di Dorella Cianci


Strategie del dissenso «La forza di credere nella verità», diceva una scritta sorta in un luogo simbolo della capitale russa. L’autore non è stato individuato con certezza. Le proteste contro l’invasione dell’Ucraina non mancano, anche se spesso sono relegate alla clandestinità


Nel 1524, alla periferia di Mosca, sorse il convento di Novodevichij, in ricordo della conquista di Smolensk durante la ben nota guerra russo-lituana. Durante il periodo sovietico, quel luogo di culto cambiò il suo nome, privilegiando una fede diversa, cioè quella nel rivoluzionario Pjotr Kropotkin. È proprio davanti a questo edificio che, a fine giugno, pochi giorni fa, è sorta un’immagine. Pare sia stata opera di Vostok, spesso autore di graffiti. La scritta diceva «la forza di credere nella verità». Oggi questa scritta non c’è più e l’artista non rilascia dichiarazioni ufficiali.

Aggirandosi per Mosca, da settimane, può capitare di incontrare degli omini Lego o in plastica, che esprimono tutta la loro indignazione per quel massacro che sta accadendo nella vicina Ucraina, un tempo sorella. I giovani artisti si sono inventati diversi modi per manifestare il loro totale dissenso verso il governo di Mosca. La loro «operazione speciale»? «Attacchi d’arte» – li chiamano – diffusi per le loro strade, senza raccontar nulla ai loro genitori. Uno di questi «attacchi» è quello del movimento artistico Malekin Piket, partito da San Pietroburgo, ma ben più diffuso, da maggio, per le strade della capitale. Che cosa dicono questi omini in plastilina o in terracotta o in lana? Quello più noto è vestito di blu, con un evidente contrasto rispetto ai capelli biondi, per ricordare i vividi colori ucraini e in mano un cartello, con scritto, semplicemente, «Bucha».

Uno degli artisti, volutamente anonimi, ci ha detto: «Non servono tante parole per ricordare l’orrore subito in quella cittadina del nord, come nella Mariupol del sud. A noi basta testimoniare – anche se in forma anonima – e soprattutto insinuare il dubbio in chi si informa solo attraverso le voci della propaganda (cioè quasi tutte quelle provenienti dai media)». A chi li accusa di fare un gesto inutile, questi adolescenti rispondono: «Ma che cosa c’è di più inutile della guerra? L’arte fa germogliare i pensieri. La guerra uccide mente e corpo».

Intanto, in un noto cinema di Mosca, in queste ore, è apparsa una figurina al femminile, che dice: «Soldati, andate a casa. Il nemico non è l’Ucraina». L’obiettivo di queste ragazze e ragazzi russi? Raggiungere almeno le mille postazioni sparse fra le principali città della loro vasta terra. Ma non è tutto qui il dissenso di questi giovani! Vova Gupalov, per almeno tre settimane dall’inizio dell’invasione, ha riempito i quartieri più periferici di Mosca con scritte per la pace, riprendendo un suo noto murales del 2007 alla stazione di Babushkinskaja: questa volta lo squalo, uno dei suo soggetti preferiti, non ha una faccia anonima e animalesca, ma il volto dello zar del Cremlino, che mostra i denti. Dice Gupalov: «Inizialmente avevo pensato di riprodurre quel mural aggiungendo il terrore insinuato dallo squalo verso pesci più piccoli, ma l’arte non ha bisogno di retorica stucchevole. Non trovo onesto raffigurare gli ucraini come pesci piccoli. Si stanno opponendo da giganti e non farei un buon servizio alla verità né alla storia. Conta invece il fatto che quello sguardo di squalo abbia il volto inferocito, a prescindere da chi guardi».

La protesta dei più giovani si affianca a quella degli artisti più noti e coi capelli bianchi.

Vladimir Ovchinnikov – artista e ingegnere – ha trascorso decenni a dipingere murales nella sua piccola città, a sud di Mosca, ma, ad aprile, ha scoperto casualmente, grazie al suo vicino di casa, che alcune delle sue opere non sono più apprezzate dopo l’invasione russa dell’Ucraina. «Ci hanno dipinto sopra», ha detto Ovchinnikov, 84 anni, al momento residente in un villaggio vicino a Borovsk, a due ore di auto dalla capitale russa. Ovchinnikov aveva dipinto una bandiera ucraina su un lato dell’edificio, ma è stata ricoperta di vernice bianca. Dopo averlo saputo, si è precipitato dinanzi a quel mural coperto… Ha tirato fuori una matita nera e ha iniziato a disegnare una colomba bianca sull’intonaco. Un passante, vedendolo, gli ha detto che avrebbe chiamato la guardia municipale, ma Ovchinnikov ha continuato senza paura. «Alla mia età, non ho paura di niente Gli adolescenti fanno bene a protestare perlopiù in forma anonima. Hanno una vita per difendere la libertà e le loro idee», ha risposto. «Se ci sono denunce contro di me, se mi dovessero arrestare, nessuno ne soffrirà. Neanche io. Non mi piace questo volto senz’anima della Russia. A me piace la Russia della maestosa letteratura e ho sempre sorriso divertito leggendo il poeta Aleksandr Blok in Sciti. Noi non dovremmo far paura. Sì, siamo diversi dall’Occidente, ma questo non vuol dire peggiori, né senza scrupoli. Oggi, invece, mi vengono tanti dubbi… Perché, per noi, non esiste il limite del Purgatorio? Perché vediamo le cose in maniera così maledettamente bipartita?».

Come noto, da quando la Russia ha inviato truppe in Ucraina, il 24 febbraio, le autorità si sono mosse contro ogni segno di opposizione, anche artistica, all’«operazione militare speciale» nel Paese filo-occidentale. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati, i media indipendenti sono stati chiusi e diverse persone condannate e multate, in base a una legge che ritiene reato «screditare» le forze armate russe. Screditare diventa, in questo caso, sinonimo di «disegnare». Ovchinnikov è uno di questi dissidenti. È stato multato per 35.000 rubli dopo aver disegnato una bambina con i colori della bandiera ucraina, con tre bombe appese sopra la sua piccola e bionda testa, su un edificio fatiscente a Borovsk. Anche quest’opera è stata imbiancata. Ad oggi il vecchio ingegnere ha ricevuto più di 150 donazioni dalla gente del posto – ovviamente concittadini russi – per aiutarlo a pagare l’assurda multa. Ovchinnikov è molto noto in città, soprattutto per un disegno parietale sulla liberazione della sua regione dalle truppe naziste nel ’42. Quel dipinto non è stato cancellato e lui commenta, citando la giovane artista, che si fa chiamare Slava: «Com’è possibile che la storia non lasci briciole o graffiti per strada?».


(il manifesto, 23 luglio 2022)

Proseguono i liberi scambi di riflessioni a partire dall’attualità. Oggi ci incontriamo in occasione della giornata nazionale di mobilitazione per la pace (Campagna Europe for Peace). Le armi sono la negazione della politica

di Lea Melandri


In tanti anni di teorie e pratiche di femminismo, mai ho incontrato pagine di una consapevolezza così profonda e di un coraggio così sorprendente nel nominare ciò che resta innominabile della relazione tra uomini e donne, dalla quotidianità dei matrimoni al sogno d’amore, mai una messa a nudo così libera, diretta e impietosa delle ambiguità e contraddizioni che passano attraverso la violenza invisibile del patriarcato, come nel libro di Alice Rivaz La pace degli alveari (Paginauno edizioni 2019).

«Siamo rimasti a guardarli mentre si scatenavano. È proprio quello che, da madri, reprimiamo nei nostri figli piccoli, che ammiriamo nei nostri bambini diventati uomini. Quel gesto che meriterebbe il biasimo, se non una sberla, basta che il ragazzino sia diventato adulto ed ecco che le donne gli danno un altro nome. Come le parole “crudeltà” e “violenza” che diventano di colpo coraggio e eroismo.

(…) Noi facciamo e loro disfano. Disfano persino, poco alla volta, le loro stesse teorie, il credo di una generazione con quello di un’altra, cercando nomi sempre nuovi per giustificare le loro dementi carneficine. (…) Quella complicità tra i sessi, se ne conosce fin troppo bene la causa, tuttavia non è per forza inevitabile.»

Né romanzo, né diario, la scrittura di Alice Rivaz ha l’andamento originale di quel felice divagare dei pensieri che una donna sposata conosce nei rari momenti in cui riesce a rimanere sola e a ritrovare i “poteri” che aveva perduto “smettendo di esserlo”. Basta un’assenza per rendere possibili svelamenti trattenuti a lungo, per poter dire “credo di non amare più mio marito”, e riconoscere che nel “penare così tanto”, lavorare così a lungo “per lui” e “a causa sua”, non è l’amore che si misura ma “l’obbedienza”, il termine che a poco a poco lo sostituisce, «quando le squame cominciano a caderci dagli occhi e osiamo chiamare gli esseri e i sentimenti con il loro vero nome». Eppure, è proprio quando ha inizio la delusione della vita a due, quando si smette di amare o di essere amati, che il richiamo dell’amore torna a farsi sentire, come nostalgia del legame perduto o attesa di nuovi rapimenti, di gioie amorose provate solo in sogno. «Adesso ho proprio bisogno di confessarlo: vorrei ancora un altro amore (…) mi aspetto ancora qualcosa, lo sento, da questa razza straniera con la quale noi dividiamo la nostra casa, il nostro letto, la nostra vita (…) Il fatto è che noi eravamo delle innamorate, e loro hanno fatto di noi delle casalinghe, delle cuoche. Ecco cos’è che non riusciamo a perdonargli.» La “tragedia della coppia” sembra non conoscere cambiamenti generazionali: le zie, le madri, le nonne, «è la loro vita che sto rivivendo», ammette Jeanne la protagonista del libro di Alice Rivaz. Lei sa, vede o indovina quello che succede alle sue amiche: «sempre gli stessi desideri, lo stesso bisogno divorante, quello di essere ammirate, amate, preferite, quello di suscitare, di forzare l’amore». Unica differenza è che al senso del dovere e alla venerazione del maschio sono subentrati il malcontento, la rivolta, l’astio, la capacità di riconoscere la propria insoddisfazione, ma poi di nuovo il conformismo femminile: la tentazione delle donne di giocare le attrattive che l’uomo ha loro attribuito: la bellezza, la devozione, il sacrificio, quel culto di loro stesse che continuano a cercare nello sguardo, nei gesti, nelle parole dell’altro. «Essere tutto quello che hanno detto che eravamo.» C’è anche qualcuna che continua a sfidare la crisi del matrimonio affrontando l’amore a viso aperto, per farlo durare, «per impossessarsene, per trasformarlo in un ospite quotidiano, a loro misura». Ma ci vuole per questo una grande ostinazione, «un’anima da capomastro sempre pronta ad intonacare, a camuffare le crepe e le fessure che, giorno dopo giorno, sgretolano la vita di coppia». Nel suo libro, altrettanto coraggioso nel nominare gli aspetti più impresentabili del rapporto tra i sessi – Smarrirsi in pensieri lunari (Graus Edizioni 2007) – Agnese Seranis scrive che c’è nell’amore una terribile necessità. È la stessa che troviamo nelle costruzioni di genere, che, nella loro complementarità, strutturano perversamente logiche di potere e ricongiungimento armonioso di “nature diverse”. Ancora più radicale nel marcare sia la distanza che l’ambigua complicità tra uomini e donne è Alice Rivaz. Gli uomini sembrano appartengono a una “specie diversa”, una “razza straniera” che le donne incontrano solo nell’amore, tanto da dubitare di poterli vedere davvero come “persone”. Fatti per vivere tra di loro, una “confraternita nell’avventura” che li spinge, una generazione dietro l’altra, verso la lotta e la morte, che cosa hanno a che fare le donne con “pazzi del genere”, con le loro incomprensibili carneficine? «Insegniamo loro a camminare, a parlare, li educhiamo e li vestiamo. Ma non appena sfuggono dalle mani, dalle nostre case, dalla sorveglianza vigile dei nostri occhi, eccoli sparire in massa. Dove vanno? Cadono a milioni, gli occhi chiusi dall’orrore, su tutti i campi di battaglia del mondo.» Pubblicato nel 1947 a Losanna, l’eco della Seconda guerra mondiale non poteva non farsi sentire, nel libro di Alice Rivaz, evocare le figure della virilità guerriera che hanno segnato la storia, da Attila a Hitler. Tuttavia è nel quotidiano, nella divisione sessuale dei compiti domestici, nel lavoro delle donne “senza inizio né fine”, come quello di un contadino che non conoscerà mai la ricompensa del raccolto né momenti di svago, che Jeanne arriva a pensare come esempio di perfetta organizzazione di vita e lavoro, quella delle api, con la sua «messa fuori gioco, metodicamente voluta ed operata, dei maschi piantagrane. Sacrificarli, comunque, affinché l’alveare viva». Ma subito dopo aggiunge «Noi non siamo delle api» e basterebbe, non tanto privare gli uomini dell’amore, ma smettere di fargli da mangiare e prendersi cura di loro, smettere di ascoltarli come un «coro laudativo di serve». Nelle pagine finali colpisce un’osservazione che sembra portare a un ulteriore svelamento dell’ambigua relazione di amore e odio tra i sessi. L’incontro con un uomo cosciente della «tragedia della coppia», ma vista dall’altra parte, porta la protagonista del libro a chiedersi se il nemico non sia l’altro, ma l’amore stesso, «l’amore frainteso», quell’ambiguo legame che l’amore ha con la violenza. Finché i baci sono «già degli stupri, delle prese di possesso, un forsennato calpestio», è chiaro che la tenerezza, la comunione con l’altro, resta quella dei sogni, dell’idealizzazione amorosa, o quella che scorre dai genitori ai figli nell’infanzia. Non è difficile capire, di fronte a una lucidità che ha ancora molto da dire al femminismo oggi, perché il libro di una coscienza anticipatrice come Alice Rivaz abbia avuto bisogno di essere riscoperto, sottratto al silenzio, per non dire all’ostilità che ne accompagnarono l’uscita.


