di Nicola Mirenzi 


«Mi fa rabbia – dice Ritanna Armeni – che anche alcune donne e femministe non riconoscano il valore simbolico che avrebbe per l’Italia il fatto che una donna – nello specifico, Giorgia Meloni –, per la prima volta nella storia del nostro paese, diventi presidente del Consiglio. Perché significa negare che c’è una forza femminile che ha attraversato in profondità il Paese e che potrebbe arrivare infine a rompere il tetto di cristallo. Lo farebbe con delle politiche neo-reazionarie che non apprezzo, e che anzi contrasto: ma il tetto di cristallo verrebbe comunque infranto».

Scrittrice, giornalista e femminista con una vita nel mondo della sinistra italiana, Ritanna Armeni segue il dibattito che si è aperto intorno alla possibile ascesa di una donna di destra al vertice del governo – e il conseguente psicodramma scatenatosi nel mondo progressista, che si è sempre considerato depositario dell’autentica liberazione femminile – pensando innanzitutto a sua nipote Costanza: «Io sono una donna cresciuta con l’immagine del potere associato inevitabilmente all’uomo. Sono stati uomini tutti i primi ministri che ho visto susseguirsi da quando ho l’età della ragione a oggi, così come tutti i presidenti della Repubblica, e molti dei ministri. Mia nipote, invece, vedrebbe finalmente una donna».

Cosa significherebbe?

Dal punto di vista simbolico, significherebbe considerare ‘naturale’ che una donna possa ricoprire quel ruolo, anziché considerare ‘naturale’ l’opposto: cioè che debba essere necessariamente incarnato da un uomo.

Perché a sinistra, allora, prevale il sospetto?

Perché c’è un equivoco così antico da essersi trasformato in pregiudizio: l’idea, cioè, che il femminismo sia di sinistra, e che la sinistra sia necessariamente femminista, mentre il femminismo non ha a che fare né con la sinistra né con la destra: ha a che fare con le donne.

Meloni è femminista?

Meloni è una donna che ha ri-organizzato una cultura patriarcale intorno a dei valori reazionari: la nazione, la famiglia, l’identità cristiana, raccogliendo la rabbia di un popolo disperato, colpito da anni di politiche economiche aristocraticamente ciniche. In questo sì che vedo un’analogia con il fascismo: così come Mussolini raccolse lo sbandamento dell’Italia ferita dalla Prima guerra mondiale, Meloni raccoglie la disperazione di un popolo devastato da anni di politiche economiche antipopolari.

Una femminista dovrebbe essere grata a Meloni?

Al contrario. Semmai è Meloni che dovrebbe essere grata al femminismo, per aver prima aperto la strada e poi conquistato la forza femminile, che lei oggi esercita in maniera reazionaria.

Il suo partito è il partito dei “Fratelli” d’Italia, però. 

E questo è ancora più significativo dal punto di vista simbolico: perché lei è la sorella che è riuscita a mettere in riga i fratelli, anziché farsi mettere a posto.

Perché non è successo a sinistra?

Perché a sinistra le donne sono collaborazioniste.

Prego?

Collaborazioniste, sì. La scelta delle donne di sinistra è stata la costante mediazione con i dirigenti maschi, in nome di un interesse sempre più elevato dell’affermazione femminile: il partito, la salvezza dell’Italia, la sacralità delle istituzioni. Quando Letta è arrivato, ha preteso due donne capogruppo in parlamento. Le donne lo hanno accettato, assecondando così la logica secondo cui è il maschio che cede quote del proprio potere, non le donne che se lo prendono.

Questo non succede a destra?

No, a destra i rapporti tra i sessi non hanno infingimenti idealistici: gli uomini non avvertono alcun obbligo di ritagliare ruoli per le donne, e, viceversa, le donne sanno di poter contare solo su loro stesse. Perciò lottano e si fanno strada con i propri strumenti, usando una forza e una determinazione che le donne di sinistra non hanno, o non hanno più.

È per questo che sono venute tutte da destra Thatcher, Merkel, Theresa May, Ursula Von der Leyen, Christine Lagarde, nonché (dalla Dc) la prima ministra donna in Italia? 

Credo di sì. Ma a sinistra è successo anche qualcosa in più.

Cosa?

Che l’appello alla parità femminile è servita a mascherare scelte politiche socialmente antipopolari, al punto che i proclami dell’uguaglianza sessuale sono arrivati a funzionare come un surrogato dell’aspirazione all’uguaglianza sociale, un trucco che dà ormai a ogni operazione che la sinistra fa intorno alle donne l’aspetto di una tintura.

Sta dicendo che le donne sono state anche usate?

Direi che le donne non sono riuscite a rompere questo meccanismo e sono rimaste ingabbiate dentro partiti che hanno fatto finta di valorizzarle. La politica è il mondo degli uomini ed è necessario combatterla con i loro stessi strumenti. Meloni l’ha saputo fare.

La voterebbe mai?

No. Né conosco donne, tantomeno femministe, che la voteranno perché donna.

Se immagina un governo Meloni cosa vede?

Non vedo il rischio che si comprometta la democrazia; e nemmeno mi spaventa l’idea del presidenzialismo: è pienamente legittimo che se ne discuta, perché né in Francia né negli Stati Uniti, dove esiste, mi sembra ci sia meno democrazia che da noi (benché io sarei contraria a una riforma del genere).

Allora cosa la preoccupa? 

Che la destra faccia quello che ha sempre fatto: colpire le persone più deboli, i ceti sociali più fragili, per di più dopo una pandemia e nel bel mezzo di una guerra. In questo, non fa alcuna differenza che sia un uomo o una donna a guidarla.


(HuffingtonPost.it, 24 agosto 2022)

di Margherita Montanari


Costituzionalista tra le più autorevoli, prima donna a vincere una cattedra di Diritto costituzionale in Italia, nell’ateneo di Padova, la giurista Lorenza Carlassare, si è spenta a 91 anni a Padova, città dove era nata e dove ha dato voce, fino all’ultimo, ai principi della suprema Carta della Repubblica.

Prima docente donna

È stata un’intellettuale libera, femminista e pioniera in ambito accademico. Quando per le donne era difficile ambire a cariche di rilievo in ambito universitario, lei abbatté un primo muro, vincendo la borsa come assistente straordinario. Un percorso di merito, intrapreso dopo una laurea in giurisprudenza con 110 e lode, il premio di miglior laureato della facoltà, e una borsa come assistente del professor Vezio Crisafulli. Un percorso coronato, nel 1978, dalla vincita del concorso per la cattedra Diritto costituzionale all’Università di Padova. Ma non senza aver prima superato gli ostacoli dettati dalla società del tempo. Perché quando si sposò, a 23 anni, perse il diritto a proseguire con la vita accademica. Anche una volta riammessa e diventata docente, per anni Lorenza Carlassare incontrò difficoltà a veder valorizzato il proprio lavoro scientifico in quanto studiosa donna in un mondo allora di monopolio maschile.

Attivismo politico

Padova era la sua città. Vi nacque nel 1931, vi si laureò e vi intraprese un percorso culminato con la nomina di Accademica dei Lincei, nel 2014. Ha seguito per tutta la vita ha lo spirito della Costituzione. Il diritto costituzionale, il ramo più “politico” della disciplina, è rimasto quello lungo cui si è mossa per tutta la carriera. Spesso la portava a esporsi pubblicamente, a prendere una posizione. All’esperienza accademica, affiancava un interesse per la cosa pubblica che spesso assumeva i tratti dell’attivismo. Le sue osservazioni pungenti sull’operato di Silvio Berlusconi, la strenua difesa del No al referendum costituzionale Renzi-Boschi e, più di recente, l’analisi delle misure di contenimento pandemico, hanno fatto del suo pensiero un faro per molti. A sinistra e non solo. Basti pensare che il Movimento 5 Stelle, nel 2014, fece il suo nome tra i possibili candidati alla Presidenza della Repubblica.

Una donna libera

Il presidente nazionale dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ha condiviso un saluto alla docente. «Ricordo una donna libera e coraggiosa, il suo battagliare per la convivenza civile e pienamente democratica, per la moralità delle Istituzioni, per la loro radice antifascista – ha scritto. – Una donna di carattere costituzionale. La sua scomparsa è una grave perdita per il nostro Paese. Terremo vive la sua intelligenza e la sua passione». Libertà che Carlassare stessa indicava come il motore dei suoi interessi scientifici. Anche se non da tutti una simile virtù era vista come un punto di forza. «Vari giudici costituzionali si aspettavano la mia presenza. So soltanto che di me qualche influente uomo politico ha detto “È una donna inaffidabile”…. Un complimento alla mia libertà. Io ho sempre pensato di non dover rendere conto a nessuno: se non a scienza e coscienza. Dove per scienza intendo i miei studi e per coscienza la mia fede. Del potere non ho mai avuto soggezione», disse in un’intervista alcuni anni fa.

Il ricordo

Come donna libera, colta e di infinita chiarezza la ricorda ora Libertà e Giustizia, l’associazione di cui Lorenza Carlassare è stata fondatrice. «Pensava con la sua testa. E che testa. Il rigore delle sue argomentazioni era accompagnato da una grandissima capacità di esporre in maniera semplice e diretta le sue idee e spesso da un’ironia briosa e pungente. Ascoltarla era un piacere e, allo stesso tempo, un modo per apprendere concetti complessi. Con quella bella testa bianca, che spesso scuoteva sorridendo – sia in cenno di assenso, che di diniego – a 91 anni possedeva ancora la carica di una ragazza, uno spirito indomito e vivacissimo che non si era appannato col trascorrere del tempo». Il cordoglio è arrivato anche dal governatore del Veneto Luca Zaia.


(https://corrieredelveneto.corriere.it/, 21 agosto 2022)

