una schedatura dei medici; abbiamo ascoltato le parole di Putin contro “la degenerazione” occidentale; abbiamo visto in televisione lo scatenamento della violenza a Oslo contro un locale gay).

Il populismo dilaga non solo normativamente. Bisognerà disobbedire. Intanto vale la replica di tante e tanti che pensano di finirla con i rapporti eterosessuali quando inclinano pericolosamente da una parte sola, quella maschile.


(DeA – Donne e Altri, 27 giugno 2022)

di Paola Mammani


È stato appena pubblicato dalla casa editrice Orthotes, La politica del desiderio e altri scritti di Lia Cigarini. Si tratta dell’attesa ristampa della raccolta originaria di testi che vanno dal 1974 al 1994, pubblicati da Pratiche Editrice a cura di Luisa Muraro e Liliana Rampello, nel 1995. Vi si aggiunge una ventina di testi che abbracciano gli anni dal 1999 al 2020. Il volume è a cura di Stefania Ferrando che firma la nota introduttiva, e di Riccardo Fanciullacci che chiude la raccolta degli scritti con un’inedita intervista all’autrice. In appendice è riportata l’intensa introduzione di Ida Dominijanni, alla prima edizione.

Disponibili, dunque, e riuniti in un solo volume, molti scritti di Lia Cigarini, avvocata, attiva nel femminismo fin dagli anni sessanta, teorica del pensiero politico delle donne, tra le fondatrici della Libreria delle donne di Milano nel 1975. La raccolta ci permette di seguire lo sviluppo del suo pensiero che tenacemente, per decenni, ha ricercato e trovato le parole per dire e rendere efficace e vera la ricerca di libertà femminile. Nei suoi scritti si ritrovano intuizioni, proposte di pratica politica che rimangono attuali per il movimento delle donne nel nostro paese e non solo. Per chi non c’era, perché era altrove o perché era troppo giovane, niente di meglio che abbracciare attraverso questi scritti mezzo secolo di impegno politico ed intellettuale. 

Si può dare un’idea solo approssimativa dei molti temi delineati negli scritti, si va dalla riflessione nei piccoli gruppi di autocoscienza, alla scoperta dell’importanza delle relazioni tra donne per prendere la parola e affrontare il mondo, non per chiedere uguaglianza o parità rispetto agli uomini ma per poter essere ciascuna libera di realizzare il proprio desiderio. Stare nella vita con agio, grazie anche alla forza che viene dalle donne che ci hanno precedute, pensatrici, scrittrici, artiste, è un obiettivo costante della politica concepita dall’autrice. Ancora, si troveranno scritti sul tema del lavoro e sulla ricerca dei modi possibili per una donna di portare con sé intero il suo desiderio anche in questo ambito, oltre a una più generale riflessione sulle difficoltà che donne pure decise e consapevoli, trovano nel rendere visibile e pubblico il proprio progetto di vita.

È attraversando questi ampi spazi che Stefania Ferrando, filosofa, da sempre attenta al pensiero delle donne, compone la sua introduzione. Prende le mosse dalla constatazione, per me emozionante, di aver già ereditato da sua madre, femminista, la consapevolezza che la vita di una donna può essere benedetta dalla libertà e dalla felicità assieme. Attraversa perciò il pensiero di Cigarini alla ricerca di punti d’appoggio che le servano per stare nel mondo realizzando quella promessa e compone una specie di itinerario di formazione, un suo personale programma di viaggio, scandito dal pensiero e dalle pratiche politiche che più sembrano utili al suo percorso.

Uno dei temi più importanti cui Cigarini dedica instancabile attenzione a partire dagli anni novanta e fino agli scritti più recenti, è la ricerca di una interlocuzione con gli uomini. Nei suoi scritti appaiono molte, vive relazioni di scambio con politici, studiosi, attivisti che si mostrano interessati e capaci di comprendere la forza dell’unica rivoluzione del secolo scorso che ancora agisce nel mondo, quella delle donne, come ha detto qualcuno. Ma nel complesso non vi è stata fino ad ora una risposta politicamente significativa ed efficace da parte degli uomini, alle pratiche politiche delle donne. È questa la constatazione di Lia Cigarini e la sfida che raccoglie Riccardo Fanciullacci, docente di filosofia. Nell’intervista, Fanciullacci insiste nella richiesta di chiarimento su punti che gli appaiono controversi o difficili da comprendere nella politica delle donne: in maniera esemplare, quel che sembra una mancanza di procedure o di un metodo che garantisca la possibilità di prendere decisioni. Come si decide quando si pratica una politica che rifiuta la logica della delega, della maggioranza che vince, dell’organizzazione che si sostituisce ai singoli? Come si decide se si pratica il partire da sé, se si è attente prima di tutto alle relazioni e si rifuggono le pratiche di costruzione e allargamento del potere? In che modo agisce quel che la politica delle donne chiama autorità femminile? Ed è questa in grado di determinare scelte e dirimere conflitti?