(Il Riformista, 20 luglio 2022)

Intervista a Luisa Muraro

a cura di Vita Cosentino e Laura Colombo


Cosa hai pensato quando Emma ha parlato del rapporto con sua madre (lì presente) come fonte di forza?

Ho pensato che c’è stato un grande cambiamento rispetto a quando io ho cominciato a fare i conti col rapporto con mia madre. Io e le altre abbiamo cominciato a tirar fuori il problema della madre, perché era un problema, un problema anche grave, c’erano i contrasti, c’era la disaffezione, c’era un tentativo di prendere le distanze. Nel gruppo che frequentavo si aveva un rapporto tra di noi che non somigliava e non prendeva niente dal legame con la madre, e quando abbiamo cominciato a parlarne era proprio perché sentivamo il problema; però lo sentivamo, dunque c’era qualcosa che non ci andava bene e ci lasciava perplesse. Cercavamo di ricostituire con la madre un rapporto che non era quello vero, quello che realmente c’era stato. Quello che realmente c’era stato, era stato di solito di difficoltà, perché noi aspiravamo soprattutto a una cosa di emancipazione, di indipendenza, dalla madre, dalla figura materna. La madre di solito era vista come la portatrice della volontà del padre, era molto questo. Lo era effettivamente, questo, e il cambiamento è venuto più dalla parte delle madri. Poi, il cambiamento che ho notato, però, è venuto da ambo le parti, perché noi stesse abbiamo cominciato, facendo i conti con questo rapporto, a vedere che c’era qualcosa che ci sfuggiva nelle madri, sì, che le madri non erano felici così, come portatrici della volontà del padre, non erano veramente felici… e che avevano qualcosa da chiederci.

Nel senso che vedevate che c’era qualcosa in più che non veniva compreso dal loro assoggettamento al patriarcato, insomma? Che c’era qualcosa che andava tirato fuori?

Che andava tirato fuori, che c’era… nel rapporto con la madre? Sì. Non lo so, erano diversi questi rapporti, erano diversi dall’una e dall’altra. Per mia madre, che mi aveva preferita tra le figlie, io sentivo un’affezione vera, lei poteva anche essere dalla parte del padre… Mio padre era una figura sbiadita per me… Da parte mia, c’era nel nostro rapporto una notevole affezione, ma che era controversa. Infatti, ancora adesso io ho come il dispiacere per non avere compiaciuto mia madre più di quello che ho fatto, perché lei aveva una vera affezione per me, mi considerava quella che le somigliava di più delle sue figlie, e soprattutto lei ha sempre incoraggiato la mia autonomia… addirittura lei si aspettava che io non mi sposassi, cioè aveva per me un sogno che assomigliava a quello che aveva per sé, una vita intellettuale, sembrava. Insomma, nel caso mio era un rapporto ambivalente, e quindi ho lavorato sinceramente per fare i conti e metterlo a posto.

Questo era… Alcune avevano dei buoni rapporti, ma di solito eravamo indifferenti. Ma è dall’indifferenza che siamo passate abbastanza presto a chiederci… e io, sì, non sono mai arrivata ad avere un’amicizia come quella di Emma, un sentimento così, mai. Sono sempre stata ambivalente, però siamo arrivate ad avere la figura materna in considerazione, a sentire che ci veniva forza da lì, che poteva venirci forza da lì, cioè a riconoscere che non era un rapporto di sudditanza al padre, che c’era come dire, sì, un desiderio di indipendenza, che c’era una profonda vena di indipendenza, rispetto al marito, che c’erano… sì, siamo arrivate a questo alla fine, a capire che era un rapporto in cui il padre poteva essere messo da parte e nasceva un rapporto autonomo, indipendente, cioè un rapporto tra donne, che lei non era… c’era sorellanza, c’era qualcosa di più. È stato questo.

Io vado lì col ricordo ogni tanto, e mi dispiace di non aver fatto capire a mia madre più fortemente che la tenevo in conto, per sé stessa, come fonte di forza.

Cioè, quella cosa che hai visto stava facendo Emma all’incontro di Via Dogana?

Sì, quella cosa lì, per esempio, non l’avevo.

Forse il cambiamento è proprio che adesso è possibile.

Sì, ci siamo portate sull’orlo di questa cosa.

Altra questione: gli uomini. È in corso un cambiamento epocale, ma gli uomini stentano a recepirlo. Anzi, oggi con la guerra in Ucraina sembrano maggiormente in campo le forze per contrastarlo il cambiamento con le logiche più distruttive della concezione maschile del mondo. Tu cosa pensi? A che punto siamo?

Io non ho legami maschili, con uomini, tranne con mio figlio e la sua discendenza, sono gli unici, sì, c’è stato Stefano… Insomma, quei pochi uomini.

Anche Riccardo Fanciullacci l’hai avvicinato tu al pensiero della differenza

Sì, Riccardo, con Riccardo Fanciullacci ho un rapporto, sicuramente è un rapporto. Ci sono uomini che fanno eccezione, tra i quali voglio ricordare Otto Schily, l’ex ministro degli interni tedesco, il quale denuncia il bellicismo che si è diffuso in Germania sottolineando l’urgenza di idee nuove che portino alla fine del conflitto in corso. Ma non sono gli uomini di cui tu parli nella domanda, che adesso gli uomini sono… Ridimmi un po’?

Insomma, con questa guerra sono riprese le peggiori logiche patriarcali che sembravano messe da parte e c’è una ripresa di centralità maschile. la Dominijanni ne parla come di una rivalsa nei confronti del virus Cioè, c’è una situazione difficile ed è su questo che vogliamo sentirti.

Allora, sulla guerra quello che ho notato, che tendo a notare, è l’abdicazione delle donne dalla loro autorità, più che altro. Cioè che gli uomini siano come presi dalla logica della guerra, quelli che si notano, i dirigenti politici, gli uomini in genere che si fanno notare, non mi fa nessuna meraviglia. Non si erano spostati da lì. Sì, mostravano di tenere in conto, tendevano ad avere registrato che le donne erano diverse, insomma, sembrava di sì, anche nei paesi diciamo di tradizione più maschile, ecco, sembrava che avessero registrato che le donne, sì, bisognava trattarle diversamente, e cominciavano a trattarle diversamente. E credo che, più o meno, il cambiamento non era particolarmente forte prima della guerra, ma sembrava che fosse la direzione verso cui erano indirizzati, e non lo sono più. Ed è il fatto della guerra, sicuramente, ma questo solo i dirigenti politici. Non è che gli altri… gli uomini che… mah, non lo so. Io… non ho mai, mai avuto un grande interesse per gli uomini nel mio femminismo, ecco. Non l’ho mai avuto e non mi sembra che molto dipenda dagli uomini. Non mi sembra.

In che senso questo tuo disinteresse?

Sono le donne che sono più importanti, secondo me, ecco.

Sì, nella questione della guerra… è che le donne mi hanno delusa. Gli uomini, certo, si sono messi in quella posizione che dite voi nella domanda, e sono stata anche sorpresa di notare come siano tremendamente attaccati alla guerra. Sì, insomma, sono molto… guerrafondai. Cioè, la cosa della guerra si sente che li convince, la assumono, se avessi avuto delle aspettative sugli uomini, mi deludevano gli uomini, ma non avevo aspettative dalla loro parte. Avevo aspettative dalla parte delle donne, e sono piuttosto delusa, ma non dalle donne in generale, da quelle che hanno fatto carriera. Quelle che hanno fatto carriera sono nell’insieme passate così, dalla parte degli uomini, poi le altre sono piuttosto… Comunque, certamente la delusione mia viene dalle donne soprattutto. Per esempio, appunto, io pensavo che le donne avrebbero, che avremmo messo in discussione la NATO, invece viceversa, è la NATO che sembra suscitare più entusiasmi. Quella che più delude è la segretaria, la capa, la Von der Leyen. Quando la vedo, vedoil compiacimento di essere così brava nel confronto bellico, di essere nella posizione giusta, buona, vera, valida, quella contro la Russia, dalla parte dell’Ucraina. Io sento in lei un di più, sarà sempre la stessa, ma insomma, si è riscattata da quella volta che da Erdoğan l’hanno lasciata senza la sedia. Ursula Von der Leyen, che era stata umiliata, per lei era stata un’umiliazione, anche per noi donne, ma adesso si è riscattata. La vedo così, e più che gli uomini, per quanto sì, anche gli uomini adesso sono molto su quella lunghezza d’onda lì…

E allora sento come che le cose sono andate a ramengo, cioè, che è un modo di dire veneto che vuol dire perso… e tendo a pensare che abbiamo perso. Non tutto. Ma il confronto, questa prova della guerra ci ha visto perdenti, ci vede perdenti. Appunto, l’idea che la NATO sarebbe stata messa in difficoltà, invece è il suo contrario. La NATO risorge, risorge perché gli uomini vogliono così, ma le donne ci hanno messo del loro, ci hanno messo. Sì, è pessimista la mia conclusione sulla guerra.

Certo gli uomini che vediamo noi non sono tornati indietro, quelli, sono rimasti… cioè hanno capito qualcosa delle donne, e l’accettano, e ci stanno e si sono, diciamo, umanizzati, quindi sono usciti da quella posizione neutra, neutra-superiore. Ma quelli che dirigono gli affari pubblici, li dirigono da uomini, e adesso sono affari pubblici di guerra, e sono vecchio stile insomma, e non ci sono segni che sono cambiati e che, ripeto, per me non è tanto una cosa sorprendente, perché prima non è che mi fossi fatta l’idea che fossero chissà che cosa.

Durante l’incontro di Via Dogana si è molto parlato di mediazione e contrattazione. Tu a un certo punto hai esclamato: “con Putin non si contratta”. Quali sono per te i limiti della contrattazione con gli uomini?

Io dico non la contrattazione con gli uomini, con gli uomini fondamentalmente si tratta di autorità, non si tratta di contrattare, perché non è quello che passa tra un uomo e una donna. Tra un uomo e una donna c’è la questione che lui senta che lei ha autorità, questa è la cosa fondamentale. Che poi ci possa essere anche il momento… ma non so. No, l’uomo ha da sentire l’autorità femminile, e deve sentire che la donna, la differenza femminile lo aiuta a ritrovarsi… a essere se stesso, sennò… Questo è essenziale per me. La differenza femminile è la cosa che mette a posto in un uomo la sua maschilità, gliela fa calibrare nel modo giusto, sennò, se non sente l’autorità femminile, va fuori, va a fare l’uomo.

Allora io dicevo, se vado da Putin, non vado a contrattare, vado a fargli sentire l’autorità femminile. A proposito di mia madre, devo dire che io a un certo punto le ho riconosciuto questa autorità femminile, che la esercitava e la sapeva esercitare nel modo giusto, adesso io lo dico tardi, ma insomma, lei faceva sentire a mio padre, faceva sentire a noi ma a suo marito soprattutto, che l’autorità femminile è la cosa che mette un uomo a posto con sé stesso.

E questo io vedo che si aggancia molto bene al cambiamento che sento, soprattutto nella paternità. Perché se c’è un movimento della madre di lasciare spazio al padre, quando lo decide, sulla creatura, allora il padre sicuramente riconosce l’autorità femminile

Sì!

Perché è impossibile non riconoscerla, perché si tratta del saper fare con la creatura piccola, del sapersi comportare in un modo che si adatta di volta in volta alla relazione che cambia quando sono molto piccoli. Loro non lo sanno fare. E anche solo questo, se lasci spazio e dici “lo puoi fare anche tu”, loro si mettono a posto è esattamente quello che hai detto tu, esattamente. È un segno che, sì, questa cosa è il riconoscimento dell’autorità femminile che fa succedere qualcosa, che fa succedere il cambiamento.