di Lucia Capuzzi


La lavagna è un foglio magnetico appeso sulla credenza. La cattedra un tavolino di plastica. L’unica sedia è quella dell’insegnante, Leyla, 23 anni, studentessa di legge. Al posto dei banchi c’è un grande tappeto rosso su cui, una accanto all’altra, siedono con le gambe incrociate ventitré bimbe, adolescenti, adulte. La più grande ha 55 anni, la più piccola 11. «No, il più giovane è lui», dice Fatma, vent’anni, mostrando Zakir, nove mesi, che dorme tra le sue braccia. È l’unico maschio ammesso in “aula”. La chiamano così. L’aula, in realtà, è un pezzo del soggiorno di Leyla che una tenda da cucina a strisce nere separa dal resto della casa e della vita della famiglia. Eppure le alunne ne vanno fiere. «Benvenuta nella nostra classe», dicono in inglese all’operatrice di Nove Onlus, mentre si sollevano con un balzo, come la maestra ha raccomandato loro. La forma è importante. La scuola non è qualcosa di scontato in un Paese in cui, dopo vent’anni di massicci investimenti nell’istruzione da parte della comunità internazionale, ancora, oltre la metà della popolazione non sa né leggere né scrivere. Specie per le donne: oltre i due terzi sono analfabete. «Sai che cosa vuol dire non riuscire nemmeno a decifrare le indicazioni del medico per dare le medicine a tuo figlio? O non sapere distinguere il nome delle vie per raggiungere l’ufficio giusto?», racconta la veterana, Azizà. «Sono cresciuta in tempo di guerra. La scuola era l’ultimo pensiero». Cominciato negli anni Settanta, il conflitto si è prolungato per i quattro decenni successivi, riducendo l’Afghanistan in macerie. La miseria, tra le più alte al mondo, e l’arretratezza culturale sono i principali ostacoli all’istruzione femminile. Poi c’è il nodo dei taleban. «Ero bambina durante il primo Emirato, negli anni Novanta: solo i maschi potevano imparare a leggere all’epoca. Mi è dispiaciuto ma non potevo farci niente. Durante la Repubblica, avrei potuto recuperare però mi ero sposata da poco, poi la scuola era lontana e uscire di casa era pericoloso per i continui attentati. Ora, tra la crisi e il ritorno dei taleban, pensavo non fosse il momento, invece…», si rammarica Mirta, 30 anni, avvolta in un lungo hijab (soprabito) nero, come la sciarpa che le copre la testa. 
A farle cambiare idea è stata la figlia, Yasmine, 13 anni, che sta accucciata accanto. Terminato il ciclo primario, l’anno scorso, la ragazzina avrebbe dovuto cominciare la settima classe, l’equivalente della scuola media. Con un repentino dietrofront rispetto alle promesse iniziali, però, i vertici dell’Emirato, hanno deciso di limitare l’educazione femminile alle elementari. Secondo le ricostruzioni più accreditate, l’ordine è arrivato direttamente da Kandahar, dove risiede l’emiro Hibatullah Akhundzada che ha fatto valere la sua autorità spirituale di capo dei credenti nei confronti al governo civile. Quest’ultimo era in larga parte favorevole a mandare le ragazze in aula, se non per convinzione quantomeno per non creare nuovi attriti con la comunità internazionale. Certo, la separazione fra i sessi sarebbe stata assoluta e includeva anche gli insegnanti. Ma per l’emiro non era sufficiente: già aveva dovuto ingoiare il boccone amaro del ritorno delle studentesse all’università, seppure solo per terminare facoltà già iniziate e in giorni differenti dai colleghi maschi. Di fronte alla sua intransigenza, l’esecutivo ha dovuto cedere nel nome della «etat», l’obbedienza che i taleban devono al leader supremo. Il decreto del 23 marzo è stato il trionfo di Kandahar su Kabul. Oltre un milione di adolescenti sono rimaste fuori dalle aule. «Solo temporaneamente», ha, tuttavia, precisato il ministero dell’Istruzione. Nessuno sa che cosa si intenda con tale espressione. Nel frattempo, Yasmine sarebbe dovuta restare a casa. Quando, però, ha saputo che nel suo distretto, alla periferia di Kabul, Nove Onlus aveva organizzato dei corsi gratuiti di alfabetizzazione per donne adulte, ha chiesto di poter partecipare. 
Lo stesso hanno fatto molte coetanee, spingendo Nove ad accogliere anche loro. Yasmine ha convinto anche la madre a iscriversi. «È vero, io sono più avanti, so già leggere e scrivere. Ma ripassare mi fa bene. Non mi annoio affatto. È l’occasione per aiutare mia mamma: la seguo, passo passo, così mi tengo in allenamento», spiega con voce flebile quanto determinata. «Mio marito è d’accordo – aggiunge Mirta –. Le lezioni si svolgono all’interno del quartiere, non dobbiamo fare tanta strada. E, poi, ci conoscevamo già tutte da prima». Vicinanza e sicurezza i due pilastri su cui si regge il progetto Wedut di Nove, da dieci anni impegnata in Afghanistan nella tutela dei diritti femminili. E la ragione per cui il consiglio degli anziani, l’organismo incaricato di risolvere le questioni locali, ha dato l’assenso alle lezioni che si svolgono nelle case delle insegnanti. Quella di Salima si trova qualche strada più in là. Sul tappeto, stavolta, ci sono trentasei ragazze addossate una all’altra. Non c’è nemmeno lo spazio per una pseudo-cattedra. «E ora ne mancano nove», dice l’insegnante. Kadija, 18 anni, frequentava i corsi di Corano di Salima, laureata in sharia. Alla scuola vera e propria, però, il padre non voleva lasciarla andare. «A fargli cambiare idea è stato il fatto che finalmente potevo preparargli le ricette della tv. Senza saper leggere, prima non riuscivo», racconta. Non solo. Visti i buoni risultati di Kadija anche la sorella più piccola ha potuto iscriversi. Fara, 15 anni, si è trasferita a Kabul un anno fa da un villaggio della provincia di Nangarhar. «Là nessuna ragazza andava a scuola. E mio fratello non mi lasciava. Qui, però, è diverso. La maestra Salima è una donna del quartiere. Sono felice di poter studiare». 
Anche Shaissa, 15 anni, lo è. Due anni fa, avrebbe dovuto cominciare la settima classe ma le lezioni sono state interrotte a causa del Covid. «Poi sono arrivati i taleban e, per le ragazze della mia età, non ha più riaperto. Ero molto triste quando l’ho saputo: ho pianto e anche la mamma ha pianto. Questo corso mi ha dato un po’ di speranza. Ho l’occasione di continuare a studiare, in attesa di poter proseguire. Sogno di poter diventare una dottoressa», esclama d’un fiato la ragazzina, con il velo ricamato poggiato sulla bocca. Fa una piccola pausa poi si guarda intorno come temendo di aver detto troppo. E sussurra: «Se me lo consentiranno».


(Avvenire, 20 agosto 2022)

di Fabrizio Geremicca


«Le donne sono reclutate come ancelle nelle liste elettorali ». Luisa Cavaliere, scrittrice, storica militante del Pci ed esponente del movimento femminista, non è una che abbia timore di dire quello che pensa o che ami celarsi dietro cautele e perifrasi di comodo. Osserva quel che sta accadendo nella scelta dei nomi che i partiti si apprestano a proporre agli elettori per le elezioni politiche del 25 settembre e ne trae conclusioni nette. «La formazione delle liste – sostiene – è un fatto scandaloso».

Una situazione che sta già suscitando rinunce à gogo, basti citare quelle dell’ex assessora comunale di Napoli Roberta Gaeta e della consigliera regionale Paola Raia.

Si riferisce alla circostanza che le candidature delle donne parrebbero a volte dettate soprattutto dalla necessità di ottemperare alle disposizioni inerenti le quote di genere imposte dalla legge (non più del 60% di presenze di uno dei due generi) e che nelle liste ad esse sono spesso riservate le posizioni meno favorevoli?

«Il mio discorso è più complesso. Il punto vero è che, al di là della collocazione più o meno favorevole ai fini dell’ingresso in Parlamento, la posizione della donna nelle liste elettorali è accettata solo se la candidata acconsente a sedersi alla tavola quando è già imbandita. Invece di rompere gli schemi, sparecchiare ed apparecchiare, le donne che puntano a un seggio rivendicano il posto a tavola. Le quote sono servite a una piccola élite di protette le quali, in cambio della benevola accettazione, non mettono in discussione lo status quo. La differenza sessuale è un grande valore dei rapporti e questa pratica lo mortifica».

L’accesso delle donne nelle stanze del potere non era una rivendicazione femminista?

«Il femminismo radicale non si accontentava della parità numerica nelle istituzioni, che è nemica delle donne. Riteneva, anzi, che andasse esaltata la diversità tra uomini e donne e che le donne potessero svolgere un ruolo decisivo nel mettere in discussione le logiche e le dinamiche del potere. Il problema non è quello di avere più signore in Parlamento, ma di avere donne capaci di contrastare la narrazione corrente ormai trasversale alla destra ed alla sinistra».

«Io voto donna» è lo slogan che fu lanciato nel 2004 dal Ministero per le Pari Opportunità. È da buttare?

«Una cosa sciagurata dal mio punto di vista. Un po’ come votare Giorgia Meloni perché è donna».

Lo ha detto anche a Rosetta D’Amelio, la consigliera di De Luca alle Pari Opportunità che è una sua storica amica, e ora si candida con il Pd ad Avellino, dietro uno dei figli del presidente della giunta regionale campana?

«Rosetta ha vinto finora qualunque battaglia elettorale, non ha rinunciato alla sua identità e al suo impegno sociale, però accetta anch’ella il patto. Poiché è riconosciuta, lo accetta».

Non le pare che la sua sia una posizione ormai di nicchia?

«Il primo femminismo radicale esiste ancora ed è molto forte, sebbene mostri segni di timidezza sulla scena politica. La partita è tra un femminismo di Stato che accetti le regole e punti ad essere ammesso nelle istituzioni, sia pure da ancella, e un femminismo radicale che sa che se non si cambiano le regole muta poco. Lo ripeto anche quando mi capita che una donna – in genere inserita in un meccanismo esclusivo – si sorprenda che io ancora parli di femminismo».

La concezione ancillare della donna in politica riguarda anche la sinistra?

«È trasversale. Se parlo con Letta o Speranza io mi dispero. Ho riletto un mese fa gran parte dei discorsi di Mara Carfagna. Tanti uomini di sinistra sono oggi innamorati di lei. È indubbiamente una donna intelligente, sebbene mimetica nel senso che si mimetizza ed assume diverse sembianze a seconda delle circostanze esterne. I suoi sono tutti discorsi incentrati sul tema: io ce l’ho fatta. Si dovrebbe uscire con un manifesto firmato da sei o sette donne note all’opinione pubblica nel quale si dica che la battaglia non è per avere più donne in Parlamento».

Secondo lei, il politico che meglio interpreta il ruolo sessista per il quale le donne in politica devono continuare a ricoprire un ruolo da comprimarie o, come dice lei, ancillare?

«Che dubbio c’è? Il maschilista Berlusconi, il quale ora dice che vuole diventare presidente del Senato».


(Corriere del Mezzogiorno Campania, 20 agosto 2022)

di Sonia Phalnikar


La storia di Parigi è piena di donne straordinarie. Ciò nonostante non ci sono quasi statue, targhe o nomi di strade che le commemorino. Per questo nuovi tour della città raccontano le loro imprese.


Una mattina soleggiata a Parigi. La guida Mina Briant conduce un gruppo di turisti verso il leggendario caffè “Les deux Magots” e la chiesa di Saint Germain des Prés. Però ignora quei due popolarissimi luoghi e si trasferisce invece nel verdeggiante cortile interno di una strada laterale. Lì si ferma. Questa oasi verde ospita le Éditions des femmes, la prima casa editrice europea di donne, fondata da Antoinette Fouque all’inizio degli anni ’70.

Mina Briant lavora per l’agenzia di viaggi Women of Paris. Ci spiega come è nata la piccola casa editrice. «A quel tempo, la Francia era scossa dalle polemiche a proposito di un manifesto sull’aborto redatto tra le altre dalla scrittrice femminista Simone de Beauvoir». La casa editrice c’è ancora oggi, e comprende una libreria e uno spazio per presentare le opere delle scrittrici.

Tour di Parigi

Un inizio felice per un tour dedicato alle lotte e alle conquiste delle donne – scrittrici e editrici – nella capitale francese. A qualche strada dalla casa editrice, Briant indica un appartamento inondato di sole, abitato negli anni ’90 dell’Ottocento dalla scrittrice francese Sidonie-Gabrielle Colette, più nota come Colette, con il suo primo marito Willy, editore e redattore. «Colette ha scritto qui i suoi primi libri di successo, ma sono stati tutti pubblicati a nome di Willy, non suo», spiega Briant. «Willy rinchiudeva Colette nella sua stanza anche per ore, in modo che si concentrasse sul suo lavoro e scrivesse il più possibile, perché lui faceva soldi con il talento di lei».

Colette, George Sand, Simone de Beauvoir

In un altro cantuccio poco appariscente, la guida turistica indica una casa dove nel 1804 abitò per qualche tempo la grande romanziera George Sand, nata Amantine Aurore Lucile Dupin. Fu la prima donna a lavorare per il quotidiano Le Figaro. Scrisse oltre ottanta romanzi e racconti ed era nota per le sue numerose relazioni con uomini e donne, tra cui il pianista Frédéric Chopin.

«Il suo editore era dell’idea che avrebbe venduto di più se avesse firmato con un nome maschile, quindi lei si fece chiamare George Sand. Sfruttò pienamente il suo alter ego maschile», dice Briant. «Si vestiva da uomo, fumava la pipa in pubblico e riuscì a ottenere una licenza per travestirsi, cosa che all’epoca era illegale».

L’altra metà della storia di Parigi

Per la maggior parte dei trentatré milioni di turisti previsti quest’anno a Parigi, aneddoti e storie di donne come queste sono probabilmente ancora un territorio nuovo. Il quartiere intellettuale di Saint-Germain-des-Prés è spesso associato ai nomi di Jean-Paul Sartre o Ernest Hemingway e di altri intellettuali maschi che si incontravano qui nei caffè. «La maggior parte dei tour guidati attraverso Parigi menzionano nomi come Enrico IV, Napoleone Bonaparte, Victor Hugo o Luigi XIV», spiega Heidi Evans, fondatrice dei tour Women of Paris, in un’intervista a DW.

«La storia della Francia è dominata dalle figure maschili. Alcune donne forse spiccano come regine crudeli», dice. «Ma questa è solo una metà della storia, quella in cui si usa glorificare gli uomini e demonizzare le donne, come Maria Antonietta (ultima regina di Francia prima della rivoluzione del 1789) o Caterina de’ Medici (regina di Francia dal 1547 al 1559, Ndr), che sono denigrate da tutte le guide turistiche come regine crudeli e assetate di sangue. Ci sono alcune donne che generalmente vengono citate solo come amanti o muse».

In Francia le regine non godono di buona stampa

Evans si è trasferita da Londra a Parigi dopo aver studiato letteratura francese e ha iniziato a organizzare tour della città per varie compagnie nel 2014. Si è immersa profondamente nella storia della città. Nel 2016, ha lanciato il Women of Paris Tours, la prima di numerose passeggiate a tema dedicate alla storia delle donne e alla loro influenza determinante sulle arti, il teatro, la letteratura, la cultura e la politica della città.

«Nella storia della Francia le donne sono state invisibili per secoli», afferma Evans. « A Londra è completamente diverso. Lì la regina è la più grande attrazione turistica; i monarchi più popolari sono state donne. Perciò mi sono sorpresa ancora di più per quanto fosse negativa la visione che ha la Francia delle sue regine».

Quanto poco la Francia onori le donne lo si può constatare anche nel Panthéon, il più grande mausoleo francese su una collina nel Quartiere Latino. Vi sono inumate pochissime donne. La fisica e vincitrice del premio Nobel Marie Curie è stata la prima a ottenervi una sepoltura postuma nel 1995. L’hanno poi seguita altre donne, tra cui Simone Veil, sopravvissuta all’Olocausto e icona dei diritti delle donne. L’anno scorso, Josephine Baker, ballerina, cantante e attivista per i diritti civili di origine americana, è diventata la prima persona di colore ad essere sepolta nel Panthéon. La situazione è simile nei musei, ad esempio al Louvre. Solo circa 300 su grossomodo 500.000 opere d’arte sono di autrici, afferma Evans.