È uno scritto politico di grande interesse quello che Fanciullacci e Cigarini compongono nel loro scambio serrato, tutto da leggere e meditare.

E infine, la lingua di Lia Cigarini è cristallina, i suoi scritti sono come incollati alla realtà, al singolo problema da affrontare, alla concretezza della vita e delle relazioni tra le donne. E sono pieni di riferimenti, a un film, a un racconto, ad un’opera d’arte che hanno ispirato il pensiero. Quasi tutti brevi, fulminanti nella loro essenzialità.


P.S. Lia Cigarini ci chiede di comprare il suo libro (e anche altri libri) nelle librerie delle donne di Milano, Padova e Bologna invece che su Amazon che fa una concorrenza sleale alle librerie indipendenti. Comunque anche le librerie delle donne recapitano il libro a domicilio e la Libreria delle donne di Milano lo vende on line al seguente link https://www.bookdealer.it/goto/9788893143349/607


(libreriadelledonne.it, 27 giugno 2022)


Una volta incinta la donna scopre l’altro volto del potere maschile che fa del concepimento un problema di chi possiede l’utero e non di chi detiene la cultura del pene. Sotto questa luce la legalizzazione dell’aborto chiesta al maschio ha un aspetto sinistro poiché la legalizzazione dell’aborto e anche l’aborto libero serviranno a codificare le voluttà della passività come espressione del sesso femminile e a rafforzare ciò che sottintendono e cioè il mito dell’atto genitale concluso dall’orgasmo dell’uomo nella vagina. La donna suggellerà attraverso uno sdrammatizzato esercizio della sua utilizzazione la cultura sessuale fallocratica.

Cercare di mettere a riparo le nostre vite attraverso una richiesta per la legalizzazione dell’aborto porta sotto considerazioni pretestuosamente filantropiche e umanitarie al nostro suicidio: in modo indiretto viene riconfermata la prevalenza di un sesso su un altro intanto che l’altro sembra andare incontro alla sua liberazione.

Come portavoce dello sterminato numero di donne che hanno abortito e abortiscono clandestinamente consideriamo di fatto decaduta la legge anti-abortiva, ma soprattutto consideriamo decaduta quella cultura del pene all’interno della quale viene presentata come una vittoria del femminismo la concessione alle donne di affrontare la maternità come libera scelta, mentre in realtà il patriarcato consolida e aggiorna la sua gestione del mondo. Esso riafferma il prestigio di una cultura sessuale che mette incinte le donne negando loro il diritto a esprimersi nel sesso e enfatizzando invece la loro capacità a accordarsi e a favorire il piacere dell’altro, dell’uomo patriarcale.

Attraverso la diffusione di pratiche abortive e contraccettive egli si assicura che questo piacere non gli venga turbato dalla previsione di un folle sovrappopolamento del globo.

La liberalizzazione dell’aborto è diventata, attraverso millenni, la condizione mediante la quale il patriarcato prevede di sanare le sue contraddizioni mantenendo inalterati i termini del suo dominio. […]

L’aborto ammesso dalla società vuole prolungare e dare artificialmente nuova forza a un erotismo femminile che ha paralizzato e distrutto la donna durante 4000 anni.

Noi rivendichiamo una parte del nostro corpo che ci procura il piacere senza condannarci alla procreazione e ci sgancia dalla condizione emotiva di chi si dà da inferiore a un essere superiore. Per questo il piacere vaginale è stato enfatizzato da tutta una cultura maschile orientale e occidentale e ha trovato nella teoria freudiana e reichiana il puntello per protrarre la sua gloria ancora per un millennio.

Noi femministe arrestiamo questa congiura del potere maschile e ci salviamo dalla completa rovina.

Proviamo a pensare a una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalla donna: essa si manifesterà come sviluppo di una sessualità non specificamente procreativa, ma polimorfa, e cioè sganciata dalla finalizzazione vaginale. Non si tratterà più di preparare l’incontro tra il sesso di un soggetto egemone e il suo strumento, ma tra due soggetti umani, la donna e l’uomo, e i loro sessi (con ogni prevedibile e imprevedibili fluttuazioni nell’assetto eterosessuale dell’umanità).

Da luogo della violenza e della voluttà la vagina diventa, a discrezione, uno dei luoghi per i giochi sessuali.