Sì, una mediazione, l’ho trovato scritto nel libro di Lia, a un certo punto non so più dove, «una mediazione necessaria per l’uomo», l’autorità femminile, la differenza femminile in quanto autorevole.

Però, se torno a Putin, in un uomo che si comporta da uomo come hai detto tu, e quindi ha la logica del potere, patriarcale, della sopraffazione, della forza, quel che vuoi tu La potrà vedere l’autorità femminile? La può sentire?

Certo che può, certo che può, certo!

Ed è la cosa che bisogna riuscire a realizzare nel rapporto tra donna e uomo. Questa cosa qui.

Che travalichi l’ambito della genitorialità? O del rapporto amoroso-amicale?

Sì, sì, sì! Adesso lo si vede nell’ambito della genitorialità, si vede di più come tu lo descrivevi, quando la madre lo investe di saper fare con la creatura, come l’uomo si riprende e si ritrova in questa posizione di padre, che lo sa fare. Ecco.

Allora, è questo. Altrimenti, quello che conta sono i rapporti tra donne, che devono essere impostati nella stima reciproca, nell’amore anche…

Ammirazione, fiducia

Queste cose qui, sì. Mentre con l’uomo si tratta essenzialmente che l’uomo deve sentire l’autorità di lei e saperla utilizzare come una mediazione, come… ecco. Insomma, è questo.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 20 luglio 2022)

di Lia Cigarini


Laura Colombo ha parlato di contraddizioni che si sono aperte nel movimento delle donne con la guerra. Ha ragione.

La precedente situazione, infatti, era del tutto diversa: il Me-too nato negli Stati Uniti ma che ha coinvolto donne di tutto il mondo; l’Europa in mano a Merkel in Germania, con le sue due consigliere donne; Lagarde alla Banca Centrale che parlava di relazione materna e Von der Leyen alla Commissione Europea. Donne che hanno affrontato la crisi economica dovuta al Covid con saggezza, a differenza di quanto si era fatto nella precedente crisi del 2008. Oggi invece con l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, Lagarde tace, Von der Leyen fa la guerriera e la vicepresidente ucraina chiede armi e uomini per vincere la guerra.

Non solo, le prime ministre della Svezia e della Finlandia chiedono di entrare nella Nato, abbandonando la prima duecento anni di neutralità e la seconda almeno ottanta.

Dunque ci troviamo di fronte alle contraddizioni a cui faceva riferimento Laura Colombo. Niente di male. Le contraddizioni se bene analizzate spingono in avanti il pensiero.

La situazione è nota a tutte/tutti: la Russia ha invaso l’Ucraina perché questa vuole entrare nella Nato. La Russia non vuole essere circondata da basi e missili della Nato, che per di più è comandata dagli americani.

Allora perché sbagliano queste donne? Al di là addirittura del pensare e del volere degli uomini.

Secondo me stranamente per il sentire, cioè il rispondere immediatamente all’emozione, alla paura che i loro paesi potrebbero essere invasi dalla Russia. Non per ragioni di potere, quindi, ma al contrario di un sentimento di paura.

Chiara Zamboni, forse la prima a scrivere del sentire delle donne lo ha sempre abbinato alla ragione. Non si tratta però della ragione, il bene più prezioso della cultura maschile, bensì di quella che abbiamo chiamato lingua-ragione.

Nel Sottosopra “Un filo di felicità” (gennaio 1989) abbiamo scritto: «Se ora consideriamo la società con i suoi molti sistemi di scambio, vediamo che l’orizzonte della libertà femminile si allarga grazie alla mediazione dei rapporti tra donne e che questi operano come i segni di una lingua. La lingua delle donne articola il sapere e la materia, prima opaca, che era l’esperienza femminile del mondo. Ragione femminile che nasce come lingua e ne porta in sé alcuni tratti tra i quali, oltre alla disponibilità di prendere o cedere significato, c’è la capacità di farmi passare dal mio io esistenziale alla realtà oggettiva, e viceversa. Ma non una parola sulla quale potremmo agire come ci pare, al contrario. Il suo primato le viene dall’essere il senso della realtà che cambia: quello che le cose vogliono dire».

Quindi quando discutiamo della guerra in corso e delle scelte delle donne riferiamoci al primato della parola, perché forse alcune delle nostre parole sono logorate.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 19 luglio 2022)

di Luciana Tavernini


In paesi a regime parlamentare la proposta di un disegno di legge innovativo indica che una parte dell’opinione pubblica ha preso coscienza dell’ingiustizia di una determinata situazione e, con la discussione che suscita, permette di sviluppare il dibattito.

Ho dunque accolto favorevolmente la presentazione al Senato del DDL S. 2537 soprattutto perché, sul modello neoabolizionista, amplia la legge Merlin prevedendo la punibilità del prostitutore, colui che paga per avere accesso al corpo di una donna, e istituisce fondi per chi desidera uscire dal sistema prostitutivo, soprattutto donne e bambine. Infatti «i dati raccolti da United Nation Office on Drugs and Crimes (UNODC) nel Global Report on Trafficking Persons del 2018 mostrano come su un campione di 12.162 donne vittime di traffico di persone, ben 77% di esse sono trafficate a fine di sfruttamento sessuale nel mercato della prostituzione, mentre tra le bambine e le ragazze, su un totale di 4.863 vittime accertate, il 72% è trafficato per lo stesso fine e destinato allo stesso mercato». Inoltre «i dati pubblicati dalla Commissione europea nel 2018 mostrano che tra le vittime di tratta per sfruttamento sessuale, ben il 95% è composto da donne e bambine».*

Quando sentii parlare per la prima volta della legge svedese che dal 1999 considera il prostitutore colpevole di violenza, quindi da punire, e che ha ridotto del 65 % il numero di persone in prostituzione, il primo effetto fu di incredulità, ma poco dopo fu di chiarificazione. 

Dalla lettura del libro Stupro a pagamento di Rachel Moran, una delle sopravvissute al sistema prostitutivo, e direttamente da lei, avendo avuto la possibilità di conoscerla personalmente e di ascoltarla anche nella sua video-intervista a Nuccia Gatti No room inside me for me, avevo imparato che la prostituzione è uno stupro a pagamento. Produce forme di dissociazione nelle prostituite, oltre alla riduzione della loro speranza di vita, e dunque la prostituzione è un delitto contro la persona.

Può allora la legge lasciare impunito colui che produce questa riduzione a merce del corpo femminile, spezzettandolo e separandolo dalla pienezza dell’unità della persona?

Certo che le pretese maschili di considerare le donne corpi a loro disposizione sono dure da smantellare. Basta pensare che solo dal 1996 lo stupro in Italia è diventato reato contro la persona, mentre prima la donna non veniva neanche presa in considerazione perché lo stupro era considerato solo come delitto contro la morale. 

Carla Corso, che aveva fondato nel 1982 il Comitato per i diritti delle prostitute per protestare contro le violenze di cui erano autori impuniti i militari della base statunitense di Aviano, nel libro scritto con la sociologa Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, descrive la sua esperienza, ne mostra i pericoli ed è ben consapevole che nello scambio prostitutivo non è previsto il piacere femminile.

Ma una modalità di relazione tra uomini e donne che non preveda la ricerca del piacere di lei può essere chiamata sesso?

Lo scambio di denaro giustifica la privazione del piacere di lei e la trasforma in lavoro?

Non basta che passi del denaro perché sia rispettata la dignità del lavoro, come conferma la sentenza n. 141 del 2019 della Corte Costituzionale.

Chiamare la prostituzione Sex work è dunque solo una ripulitura della terza industria illegale dopo quella della droga e della vendita di armi. Una ripulitura simile al chiamare gli schiavi “addetti alle piantagioni” come proponeva uno schiavista contrario all’abolizione della schiavitù. Infatti il titolo del libro, che guarda con grande attenzione alla situazione italiana, afferma con forza che la prostituzione è: Né sesso né lavoro.

Se dunque è una violenza maschile contro le donne, perché non dovrebbe essere prevista una punizione per chi la mette in atto? La legge, soprattutto per gli uomini, discrimina tra ciò che è lecito e perciò si può fare, e ciò che è proibito.

Julie Bindel, autrice di Il mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, un’inchiesta a livello mondiale con oltre 250 interviste a persone coinvolte a diverso titolo nella prostituzione, invitata in un recente convegno organizzato al Senato, ha raccontato un episodio capitatole mentre volava verso New York, seduta tra un giovane svedese e uno olandese. Il primo sentiva che la prostituzione avrebbe sminuito anche lui e i suoi rapporti con le donne, il secondo la considerava un divertimento lecito senza curarsi delle conseguenze sulle donne.

Perché non usare una legge che punendo indica agli uomini che comprare l’accesso al corpo femminile non è lecito?

Certamente vi sono uomini che sanno capire quando una loro azione fa del male, che sanno come il piacere sia più grande quando è scoperta insieme della diversa sessualità di entrambi. Che sanno cos’è l’irrinunciabile per la dignità del lavoro e che, quando viene lesa per le donne, anche per loro è a rischio. Uomini che si sono modificati in relazione con donne che, amando sé stesse, sanno amare e farsi amare. Sapranno questi uomini, nel dibattito che già questa proposta sta suscitando perché tocca gli interessi delle lobby che lucrano sul corpo delle donne, far sentire quanto la prostituzione riguardi anche loro?


(*) Questi dati sono citati nella relazione introduttiva al DDL S. 2537 XVIII Leg., Modifiche alla legge 20 febbraio 1958, n. 75, e altre disposizioni in materia di abolizione della prostituzione

– Julie Bindel, Il mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, VandA.epublishing, 2019

– Carla Corso, Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, Giunti, 1991

– Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, VandA.epublishing, 2019

– Rachel Moran, Stupro a pagamento, Round Robin, 2018

– Caterina Gatti, No room inside me for me, docufilm, 36’, 2021, per informazioni nuccia.gatti@gmail.com

– Prostituzione, l’Italia è pronta per il modello nordico? Confronto tra modelli legislativi UE e presentazione del progetto di rafforzamento della legge Merlin, Convegno al Senato su iniziativa della senatrice Maiorino https://youtu.be/uxQTBL0HGfQ L’intervento di Julie Bindel è a h.1’30”

 La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti. Redazione allargata di Via Dogana 3, 6 ottobre 2019. Nel sito della Libreria delle donne gli articoli sul tema.


(www.libreriadelledonne.it, 18 luglio 2022)

di Grazia Villa


Il 26 agosto 2022 Paola avrebbe compiuto 95 anni: nata a Napoli nel 1927, si è spenta a Roma il 13 luglio. Impossibile condensare in qualche riga la biografia umana e politica di questa donna del “Novecento incompiuto”, quasi un secolo di vita, quel secolo breve da lei non solo studiato, ma vissuto intensamente.

Nel 2010 decise di narrare la sua storia nel libro Passare la mano. Memorie di una donna dal Novecento incompiuto (Ed. Viella, Roma).

«Ormai prossima, per ragioni naturali, al congedo, (…) ho voluto ricostruire qui la vicenda personale, soggettiva, di una donna del Novecento che si è trovata con la sua generazione, entro la straordinaria avventura che ha iniziato – solo iniziato, e con qualche scandalosa regressione, come lo scorcio del 2008 ha messo in evidenza – a chiudere le pratiche di millenni di storia, la riduzione delle donne al piacere maschile e la negazione della loro piena soggettività politica». (Chissà, oggi Paola Gaiotti forse avrebbe evidenziato ben altre regressioni!)

L’autrice, nelle pagine conclusive del bellissimo testo che meriterebbe di essere adottato come libro di autentica storia vivente, annota: «In realtà, al di là dei miei stessi propositi, sento ora, mentre chiudo queste pagine, di dover ammettere che proprio quella straordinaria novità rendeva inevitabilmente il ricordo altro da una scrittura femminile privata; voleva alludere di fatto, pur fra scarti e parzialità, a una biografia finalmente collettiva, di donne di uomini, a un intreccio di volontà, di riflessioni, di obiettivi e di progetti, in un intreccio di gratitudini».

Tra queste donne, in questo intreccio di volontà, di riflessioni e progetti ci sono anch’io, in una relazione politica maturata dopo il prezioso primo personale incontro nella Lega Democratica, insieme a molte amiche e amici della Rosa Bianca, che mi/ci consentono di affermare che di questa straordinaria vicenda umana, della ricca vita di Paola Gaiotti de Biase abbiamo fatto parte, facciamo parte anche noi. Almeno per un buon tratto di strada, quel passaggio epocale per lei e per noi che fu il decennio tra il 1974/75 e il 1986/87, scandito dalla vivace esperienza comune della Lega Democratica.