Delle 6000 vie di Parigi, 4000 sono intitolate a uomini e solo 300 a donne. Anche i monumenti della città commemorano quasi esclusivamente uomini. Nel suo tour, Mina Briant racconta che è stato solo nel 2017 – dopo diverse petizioni – che la prima scrittrice, Madame de La Fayette, è stata inserita nei programmi di letteratura per la scuola superiore, insieme alla lettura obbligatoria di autori famosi come Victor Hugo, Gustave Flaubert e Honoré de Balzac. Quest’anno è stata aggiunta la drammaturga e attivista politica Olympe de Gouges, nota per la sua “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” del 1791.

«Le scrittrici come Colette e George Sand erano considerate di scarso peso e troppo frivole. Solo molto più tardi, nel XX secolo, si è cominciato a rispettare la scrittura femminile», dice Briant.

L’unica donna non francese di cui si parla durante il tour è l’americana Sylvia Beach, che ha aperto la libreria Shakespeare and Company a Parigi e l’ha resa un luogo di incontro estremamente importante per scrittori come Ernest Hemingway e James Joyce. Fu Beach a pubblicare la prima edizione dell’Ulisse di Joyce nel 1922.

Raccontare la storia per intero

Le Women of Paris non sono le uniche a cercare di rivisitare la storia di Parigi per attirare l’attenzione sul contributo delle donne. Alcuni altri gruppi di nicchia ora offrono anche tour femministi del Louvre e del Musée d’Orsay, nonché del famoso cimitero Père Lachaise.

Heidi Evans racconta però di evitare deliberatamente di usare la parola “femminista” per i suoi tour per aprirli a un pubblico più ampio delle sole donne impegnate, che sono quelle che si iscrivono principalmente. «Le donne hanno ottenuto tanto quanto gli uomini», dice. «Penso che le donne del passato possano anche essere una fonte di ispirazione per il futuro».


(Deutsche Welle, dm.com, 20 agosto 2022. Traduzione di Silvia Baratella –

www.dw.com/de/paris-stadtf)

di Federica D’Alessio


Nel suo ultimo libro “Il liberalismo e i suoi oppositori”, il politologo americano Francis Fukuyama rivede a 30 anni di distanza le eccessive sicurezze riguardo alla “Fine della storia” e riconosce che il liberalismo, nel XXI secolo, è un veliero nella temperie; che non necessariamente supererà la tempesta.

Il liberalismo non è mai stato tanto in crisi come oggi, e non è scontato che riuscirà a sopravvivere alla temperie del III millennio. Da questa calda preoccupazione trae origine l’ultimo libro del politologo americano Francis Fukuyama, “Il liberalismo e i suoi oppositori”, pubblicato in Italia da Utet Libri nella traduzione di Bruno Amato e Maria Peroggi. A trent’anni di distanza dal classico che lo rese celebre, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, vacilla la sicurezza con la quale lo studioso proclamava che la dottrina liberale rappresentasse il compimento della storia “universale e direzionale”. Forse non sarà ciclica come sosteneva Aristotele, ma di certo – comprende Fukuyama pur evitando di esplicitarlo – la storia è fatta anche di passi indietro. E nel momento in cui la vetta più alta del sistema liberale mondiale, gli Stati Uniti, affrontano i rischi di una sconfitta dall’interno della loro democrazia a causa della virulenza del trumpismo, c’è da chiedersi quanto fossero davvero solide le basi della riflessione di un trentennio fa, che così tanta eco ebbe.

Ma il suo ultimo libro non è un bilancio né un ritorno di riflessione sui presupposti filosofici di quanto aveva affermato trent’anni prima. Per Fukuyama, il sistema liberale rappresentava il miglior compimento possibile della dialettica servo-padrone illustrata da Hegel giacché nel liberalismo le contraddizioni si sciolgono e la libertà si compie: attraverso una sorta di domesticazione razionale del thymós, di quel senso di rabbia, orgoglio e megalotimia (la convinzione che il mondo ci debba un riconoscimento di superiorità) che spinge le persone alla lotta e all’affermazione violenta di sé, e grazie a un accomodamento delle passioni umane nella soddisfazione borghese del piacere e del desiderio. Le istituzioni democratiche, il coinvolgimento delle maggioranze negli indirizzi dello Stato e della vita sociale, la diffusione ampia dei frutti del sistema economico e la diffusa possibilità di iniziativa personale, offrivano per Fukuyama il miglior sbocco ai dilemmi della psiche umana, al bisogno di bilanciamento fra gli slanci del thymós e la sua distruttività, alla necessità di equilibrio fra la megalotimia dei pochi e l’isotimia – la richiesta di pari riconoscimento – delle maggioranze.

Pur costellando la sua riflessione di molte ipotetiche e molte mani avanti, il teorico americano offriva insomma una spiegazione quasi essenzialista del successo del liberalismo nei confronti del suo principale antagonista dell’epoca, il sistema sovietico comunista che all’inizio degli anni ’90 appariva ormai arrivato alla fine del suo percorso. Pur annotando la persistenza del regime cinese, Fukuyama lo riteneva avviato verso una maggiore liberalizzazione, dettata dalla necessità di aprire lo spazio dell’economia all’iniziativa privata garantendo più libertà ai lavoratori. Non prevedeva avrebbe rappresentato un antagonista di primo piano per gli Stati Uniti. E sebbene non gli sfuggisse la diffusa presenza di personalità megalotimiche nel sistema liberale – citava proprio Donald Trump – riteneva che non sarebbe stato il mondo politico ad assorbirne le energie ma che tali personalità avrebbero trovato sfogo in attività più innocue da un lato e più gloriose dall’altro, nelle quali avrebbero indirizzato il loro surplus di egomania.

Mai previsione fu più sbagliata. Lo stesso Fukuyama, nel suo penultimo libro “Identità” (anch’esso edito da Utet Libri, tradotto da Bruno Amato) esordisce confessando lo sbigottimento per l’elezione del magnate, e inizia a farsi una serie di domande su quali esigenze di natura identitaria il liberalismo lasci insoddisfatte. Individua due tendenze che a suo dire rischiano, se non affrontate, di minare la solidità della democrazia liberale: la prima è nelle identity politics in voga presso i campus americani. Prendendo le mosse dalle legittime rivendicazioni di maggiore dignità di categorie tuttora bistrattate nella società americana, come le donne, le persone nere, le minoranze LGBT+ fra le altre, i fautori e le fautrici delle politiche identitarie hanno sviluppato nel tempo un’ideologia politica antiliberale, che mette in discussione il concetto stesso di diritti individuali alla base del sistema democratico per privilegiare le rivendicazioni dei gruppi. Al tempo stesso, squalificano alcune basi del pensiero moderno, fra cui il metodo scientifico basato sull’osservazione dei fatti, e la prevalenza dell’esperienza, che unisce le persone nelle diversità, sull’esperienza vissuta, ovvero sull’interpretazione ipersoggettiva della realtà che mette al centro i sentimenti e le emozioni atomiche sulla possibilità della condivisione; negando così l’esistenza stessa di un terreno comune fra persone diverse, e dando invece – molto pericolosamente – per intesa l’esistenza di un terreno comune solo fra persone che a priori etichettano il proprio vissuto con la stessa dicitura. L’“esperienza trans”, per esempio, per i seguaci delle identity politics non è il terreno condiviso attraverso cui le persone transessuali, raccontando la propria vita e le proprie sfide inevitabilmente diverse per ogni individuo, mettono chi è disposto ad ascoltare in condizione di capire e immedesimarsi nella loro condizione. Nella cornice delle identity politics, l’“esperienza trans” diventa un apriori incomprensibile per chi non fa parte del gruppo “trans”, che può solo essere validato così com’è; criticarlo o metterlo in discussione attraverso semplici domande e dubbi significa in automatico delegittimarlo, e l’appartenenza stessa al gruppo trans o meno finisce per difendere dall’unico criterio della validazione. Se mi validi come chiedo io sei dentro, altrimenti sei fuori.

La seconda delle tendenze che oggi, per Fukuyama, sta mettendo in serio pericolo la sopravvivenza del sistema liberale si situa in quello che lui chiama controidentitarismo di stampo conservatore e reazionario, che attorno alla figura del leader repubblicano Donald Trump – ma in Europa attorno a Orbán, Salvini, Meloni e altri, o nella fascinazione per la figura di Putin – si è coagulato rapidamente, nell’arco di pochi anni, unificando tutti coloro che si considerano vittima sia del sistema liberale, sia delle stesse identity politics. I maschi bianchi delle zone rurali, innanzitutto. Pur sensibili al generico razzismo bianco che è parte della cultura americana, pochi di loro, per il politologo, erano praticanti di visioni concretamente razziste. La maggior parte ha invece sviluppato nel corso di pochi anni una forma di vittimismo di stampo nuovo, controidentitario, nel momento in cui le politiche neoliberiste estreme degli ultimi decenni, identificate sia con Washington sia con la società d’élite degli Stati costieri a est e ovest, hanno causato un impoverimento economico e sociale importante nelle zone della working class bianca o mista. Il simbolo di questo dramma umano è nell’esplosione di nuove dipendenze come quella da oppioidi. Una realtà drammatica che in Europa è tuttora poco conosciuta, e che ha ucciso nel solo 2021 oltre centomila statunitensi. Come ben racconta la serie TV Dopesick, protagonisti Micheal Keaton e Rosario Dawson, l’epidemia da oppioidi ha avuto inizio proprio fra i lavoratori bianchi dell’Appalachia, cui venne proposta una nuova cura ingannevole per gli infortuni o i dolori cronici dovuti al lavoro.

Che un newyorchese e miliardario sia riuscito a farsi portavoce di disagi e sofferenze di cui non ha la minima cognizione diretta, rappresenta solo apparentemente un paradosso. Il controidentitarismo di destra americano, come l’identitarismo di sinistra, si basano sulla ribellione all’ideologia liberale ma non possiedono un connotato né tantomeno poggiano su una coscienza di classe, né su un’analisi conflittuale delle condizioni materiali in vista di proposte di cambiamento. Si nutre invece del senso di rivalsa verso l’ideologia liberal-democratica – il “potere” genericamente inteso – vissuto dalle popolazioni rurali chiuse nel loro revanchismo di maggioranza, in un caso, e dalla classe borghese universitaria indebitata e precaria che si identifica nelle minoranze, nell’altro. Il risultato è che da entrambi i raggruppamenti umani oggi provengono attacchi alla possibilità stessa che la democrazia liberale sopravviva; i seguaci delle identity politics progressiste si mettono attivamente e continuamente di traverso all’esercizio della libertà di espressione e parola e della diversità di pensiero, praticando costanti atti di intimidazione sociale verso chi esprime idee e visioni che dall’interno dei gruppi identitari vengono considerate una messa in pericolo dei soggetti vulnerabili. Non perché violente o discriminatorie, ma perché non convalidanti la visione che tali gruppi di persone promuovono di sé (e quindi degli altri diversi da sé); su un piano diverso, e nell’immediato molto più pericoloso, i seguaci del controidentitarismo incarnato da Trump si stanno dimostrando disposti a seguirlo e sostenerlo persino nelle sue più violente ed eversive rivendicazioni di potere, come avvenuto all’indomani delle elezioni presidenziali del 2020.

Nel suo classico del 1992, Fukuyama individua, seguendo Hegel e alcuni suoi interpreti, il bisogno di riconoscimento da parte dell’altro come uno dei motori spirituali della storia e delle energie umane nella storia. Ammette che il liberalismo abbia inizialmente proclamato il suo universalismo negando di fatto l’ammissione alla schiatta degli “uguali” a una larga fetta dell’umanità, ma ritiene che uno dei punti di forza della filosofia liberale sia la sua capacità di emendarsi e ampliare gradualmente la cerchia dell’umanità che trae vantaggio dalla libertà democratica. Un’uguaglianza progressiva. Se Fukuyama avesse letto una delle critiche più acute e profonde alla dialettica servo/padrone, quella espressa nel 1970 in “Sputiamo su Hegel” dalla femminista italiana Carla Lonzi (di cui in questi giorni ricorre il quarantennale della morte), forse avrebbe problematizzato maggiormente alcune sue premesse. «L’uguaglianza è un principio giuridico: il denominatore comune presente in ogni essere umano cui va reso giustizia. La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell’esistenza in una situazione data e nella situazione che vuole darsi. Quella fra uomo e donna è la differenza di base dell’umanità». Lonzi contestava la visione della dialettica servo-padrone così come era stata fatta propria dal marxismo, la riteneva una «regolazione di conti tra collettivi di uomini» e un «rapporto interno al mondo umano maschile» che aveva escluso il sesso femminile sia dalla visione delle classi in lotta e delle loro prospettive, sia dalla fenomenologia dello spirito. Anticipando ciò che in seguito sarà sviluppato dalla storica femminista Silvia Federici, Lonzi si chiede: «Perché non si è visto il rapporto della donna con la produzione mediante la sua attività di ricostituzione delle forze-lavoro nella famiglia? Perché non si è visto nel suo sfruttamento all’interno della famiglia una funzione essenziale al sistema dell’accumulo di capitale? Affidando il futuro rivoluzionario alla classe operaia il marxismo ha ignorato la donna come oppressa e come portatrice di futuro; ha espresso una teoria rivoluzionaria dalla matrice di una cultura patriarcale».