In tale civiltà apparirebbe chiaro che i contraccettivi spettano a chi intendesse usufruire della sessualità di tipo procreativo, e che l’aborto non è una soluzione per la donna libera, ma per la donna colonizzata dal sistema patriarcale.»


Estratto da “Sessualità femminile e aborto” (in Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Milano, luglio 1971, Rivolta Femminile)


(Facebook – Omaggio a Carla Lonzi, 26 giugno 2022)

di Ida Dominijanni


Ci vollero tre anni e una maggioranza di sette giudici a favore e due contrari per approdare, il 22 gennaio 1973, alla sentenza Roe vs Wade, che rese l’aborto praticabile in tutti gli Stati Uniti ancorando al principio della privacy sancito dal 14° emendamento della costituzione l’autodeterminazione della donna sul proprio corpo e conseguentemente la sua libertà di scegliere se portare o non portare a termine una gravidanza. Ci sono voluti cinquant’anni e una maggioranza di sei giudici a tre per cancellare quella sentenza e con essa la copertura costituzionale della possibilità di abortire, rendendola disponibile alla decisione – e dunque alla maggioranza di governo – dei singoli stati americani e sottraendola all’autodeterminazione femminile. Significa che la possibilità di abortire dipenderà dallo stato in cui si vive, o dalla possibilità, innanzitutto economica, di recarsi in un altro stato. Da un diritto costituzionalmente protetto a livello federale si passa alla normativa dei singoli stati, e all’arbitrio delle maggioranze politiche di ciascuna legislatura.

Nel corso di questi cinquant’anni l’aborto non ha mai smesso di essere, negli Stati Uniti come in Italia e ovunque nel mondo, oggetto di una incessante guerra culturale fra sostenitori e avversari della libertà di scelta delle donne. La destra tradizionalista ha fatto per decenni dell’abbattimento del diritto di abortire la sua principale bandiera, ma è solo grazie all’arroganza con cui Trump ha ridisegnato a propria immagine e somiglianza il profilo della corte suprema, nominando tre giudici ultraconservatori, che infine è riuscita a sfondare. E già promette di estendere alla contraccezione, alle convivenze e al matrimonio omosessuale il principio “originalista” della sentenza antiabortista, ovvero un’interpretazione restrittiva della costituzione, secondo la quale quest’ultima va applicata in base all’intento e al contesto originari in cui nacque e che non prevedevano né l’aborto né altri diritti successivi. Il fatto dunque è massimamente sintomatico dello stato di anomia in cui la democrazia americana di ritrova dopo il terremoto trumpiano, come notano oggi tutti i quotidiani americani e italiani, connettendolo giustamente al più generale attacco alle istituzioni e alla più generale guerriglia civile innescati da Trump, nonché alle storture (quella del dispositivo elettorale in primis) di un sistema che sempre più palesemente favorisce la minoranza suprematista bianca, repubblicana e tradizionalista. Ma non si tratta solo di questo.

Il fatto è che in tutto il mondo la conflittualità geopolitica e sociale sta cercando una valvola di sfogo in una stretta del controllo sul corpo, la sessualità e la libertà femminili. Più l’ordine patriarcale traballa e degenera, più si vendica tentando di ripristinare il dominio maschile sulle donne: è un elemento centrale e cruciale, non accessorio o marginale, della crisi di civiltà che stiamo attraversando. Ed è un dispositivo che si attiva, sia pure a diverse gradazioni, a tutte le latitudini e sotto tutti i regimi politici, autocratici e democratici, laici e fondamentalisti. Che la libertà delle scelte riproduttive venga messa in discussione con argomenti non dissimili da quelli del patriarca russo Kirill proprio nella democrazia che in nome dei valori democratici sta combattendo una guerra per procura contro il regime autocratico russo suona dunque come una sonora smentita dell’ultima versione dello “scontro di civiltà” che anima e legittima la propaganda occidentale sulla guerra in Ucraina tentando di innalzare un nuovo muro fra “il mondo libero” occidentale e il dispotismo orientale. Avremmo preferito che questa sonora smentita non passasse sul corpo delle donne. Ma per gli autocrati e i tradizionalisti – esterni, come Kirill e Putin, e interni alle democrazie, come Trump e i suoi alti togati – si rivelerà un boomerang. C’è una legge storica fin qui mai smentita, ed è che dopo il femminismo novecentesco, sul piano della libertà riproduttiva le donne non arretrano. Non arretreremo neanche stavolta, come già dimostrano le manifestazioni che popolano le piazze americane, e presto potrebbero dilagare altrove attraversando le vecchie e le nuove cortine di ferro innalzate dagli uomini in guerra.


(Internazionale, 25 giugno 2022)