Un periodo troppo spesso associato agli “anni di piombo”, con al centro il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, a cui Paola Gaiotti dedica il capitolo più lungo delle sue memorie (ben oltre 50 pagine), ma che lei vuole ricordare non solo per violenza e terrorismo, ma anche per tutte le speranze di miglioramento di una società sclerotizzata, un periodo anche di grandi riforme scolastiche, sanitarie, di affermazione dei diritti della persona, delle donne, del lavoro e di partecipazione civile.

Qui si colloca il nostro impegno comune nell’associazione Lega Democratica che, come annota anche Vincenzo Passerini nel suo ricordo di Paola Gaiotti, fu «una straordinaria occasione di lavoro intellettuale collettivo, di amicizie e di incontri, di crescita personale e di amarezze, qualcosa che ha segnato per sempre le nostre vite, le nostre relazioni, i nostri sentimenti, vorrei dire il nostro stare al mondo insieme, nella realtà concreta del nostro paese in quella fase della sua storia» (Passare la mano, p. 156).

Per noi 25/30enni di allora un luogo di formazione personale e politica, una palestra di allenamento della mente e di apprendimento dei linguaggi della politica, quella “alta” come amava definire e scrivere la stessa Gaiotti, di misurazione con i principi di realtà è al contempo con quelli del “non appagamento”, di confronto serrato con degli adulti/adulti, spesso dell’età dei nostri genitori, nel caso di Paola e del caro tanto amato Angelo Gaiotti anche più grandi dei miei, che si mettevano al nostro fianco, ascoltandoci, dandoci credito, lasciandosi criticare, persino attaccare, con franchezza e mitezza, al contempo esigendo da noi serietà, impegno e responsabilità.

Ciò avvenne in maniera più forte e intensa nel periodo in cui con Fulvio De Giorgi e Beppe Tognon, due coetanei, con i quali venni eletta nella Giunta della Lega democratica in rappresentanza dei più giovani. Tutti intorno a un tavolo, a discutere di politica, economia, finanza, lavoro, diritti, pace e tanto altro ancora, alla pari con Pietro Scoppola, Achille Ardigò, Roberto Ruffilli, Nicola Lipari, Paolo Giuntella, Roberto Pertile, Livio Pescia e tutti gli altri componenti e/o invitati all’incontro.

Essendo poi Paola e io le uniche donne presenti e partecipanti, si creò un rapporto più stretto tra noi, rafforzatosi nel periodo della sua Presidenza, durante il quale potei condividere con lei anche la comune passione e l’impegno “con e per” i movimenti delle donne (che in quella sede appassionava, per la verità, solo Ardigò!), nonché in seguito, per molto tempo anche dopo la fine della Lega Democratica, il complicato percorso di ricerca del femminismo cristiano, del quale Paola Gaiotti era stata tra le prime autorevoli studiose.

Dovremo trovare tempi e modalità per approfondire il racconto di questa comune esperienza, attingendo a tutto il contributo di interventi e relazioni che questa donna autorevole ci ha regalato all’interno delle scuole di formazione della Lega Democratica, alla corrispondenza personale intercorsa, ai suoi articoli sulla rivista Appunti di cultura politica che l’hanno vista tra le promotrici, la cui nascita viene associata nelle memorie al giorno del rapimento di Aldo Moro.

«Non è una giornata che io possa dimenticare il 16 marzo 1978. Per il pomeriggio era convocato il gruppo dirigente della Lega democratica presente a Roma […] arrivai, come tutti, alla riunione sconvolta, interrogandoci sul destino di Moro, su quello di questo paese, su ciò che sarebbe avvenuto […] la nostra riunione fu piena di interruzioni, di scambi telefonici, di ricerche di informazioni. Io stessa, lo ricordo bene, riuscii a telefonare a Noretta Moro, che mi rispose direttamente al telefono, interrogandomi lei per prima con un coraggioso e imprevedibile: – Come sta Angelo, come sta Eugenio (il figlio unico di Paola)? […] Già in quel pomeriggio avvertimmo il senso della sfida radicale che avevamo davanti. Emerse in quel nostro drammatico – che fare? – come unica risposta nelle nostre mani, la decisione di far uscire una rivista. Decidemmo così di preparare immediatamente l’uscita di un organo fieramente sobrio, nel titolo e nella veste editoriale, che intendeva rilanciare il gusto della pagina pulita senza fronzoli. […] La storia dei trent’anni della testata di Appunti di cultura e politica, che ha segnato a lungo la vita quotidiana mia e di mio marito, il cui primo numero uscirà nel maggio 1978, si radica dunque lì, non coincide casualmente con i trent’anni della fine di Moro, che segnano i tempi della storia italiana, si identificano con essi in radice» (Passare la mano, pag. 177-178).

Mi sono permessa questa lunga citazione per fornire un assaggio della peculiarità del racconto di vita che è stato l’ultimo grande lascito della nostra cara Paola.

Una narrazione che non solo rivela una acuta e appassionata analisi del suo tempo presente, ma ci racconta di amicizia, amore, gioie, maternità, lotte, successi, fallimenti, studi, ricerche, scelte, nomi, volti, errori, disincanti e speranze.

Dietro questo affascinante profluvio di parole, in un italiano piacevole e non stucchevolmente dotto, si svela la tempra di una donna forte, il sorriso franco che sapeva scoppiare in una sonora risata, la dolcezza, molto nascosta, di una donna dallo spirito forte e dal cuore tenero come quello cui aspirava la nostra amata Sophie Scholl.

L’ultimo abbraccio con lei (restia alle effusioni come molte donne dei suoi anni, ma cedevole alla gioia di un rivedersi dopo lunghe assenze!) fu in occasione della presentazione del suo libro, che mi fece l’onore di poter commentare, all’interno di un ciclo di incontri dal titolo Donne nel secolo breve. Fra Chiesa, società civile e politica, organizzati a Milano nel 2011, da Rosa Bianca, Città dell’uomo, CIF Lombardia, Gruppo Promozione Donna. Tutti gruppi e realtà che l’hanno vista protagonista e che hanno con lei un grande debito di riconoscenza, tanto da poterla annoverare tra le proprie indimenticabili maestre.

Certamente questo vale per la mia vita e la mia storia. Grazie Paola.


(www.rosabianca.org, 15 luglio 2022)

di Giansandro Merli


Quasi mai gli uomini che esercitano violenza sulle donne sono degli estranei. Molto raramente si tratta di conoscenti, amici o colleghi. Nove volte su dieci, infatti, il maltrattante ha una relazione affettiva con la vittima: nel 56,7% dei casi è il partner; nel 23,1% l’ex partner, nell’11,1% un familiare. In totale fanno nove casi su dieci, con un leggero calo dell’1,5% rispetto all’anno precedente.

Sono i numeri che vengono fuori dal rapporto annuale dei centri D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) per il 2021. «Si tratta di violenze agite prevalentemente da persone in forte relazione con la donna, dirette a esercitare e a mantenere una relazione improntata al controllo e alla sopraffazione sulla partner», sostiene lo studio. I dati contenuti al suo interno non costituiscono un campione probabilistico, ma fanno riferimento alle 20.711 donne che lo scorso anno si sono rivolte a uno dei 106 centri antiviolenza che hanno partecipato alla raccolta dati. Complessivamente quelli che aderiscono alla rete sono 108.

La violenza maschile ha molte facce ed espressioni: il 77,9% è di natura psicologica; il 57,6% fisica; il 31,6% economica; il 16,1% sessuale; il 15,6% è stalking. Poco meno della metà delle donne che hanno chiesto aiuto hanno tra 30 e 49 anni. Due terzi sono disoccupate o precarie. Il maltrattante, invece, ha un’età compresa tra 30 e 59 anni nel 40% dei casi e quasi tre volte su quattro (73%) è italiano. Solo il 28% delle donne accolte nei centri decide di denunciare, sintomo della persistente «vittimizzazione secondaria» da parte delle istituzioni verso chi subisce violenza.

«Dietro ogni numero che leggete c’è una storia, la storia di ogni singola donna che crede nella possibilità di uscire dalla violenza – commenta Antonella Veltri, presidente D.i.Re – Questi numeri danno la misura del lavoro che le 2.793 attiviste, di cui solo poco più del 30% retribuite, svolgono per dare forza alle donne. Non basta approvare un Piano anti-violenza se mancano le linee guida attuative: siamo in attesa di questo, dell’impegno concreto del governo sul tema della violenza maschile contro le donne per il 2021-2023».

Quattro quinti dei centri che compongono la rete sono stati finanziati dalle regioni, la metà dai comuni e un terzo dal dipartimento per le pari opportunità. Il problema è che i fondi fluttuano nel tempo: la mancanza di stabilità rende più complicato per le diverse strutture riuscire a fare una programmazione di lungo periodo delle proprie attività. Indebolendo la presenza sul territorio di questi fondamentali presidi anti-violenza.


(il manifesto, 14 luglio 2022)

di Marinella Correggia


Negli ultimi decenni, a partire dal 1991, i pacifisti dei paesi Nato hanno considerato un esempio quegli Stati occidentali neutrali, che non bombardavano paesi in guerre di aggressione né manovravano in guerre per procura – anche se Svezia e Finlandia avevano entrambe aderito al Partenariato per la pace promosso dalla Nato nel 1994.

La svolta atlantista inaspettata di questi ultimi mesi ha indotto due organizzazioni pacifiste attive in Svezia, Svenska Fredskommittén (Comitato per la pace) e Riksföreningen Nej till Nato (Associazione nazionale No alla Nato) a scrivere ai Parlamenti degli Stati membri dell’Alleanza atlantica chiedendo che la domanda di adesione da parte del loro paese venga respinta. Ne parliamo con Ulf Sparrbåge di Nej till Nato.

Come avete motivato la vostra richiesta di tenere fuori la Svezia?

Con due ragioni forti. Primo, in questa brusca rottura della tradizionale politica svedese di non allineamento, i cittadini non sono stati interpellati; il governo sa che c’è una diffusa opposizione e ha deciso in modo affrettato, quando in precedenza il primo ministro svedese Magdalena Andersson sosteneva che i cambiamenti improvvisi sono rischiosi. In secondo luogo, l’ingresso destabilizzerebbe la regione e renderebbe il mondo più insicuro. Vista anche la collocazione geografica di Finlandia e Svezia, il loro status di neutralità in un’area cruciale fra Nato e Russia è stato un fattore stabilizzante, ininterrottamente, per tutte le parti. È incomprensibile che si voglia far franare tutto questo.

La domanda di adesione di Stoccolma all’Alleanza atlantica è del 2022, ma Nej till Nato nasce nel 2014…

Sì. Fu quando il nostro paese firmò un accordo che permetteva alla Nato di condurre esercitazioni congiunte sul territorio svedese e ai paesi membri dell’Alleanza di dispiegare truppe in Svezia in risposta a presunte minacce alla sicurezza nazionale. Fu un fulmine a ciel sereno, un anno dopo le elezioni, senza tempo per informare, studiare le conseguenze. Dal 2014 protestiamo nelle strade, raccogliamo firme, prendiamo parte a dibattiti, distribuiamo volantini, scriviamo articoli. Ma ci sono anche divisioni nel mondo pacifista. E non c’è ricambio generazionale. I giovani non sembrano molto attratti dall’attivismo anti-guerra…

A maggio la Svezia ha firmato la domanda, il 5 luglio i membri dell’Alleanza hanno firmato i protocolli per l’adesione di Svezia e Finlandia ed è iniziato così il processo di ratifica che potrebbe concludersi in 6-8 mesi. Cosa pensate di fare?

La situazione è pessima. Comunque sono circa 40 le organizzazioni che lavorano per fermare questa marcia. E se la Svezia entrerà, ebbene continueremo a lottare. Per l’uscita. Come fate voi.

I partiti politici e la popolazione non temono l’impiantarsi di basi Nato e Usa, e la conseguente partecipazione diretta a conflitti all’estero?

Ormai solo due partiti sono contrari. Rappresentano insieme il 15% dei voti in Parlamento. Il Miljöpartiet (partito verde) e il Vänsterpartiet (sinistra). Chiedono di aspettare almeno fino all’esito delle elezioni di settembre per il rinnovo del Parlamento. In precedenza, nel paese la stragrande maggioranza era per la neutralità. È difficile interpretare il pensiero degli svedesi a proposito della Nato. Va detto che i media sono un grande problema. La copertura della crisi/guerra in Ucraina è sbilanciata in modo eclatante.

Ci sono ancora in Occidente paesi neutrali (Svezia e Finlandia, poi Austria, Svizzera, Irlanda, Moldavia, Serbia, Malta, la stessa Ucraina…). Se, per (improbabilissima) ipotesi, questa lista si allungasse, aiuterebbe la pace?

I paesi non allineati servono a controbilanciare le alleanze militari. E possono mostrare che le controversie vanno risolte sui tavoli negoziali. Piccoli e grandi Stati dovrebbero formare una rete di paesi militarmente non allineati, i quali lavorano affinché la guerra non sia mai più un meccanismo di risoluzione dei conflitti.