Secondo Fukuyama il liberalismo rappresenta lo stadio finale della dialettica servo-padrone, vincente rispetto all’interpretazione marxista. È lo stadio della pacificazione, in cui il servo non è più servo e il padrone non smette di essere padrone, ma razionalizza il suo bisogno di affermazione proiettandolo sulla sfera economica. Lonzi accusa l’hegelismo – punta il dito soprattutto sulla derivazione marxista, ma altrettanto si può dire di quella liberista – di escludere dalla Storia i soggetti estranei alla dialettica: ignora le donne e ignora le soggettività che non rispondono al paradigma originario a partire dal quale si è postulata l’universalità e la direzionalità della Storia stessa, quello dei maschi bianchi proprietari e dei loro servi, i lavoratori. È la stessa aporia che fu segnalata da Olympe de Gouges nel momento stesso in cui vedeva la luce, in Francia, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: la donna, all’interno di quel documento, non si trovava fra i proprietari, ma fra le proprietà. Così è per i giovani, non a caso avanguardia delle politiche identitarie e di ogni contestazione al sistema liberale da decenni a questa parte (interessante in questo senso come Fukuyama liquidi il ’68 come una sostanziale espressione di noia giovanile); e così fu per quell’ambiente naturale privo di valore nella visione hegeliana che il liberalismo pretendeva e tuttora pretende di dominare senza rispettare; senza vedere il pericolo che ha provocato, alla vita umana stessa, aver espulso la natura e l’ecosistema dall’ordine dei soggetti magari non coscienti, ma sicuramente vivi e perciò dinamici con i quali è necessario relazionarsi, includendoli nella Storia.

Il liberalismo ha scontentato coloro ai quali per statuto faceva promesse che non ha mantenuto – i maschi bianchi proprietari – suscitando una reazione revanchista e rabbiosa di tipo illiberale come quella che oggi si vede in larga parte delle società occidentali, fra i trumpiani e i sovranisti che si rivendicano come traditi dalla società democratica; ma il suo vulnus originario, ben più grave e profondo, è quello di essersi fondato a partire da un’idea di umanità che proclamandosi universale, in realtà non faceva che riperpetuare il vizio originario di ogni comunità umana dalla notte dei tempi, ovvero definire “umanità” il proprio gruppo parziale, e situare fuori dall’umanità ogni elemento ritenuto strumento e non soggetto, mezzo e non fine per dirla con Kant. A un’aporia simile non si può semplicemente apportare correttivi per approssimazioni successive come ha preteso di fare il sistema liberale e come suggerisce lo stesso Fukuyama, includendo nell’impronta dei maschi bianchi proprietari via via le donne, i neri, i giovani, le specie animali e vegetali. Un tale escamotage rappresenta infatti un’ennesima azione unilaterale, destinata a produrre senso di mortificazione e annichilimento delle diversità originariamente non riconosciute, perciò ulteriore revanchismo. È necessario fare i conti con il fallimento, irreversibile, di un paradigma filosofico, e individuarne uno diverso e migliore che non rinunci a prendere le mosse da una condizione umana universale, ma sappia abbracciare il valore della diversità come consustanziale, non accessorio, all’universalità stessa. Per riuscirci, non basta apportare i correttivi ai principi liberali che Fukuyama, in conclusione del suo libro, suggerisce: redistribuzione del reddito e sussidiarietà in modo da bilanciare parzialmente le disuguaglianze materiali, difesa della libertà d’espressione, moderazione nelle pretese del neoliberismo. Sono paletti importanti per arginare la crisi, ma se le minacce che oggi arrivano al sistema liberale sorgono dalle contraddizioni originarie del sistema liberale stesso, è a quelle che bisogna avere il coraggio di guardare. Non solo difendere il liberalismo democratico ma avere il coraggio di ripensarlo radicalmente verso un’idea di umanità finalmente libera dall’androcentrismo originario, aperta alle sue differenze e al rapporto con le ancora più ampie e affascinanti differenze presenti nell’ecosistema.


(MicroMega, 12 agosto 2022)

di Lucia Capuzzi


Questa non è un’intervista. È la cronaca di un incontro, avvenuto a causa di un ‘equivoco’ sui permessi e andato avanti per oltre nove ore. Un tempo in cui chi scrive ha avuto l’opportunità di osservare da molto vicino, seppure sotto la rete cerulea di un burqa, alcuni di quegli ex fantasmi celati per due decenni dalle gole pietrose dell’Afghanistan e apparsi d’improvviso, un anno fa, in carne ed ossa, nel cuore di Kabul.

I taleban, uno dei movimenti più impenetrabili dell’islamismo radicale, hanno fatto della segretezza una garanzia della loro ostinata sopravvivenza. Le lotte tra fazioni – che ci sono – si consumano al riparo da occhi e orecchie estranei per non incrinare il mito della fedeltà incondizionata al capo supremo. Attualmente si tratta dell’emiro Hibatullah Akhundzada, tanto sfuggente che qualcuno lo dà per morto da anni a causa del rifiuto di comparire in pubblico.

Gerarchia, regole interne e intenzioni politiche degli esponenti della formazione sono centellinate ed elargite in frammenti di verità tanto piccoli da rendere quasi impossibile ricostruire un mosaico leggibile. Ancor meno si sa delle abitudini e modi di vita taleban al di fuori dei rituali di ordinanza. Ecco perché condividere lo spazio con un gruppo di funzionari di vario livello lontano dai riflettori è, comunque, un’esperienza unica per chi la vive. Tanto più se si tratta di una donna, con cui difficilmente gli studenti coranici si approcciano.

Nell’enorme stanza del palazzo del governatore di Lashkar Gah, nel sudovest del Paese, ci sono nove uomini. I più anziani – di età e di servizio – siedono sui divani di pelle nera. Gli altri, i giovani, si distribuiscono sui tappeti, con le gambe incrociate, secondo la tradizione afghana. Si dispongono dallo stesso lato: un tavolo – elegante e nuovo come il resto del mobilio – li separa dall’entità avvolta nel burqa azzurro. Nessuno di loro indossa l’uniforme militare: niente mostrine, niente nomi, niente presentazioni. Tutti, invece, sfoggiano la ‘divisa’ taleban, mutuata dalla tradizione pashtun: tunica e pantaloni candidi e turbante nero da cui molti fanno spuntare una massa corvina lunga fino alle spalle. Il dettaglio sorprende perché nell’Afghanistan dell’Emirato – così si chiama il regime al potere dal 15 agosto 2021 – è proibito ai maschi portare i capelli sotto l’orecchio. Agli studenti coranici, però, nella pratica è consentito, in omaggio al costume degli uomini pashtun di danzare l’‘atana’ (ballo popolare) agitando le folte chiome.

Ovviamente ognuno tiene ben in mostra il pesante Kalashnikov. Altri fucili sono lasciati in vista sul tappeto, mescolati alle tazze ormai vuote di tè, a ridosso della scrivania dove s’innalza superba la bandiera dell’Emirato: bianca, per testimoniare la purezza del loro fervore, con impressa la shahadah, la dichiarazione di fede secondo cui Allah è l’unico Dio e Maometto il suo profeta, uno dei cinque pilastri dell’Islam. A lungo, gli uomini chiacchierano e scherzano come se non ci fosse nessun altro nella stanza. Senza volto – perché deve stare coperto, come le è stato ordinato –, la donna smette di esistere.

La luce accecante di fine mattinata offusca le sagome degli alberi che spuntano dalle finestre. Fuori c’è un giardino che, indifferente agli eterni 47 gradi, cresce rigoglioso. Merito anche delle reclute taleban che se ne prendono cura, nelle pause tra una missione e l’altra. I loro vestiti sono meno curati dei nove funzionari ma si trovano, comunque, più in alto nella rigida scala gerarchica delle semplici guardie dei check-point che presidiano le strade con tuniche sbrindellate, una sciarpa buttata sulle spalle o sulla testa e un fucile sempre carico. I taleban-giardinieri spostano la pompa di plastica da un’aiuola all’altra con lentezza esasperante. A tratti, si fermano per salutare calorosamente i nuovi arrivati e prendersi in giro, come rivela il linguaggio universale del corpo. Allora i volti si fanno sorridenti e nelle loro fattezze di ragazzi feroci riappaiono gli adolescenti che non sono mai potuti essere.

I taleban, scrive il loro più profondo conoscitore, il giornalista pachistano Ahmed Rashid, sono ciò che la guerra – o meglio le innumerevoli guerre in atto da 43 anni – ha rigettato, relitti depositati dal mare sulla spiaggia della storia. Orfani di padri, uccisi in una sequela senza fine di combattimenti, e soprattutto di madri. Le hanno perse nei raid degli occidentali o, il più delle volte, per farli sopravvivere, queste ultime, rimaste vedove e senza mezzi, hanno dovuto affidarli alla madrassa, lontano da sorelle, zie e cugine che popolano, seppur in posizione subordinata, la conservatrice società pashtun. Uomini cresciuti senza donne, la cui presenza ora viene vissuta con un misto di minaccia e curiosità.

Le ore scorrono lente nella stanza di Lashkar Gah svelando appieno il significato della tagliente frase di un detenuto di Guantanamo: «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo». Di tanto in tanto, la suoneria di un cellulare sfida il bando totale della musica. Paradossale che a infrangere il divieto siano proprio i suoi custodi. Nessuno, però, ci bada. I funzionari taleban continuano a scambiarsi battute fra loro. A un certo punto uno tira fuori da una scatola un nuovo paio di scarpe da ginnastica e se le prova, chiedendo un consiglio. Tra loro c’è il tipico cameratismo delle confraternite studentesche maschili.

Pian piano, quando gli altri sono distratti, uno dei funzionari anziani si avvicina al burqa per offrirle acqua, sussurrando qualche frase in inglese: «Puoi rilassarti, noi garantiamo la tua sicurezza. Per questo non facciamo viaggiare le donne da sole».

L’arrivo di quello che poi si rivelerà il capo dell’intelligence di Lashkar Gah fa calare un momentaneo silenzio. Il burqa è al centro dell’attenzione ma solo per confermare ciò che già sanno. Mentre il dialogo formale procede attraverso un interprete reclutato per l’occasione, nella stanza gli altri taleban riprendono a chiacchierare per conto proprio.

Alle 19.50 scattano in piedi come un solo corpo. È il momento della preghiera, il resto può attendere. I mobili vengono spostati, le sciarpe buttate per terra, i Kalashnikov posati, finalmente. «Tu stai seduta », viene ordinato al burqa. Poi, un taleban dai capelli bianchi canta i versi dell’orazione con tono rauco e gli altri ripetono le formule rituali. Alla conclusione, il colloquio riprende. Nelle pause infinite tra domande e traduzione, il burqa vorrebbe palesarsi con l’espressione del volto ma non può farlo. Solo alla fine, quando la conversazione si fa più cordiale, l’interprete la invita a scoprirsi la faccia perché «voi occidentali non siete abituate e magari lo trovi scomodo».

Allora l’atmosfera comincia a cambiare. Uno dopo l’altro i nove iniziano a lanciare qualche sguardo fugace ma, appena scoperti, abbassano gli occhi. Si parlano all’orecchio e ridacchiano. Uno si sente in dovere di precisare: «Non ridiamo di te, sono cose nostre». Un altro esce dalla stanza e torna con un grande vassoio d’uva. Con il Kalashnikov in una mano e nell’altra il bicchiere, offre il tè all’ex donna senza volto. «Perché non hai figli?», «Dove è Milano?», «Perché hai perso tanto tempo a studiare?», i più arditi pongono domande, gli altri ridono parlottando con il vicino. «Credi in Dio? Davvero sei cattolica? E puoi stare così?», dice, indicando la foto nel cellulare in cui la donna appare insieme a degli amici e amiche con i capelli sciolti e un abito senza maniche. La scena si protrae fino al congedo. Svuotata dell’unica presenza femminile, la stanza torna esclusivo territorio maschile. Una buona metafora dell’Afghanistan dei taleban. Uomini che magari non odiano le donne. Semplicemente non le conoscono.


(Avvenire, 9 agosto 2022)


di Antonello Caporale


Edith Bruck ha provato oltre ogni misura la disumanità, gli orrori, lo sterminio. Tutto quello che oggi ricordiamo con una parola: Shoah. Quando scoppiò la guerra in Ucraina, commentò sgomenta quell’ulteriore prova di depravazione etica. Ora un’altra miccia è stata fatta ardere nella pancia cinese.

Non capisco, non riesco a capacitarmi di come sia ormai enorme e disgustosa questa corsa a giocare con l’umanità. Ciascuno a richiedere pezzi di sovranità perduta. Un gioco per mettere a soqquadro il mondo.

È come se agli orrori della guerra avessimo già fatto il callo.

Vedo la Cina che lancia missili ipersonici fino a sfiorare la testa di quei poveretti che abitano a Taiwan.

E gli Usa che stanno provando i nervi dei cinesi.

Ecco, immagino la prudenza di queste provocazioni. Stanno provando i nervi dei cinesi?

L’Ucraina ha già attraversato i nostri cuori: quel che potevamo fare abbiamo fatto, adesso se la vedano loro. Questo pare il nostro punto di vista.

Ci siamo accorti dell’Ucraina quando il rumore della guerra era insopportabile. Ma l’olezzo di morte ha una data più antica, più lontana dai nostri ricordi. Laggiù si danno battaglia dal 2014, e senza il nostro minimo interesse.

Solo quando la guerra è entrata in casa abbiamo scoperto il diritto e il rovescio.

Una mia amica ungherese mi diceva scherzando pochi giorni fa: beh, potremmo accampare diritti sulle porzioni di Transilvania ancora fuori dei nostri confini. Ecco, questo gioco diabolico e infantile di rivendicare recuperi di sovranità, fabbricando ad arte la storia oppure tirandola dal baule dei ricordi, può farci molto male, portarci nel campo buio della nostra vita.

Quando Zelensky accomunò gli eccidi dei russi con gli orrori dei nazisti lei commentò dispiaciuta.

È imparagonabile la Shoah con questi fatti, anche se tragici. Zelensky avrebbe fatto bene a non immaginare equivalenze che per fortuna dell’umanità hanno dimensioni così tragicamente diverse. Non per questo la scelta di Putin di attaccare e invadere l’Ucraina non resta quella che è sempre stata: disumana, feroce, incivile, barbarica.

Ci siamo già stufati di commentare i fatti dell’Ucraina?

Sembra di sì. Un po’ per autodifesa, alleniamo la memoria a degli utili vuoti. Ci permettono di vivere con più serenità, di non essere quotidianamente assillati dal ricordo e immobilizzati dalla tragedia che abbiamo vissuto. Per sessant’anni sono stata nelle scuole a illustrare il disastro umano, la tragedia degli ebrei. I ragazzi ascoltavano, prendevano appunti, sapevano. Però nel tempo allontaniamo dalla nostra vita le scene che ci hanno illustrato. Per un bisogno essenziale di autodifesa.

Non è bastato l’Afghanistan, non il conflitto nell’ex Jugoslavia, non il Medio Oriente dilaniato in eterno. Sembrava che con l’Ucraina la guerra fosse entrata nella nostra sala da pranzo. E il rischio di un coinvolgimento globale tra le superpotenze fosse così vicino, reale… Invece ecco che gli Usa aprono il fronte con la Cina. Apertamente.

Questo mi sconvolge. Come se non ci bastasse tutto quel che in questo anno è capitato.

Parliamo di pace eppure tutto si arroventa.

Giochiamo con la vita degli altri. Solletichiamo i nostri istinti barbarici e avanziamo ancora verso il confronto bellico.

Il mondo gioca con la pistola carica in mano, ha detto il segretario dell’Onu Antonio Guterres.

Con la pistola carica in mano.


(Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2022)

di Manuela Dviri


Finalmente ero arrivata a Virgoletta, il mio amato borgo lunigianese, ma il caldo che mi aspettava era quasi peggiore di quello di Tel Aviv. La Lunigiana è una terra poco abituata al caldo e ben pochi proprietari di case si sono muniti di aria condizionata come da noi in Israele. E così i commenti sono stati fin dall’inizio della serie: “beati voi che siete abituati, beati voi che sapete desalinizzare l’acqua del mare e così pur essendo un paese così arso dal sole non avete nessuna mancanza di acqua”. Già. Davvero beati noi.

E malgrado sia davvero difficile vivere senza l’acqua o con poca acqua che arriva col contagocce, sono stata felice di occuparmi di acqua, solo di acqua, in questi ultimi giorni. Felice di dimenticare per alcune ore i problemi del mio paese e della ennesima, sempre terribile guerra, questa volta con la jihad islamica di Gaza. Dal suo inizio, da casa, da Israele, mi arrivano i resoconti delle corse forsennate alle stanze “sicure” o al rifugio. Delle centinaia di razzi, una pioggia di razzi diretti alle città e ai kibbutz del sud che vengono per fortuna intercettati in gran parte dalla kipat barzel, o Iron Dome in inglese: il sistema geniale inventato da un ingegnere israeliano per la difesa antimissile, in grado di intercettare razzi a media velocità e proiettili di artiglieria. Per fortuna, poi, un 30 per cento dei razzi sbagliano (fortunatamente per noi) la mira e finiscono in mare o addirittura esplodono a Gaza stessa. Poi ci sono i miracoli di case colpite in cui tutti si salvano perché erano nel rifugio e i non miracoli di chi non si salva. È aumentato a 32 il numero dei morti palestinesi, 215 feriti.

Sono talmente simili l’una all’altra queste guerre che si potrebbe raccontarle facendo taglia incolla. Intitolata dall’esercito israeliano con il poetico nome “sorgere dell’alba” questa ultima (per ora) violenza sembra uno scontro dalle dimensioni tutto sommato circoscritte ma potrebbe facilmente evolversi in un conflitto in vasta scala qualora anche Hamas, il gruppo islamista che controlla Gaza dal 2007, decidesse di prendere parte al conflitto. Nell’attesa di un possibile cessate il fuoco, annunciato per ieri sera, come sempre grazie all’intercessione di una delegazione egiziana, che prima o poi, come ogni volta, anche questa volta arriverà, continuano come nei precedenti conflitti i raid dell’aviazione israeliana e la pioggia di razzi palestinesi, centinaia e centinaia di razzi che continuano ad essere lanciati da Gaza, da sabato anche in direzione Tel Aviv, dove le spiagge si sono immediatamente svuotate e ieri anche in direzione di un altro simbolo, Gerusalemme. Eppure c’è qualcosa di diverso in questo conflitto che lo rende differente da ogni altro che lo ha preceduto. Ieri secondo il calendario ebraico era il 9 del mese av. In questo giorno per ben due volte furono distrutti il primo e il secondo Tempio di Gerusalemme a distanza di cinque secoli: la prima volta dai Babilonesi nel 586 a.C. e la seconda da parte dei Romani nel 70 d.C., inoltre in questo giorno si ricorda anche l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1942.

Questa giornata di lutto viene commemorata con il digiuno e la recita di preghiere funebri nelle sinagoghe o al muro del pianto, unico ricordo del Tempio distrutto dai Romani. Secondo la tradizione ebraica nella distruzione già ci sono i semi della redenzione e proprio in questa data simbolo di sconfitta verrà al mondo il messia. Attendendo il suo arrivo l’esercito israeliano ha continuato a colpire Gaza in risposta al lancio dei razzi. Per fortuna anche i due tirati su Gerusalemme non hanno creato danni. Un portavoce dell’esercito israeliano ha dichiarato che il conflitto potrebbe terminare se solo la Jihad smettesse di sparare. Per ora sembra che i jihadisti non ne abbiano alcuna intenzione, alla ricerca di un qualche simbolo di una loro vittoria che potrebbe “salvar loro la faccia” anche nei confronti degli iraniani. Ma il cessate il fuoco, alla fine, come sempre, arriva. Fino alla prossima volta. Ed è davvero sconfortante sapere che già si preparano la prossima guerra, i prossimi morti, i prossimi traumi.

A Virgoletta è invece tornata l’acqua, finalmente. Già non mi ricordo più come si viveva senza acqua.


(Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2022)

di Annarosa Buttarelli


La terza puntata di Conversazioni sull’aborto, con la riflessione della filosofa, saggista, docente e direttrice scientifica della Fondazione Scuola Donne di Governo Annarosa Buttarelli


Chi ha una cultura di base degna di questo nome, sa bene che per le donne e per il femminismo l’aborto non è mai stata un’opzione, ma anzi è considerato un destino crudele che, con pazienza e dolore, milioni di donne hanno dovuto affrontare nel corso della storia conosciuta. Ricordo che perfino le suore dei Balcani hanno cercato la dispensa papale per poter abortire l’esito inaccettabile degli stupri di guerra consumati anche su di loro. Naturalmente è stata negata, nonostante per molte di loro questo diniego potesse significare la morte psichica. E chissà quante donne, oggi, in Ucraina devono affrontare la scelta dilaniante di non accogliere nel proprio corpo e nella propria mente l’esito degli immancabili stupri di guerra.

Se non fosse per mille altri motivi, solamente per questa tragedia infinita, la Corte suprema degli Stati Uniti si è macchiata dell’ennesima crudeltà misogina che la storia del genere maschile non si decide ad affrontare. Le proteste in corso in Usa e in tutto il mondo rilanciano con forza lo sdegno e l’illiceità del regalo di scambio che i giudici della Corte suprema hanno dovuto fare all’innominabile presidente che ha preceduto il debolissimo Biden e la deludente Kamala Harris. Pare che, dopo la Polonia e altri fuochi oscuri, mezzo mondo al potere si prepari a ritirare la tutela della salute delle donne. Ancora una volta la manipolazione delle coscienze, un bene in estinzione, avrebbe ripreso a fondarsi sul famoso quanto bieco fraintendimento: le donne che abortiscono lo fanno per superficialità edonistica o assassina.

Tanto per fare, di nuovo, il punto veritiero circa la posizione del femminismo radicale sull’aborto, basterà ricordare che la massima pensatrice italiana della differenza sessuale, Carla Lonzi, all’epoca delle lotte per ottenere la depenalizzazione dell’aborto e la sua tutela sanitaria, scrisse chiaramente che, per le donne, lo scopo è evitare in tutti i modi di dover abortire. Le sue argomentazioni furono inascoltate sia da parte delle donne che chiedono la libertà d’abortire come un «diritto», sia da parte di uomini come Pasolini che sul Corriere della Sera faceva la lotta solitaria (e misogina) contro il «diritto» di abortire.

In realtà, la prevedibile sentenza della Corte suprema americana, sotto forma di attacco crudele alle donne, parla non certo di noi, ma ripresenta piuttosto in tutta la sua flagranza la «questione maschile» che sta di nuovo raggiungendo soglie di pericolosità assoluta e sta portando alla rovina civiltà, corpi, pianeta, culture, speranze. Il punto centrale da tenere in costante osservazione è: la parte maschile dell’umanità si sta assumendo la responsabilità della «questione maschile»? A seconda della risposta a questa domanda si potrà provare a intraprendere le azioni politiche e culturali preventive dei disastri che saranno prodotti dalla mancata assunzione di responsabilità della loro «questione», da parte degli uomini. A onore del vero, fino ad oggi in generale non si intravede nessuna intenzione di cambiare la traiettoria distruttiva delle donne e dell’umanità, distruzione a cui contribuisce anche la maggioranza dei giudici della Corte suprema americana.

Ogni volta che una donna è aggredita nella sua dignità e inviolabilità psicofisica, è aggredita la radice stessa della vita, in nome del dominio che fratelli, padri, filosofi vogliono ancora avere sulla vita stessa, in nome dell’egemonia della morte sulla vita data.


(https://27esimaora.corriere.it/, 3 agosto 2022)

Relazioni ed emozioni oltre la performance

di Giordana Masotto


Decalogo

Dai fiducia alla prima impressione ma concediti un poco di tempo e di attenzione
per starci dentro e attraversare come vero flaneur/flaneuse ciò che stai incontrando.

Ci vuoi provare? Bene, vuol dire che hai trovato buoni motivi: goditela.
È l’inizio di un viaggio.

Mettiti in gioco, ma cerca di evitare i deliri di onnipotenza.

Impara a capire se chi hai di fronte/accanto si mette in gioco
e se cerca di evitare i deliri di onnipotenza.

Guarda e pretendi di essere vista/o.

Parla e ascolta. Ascolta e parla.

Fatti spazio per contrattare, dentro e fuori di te.

Quello che stai vivendo sarà anche intensissimo, ma non è tutta la tua vita.

Va tutto bene? È il momento di metterci qualcosa di nuovo.

 Se decidi di chiudere, non cancellare l’esperienza.


Se vi state chiedendo di che cosa sto parlando, se di un amore o di un lavoro, ebbene, la buona notizia è che il gioco del decalogo vale per entrambe le situazioni. È il segnale di un cambiamento profondo che sta avvenendo sia nelle relazioni sia nel lavoro e che trasforma il rapporto tra i due mondi. Incomincia finalmente a incrinarsi l’avvilente dicotomia: o tutti schiavi e sussunti dal capitalismo cognitivo che invade e colonizza la vita intera (tempo+skills sia hard che soft) o tutti liberati e creativi.

E si vedono sempre più segnali del fatto che oggi le donne sono dappertutto e incominciano a inverare una pratica di libertà che rompe schemi secolari, nel lavoro, nelle relazioni e nei nessi tra i due mondi. Cominciano a essere visibili, per chi è disposto/a a leggerli, segnali che finalmente dicono: è la vita che deve invadere il lavoro, tanto da poter cambiare la definizione stessa di cosa è lavoro. Perché il senso ci viene dalla vita intera che è fatta di un intreccio di relazioni e di lavoro in senso ampio: lavoro come fonte di autonomia economica per garantirci le condizioni materiali di esistenza, lavoro familiare e di cura, lavoro come espressione creativa di sé. È questa complessità la vera sfida dell’oggi per essere al passo del futuro.