Era la proposta, tanti decenni fa, dell’economista indiano J. C. Kumarappa. E invece, dopo il vertice di Madrid lo scorso giugno, la Nato rafforzata che farà?

È un’alleanza che ha già una storia aggressiva, non certo di difesa. Lavorerà per espandersi a Est, anche in Asia. Ha puntato la Cina come il grande problema, insieme alla Russia naturalmente. La vediamo così: la Nato è il braccio militare degli Stati uniti e serve i loro interessi geopolitici, da difendere anche a mano armata, se occorre. Lavora in due modi. L’attore bellico a seconda dei casi può essere la Nato o suoi singoli Stati membri. E tutto ciò è reso possibile dal fatto che i leader europei sono deboli, molto deboli.

Nella guerra in corso la Nato agisce, oltre che politicamente, inviando armi a Kiev. Molti pacifisti ma anche analisti di diversi paesi sostengono che, senza questa fornitura militare, si sarebbero salvate molte vite perché sarebbe stato più facile condurre entrambe le parti a negoziare, sulla base degli accordi di Minsk. Che ne pensate?

È certamente un grande errore armare l’Ucraina. Prolunga la guerra, allontana il negoziato, aumenta le sofferenze e le vittime. Pochi vogliono ammettere che sulla pelle degli ucraini si gioca una guerra per procura fra Stati uniti e Russia. L’Ucraina, terra di frontiera, è il pedone da sacrificare, come nel gioco degli scacchi. Gli accordi di Minsk? La maggior parte dei giornalisti nemmeno li conosce. Eppure sarebbero il migliore punto di partenza per il peace building.

E la resa svedese alle richieste della Turchia di Erdogan?

Nel nostro paese ci sono molti curdi, in gran parte rifugiati. Era stato dato loro un porto sicuro. Adesso tutto cambia, è come un tradimento. E tradendo i principi non si ottiene rispetto nel mondo.


(il manifesto, 13 luglio 2022)

di Fabrizio Battistelli


[…] Prendere posizione sui temi strategici, in Italia, sembra più complicato per i politici che per i semplici cittadini, che dimostrano di avere le idee chiare. Ovunque gli atteggiamenti della popolazione mostrano stabilità e coerenza, oltre a una percezione della realtà che ha poco da invidiare a quella dei governi. Nel gennaio 2022 alla domanda dell’European Council on Foreign Relations circa l’eventualità di un’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il 52% degli europei la percepiva molto o abbastanza probabile.

Una conferma dell’intelligenza dei cittadini è fornita dalle rilevazioni di Difebarometro effettuate per anni da Archivio Disarmo in collaborazione con Swg. Fin dalle prime ricerche risalenti agli Euromissili negli anni Ottanta del Novecento, campioni rappresentativi dell’opinione pubblica italiana davano riposte articolate che rispecchiavano un’avanzata capacità di giudizio. Ad esempio il dissenso su specifiche scelte come quella di installare sul territorio italiano i missili americani Pershing e Cruise in risposta agli SS20 sovietici non metteva in discussione la convinta appartenenza della maggioranza degli italiani all’Alleanza Atlantica. Altrettanto interessanti, nel 2003, i giudizi sull’imminente intervento militare americano in Iraq, giustificato da Bush junior con la necessità di neutralizzare le armi di distruzione di massa attribuite a Saddam Hussein.

Come e più della popolazione di altri Paesi europei, 2 italiani su 3 non credevano a questa giustificazione, né a quella che si appellava alla lotta contro il terrorismo internazionale. Oggi nell’opinione pubblica italiana, in sintonia con i maggiori Paesi europei, le grandi opzioni di fondo come l’identità occidentale e la scelta di campo per la democrazia e per una società di mercato regolata dallo Stato di diritto e socialmente riequilibrata dal welfare, sono confermate senza problemi da pressoché tutte le rilevazioni ‘generaliste’, come il sondaggio semestrale della Commissione Europea Eurobarometro.

Così è anche per le rilevazioni dedicate alla guerra in Ucraina. I dati di tre fra i principali istituti demoscopici italiani che abbiamo posto a confronto evidenziano che la condanna per l’invasione operata dalla Russia è netta e la simpatia per il governo russo che l’ha perpetrata è irrisoria. La giustificazione dell’invasione russa è circoscritta a un modesto 12% del totale degli intervistati, per la metà esatta costituito da simpatizzanti di destra e centro destra e solo per il 10% da sinistra e centrosinistra (Swg 23-25 marzo 2022).

La consapevolezza della giusta causa della difesa ucraina nei confronti dell’aggressione russa non impedisce alla maggioranza degli italiani di manifestare per la guerra e per le sue conseguenze una preoccupazione molto elevata che, dai picchi iniziali (tra l’86 e il 96%) di inizio marzo, nei 4 mesi successivi si è stabilizzata intorno all’80%. Una percentuale, che nei dati Ipsos sfiora la maggioranza assoluta, ritiene che l’Italia non dovrebbe intervenire militarmente, mentre un terzo circa ritiene il contrario, con al proprio interno un’esigua quota (4-6%) disponibile a inviare truppe e un 30% a inviare armi ed equipaggiamenti.

Più alti i valori rilevati da Swg (40%) ed Emg (30%), che tuttavia rimangono sempre minoranza. Con l’esplicito favore del governo Draghi e delle forze che lo sostengono (parziale eccezione la Lega e i 5stelle) l’invio di armi costituisce il principale nodo nell’ambito della politica interna. Dal punto di vista demoscopico, invece, esso rappresenta un indicatore decisivo circa la natura della solidarietà come la concepiscono gli italiani. Le accuse di egoismo implicite in numerosi commenti, se non addirittura di defezione nei confronti della causa comune, appaiono ingenerose se si considera la disponibilità, espressa nei medesimi sondaggi, a sostenere significativi sacrifici.

Nonostante i cittadini abbiano ben chiari i costi economici implicati dalle sanzioni nei confronti della Russia (citate come la più rilevante causa di preoccupazione) una netta maggioranza si dichiara favorevole alle sanzioni stesse. Un’indubbia prova di altruismo a fronte dell’eventualità (una certezza) che le sanzioni poste alle importazioni energetiche dalla Russia rappresentino un serio costo anche per chi le attua. Dunque, rispetto alla linea del governo di sostegno alla resistenza ucraina il principale oggetto di dissenso da parte dell’opinione pubblica riguarda specificamente l’aspetto militare.

La diffidenza verso l’uso della forza da parte dei nostri concittadini è un dato permanente, regolarmente confermato nei decenni. Contrariamente a quanto consigliato da qualche spin doctor, esso non può essere esorcizzato con espedienti comunicativi. Piuttosto che ricorrere ai luoghi comuni sul ‘carattere’ degli italiani, bisogna prendere atto dell’esistenza del pacifismo come connotato strutturale nella cultura antropologica nazionale.


*Fabrizio Battistelli è sociologo, presidente di Iriad-Archivio Disarmo


(Avvenire, 13 luglio 2022)


Leah Elliott è una fumettista e attivista per i diritti digitali: adora i melograni, i muffin ai semi di papavero e la democrazia e ha creato il fumetto “Contra Chrome” per spiegare come nell’ultimo decennio il browser più diffuso al mondo sia diventato una minaccia tanto per la privacy degli utenti quanto per gli stessi processi democratici.

“Contra Chrome” è un riarrangiamento del fumetto “Chrome” commissionato da Google a Scott McCloud nel 2008, e presenta la trasformazione di questo browser in uno degli strumenti di sorveglianza più utilizzati al mondo, mettendone a nudo i funzionamenti che non conosciamo.

Lo abbiamo tradotto in italiano a beneficio di tutti coloro che sono sensibili alle problematiche della privacy.

Buona lettura di una storia di formiche digitali, specchi semitrasparenti, rane bollite, piranha vegani e tutto quello che avreste voluto sapere su Chrome e non avete mai osato chiedere.


Di seguito i link per

scaricare il fumetto: https://copernicani.it/wp-content/uploads/2022/07/ContraChrome_IT_final.pdf

-consultarlo online: https://issuu.com/copernicani/docs/contrachrome_it_final


(copernicani.it, 13 luglio 2022)


Lo psichiatra David Bell, ex presidente della British Psychoanalytic Society, è stato a lungo dirigente della Tavistock Clinic di Londra, la più grande clinica inglese specializzata nel cambio di sesso dei minori. Bell ha compilato un rapporto in cui si riportavano le preoccupazioni di molti medici per il modo in cui si trattavano i minori. Un rapporto che gli è costato un’azione disciplinare, cui hanno fatto seguito le dimissioni. Era una questione di coscienza. «Non potevo andare avanti così… non potevo più vivere così, sapendo del cattivo trattamento che viene riservato ai bambini». E invece è toccato a lui difendersi. Adesso Bell è tra i firmatari di un appello sul settimanale francese le Point e sul quotidiano belga le Soir di centinaia di studiosi e intellettuali (la femminista Elisabeth Badinter, il filosofo Rémi Brague, la politologa Chantal Delsol, l’ex presidente del Comitato di bioetica Didier Sicard e tanti altri) contro l’ideologia transgender nei bambini: «Noi scienziati, medici e studiosi delle scienze umane e sociali, facciamo appello ai media per presentare studi seri e scientificamente accertati riguardanti il “cambiamento di genere” dei bambini nei programmi destinati a un vasto pubblico», si legge. «Bambini e adolescenti vengono esibiti in programmi con i genitori per mostrare quanto sia benefico il cambiamento di genere senza che nessuno esprima la minima riserva o fornisca dati. Gli scienziati critici vengono insultati. Questi programmi ripetitivi hanno un effetto di indottrinamento sui giovani e i social lo accentuano. Ci opponiamo fermamente all’affermazione che donne e uomini siano semplicemente costrutti sociali. Non puoi scegliere il tuo sesso e ce ne sono solo due». Appello quanto mai urgente, visti la Ley Trans appena approvata in Spagna e l’iter avviato in Germania. Uno scandalo medico e culturale su cui bisogna tenere aperto il dibattito.


(Il Foglio, 12 luglio 2022)

di Traudel Sattler


La Svezia, che dopo quarant’anni di neutralità ha chiesto e ottenuto, attraverso la sua leader Magdalena Andersson, di entrare nella Nato, è anche stato il primo paese a introdurre ufficialmente, nel 2014, una “politica estera femminista”. Una contraddizione eclatante. Con un lavoro durato quattro anni è stato pure elaborato un “Manuale” che illustra metodi e esperienze di tale politica. Sono andata a leggerlo e mi sono subito accorta che porta in sé tutti i limiti del femminismo di stato. La politica estera femminista è organizzata intorno a tre R: rights (diritti), representation (rappresentanza) e resources (risorse). In sostanza,si muove nell’orizzonte della parità dei diritti, dell’accesso delle donne nei posti decisionali, della loro partecipazione nella prevenzione dei conflitti e nelle trattative di pace e di disarmo. Principi in realtà già sanciti nella Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “Donne, pace e sicurezza” del 2000. Ma mi chiedo: con quale forza le donne possono agire, con le mediazioni date e alle procedure pensate da altri? Infatti, dal 2000 in poi i percorsi sono stati quelli prestabiliti: anche in presenza di molte donne, definite “agenti di cambiamento”, si sono infoltiti e ampliati i documenti, le commissioni, i piani di azione… E ora che c’è una guerra aperta in Europa e la politica estera dovrebbe attivarsi, molti dei principi “femministi” che già prima sembravano solo dichiarazioni d’intenti si rivelano del tutto inefficaci e tutta questa codificazione limita l’orizzonte del pensiero.
Quando mi capita di vedere in TV Annalena Baerbock, ministra degli esteri tedesca – anche lei fautrice una politica estera femminista – il dilemma lo sento lacerante: prima snocciola, a mo’ di provetto generale, una serie di nomi di carri armati, obici e sistemi di difesa sofisticatissimi da mandare in Ucraina, in una logica di netto schieramento, poi cita i miliardi di aiuti umanitari per le popolazioni martoriate in varie parti del mondo; infine nel dibattito sui giganteschi investimenti per l’esercito tedesco racconta i suoi incontri con le madri di Srebrenica che le hanno descritto le pesanti conseguenze della guerra di cui soffrono tutt’ora. Penso che contraddizioni lancinanti la attraversino: lo fa per discolparsi? per tornare al suo programma femminista? E mi domando: Come potrà ritrovare sé stessa?
Se penso alla pandemia, mi torna in mente che molte donne di governo hanno gestito quella situazione difficilissima con signoria, mostrando forza e autorità di origine femminile. Ora mi chiedo: che cosa ha scatenato la guerra in queste donne che hanno raggiunto posti di comando? È una contradizione aperta su cui bisogna continuare a riflettere.

Recentemente sono stata in Germania e ho visto un documentario bellissimo del 2021, Le Inflessibili, del giornalista e regista Torsten Körner, sulle donne in politica dagli anni ’50 fino alla riunificazione. Mi sono chiesta perché questo filmato mi ha così emozionata, come mai proprio un uomo è capace di restituire spessore a queste pioniere della politica parlamentare. Ho capito che c’è di mezzo la sua presa di coscienza. È la sua reazione di fronte a tutto il materiale documentario che lo porta a costringere sé stesso e i suoi simili a guardarsi allo specchio. È proprio il processo autocoscienziale che gli ha dato l’intelligenza per vedere il di più femminile, la radice della forza. Infatti, la forza quando c’è va anche vista! Nel documentario si vedono ricchi materiali di archivio dal parlamento tedesco e interviste fatte oggi, nelle austere sale dell’ex parlamento a Bonn, alle protagoniste di allora che raccontano la propria esperienza con un misto di ironia, amarezza e una chiara voglia di vincere. Al di fuori di qualsiasi logica partitica parlano delle loro lotte, delle offese e umiliazioni subite, in un territorio difeso dai detentori del potere con strategie che conosciamo tutt’ora, ridicolizzare, denigrare, sminuire, ignorare con ostentazione… Ma parlano anche di gesti dirompenti: memorabile il primo discorso della deputata Waltraud Schoppe che a proposito dell’aborto invita gli uomini a evitare “penetrazioni irresponsabili” e a inventare pratiche sessuali  alternative, con conseguente tumulto imbarazzato nei banchi del parlamento. Oggi le intervistate parlano da una posizione di signoria ormai acquisita, sicuramente grazie al movimento delle donne che ha dato loro la forza e le parole per mostrare la miseria simbolica e la limitatezza di quelle strutture create a misura d’uomo, e per creare una genealogia che ha aperto la strada anche a Angela Merkel.
Körner aveva già pubblicato, nel 2020, un libro sulle “Donne nella repubblica degli uomini”, ma è proprio grazie al materiale visivo dissotterrato dagli archivi che l’operazione diventa così efficace: fa vedere bene anche gli uomini. Sono i gesti, le risatacce, le pacche cameratesche sulle spalle del compagno di partito, l’incredulità e l’imbarazzo nelle facce degli onorevoli di fronte alla verità di una donna, che mostrano come quel patto sessuale di cui parla Carole Pateman è profondamente iscritto nelle strutture politiche, anche in presenza di molte donne. Prima di capirlo, l’autore, intento a scrivere una biografia familiare dell’ex cancelliere Willy Brandt, aveva ascoltato molte testimonianze di donne politiche, mogli di politici e contemporanee di Brandt, scoprendo così la ricchezza del pensiero politico femminile e il suo proprio “orizzonte storico limitato”. Nel libro dice: “Il loro concetto di politica mi sembrava più differenziato di quello degli uomini, ed essendo quelle che dovevano tenere insieme le famiglie, vedevano con maggiore chiarezza le devastazioni e le deformazioni che la vita politica può portare nelle vite”. Di conseguenza, tutta la storia della repubblica di Bonn com’era stata scritta finora, di colpo gli sembrava “una cosa estremamente riduttiva, unilaterale e monotona”. Si è reso anche conto che non si poteva rimediare con una galleria di donne da affiancare a quella degli uomini, come una “correzione cosmetica a posteriori, un ritocco di vecchie fotografie”. Vuole quindi mostrare molto di più: come mai tutt’ora molti uomini e molte donne fanno fatica a riconoscere i meriti delle donne, come mai alle donne che scelgono la politica istituzionale talvolta mancano i modelli. È come se gli uomini al potere non avessero solo lasciato voluminose autobiografie, ma anche degli “algoritmi efficaci” che riproducono il loro linguaggio corporeo come quello verbale, creando un ordine simbolico inconsapevole a molti dei suoi stessi attori. L’autore invita i suoi simili a superare questi limiti del proprio sesso, del proprio pensiero, a cogliere l’occasione per un “viaggio verso di lei, dove lui si può perdere senza subire una perdita, perché qui comincia un dialogo che comprende l’essere umano intero. Ovviamente ci sono delle barriere, ma la possibilità di tornare arricchiti da tale viaggio mi sembra maggiore del suo contrario. E se si dovesse subire una perdita, spero che sia in primis quella della propria ristrettezza mentale”.
La stessa Angela Merkel, invitata alla prima, ha augurato che non solo molte spettatrici, ma anche molti spettatori assistano alle proiezioni di questo documentario. E io sono perfettamente d’accordo con lei.


Manuale di politica estera femminista svedese: https://www.government.se/reports/2018/08/handbook-swedens-feminist-foreign-policy/,

Torsten Körner: In der Männer-Republik. Wie Frauen die Politik eroberten. Köln, 2020

Torsten Körner: Die Unbeugsamen. Film documentario, 2021


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 10 luglio 2022)

di Luciana Capretti


«Il mondo occidentale è sotto ipnosi», conclude salutandomi. […]

A Ostuni Oliver Stone ha voluto ripresentare il suo film W, del 2008, sul presidente George W. Bush: gli chiediamo perché proprio quello fra i tanti. «Perché segna un momento decisivo della storia americana. Quando Donald Trump era presidente, la gente diceva “È il peggiore presidente degli Stati Uniti” e io rispondevo: “Mettete le cose in prospettiva”. Cosa ha fatto Trump a paragone di quello che ha fatto Bush al paese e alla Costituzione? Non solo è andato in guerra in Iraq senza il permesso delle Nazioni Unite, illegalmente, ma ha anche creato prigioni segrete, campi di detenzione, Guantanamo, intercettato praticamente l’intera popolazione americana.

Crimini per i quali sarebbe dovuto finire in cella insieme a Dick Cheney e Rumsfeld. Ma L’America perdona e dimentica. Nel mio film i dialoghi sono basati su frasi che Bush ha detto veramente, magari non le ha dette in quel luogo e in quel momento, ma le ha dette. E sono frasi incredibili. Questi personaggi siedono intorno a un tavolo e decidono il destino del mondo come se fosse tutto sotto il loro controllo. Ci dobbiamo veramente chiedere come questo Paese, con questa leadership, e questo sistema elettorale elegga i suoi rappresentanti».

Lei ha detto che quel momento è stato decisivo. Perché?

«L’America ha stabilito la tonalità della guerra. Andiamo in guerra in qualsiasi circostanza ci sembri importante per noi. In Iraq, in Afghanistan.

Abbiamo dichiarato guerra al terrore ed è stato un assoluto disastro in termini di morti in tutto il mondo, abbiamo portato tensione e militarizzazione in così tanti Paesi in Medioriente e Asia ma continuiamo, e ora combattiamo contro la Russia. Questa è una guerra provocata, la Russia è stata provocata a invadere, è quello che volevamo e ha funzionato.

Gli Stati Uniti sentono di avere il diritto di dire al resto del mondo cosa deve fare. Lo chiamiamo “ordine internazionale”. Peraltro il comparto militare assorbe più del 50% del nostro denaro. Non ci prendiamo cura della popolazione perché dobbiamo pagare la militarizzazione della nostra società, che è aumentata con la National Security, e le agenzie di intelligence. È un business enorme e difficile da fermare, solo un presidente forte come Kennedy ce la farebbe. Bisognerebbe farlo e cercare di non farsi assassinare».

[…]


(https://lavocedinewyork.com/, 10 luglio 2022)

di Stefano Sarfati Nahmad


Era gennaio 2009, suona il telefono: “Pronto, sono Lisetta Carmi, Stefano? Ho letto il tuo articolo sul Manifesto Ascolta Israele e volevo dirti che mi è piaciuto molto”.
Era la voce di una persona già di una certa età, sicura di sé e quello che mi stava offrendo non era un apprezzamento ma un’autorevole approvazione.
Mi disse che anche lei era di origine ebraica e che come me era assolutamente indignata dalla politica israeliana.
Ci incontrammo a Milano e mi raccontò la storia della sua vita, che da ragazza aveva studiato il pianoforte ad alto livello facendo anche concerti, ma che poi l’aveva abbandonato per la passione politica; che aveva fatto la fotografa; che in India il suo maestro Babaji le aveva detto che doveva aprire un ashram a Cisternino, cosa che infatti fece. Ricordo che mi sembrò strano dall’India andare proprio a Cisternino, provai anche a chiedere una spiegazione ma il suo era il linguaggio mistico indiano non razionale occidentale così rinunciai.
La rividi una seconda volta a Cisternino, un’estate che ero in vacanza in Puglia. Parlando con lei cercavo i segni della fotografa dei travestiti dei vicoli di Genova, ma oramai parlava più come un santone indiano, diceva di aver vissuto diverse vite.
Ho capito dopo che quella telefonata nel gennaio del 2009, in cui parlava la Lisetta dell’impegno politico, arrivava da una vita precedente.


(libreriadelledonne.it, 10/7/2022)

di Jia Tolentino


All’inizio di maggio, dopo la pubblicazione di una bozza della sentenza della corte suprema che ribaltava il precedente stabilito nella causa Roe contro Wade del 1973, negli Stati Uniti è riapparso uno slogan: “Non torneremo indietro”. È stato intonato durante le manifestazioni, in modo provocatorio ma anche un po’ ingenuo, visto che viviamo chiaramente in un’epoca di repressione e regressione, in cui quello all’aborto non è l’unico diritto che sta scomparendo.

Ora che la sentenza è arrivata, con la corte che ha annullato il diritto costituzionale a interrompere una gravidanza e ha dato il via libera a leggi restrittive in venti stati, lo slogan suona quasi scollegato dalla realtà. Un’indicazione, forse, di quanto sia diventato difficile cogliere il potere e l’estremismo di destra dell’attuale corte suprema. Il sostegno dell’opinione pubblica all’aborto non è mai stato così alto, con più di due terzi degli statunitensi contrari alla cancellazione della sentenza Roe. Nonostante questo, alcuni parlamentari repubblicani hanno fatto sapere che se il loro partito dovesse arrivare a controllare le due camere del congresso e la presidenza, cercheranno di far approvare una legge federale che proibisca l’aborto. Chi resterà incinta d’ora in poi dovrà accettare il fatto che metà del paese è nelle mani di politici convinti che le donne non sono persone a tutti gli effetti, non sono autonome. Che se sei incinta hai il dovere legale e morale di portare avanti la gravidanza e, con ogni probabilità, garantire una ventina d’anni o più di assistenza a tuo figlio, indipendentemente dalle conseguenze permanenti e potenzialmente devastanti che tutto questo avrà sul tuo corpo, il tuo cuore, la tua mente, la tua famiglia, la tua capacità di sfamarla, i tuoi progetti, le tue aspirazioni, la tua vita.

“Non torneremo indietro” è un grido di battaglia inadeguato, ma è vero per un aspetto: il futuro in cui ormai abitiamo non somiglierà al passato prima della sentenza Roe, quando le donne abortivano – e a volte morivano – clandestinamente. Il pericolo principale oggi risiede altrove ed è probabilmente più grave. Siamo entrati in un’era non solo di aborti rischiosi ma di sorveglianza diffusa e criminalizzazione da parte dello stato, sia delle donne incinte sia anche di medici, farmacisti e operatori delle cliniche, volontari, amici e familiari, di chiunque entri in contatto con una gravidanza che non si conclude con un parto. Chi è convinto che la sentenza non cambierà molto le cose – lo pensano persone di entrambi gli schieramenti politici – non si rende conto di come le crociate antiabortiste in singoli stati abbiano già trasformato la gravidanza in una punizione, e di quanto la situazione sia destinata a peggiorare.

Dati pericolosi

Negli stati in cui l’aborto è stato o sarà presto vietato, qualsiasi interruzione di gravidanza anticipata può essere ora considerata un reato. La cronologia delle ricerche su internet, i messaggi, i dati sulla posizione e sui pagamenti, le informazioni delle app di monitoraggio del ciclo: se pensano che l’interruzione di gravidanza sia stata deliberata, i procuratori possono accedere a queste informazioni. E anche se non si riuscirà a provare che c’è stato un aborto volontario, il solo fatto di subire un processo sarà una punizione per le persone indagate, che saranno considerate responsabili di qualunque cosa emerga dal procedimento.

Cinque anni fa Latice Fisher, madre nera di tre figli che guadagnava 11 dollari all’ora come operatrice radio della polizia in Mississippi, ha avuto un aborto spontaneo in casa, intorno alla trentaseiesima settimana di gestazione. Quando è stata interrogata, ha ammesso che non voleva più bambini e non sarebbe riuscita a prendersi cura di altri figli. Ha consegnato il suo telefono agli investigatori, che lo hanno setacciato e hanno trovato ricerche relative al mifepristone e al misoprostolo, le pillole per l’aborto farmacologico.