Come cambiano i soggetti

Il primo segnale da osservare con attenzione e mente aperta è che stanno cambiando i soggetti.

Negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare di un fenomeno inedito: l’hanno chiamata Great Resignation, la grande dimissione. Lasciare volontariamente il lavoro perché si vuole con forza, con urgenza, un lavoro governato da regole che facciano vivere meglio, conciliando con più soddisfazione tutti i pezzi del proprio tempo. Certamente la pandemia, in questo senso, è stata anche un laboratorio di priorità: isolamenti forzati e inedite mescolanze hanno fatto dire basta al basso stipendio, agli straordinari infiniti, alla reperibilità illimitata, a un troppo pieno che si comincia a percepire come insensato, privato di senso. Ci si ribella a quella che Judy Wajcman ha chiamato “la tirannia del tempo” per radicarsi in tutto il proprio tempo. È la Yolo Economy:you live only once, si vive una volta sola. O, per dirla con un altro slogan diventato virale, Slow down and glow up, rallenta e brilla. E allora, dimissioni di massa in tanti settori, dalle banche d’affari alle grandi catene della ristorazione, ai retailer, ai servizi, tanto che negli Usa la mancanza di lavoratori si fa sentire, con conseguenze interessanti, come capita quando le persone prendono consapevolezza dei propri desideri e su questi calibrano la propria forza contrattuale. In Italia, a differenza della Germania e del Regno Unito, non ci sono (ancora) dati chiari ed evidenti in questo senso ma il fenomeno è certamente utile da studiare anche da queste parti: ci sono segnali che suggeriscono di non escludere una tendenza a un cambio di visione, soprattutto tra i più giovani (tra i quali sono già evidenti segnali di burnout più frequente).

Osserva con lungimiranza Anna Deambrosis, Head of Change Management in un gruppo assicurativo: “Ormai è da un anno e mezzo che tutti quelli che arrivano in selezione, i ragazzi giovani, la prima cosa che ti chiedono è quanti giorni di lavoro a distanza. Quindi tu i tuoi talenti non li attiri se non gli dai sufficiente flessibilità. Le barriere logistiche, che ci hanno sempre protetto dal turn over, crolleranno di colpo, e quindi anche i nostri talenti saranno attirati da offerte di lavoro per andare altrove. È una strada obbligata: i talenti giovani ormai questo lo chiedono e non se ne può assolutamente fare a meno. E apre anche tantissime prospettive molto positive”.

Ma ci sono altri cambiamenti molto interessanti (la pubblicità, come al solito, lo registra già con chiarezza): sono quelli che stanno intervenendo nei ruoli paterni e materni. Si affacciano sulla scena giovani uomini che vogliono scoprire/inventare una nuova paternità all’altezza di tempi postpatriarcali. Affiorano nuove competenze di care di donne e uomini che è saggio non pensare che riguardino solo l’ambito domestico. Il punto è di grande importanza e bisogna avere ben chiaro che non stiamo parlando di un aspetto marginale. Si tratta niente di meno che di riconcettualizzare il lavoro, un cambio di civiltà che renda possibile pensare contemporaneamente, per gli uomini e per le donne, tutto il lavoro necessario per vivere, la sfera produttiva e quella riproduttiva, tenendo presente che quest’ultima riguarda in generale tutto il lavoro del care, che si amplia in una popolazione che invecchia. Se il secolo scorso è stato il secolo della fabbrica, questo sarà il secolo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale da una parte e della manutenzione delle vite umane dall’altra. Vite che si prolungano, sempre più esposte nello spazio sociale (a parte l’abbassamento dell’aspettativa di vita che si è registrato a causa del Covid-19).

Anche su questo fronte la pandemia, l’esperienza del lockdown, il lavoro a distanza, anche nella sua versione “costretta”, hanno rimescolato le carte, creando nuove difficoltà e discriminazioni, certo, ma anche dando forza a desideri e bisogni emergenti. Leggiamo spesso che le donne sono state le più penalizzate al lavoro in questi tempi pandemici. Ed è certamente vero. Eppure, se guardiamo meglio, possiamo vedere che i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nel rapporto vita/lavoro sono proprio quelli che le donne hanno innescato da tempo, con il loro voler stare intere al lavoro, immaginando e pretendendo che cambino tempi, modi, senso. Certo, questi nuovi soggetti che sono le donne libere e intere, spesso sono percepite come un inciampo dalle organizzazioni più rigide e… polverose. Come dice una romanziera: “Il problema è che noi donne di oggi siamo come un software rivoluzionario che è stato installato su un computer obsoleto, e per questo non fa altro che bloccarsi, bloccarsi e impallarsi” (Vanessa Montfort, Donne che comprano fiori). O, come ho sentito dire dal direttore del carcere milanese di San Vittore alla presentazione di un’attività di fotografia e teatro dentro al carcere femminile: “Fai fatica a tenere una persona in gabbia, ma una donna molto di più!”

Sempre più spesso questa visione più ampia, complessa e inedita affiora nelle giovani generazioni, sia di uomini sia di donne. Sono segnali di trasformazione che si collocano in un contesto che va tenuto presente. La pandemia, mettendo dolorosamente e violentemente in discussione l’approccio onnipotente alla natura e alle relazioni, ha contribuito a mettere in discussione il modello che sembrava dominante: individualista e competitivo in permanenza, calibrato sui consumi e sulla performatività, con i suoi dolorosi strascichi di perfezionismo e autocontrollo (ah, ma sarò all’altezza delle aspettative? Aspettative che naturalmente non distinguo, non so più distinguere se sono mie o degli altri). Il contrario dello “star bene”.

Spingendoci oltre, possiamo dire che sempre di più chi lavora cerca/vuole esprimersi. Vuole coltivare integrità, in sé e intorno a sé. Cercare insieme impegno e piacere. Competenza e passione. Espressione e riconoscimento. Potremmo dire che c’è un desiderio di “mettersi in opera”, non diversamente dal lavoro dell’artista, che vuole vivere ed esporsi nel proprio lavoro.

Pina Grimaldi, Direttrice Amministrativa di un ospedale, lo dice così: “È necessario essere consapevoli che le nostre emozioni, la passione e soprattutto l’amore sono ingredienti indispensabili per condurre un’azienda. Si innova portandoci dentro il sentimento, non si può separare quello che si fa dai valori, al contrario senza i valori e le passioni non si crea. Le donne nella conduzione delle aziende hanno un vantaggio: non separano la loro visione del mondo dalle loro azioni, sono presenti a se stesse con tutto il loro carico. Le donne stanno dentro il flusso della vita”.

Un’ultima osservazione su questo punto: non si tratta di pensare nuovi modelli e di aggrapparsi ai protocolli (le analisi, anche molto innovative, abbondano) ma di chiedersi come fare spazio ai nuovi soggetti. Le persone vogliono esprimersi senza mediazioni, si è consumata la forza identitaria della collettività e spesso si lamenta la crisi di valori. Bisogna dunque creare le condizioni perché si esprimano le nuove soggettività, farle crescere. Valorizzare autorevolezza e immaginazione di chi, nei vari contesti, più prende forza più va alla ricerca di modi per tenere unite le diverse parti di sé. La nuova etica è mettere al centro i soggetti in relazione. Solo così si contrasta la privatizzazione dei valori. È a partire da qui che si possono ripensare le convivenze nelle case e in tutti gli spazi sociali, di lavoro e di vita.

La dimensione negoziale dei nuovi soggetti

Torniamo al gioco del decalogo dell’amore e del lavoro. Quelle affermazioni ci dicono che l’amore, come il lavoro, non è un gioco solitario, non è più (non dovrebbe essere) controllo e possesso, ma è l’avventura di entrare in una relazione con altro da sé, valutando la forza del proprio desiderio/bisogno e consapevoli di attraversare un territorio sconosciuto di cui non ti puoi appropriare. Solo su questa base possiamo ripensare le convivenze dei nuovi soggetti che si mettono in gioco senza rinunciare alla propria complessità e interezza. Non ci sono scorciatoie: per stare bene insieme, anche nel lavoro, bisogna sentirsi bene con se stessi, sentirsi accettati e riconosciuti e questo è sempre reciproco.

Mi si potrebbe obiettare: ma in amore ci si sceglie, al lavoro… non proprio! Vero, ma le trasformazioni di cui abbiamo parlato sopra ci dicono che si stanno alzando le aspettative rispetto allo spazio/tempo di lavoro/vita e alla loro integrazione. E contemporaneamente alle aspettative si alzano, io credo, anche le capacità di relazionarsi e di mettersi in gioco, dunque di cercare e trovare libertà proprio nelle convivenze non scelte, le vicinanze forzate e casuali che ci si trova a vivere. Ed è proprio lì che si possono fare passi avanti nelle convivenze sociali. Sono le “prossimità indesiderate” di cui parla Judith Butler rifacendosi ad Hannah Arendt: “la prossimità indesiderata e il carattere non-scelto della coabitazione sono precondizioni della nostra esistenza politica” (L’alleanza dei corpi, nottetempo, 2017).

Credo che la parola chiave per mettersi in gioco su questo piano, il paradigma che va esplorato con nuove antenne sia negoziare/contrattare. Non seduzione e non prova di forza che, pur con modi apparentemente molto diversi, hanno la stessa funzione di vincere, di prendere il sopravvento sull’altro/a. E questo vale sia nei rapporti d’amore che di lavoro, in casa come in ufficio. Il paradigma negoziale invece, ha come presupposto che ci si riconosca reciprocamente come soggetti liberi. Negoziando possiamo tenere insieme soggetti che hanno bisogno l’uno dell’altro, ma irriducibili l’uno all’altro nei loro desideri e nelle loro esigenze. C’è contrattazione (ci dovrebbe essere) nei luoghi di lavoro, nelle relazioni personali, politiche. La contrattazione invera la libertà. Contrattazione e libertà sono processi. Non sono mai conclusi ed è bene non darli mai per scontati. La libertà vive nell’esperienza e nel confronto: solo così si impara a reggere conflitti e differenze senza soccombere e senza voler cancellare.

Per questi motivi, come dicevo prima, non si tratta di studiare a tavolino gli obiettivi magicamente risolutivi, per rendere tutti felici. Ho sentito una delegata di fabbrica che raccontava della sua azienda illuminata: gravidanze non penalizzanti, ritrovi il tuo posto al rientro!, part time e smart working a richiesta, perfino la palestra interna a disposizione. Tutto bene dunque? Non proprio. “Se mi chiedete: tu ci sei in questo? io rispondo di no. Tutti questi provvedimenti non sono presi con noi”. Esattamente il contrario della preziosa, vitale e generativa fatica della negoziazione che tiene in relazione le persone coinvolte.

Il paradigma negoziale, se ben coltivato, è oggi di grande attualità perché può essere uno strumento contro lo strapotere della rete e le sue derive violente, la potenza dell’algoritmo che neutralizza le mediazioni. Nei social c’è una commistione di piani relazionali che sfrutta e consolida la solitudine narcisistica che può stare in un selfie. E da più parti si sottolinea l’importanza oggi di imparare a confrontarsi in modo costruttivo, senza aggredirsi, ma scoprendo come si possa imparare qualcosa dagli altri senza sentirsi sminuiti. Al lavoro, come in amore, il confronto negoziale radica nel contesto convissuto e fa crescere la forza di tutte le parti coinvolte. Solo un negoziato di successo fa sentire tutti “vincenti”: da quel momento tutte le parti in gioco sentono che l’ambiente in cui vivono diventa più “loro” perché hanno contribuito a codeterminare le regole del gruppo.

Già nel 2009, come Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, esprimevamo così questo concetto nel Sottosopra “Immagina che il lavoro”: «Dire ascoltare contrattare. Contrattare: tra sé e sé, tra i desideri e le stanchezze, il pensare in piccolo e il pensare in grande, per dare valore a tutto il nostro tempo. Contrattare con chi ci vive accanto, in casa, in città, al lavoro, per fare in modo che i confini tra sé e l’altra/o rimangano mobili e non diventino barriere. Contrattare con chi si para davanti al nostro cammino con l’intenzione di bloccarlo o dirigerlo».

Dunque una modalità negoziale che ha due caratteristiche che si intrecciano: tenere la vita intera e radicarsi in ogni singolarità. Penso che oggi queste caratteristiche abbiano allargato le loro potenzialità e si rivelino particolarmente preziose per tutti, donne e uomini. Il paradigma negoziale, così inteso, può diventare la nuova prassi istituente che ripensa gli ambienti di lavoro. O si fa spazio a un modo nuovo di sollecitare uomini e donne a stare nel lavoro e lottare per questo oppure lo spazio e l’attrattività si riducono inevitabilmente per tutti. Alzare le poste in gioco perché tutti e tutte possano giocare.