Questi farmaci sono uno dei motivi per cui non torneremo all’era delle grucce di metallo. Possono essere prescritti online e spediti per posta. Con una dose in più, la loro efficacia nell’interrompere una gravidanza fino all’undicesima settimana (il limite in cui avviene il 90 per cento degli aborti negli Stati Uniti) va dal 95 al 98 per cento. Già più della metà di tutti gli aborti del paese sono farmacologici. In diciannove stati i medici non possono prescrivere questi farmaci online, ma le donne possono chiedere aiuto a medici di altri stati o di altri paesi.

Non c’erano prove che Latice Fisher avesse preso una pillola abortiva. Ha detto di aver avuto un aborto spontaneo, un evento che negli Stati Uniti si verifica in una gravidanza su 160. Nonostante questo è stata accusata di omicidio di secondo grado e trattenuta per settimane con una cauzione fissata a centomila dollari. Alla fine è stata scagionata, ma il suo calvario è durato più di tre anni.

Negli stati proibizionisti ordinare le pillole abortive potrebbe diventare illegale (il Missouri sta pensando di equiparare la spedizione e la consegna di queste pillole al traffico di droga, mentre la Louisiana ha appena approvato una legge per criminalizzare il loro invio a chi risiede nello stato, con pene fino a sei mesi di reclusione). In molti casi, per evitare di violare la legge, una donna dovrebbe andare in uno stato dove l’aborto è legale, chiedere una consulenza online lì e poi ricevere le pillole in quello stato. In Texas molte donne hanno scelto un’opzione più rischiosa ma più semplice: andare in Messico e comprare le pillole in farmacie non autorizzate, dove potrebbero ricevere consigli sbagliati sul loro uso. Alcune donne che non hanno la libertà o i soldi per andare fuori dal loro stato, ordineranno i farmaci senza sapere esattamente quanto sono avanti nella gravidanza. Le pillole sono sicure ed efficaci, ma le pazienti devono poter essere seguite da un medico prima e dopo la loro assunzione. Le donne che vivono negli stati proibizionisti e vorranno rivolgersi a un medico dopo un aborto autogestito dovranno scegliere tra rischiare la libertà o la salute.

Negli Stati Uniti gli aborti procurati e quelli spontanei sono circa un milione all’anno, e spesso i due eventi sono clinicamente indistinguibili. Per questo gli stati con le leggi più restrittive hanno tutto l’interesse a distinguerli. Alcuni hanno già gettato le fondamenta per la creazione di database governativi di donne incinte che potrebbero cercare di abortire. Nel 2021 l’Arkansas ha approvato una legge che impone a chi vuole abortire di chiamare un numero verde statale e a chi pratica aborti d’inserire tutte le pazienti in un database con un numero identificativo univoco. Da allora altri sei stati hanno approvato o proposto leggi simili. I call center sono in genere gestiti da centri associati a organizzazioni cristiane, che spesso si spacciano per cliniche dove si può abortire, non forniscono assistenza sanitaria e consigliano appassionatamente alle donne di non interrompere la gravidanza. Negli Stati Uniti questi centri sono già tre volte più numerosi delle cliniche che praticano l’aborto e, a differenza degli ospedali, non sono tenuti a proteggere la privacy delle persone che si rivolgono a loro. Sono in grado di raccogliere dati – nomi, luoghi, dettagli sulla famiglia, informazioni sulla storia medica e sessuale – che possono usare contro chi li contatta in cerca di aiuto.

I prossimi bersagli

Se resti incinta, il tuo telefono generalmente lo sa prima di molti dei tuoi amici. L’intera economia di internet si basa sul meticoloso monitoraggio degli acquisti e dei termini di ricerca degli utenti. In futuro si diffonderanno leggi modellate su quella del Texas, che incoraggia i privati a denunciare chiunque faciliti un aborto, dando agli auto-proclamati vigilantes tutti gli strumenti per tracciare e identificare le persone sospette. Di recente una giornalista di Vice ha comprato per 160 dollari un insieme di dati sulle visite fatte in più di seicento cliniche di Planned parenthood, un’organizzazione per la pianificazione familiare che aiuta anche le donne a interrompere le gravidanze.

Alcuni intermediari vendono dati che consentono di tracciare i viaggi da e verso qualsiasi luogo, per esempio una clinica che pratica aborti in un altro stato. In Missouri un parlamentare ha proposto una norma che consentirebbe ai cittadini di denunciare chiunque aiuti una residente dello stato ad abortire oltre confine. Come nel caso della legge texana, chi denuncia con successo ha diritto a una ricompensa di diecimila dollari. Ricorda il Fugitive slave act del 1793, una legge che permetteva ai proprietari di denunciare gli stati dove si erano rifugiati gli schiavi fuggiti. Per ora l’obiettivo delle taglie sono le persone che praticano aborti, non chi abortisce, ma presto le cose potrebbero cambiare. Il Connecticut, uno stato con norme progressiste sul tema, ha approvato una legge che vieta alle agenzie locali di collaborare nei procedimenti giudiziari aperti in altri stati su casi di aborto e protegge le cartelle cliniche delle pazienti arrivate da oltreconfine. Altri stati progressisti seguiranno questo esempio. Se gli stati proibizionisti non possono citare in giudizio i medici che operano fuori del loro territorio, e se le pillole abortive inviate per posta rimarranno difficili da rintracciare, gli unici bersagli possibili saranno i sostenitori dell’aborto e le donne che cercano di interrompere una gravidanza.

The Stream, una pubblicazione cristiana conservatrice, ha recentemente proposto la custodia psichiatrica obbligatoria per le donne che abortiscono. A maggio in Louisiana è stata proposta una legge che consentirebbe a chi ha abortito di essere accusata di omicidio. La proposta è stata ritirata, ma la minaccia era chiara.

Il concetto teologico che considera il feto una persona è una delle dottrine fondanti del movimento antiabortista. Le ramificazioni legali di questa idea – compresa la possibilità che siano classificati come strumenti di omicidio la fecondazione in vitro, la spirale e la pillola del giorno dopo – sono sconfinate e molto più estreme di quelle che anche l’americano medio contrario alle interruzioni di gravidanza è disposto ad accettare. Tuttavia, il movimento antiabortista sta spingendo apertamente per fare in modo che questo concetto diventi il fondamento della legge sull’aborto negli Stati Uniti.

Nuovi reati

Se un feto è una persona, si può inventare un quadro giuridico che richiede a una donna che lo porta in grembo di fare tutto ciò che è in suo potere per proteggerlo, compreso accettare di morire. Non esiste un altro obbligo come questo nella società statunitense, che invece concede ai poliziotti la libertà di stare a guardare mentre dei bambini vengono uccisi dietro una porta chiusa a chiave (come è successo durante la strage di Uvalde, in Texas). Leggi che considerano il feto una persona sono state approvate in Georgia e Alabama e a questo punto è improbabile che siano considerate incostituzionali. Leggi simili giustificano la criminalizzazione su vasta scala della gravidanza, in base alla quale le donne possono essere arrestate, detenute e costrette a subire l’intervento dello stato per aver intrapreso azioni potenzialmente dannose per il feto.

Negli ultimi quarant’anni questa linea è stata sperimentata di continuo, in particolare sulle minoranze a basso reddito. La National advocates for pregnant women – l’organizzazione che ha offerto una difesa legale nella maggior parte dei casi citati in questo articolo – dal 1973 al 2020 ha documentato quasi 1.800 casi di procedimenti giudiziari o interventi forzati collegati a una gravidanza, ma probabilmente sono molti di più.

Finora la maggior parte dei procedimenti giudiziari collegati a una gravidanza ha ruotato intorno all’uso di sostanze stupefacenti. Le donne incinte che ne consumavano o cercavano terapie per le dipendenze sono state accusate di abuso di minore, negligenza, somministrazione di droghe a un minore, aggressione con un’arma letale, omicidio colposo e omicidio. Di recente c’è stata una serie di assurdi processi in Oklahoma, in cui donne che facevano uso di sostanze sono state accusate di omicidio colposo per aver avuto un aborto spontaneo prima della viabilità fetale (il momento a partire dal quale il feto può sopravvivere fuori dall’utero). In Wisconsin la legge statale consente già ai tribunali dei minori di prendere in custodia un feto, cioè una donna incinta, per proteggerlo, provocando ogni anno la detenzione e il trattamento forzato di quattrocento donne in base al sospetto che possano fare uso di sostanze vietate. Una proposta di legge del Wyoming creerebbe una categoria specifica di reati legati all’uso di stupefacenti durante la gravidanza.

Il movimento che si batte per la libertà di scelta delle donne ha in gran parte ignorato la crescente criminalizzazione della gravidanza. Molte persone che sostengono il diritto all’aborto hanno tacitamente accettato che negli stati conservatori le donne povere e appartenenti alle minoranze perdessero l’accesso all’aborto molto prima della decisione della corte suprema, nella speranza che le migliaia di donne che rischiavano l’arresto per una gravidanza, un aborto spontaneo, la nascita di un feto morto o perfino un parto normale fossero solo un’anomalia. Si sbagliavano. E, come ha notato di recente la giornalista Rebecca Traister, il divario tra la classe privilegiata e tutte le altre cresce ogni giorno.

Responsabilità esclusiva

La gravidanza è almeno trenta volte più pericolosa dell’aborto. Uno studio ha stimato che un divieto nazionale porterebbe a un aumento del 21 per cento delle morti legate a una gravidanza. Alcune delle donne che moriranno a causa del divieto sono incinte in questo momento. La loro morte non sarà la conseguenza di procedure clandestine ma di una silenziosa negazione delle cure: interventi ritardati, desideri disattesi. Moriranno di infezioni, di preeclampsia, emorragia, perché saranno costrette a sottoporre il loro corpo a gravidanze che non hanno mai voluto, e non sarà difficile per il movimento antiabortista accettare queste morti come una tragica, perfino nobile, conseguenza dell’essere donne.

Nel frattempo i divieti danneggeranno e metteranno in pericolo molte donne che vogliono portare a termine la gravidanza ma che incontrano complicazioni. I medici degli stati proibizionisti hanno già cominciato a rifiutare di assistere le donne che hanno un aborto spontaneo, per paura che il trattamento possa essere classificato come aborto volontario. A una donna del Texas hanno detto che doveva guidare per quindici ore fino al New Mexico per intervenire su una gravidanza extrauterina, che per definizione non può essere portata avanti ed è sempre pericolosa per la madre. Il misoprostolo, una delle pillole abortive, è prescritto di routine per la gestione dell’aborto spontaneo, perché induce l’utero a espellere il tessuto rimanente. I farmacisti texani, temendo di dover affrontare conseguenze legali, già rifiutano di prescriverlo. Se un aborto spontaneo non viene portato a termine in modo sicuro, le donne rischiano – senza contare il danno emotivo – la perforazione dell’utero, danni ad altri organi, infezioni, infertilità e la morte.

La maggior parte degli aborti spontanei è causata da fattori al di fuori del controllo della madre: malattie, irregolarità della placenta o dell’utero, anomalie genetiche. Ma il trattamento riservato alle donne incinte in questo paese fa già sentire molte di loro direttamente ed esclusivamente responsabili della sopravvivenza del feto. Gli viene detto di evitare alcol, caffè, retinolo, tacchino, formaggi non pastorizzati, bagni caldi, esercizio fisico intenso, farmaci per cui non serve prescrizione o che prendono da anni. E si ignorano i fattori strutturali che aumentano la probabilità di un aborto spontaneo: la povertà, l’esposizione a sostanze chimiche, i turni di lavoro notturni.

Mezzo secolo fa il movimento contro l’aborto era dominato da cattolici progressisti, contrari alla guerra e favorevoli al welfare. Oggi il movimento è conservatore, evangelico e determinato, formato soprattutto da persone che non sono per niente interessate a chiedere un sostegno pubblico e strutturale alla vita umana una volta che ha lasciato l’utero. La studiosa Mary Ziegler ha recentemente osservato che gli antiabortisti di oggi considerano le “strategie dei decenni precedenti codarde e controproducenti”. Negli ultimi quattro anni undici stati hanno approvato divieti che non prevedono eccezioni per i casi di stupro o incesto, una posizione estrema che prima sarebbe stata impensabile.

In Texas bambine di nove, dieci e undici anni, che ancora non capiscono cosa sono il sesso e gli abusi, affrontano la gravidanza e il parto forzati dopo essere state violentate. Alle donne che si presentano al pronto soccorso durante un aborto spontaneo è negato il trattamento per la sepsi perché il cuore dei loro feti non si è ancora fermato. Persone di cui non sentirete mai parlare trascorreranno il resto della loro vita cercando, senza riuscirci, di garantire stabilità a un primo o a un quinto figlio del quale sapevano di non essere in grado di prendersi cura.