Difficile? Certo! La passione non è gratis. Ma è affascinante. Come dice Chiara Montanari, ingegnera che si autodefinisce life explorer (5 missioni in Antartide come expedition leader): la diversità è forza e la leadership è un viaggio, è danzare insieme nell’incertezza.


(Persone e Conoscenze, aprile/maggio 2022)

di Luisa Pogliana


Questo libro mi ha dato più di quanto mi aspettassi.

Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo (Moretti &Vitali 2022) è una raccolta del pensiero elaborato del Gruppo Lavoro della Libreria delle donne, attraverso gli articoli di Pausa Lavoro, inserto della rivista cartacea Via Dogana.

A volte sono racconti brevi di esperienze politicamente significative, a volte un approfondimento di alcune pensatrici femministe. Sempre partendo dalla realtà vissuta dalle donne nei diversi contesti lavorativi. Quello che mi piace è che non ci sono teorie astratte, ideologismi aprioristici, parole vuote come slogan, pezzi di difficile lettura. Io ho trovato temi che sentivo ma non sapevo concettualizzare, pezzi del mondo del lavoro che non conoscevo, e soprattutto modi di guardare il lavoro attraverso il pensiero e la pratica delle donne. Un caleidoscopio dove la luce si sposta su un colore diverso, e sempre costruisce un nuovo disegno d’insieme. Una possibilità di visione più ampia e profonda attraverso il confronto con altre donne a distanza.

Tanto più per me. Il lavoro ha sempre avuto un ruolo importantissimo nella mia vita. Per parecchi anni però il femminismo ha avuto altre priorità, e ne sentivo la mancanza. Avevo organizzato attività per ragionare con altre donne sul nostro stare nel lavoro, ma mi sentivo comunque abbastanza sola nel mio specifico ruolo di manager. Perché pochissime erano le altre donne in ruoli decisionali nella mia azienda, e diverse dai colleghi uomini solo nei vestiti. Ma anche perché “manager” è stata una brutta parola (anzi, spesso lo è ancora) per la sinistra in cui avevo militato e per non poche femministe.

Così ho cercato e costruito relazioni con donne manager di altre aziende, con in comune un concetto differente del nostro ruolo e del potere. Con alcune (benché sparse in cinque città), abbiamo fondato un’associazione dedicata a questo, donnesenzaguscio. Ho scritto libri e abbiamo organizzato incontri per trasmettere esperienze e consapevolezza ad altre. Perché il femminismo si fa così, lì dove ti trovi ad agire, nelle circostanze e con le risorse date. Anche imperfetto, ammesso che ne esista uno perfetto.

Nella crescita mia personale e con le altre manager, Pausa Lavoro mi è stato d’aiuto. Ogni contributo include un concetto essenziale: le donne che entrano nel lavoro, per starci bene devono cambiarlo, cambiarne la struttura a misura solo di uomini. E in questo io mi identifico pienamente, è la radice del nostro lavoro politico nel management.

Così ho inquadrato meglio anche la mia attività, nonostante non si parlasse di donne in ruoli decisionali. E non pensavo proprio che avremmo trovato spazio in quelle pagine. Invece siamo approdate anche noi lì, e sono stata felice: nel femminismo si dava valore a quello che facevamo.

Ora questo libromi ha sorpreso con il raggruppamento di tutti quei contributi per filoni tematici. Fatto dalla curatrice Giordana Masotto “secondo criteri che mi paiono importanti sempre: leggere la realtà di ciò che accade, interpretare i dati senza dare nulla per scontato, elaborare pensiero, prendere parola e azione, aprirsi al dialogo e costruire relazioni politiche”.

Salta subito all’occhio che gli articoli di ogni tema, raccolti insieme, sembrano costruire un dialogo tra donne. Si comincia da un’esperienza, se ne aggiunge una con un diverso punto di osservazione, si sviluppa un pensiero che si incrocia con uno che lo mette in discussione o lo completa, passi avanti che cambiano le pratiche. Nella parola che passa dall’una all’altra attraversando contesti e posizioni varie vediamo un “processo di elaborazione di un punto di vista politico sul lavoro da parte di quel soggetto inedito che sono le donne libere del nostro tempo”. E questo crea una cornice politica che rende più evidente il senso, il valore delle pratiche che le donne hanno messo in atto nel loro lavoro. Orientano l’agire, delineano obiettivi: una via che continua.

È un libro che porta le parole di quelle donne anche dove non sono presenti. Infatti nella postfazione – 2022, La storia continua –Michela Spera e io ripercorriamo nella nostra esperienza l’efficacia di questa trasmissione di parole e di sapere.

Per questo penso che questo libro possa aiutare le giovani donne che entrano adesso nel lavoro. Lì c’è tanto pensiero e tanta esperienza che, come è stato per me, aiuta a uscire dalla solitudine che spesso si prova in quel contesto, e ci crea incertezza. Il “modo” che anima le donne che incontriamo nel libro è senza tempo. Non occorre necessariamente leggere tutto d’un fiato, è piuttosto un vademecum dove si trova quello di cui si ha bisogno in quel momento.

Per quanto mi riguarda, ora anche solo leggere l’indice di questo libro mi fa un bellissimo effetto: vedere e sentire che nel lavoro c’è una folta presenza di donne che pensano e agiscono e continuano ad andare avanti, mi trasmette molta forza.


(www.libreriadelledonne.it, 3 agosto 2022)


di Marta Equi Pierazzini


«Si può dire che tutta la drammaticità, la fatica, il peso dell’andare contro corrente, lo sconquasso nelle proprie vite personali, nei rapporti perché fossero più veri, adesso non va di ripeterlo. Chi vuole lo legga nei libri, però sappia che c’è stato. […] Se uno tiene troppo a mente la fatica che ha fatto, cosa ci ha rimesso, è meglio che a un certo punto guardi cosa ci ha guadagnato, cosa gliene è venuto di buono. Che cosa sarebbe stato, dio ne guardi, se quell’operazione non fosse stata fatta. E allora, adesso, basta parlare del costo. E uno parla proprio, invece, della merce: quanto era proprio bella, pregiata e che non aveva prezzo, praticamente.» (Carla Lonzi, 1982)


Carla Lonzi pronuncia queste parole a marzo dell’82, in dialogo con la compagna di Rivolta Femminile Jacqueline Vodoz, a bilancio di una vita, come riportano nella sua biografia Marta Lonzi e Anna Jaquinta, in apertura del volume di poesie Scacco Ragionato. Morirà pochi mesi dopo, il 2 agosto: oggi sono 40 anni dalla sua morte.

La vita luminosa di Carla e il suo pensiero fiammeggiante mi accompagnano, ci accompagnano sempre.

L’analisi e il commento sui molti aspetti del lavoro di Carla, li lascio ai diversi studi specialistici usciti negli ultimi anni (a partire dalle seminali ricerche di Maria Luisa Boccia), impegnati a raccontare, da molteplici punti di vista, la traiettoria complessa di questa pensatrice. Adesso non va di ripeterlo, come dice Lonzi.

Qua vorrei soffermarmi su un unico punto. Carla non solo lavorò strenuamente per la libertà femminile, per la differenza femminile e per il suo riconoscimento, ma si dedicò anche, e con continuità, a una critica appassionata al mondo della cultura e alle micropratiche dei suoi attori principali, come campo che effettivamente potrebbe fare la differenza e che spesso abdica al suo potenziale di cambiamento per diventare dispositivo di riproduzione tacita del potere. Lo fa analizzando non solo i testi del pensiero ma vagliando la “credibilità del processo”[1] con cui i prodotti culturali sono creati così come le pratiche quotidiane degli artisti, giornalisti, editori, scrittori con cui entra in contatto.

Il pensiero di Carla Lonzi è carne viva, non materia fumosa di un mito da celebrare o di un contenuto esoterico da riscoprire, e può essere ricordato solo riportandolo al concreto di ogni giorno.

In quest’ottica, dell’articolo “Indagine su Carla Lonzi, femminista dimenticata”, di Nicola Mirenzi, Il Venerdì di Repubblica, 29 luglio, c’è un passaggio in particolare che vorrei commentare, proprio a partire dal dimenticata del titolo.

Giovanni Agosti (Statale Milano) “è uno dei pochi” a inserire Lonzi nei programmi di studio, si legge.

Forse l’autore intende uno dei pochi accademici (andrebbe comunque ricordato il lavoro di Michele Dantini e di Francesco Ventrella) perché in verità, quando si parla di Carla Lonzi dalla prospettiva disciplinare della storia dell’arte il contributo di pensiero, scrittura e didattica delle Professoresse Laura Iamurri e Lara Conte (Roma Tre) è imprescindibile. Ma potrei anche citare Linda Bertelli, Lucia Cardone, Barbara Casavecchia, Lucia Farinati, Vanessa Martini, Raffaella Perna, Elvira Vannini, Angela Vettese, Giovanna Zapperi, solo per rimanere negli ambiti che gravitano intorno alla storia dell’arte e agli studi sulle immagini (e a studiose di madrelingua italiana, sebbene non tutte lavorino solo in Italia). Altri nomi di studiose andrebbero fatti se allargassimo il campo ad altre discipline: oltre a Maria Luisa Boccia e Annarosa Buttarelli, filosofe che l’articolo menziona, anche Sandra Burchi, Ida Dominijanni, Liliana Ellena, Monica Farnetti, Manuela Fraire, Luisa Muraro, Vinzia Fiorino, Debora Spadaccini e molte altre ancora; tante altre che lavorano al margine e negli interstizi tra discipline, cosa che ancor di più non aiuta il riconoscimento, e naturalmente quelle che fanno il lavoro del pensiero fuori dall’Accademia (per esempio le artiste, penso a Claire Fontaine, Chiara Fumai, Silvia Giambrone o le curatrici, come per esempio Cecilia Canziani, Francesca Pasini, Paola Ugolini), e poi ancora i luoghi delle donne, che al pensiero e memoria di Lonzi si dedicano. Ed ecco che il campo si allarga, lo spazio[2] si anima…

Che la scholarship su Lonzi non sia vasta è vero, ma nel fare l’esempio delle eccezioni che si sono dedicate a lei, omettere tutti i nomi femminili, seppur senza pensare di far dolo, funziona come dispositivo silenziatore, ancora una volta, del lavoro del pensiero e della vita delle donne, si cancella il loro spazio di visibilità e dunque di potenziale memoria.

Se davvero si vuole che l’eredità di Lonzi non vada perduta bisogna che chi dice di occuparsi di cultura si impegni nel concreto a cambiare le proprie pratiche quotidiane e a custodire così, con cura, la possibilità che vi sia spazio per la voce e la soggettività delle donne, non soltanto nel ricordo, seppur dovuto.

Scrive Lonzi nel 1978: “Mi rendo conto, siccome la cultura esistente è quella maschile, succede che quello che noi scopriamo fuori, va a finire che l’uomo se lo piglia e lo mette, malamente, nella sua cultura. Siamo sempre state derubate così, magari senza accorgercene”.[3]


(www.libreriadelledonne.it, 2 agosto 2022)


[1] Testo senza titolo pubblicato in Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959, catalogo della mostra, Paris, Centre Georges Pompidou, 25 giugno – 7 settembre 1981, a cura di Germano Celant. CNAC/Centre George Pompidou e Centro Di, Paris/Firenze 1981. Testo in lingua originale in C. Lonzi, Scritti sull’Arte, Et/Al EDIZIONI, Milano 2012, a cura di Lara Conte, Laura Iamurri, Vanessa Martini, pp. 653-654.

[2] Nello scrivere questo paragrafo penso al lavoro di Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Einaudi, 2022

[3] C. Lonzi, Taci, Anzi, Parla, Scritti di Rivolta Femminile, 1978.


La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, insieme al figlio di Carla Lonzi, Battista Lena (che ci ha generosamente dato in comodato il suo prezioso archivio) e alla responsabile dell’Archivio Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale, Annarosa Buttarelli, ricorda i 40 anni dalla scomparsa di Carla Lonzi con le sue stesse parole:

Noi viviamo questo momento e questo momento è eccezionale.

Il futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che sia eccezionale.

La presenza dell’Archivio Carla Lonzi, dal 2018, ha ampliato le possibilità di un orientamento di impegno e di pensiero già intrapreso dalla Galleria Nazionale dal 2015 – sotto la direzione di Cristiana Collu – con numerose azioni messe in campo nel segno di una valorizzazione della presenza femminile nell’arte e nelle diverse pratiche culturali. Una grande indagine sul femminismo e sul suo significato nel nostro tempo è stata condotta nell’arco di 7 anni – ma sempre in fieri – attraverso mostre, progetti, festival, open call, eventi e acquisizioni.

I preziosi materiali dell’Archivio – dal 2020 completamente digitalizzati e consultabili – riconosciuti a livello internazionale per la loro importanza nel campo della storia dell’arte e degli studi di genere, hanno permesso alla Galleria Nazionale di condurre un lavoro per promuovere e trasmettere lo studio e la ricerca sul patrimonio di Carla Lonzi. Non solo, considerando i tanti progetti che questo Archivio non ha mai smesso di attivare, continua ad agire sul presente come fonte di ispirazione, generando nuova conoscenza e rivolgendosi con domande aperte alle generazioni future, nella conferma della sua piena vitalità.