Di fronte a tutto questo c’è stato troppo pudore, anche nello schieramento di chi è favorevole alla libertà di scelta. In generale si considera l’aborto una sfortunata necessità, e spesso chi accetta la scelta non s’interessa dell’assistenza a chi abortisce, enfatizza i diritti riproduttivi invece della giustizia riproduttiva. Questo atteggiamento ci ha portato fin qui. Non stiamo tornando all’era precedente alla sentenza Roe, e non dovremmo voler tornare all’era successiva, che è stata meno triste di quella attuale ma non è mai stata abbastanza buona. Dovremmo chiedere di più e saremo costrette a farlo. Se vogliamo avere anche solo una possibilità di vivere un giorno in un posto migliore, dovremo difendere incondizionatamente l’aborto come prerequisito necessario per la giustizia e la parità di diritti.


(The New Yorker, Internazionale n. 1467, 1 luglio 2022)

di Elena Tebano


La scoperta di Vivian Maier è una delle vicende più straordinarie della recente storia della fotografia. Nel 2007 il contenuto di un deposito in cui l’allora sconosciuta Vivian Maier conservava parte delle sue stampe e dei suoi rullini andò all’asta, suddiviso in diversi lotti. Uno dei compratori, John Maloof, un giovane che aveva lasciato la scuola d’arte per problemi di soldi e si era dedicato a lavori diversi, tra cui l’agente immobiliare, capì presto il valore artistico delle fotografie di Maier. E si organizzò con un altro degli acquirenti, Jeffrey Goldstein, per raccogliere tutto il suo archivio – 143mila immagini, di cui Maier aveva stampato solo il 5% – e poi organizzare una mostra in collaborazione con il Chicago Cultural Center. Allestita nel 2011, fu subito un successo e proiettò Maier, bambinaia di professione e fotografa solo per passione, nell’olimpo della fotografia. Da allora le sue mostre hanno fatto il giro del mondo; l’ultima, dedicata agli scatti “italiani” di Maier si è conclusa alla fine di giugno a Torino (qui la recensione sul Manifesto). Maier era morta a ottantanove anni solo due anni prima, senza mai sapere di essere stata “scoperta”. I suoi primi curatori l’hanno rintracciata solo dopo la sua morte, grazie al necrologio pubblicato su internet: lei aveva vissuto sempre nel più totale riserbo.

Il suo successo postumo è dovuto in parti uguali alla bellezza delle sue foto e al mistero che la circonda. Perché una fotografa così talentuosa non solo non ne ha mai fatto un lavoro a tempo pieno, ma ha letteralmente lasciato la maggior parte dei suoi rullini chiusi in un deposito, spesso senza neanche svilupparli?

La risposta a queste domande si può ora trovare in Vita di Vivian Maier. La storia sconosciuta di una donna libera, l’imponente biografia della Maier appena edita in Italia da Utet. È nata anch’essa dalla curiosità nei confronti di questa donna misteriosa: la sua autrice, Ann Marks, non è una biografa di professione, né una studiosa di fotografia, ma un’ex dirigente d’azienda in pensione che si è appassionata alla storia di Maier dopo aver visto un documentario e ha deciso di indagare più in fondo. Il limite del libro sta forse qui, ma è comunque una straordinaria fonte di informazioni e una preziosa raccolta di oltre 400 foto, molte delle quali sconosciute, di Vivian Maier.

Marks ricostruisce la storia familiare di Maier, segnata da uomini inaffidabili e violenti e donne che – in tempi in cui le donne avevano pochissime possibilità – hanno dovuto cavarsela da sole, spesso lasciando indietro le loro figlie, che ne hanno pagato il prezzo. È successo alla nonna materna di Maier, Eugénie Jaussaud, originaria di Saint-Julien-en-Champsaur, un villaggio delle Alte Alpi francesi nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Figlia di contadini, rimase incinta a sedici anni del bracciante che lavorava nella fattoria dei genitori e che si rifiutò di sposarla. Sua figlia Marie, la madre di Vivian, nacque dunque nel 1897 fuori dal matrimonio e lei e Eugenie ne patirono lo stigma che ne derivava all’epoca. Quattro anni dopo, Eugenie partì da sola per l’America, dove nessuno sapeva della sua figlia illegittima, e iniziò a lavorare come cuoca per le famiglie ricche dell’East Coast. Marie fu tirata su dalla nonna e raggiunse sua madre, che praticamente non conosceva, solo quando aveva diciassette anni, nel 1914. Sembra una storia lontanissima, eppure è quello che succede ancora oggi ai figli e alle figlie di tante tate, colf e badanti ucraine, sudamericane o filippine che lavorano nelle case italiane.

Pochi anni dopo, nel 1919, Marie, cattolica, sposò il luterano Charles Maier, in un matrimonio traballante fin dall’inizio, se è vero che i testimoni furono la moglie del pastore che lo officiò e il custode della chiesa. L’anno dopo nacque il loro primo figlio, Carl, e poi, nonostante la coppia si lasciasse e riprendesse continuamente, Vivian, nel 1926. Charles era dipendente dall’alcol e dal gioco, la madre sofferente e incapace di tenersi un lavoro, e nel 1927 si lasciarono definitivamente. Carl fu messo in orfanotrofio, Vivian rimase con la madre che però la lasciava spesso sola o in qualche casa-famiglia, fino a quando dopo l’inizio della grande Depressione si trasferì a casa di Jeanne Bertrand, fotografa francese amica della nonna dall’inizio della sua immigrazione americana. Fu lei probabilmente ad avvicinare Vivian alla fotografia. Dopo un periodo in Francia con la madre, tra il 1932 e il 1939, Vivian tornò a New York e iniziò a lavorare a 17 anni in una fabbrica di bambole. Poi, dopo un altro breve viaggio in Francia per vendere un terreno ricevuto in eredità alla morte della nonna, iniziò a lavorare come bambinaia. Lo avrebbe fatto per tutta la vita.

La sua passione per la fotografia era iniziata in Francia, con la macchina fotografica di sua mamma, l’unica in tutto il villaggio. Vivian la coltivò per anni, soprattutto a New York, dove negli anni 50 frequentava fotografi e artisti, tra cui Jeanne Bertrand. Marks racconta che però non riuscì mai a farne un lavoro, forse perché donna, autodidatta ed estranea agli ambienti della fotografia professionale. Sicuramente anche la sua storia familiare ebbe un peso. Sua madre fin dal 1939 iniziò a mostrare gravi disturbi mentali e morì in solitudine. Il fratello Carl fece dentro e fuori dal riformatorio, da ragazzo, e poi dal carcere, da adulto. Ebbe problemi di dipendenza dall’alcol e dalla droga e alla fine gli fu diagnosticata una forma di schizofrenia. Morì in una struttura di ricovero dopo aver passato lunghi periodi in psichiatria.

Vivian dopo essersi trasferita a Chicago condusse una vita sempre più solitaria. Sviluppò un disturbo da accumulo, collezionando soprattutto libri e giornali, tanto da rendere praticamente inabitabile camera sua e da dover affittare i depositi che alla fine finirono all’asta. Il fatto che non abbia mai stampato né mostrato la maggior parte delle sue fotografie potrebbe avere a che fare con questa difficoltà di lasciare andare che affligge molti accumulatori. Ma all’epoca non esisteva né diagnosi né cura per il suo disturbo, che finì per causarle problemi anche con i suoi datori di lavoro. Marks è convinta che Maier possa aver subito anche violenze o abusi sessuali: provava «orrore» per gli uomini, non sopportava il contatto fisico, aveva «reazioni brusche che facevano pensare a improvvisi flashback traumatici», «raccomandava alle bambine di non sedersi in braccio agli uomini e descriveva loro tutti i reati violenti o a sfondo sessuale di cui un uomo si poteva macchiare». È impossibile da sapere con certezza, ma è tutt’altro che improbabile. In ogni caso i bambini che ha cresciuto facendo la tata la raccontano come una donna eccentrica ma capace d’amore.

In mezzo a tutte queste difficoltà, Vivian Maier ha saputo anche trovare e coltivare la sua immensa creatività. Tra i suoi soggetti preferiti ci sono i bambini, forse un modo per sanare attraverso l’arte la sua infanzia piena di abbandoni. E poi le donne della classe lavoratrice in mezzo alle quali ha vissuto. Ha nutrito da sola il suo talento superando gli ostacoli della povertà, di una mancanza di istruzione formale, dei pregiudizi di genere in un’epoca in cui per una donna anche muoversi da sola senza meta per la città era malvisto e pericoloso. Nonostante tutte le ferite che la vita può averle inferto ha saputo costruire bellezza. L’arte è questo. E lo è anche se nessuno la vede, come è successo a lungo con le sue fotografie.


(27esimaora.corriere.it, 9 luglio 2022)

di Franca Fortunato


In ricorrenza della strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) in cui la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, Graziella Proto direttora della rivista Le Siciliane, Nadia Furnari co-fondatrice dell’Associazione Antimafie Rita Atria e Giovanna Cucé giornalista Rai hanno pubblicato il libro Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di Via d’Amelio, edito da Marotta &Cafiero. Tre donne di generazioni diverse, accomunate dal desiderio di trovare risposte al dubbio che quello della testimone di giustizia Rita Atria non sia stato un suicidio, come è stato derubricato e archiviato troppo in fretta. Un libro-inchiesta che indaga sulla morte della diciassettenne che il 26 luglio 1992, pochi giorni dopo la morte di Borsellino, per lei come un padre, si è buttata dal balcone dell’appartamento dove da pochi giorni era stata trasferita dall’Alto Commissario dell’Antimafia che ne aveva la tutela, da quando dalla Sicilia era stata portata a Roma, in località protetta, sotto falso nome. Le tre autrici entrano negli archivi, studiano gli atti giudiziari “sui quali il Viminale per la prima volta ha tolto il segreto”, leggono il fascicolo del tribunale di Roma, scoprono lacune, carenze, assenza di approfondimenti, e alla fine si persuadono che quella morte non è del tutto chiara e convincente e che qualcosa nel sistema di protezione non ha funzionato come doveva. Leggono lettere inedite, il diario e il quaderno pieno di appunti che Rita ha lasciato nella sua stanza, ne ricostruiscono i mesi di vita in clandestinità, raccontano la mafia di Partanna, piccolo comune della valle del Belice, paese natio di Rita, attraverso il racconto della giovane. Rita diventa testimone di giustizia non per combattere la mafia ma solo per amore del padre, don Vito, e del fratello, Nicola, entrambi mafiosi, uccisi “all’interno di faide e logiche della mafia locale capeggiata dalla famiglia Accardo”, legata ai corleonesi. Alcuni mesi prima, per paura, aveva fatto lo stesso la cognata Piera Aiello, testimone dell’uccisione del marito. Rita è arrabbiata, denuncia, parla di mafia, del padre riferisce crimini, soprusi, violenze e tradimenti nei confronti di sua madre, Giovanna Cannova, e solo mentre racconta si rende conto che era stato un mafioso, un “uomo d’onore”, come suo nonno, e che non era l’“eroe”, il “pacere”, che credeva che fosse. Scopre che era un trafficante di droga mentre credeva fosse stato ucciso perché si opponeva all’entrata della droga a Partanna. Chiede giustizia per il fratello che lei adorava, ucciso perché aveva tentato di sganciarsi dagli Accardo e trafficare droga in proprio. Era convinta che il padre e il fratello fossero «persone speciali», «le uniche, oltre alla sorella lontana, che le volevano bene, la capivano, la coccolavano». Della madre, invece, Rita pensava fosse una donna dura, distante, incapace di amarla. Eppure, come emerge dal libro, aveva fatto del suo meglio per quella figlia, aveva voluto che studiasse mandandola a scuola a Sciacca, aveva tentato di staccarla dal fratello spacciatore, aveva contrastato la sua scelta di testimone non per mafiosità, non cercava vendetta, ma perché non voleva perdere anche lei, non volle seguirla nella clandestinità forse perché pensava che quei due uomini non meritassero tanto sacrificio. Dopo la sua morte, ai cui funerali Rita aveva lasciato scritto di non volerla, per diciassette anni non si è data pace e questa volta è stata lei a chiedere invano giustizia per la figlia, non convinta del suo suicidio. Io sono Rita è un libro di ombre e luci, di interrogativi e dubbi, unico ed inquietante.


(Il Quotidiano del Sud, 9 luglio 2022)

Proponiamo un incontro per scambiare riflessioni a partire dall’attualità. Niente relazioni introduttive, ma sedie in cerchio per dire e ascoltare pensieri e passioni, esperienze e vissuti, dubbi e punti fermi. Uno spazio di libertà dialogante sui temi caldi del momento.

In libreria vi aspetta una mappa speciale per guidarvi nelle letture dell’estate: minirecensioni pensate e scritte dalle libraie per accompagnarvi nei vostri viaggi tra le pagine… e scoprire che è bello condividere le passioni!


(libreriadelledonne.it, 09/07/2022)