Queste le tappe principali:

L’Archivio Carla Lonzi 
L’ordinamento e l’inventariazione dell’Archivio Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale ha preso avvio nel gennaio 2018. È la prima volta che si tenta l’operazione complessa di raccogliere, ordinare, custodire, digitalizzare e mettere a disposizione l’eredità documentaria di Carla Lonzi.

Women Out of Joint 
All’inizio degli anni Settanta, Carla Lonzi ha definito il femminismo «la mia festa». Nel 2018 la Galleria Nazionale ha reso omaggio alla sua figura con un festival di tre giorni e un programma di incontri, laboratori, performance, proiezioni e letture che ha messo in relazione le esperienze di artiste, storiche, scrittrici, attiviste, ricercatrici e architette provenienti da una scena internazionale.

Le open call 
La open call Dopo Hegel su cosa sputiamo? (2018), direttamente ispirata al pensiero lonziano e focalizzata sulla produzione di un testo in qualunque lingua e di qualunque genere, è stata seguita da quella internazionale per la realizzazione di video-autoritratti dal titolo Taci. Anzi, parla (2020).

Io dico Io – I say I 
La centralità dello sguardo delle donne è il cardine della mostra Io dico Io – I say I, inaugurata a marzo 2021 a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini. Cinquanta artiste italiane di generazioni diverse che in differenti contesti storici e sociali hanno raccontato la propria avventura dell’autenticità̀. Una sezione della mostra è stata inoltre dedicata all’esposizione di materiali provenienti dall’Archivio Carla Lonzi.

Self-portrait (Autoritratto)  
Nel 2022 la Galleria Nazionale si è fatta promotrice della prima traduzione in inglese di Autoritratto (Self-portrait) di Carla Lonzi a cura di Allison Grimadi Donahue per Divided Publishing, presentata poi dal museo con un evento online.

Le donne e l’indagine sul femminismo sono sempre al centro delle attività della Galleria Nazionale. Tutte le tappe dal 2015 a oggi tra mostre, progetti, festival, eventi, call, digitalizzazioni e acquisizioni sono raccontate sul blog del museo nella pagina di Women Up.


(https://lagallerianazionale.com/, 2 agosto 2022)

di Titti Follieri


Il libro di Katia Ricci Controra nasce, come scrive l’autrice, da un atto di fedeltà al proprio sentire, il desiderio di ripercorrere a ritroso la storia della propria famiglia per riconciliarsi con il proprio passato e ritrovare le proprie radici. C’è una necessità interiore che María Zambrano definisce: «Lo scrivere richiede fedeltà […] essere fedeli a ciò che chiede di essere tratto dal silenzio». È possibile per l’autrice la ricostruzione delle dinamiche familiari grazie a una maturità raggiunta, a un percorso di consapevolezza che riesce a esercitare la comprensione e rimarginare antiche ferite; è un nuovo sguardo che riconosce la gioia di un’appartenenza alla casa, ai cari estinti, ai luoghi di cui si resta eredi e a cui si appartiene per il tempo lì vissuto durante l’infanzia e l’adolescenza. Il luogo evocato da Katia Ricci è Rignano Garganico, dove la sua famiglia possedeva un terreno agricolo con fattoria, che ne ha segnato l’identità e la storia con le sue controversie. La narrazione si svolge su diversi piani: c’è lo svilupparsi degli eventi familiari a partire dal ritrovamento di lettere scambiate tra i suoi familiari – dopo la loro scomparsa – e della ricostruzione delle relazioni intercorse tra di loro. Emerge la fotografia di una mentalità, a cavallo della Seconda guerra mondiale, legata a una tradizione conservatrice che condiziona in modo potente uno dei protagonisti della storia: Pasqualino, il padre che rifiuta il matrimonio “combinato” – in voga per estendere le proprietà – per amore di Anna, che non è una possidente terriera. Questo atto di libertà viene vissuto dalla famiglia come una trasgressione inaccettabile, mentre la figlia Katia scriverà: «Ho sempre apprezzato questo gesto di mio padre che aveva rotto con l’antica consuetudine non solo familiare, ma in uso all’epoca, almeno tra i proprietari terrieri e di una certa classe sociale, di combinare i matrimoni tra uomini e donne dello stesso ceto sociale per aumentare i patrimoni, acquisire titoli nobiliari». Questo è il secondo piano: la ricostruzione dei ricordi dell’autrice, che nell’addentrarsi nella lettura delle lettere scopre il lato nascosto, il non detto delle relazioni ed è costretta a modificare le immagini interiorizzate della madre Anna e del padre Pasqualino. C’è una presa di coscienza, il bisogno di ricostruire come in un puzzle le tessere mancanti, allargando lo sguardo alla complessità che nasconde ogni essere umano. Quindi il ricordo si arricchisce di altre scene, altre parole taciute, pur conservando il conflitto doloroso vissuto nella relazione con il padre. Com’è noto, la generazione del boom economico si è fatta portatrice di un’istanza di rinnovamento culturale e sociale, sognando di cambiare il mondo. Proprio negli anni Settanta la nascita del femminismo ha portato ad una rivoluzione “gentile” nella società, con la pratica dell’autocoscienza molte donne hanno individuato il giogo imposto dalla società patriarcale. È bene però anche ricordare che già a partire dagli anni Sessanta nelle famiglie molte ragazze contestavano l’atteggiamento dei padri, di come si relazionavano alle loro mogli, del ruolo richiesto a una generazione che aveva vissuto il fascismo, con l’idea che moglie e madre fossero i ruoli fondamentali per la realizzazione di una donna. Le giovani figlie della generazione del dopoguerra desideravano realizzare la propria libertà di autodeterminarsi, rompendo le catene degli stereotipi attribuiti al ruolo femminile nella società dell’epoca. Il conflitto con il padre raccontato da Katia Ricci è personale, ma è stato anche esperienza collettiva di tutta una generazione. È uno dei moventi della scrittura affrontato nel ricordo della madre, nel suo insegnamento impartito con l’esempio e con il suo modo di agire […]. È in nome di mia madre che cercherò di riconciliarmi con mio padre e sciogliere la ruggine che sento in me perché come tanti uomini pensava che fosse suo diritto imporre il suo punto di vista, magari uno schiaffo, alla donna che pure amava appassionatamente e forse malamente. Il quadro familiare è inserito in un contesto storico, ma nello stesso tempo «il microcosmo di un mondo agropastorale» – come lo definisce l’autrice – prende corpo nei volti, nelle parole citate della nonna Lucietta, del nonno Pietro, dello zio Vincenzo e zia Tetella e di altri parenti, nel groviglio di una storia familiare in cui ognuno recita la sua parte, come se rievocandoli, l’autrice li trasformasse in attori vivi di un teatro in cui possiamo rispecchiarci e scambiare i loro nomi con i nomi delle nostre famiglie. Un ultimo aspetto da sottolineare è l’uso delle immagini, ben armonizzate dall’editore nel testo, con varie foto, alcune di famiglia, altre in appendice di Alfred Eisenstaedt, fotografo e fotoreporter statunitense di origine tedesca, che documenta negli anni del dopoguerra la vita rurale degli abitanti di Rignano. Scelta di una documentazione preziosa, motivata dalle competenze artistiche dell’autrice, ma anche testimonianza dell’Amor Loci, dell’amore per i suoi antenati, per il riconoscimento delle radici che ci permettono, come in un albero, di scendere in profondità per poi trascendere e puntare verso il cielo, allargando lo sguardo ad un ampio orizzonte.


(Leggendaria n. 154 – Estate, luglio 2022. p. 46)


di Carlo Rovelli


Il Corriere della Sera pubblica oggi, a pagina 26, la versione ridotta di un lungo post che il fisico Carlo Rovelli aveva scritto sulla sua pagina facebook il 3 luglio scorso. Segnaliamo il sito che riporta la versione originale del post e ulteriori contributi sul tema.

https://www.peacelink.it/pace/a/49188.html


Raramente mi sono sentito così lontano dalla retorica dei giornali. Forse dall’adolescenza, e forse per lo stesso motivo: quando la gioventù si ribellava d’istinto — prima ancora che a ingiustizia sociale, autoritarismo o vietnamiti massacrati dal napalm — al dilagare dell’ipocrisia. L’Occidente si è lanciato a cantarsi come detentore dei valori, baluardo della libertà, protettore dei deboli, garante della legalità, speranza per la pace. Il peana su quanto siamo buoni e giusti mentre gli «autocratici» sono infingardi è un coro all’unisono. La ferocia russa e cinese è ostentata, ripetuta, declamata. Mi unirei al coro se fosse sincero. Se condannando un attacco a un Paese sovrano, aggiungessimo che ci impegnamo a non fare più nulla di simile. Non fare quanto l’Occidente ha fatto in Afghanistan, Iraq, Libia, Serbia, Yemen, Grenada, Panama… Con la partecipazione dell’Italia sono stati invasi Iraq e Afghanistan che non avevano attaccato nessuno, causando un milione di morti. Rivangare il passato non serve: ci impegnamo per il futuro? Mi unirei al coro contro il riconoscimento del Donbass che ha innescato la guerra ucraina, se aggiungessimo che ci siamo sbagliati riconoscendo Slovenia e Croazia, innescando la guerra civile Iugoslava. O per i bombardamenti su Kiev, dove la scusa era che Kiev massacrava il Donbass, se la Nato si impegnasse a non fare più nulla di simile, come ha fatto bombardando Belgrado, dove la scusa era che Belgrado massacrava il Kosovo. Mi unirei al coro contro la Russia che cerca di cambiare il regime di Kiev, se l’Occidente si impegnasse a non fare più la stessa cosa, come ha fatto abbattendo e destabilizzato governi democraticamente eletti dal Medio Oriente al Sud America, dal Cile all’Algeria, dall’Egitto alla Palestina. Mi unirei al coro che si commuove per i profughi ucraini, se si commuovesse anche per yemeniti, siriani, afghani e altri con pelle di tonalità diverse. Ipocrisia senza limiti. I giornali gridano sulle politiche «imperiali» di Cina e Russia. Il lupo e l’agnello. La Cina non ha quasi soldati fuori dei suoi confini, se non in missioni Onu. La Russia ne ha a pochi chilometri, in Siria e Transnistria. Gli americani hanno centomila soldati in Europa, basi militari in Centro e Sud America, Africa, Asia, Pacifico, Giappone, Corea… ovunque, eccetto in Ucraina dove stavano insediandosi. Hanno portaerei nel mare della Cina. Dalle coste cinesi si vedono navi da guerra Usa, non si vedono navi da guerra cinesi da New York. Chi è l’impero? Si paventa, non abbastanza, l’uso dell’atomica. L’Occidente è l’unico ad averla usata. A guerra vinta, per affermare il dominio con la violenza; nessun altro lo ha fatto. Si scrive che la Cina è aggressiva; non ha fatto guerre dopo Corea e Vietnam; l’Occidente ne ha fatte in continuazione ovunque. Chi è l’impero? Il Pentagono pubblica liste di persone uccise dai suoi droni nel mondo, molti innocenti. Il New York Times è arrivato all’orrore di denunciare il fatto che i soldati che li guidano non hanno supporto psicologico per lo stress di ammazzare innocenti. Lo scandalo non è ammazzare innocenti, è che chi li ammazza non ha supporto psicologico. L’impero assiro era arrivato a tale arroganza. Ma i nostri giornalisti ricordano indignati una persona uccisa anni fa a Londra dai russi… Gli americani invocano la Corte Penale Internazionale, da cui hanno sempre dichiarato che non si fanno giudicare. O la legalità internazionale, quando le loro guerre sono condannate dall’Onu. Onu che la maggioranza del mondo vorrebbe autorevole, ma Washington ostacola. Sarei in disaccordo, ma non mi sentirei disgustato, se sentissi «siamo forti, vogliamo dominare con le armi per difendere il nostro privilegio». Non ci sarebbe ipocrisia e potremmo discutere se sia una scelta intelligente. Se non sia più lungimirante collaborare. Non fraintendetemi. Amo l’America, molto. Vi ho vissuto dieci anni e sono stato cittadino Usa. Ne conosco splendori e orrori. La brillantezza delle università, la vitalità dell’economia, la miseria dei ghetti neri e bianchi, la violenza per noi inconcepibile delle strade. Amo l’Europa, la civiltà, tolleranza e cautela ereditate dalla devastazione della Guerra. Ma non posso non vedere il nostro piccolo mondo ricco chiudersi su se stesso in un parossismo di ipocrisia. Amo anche Cina e lndia, di cui pure ho visto miserie e splendori. Ci perdiamo in chiacchiere su quale sistema sia meglio, come dovessimo fare tutti la stessa cosa. Il problema del mondo non è che singolo sistema politico adottare tutti. Il problema del mondo è convivere, rispettarsi, collaborare. Il problema del mondo è costruire un nuovo soggetto politico: l’umanità, con le sue diversità. Tanti Paesi ce lo ripetono, non li ascoltiamo. Rifiutano le sanzioni contro la Russia. Perfino di condannare la Russia. Perché? Perché vedono l’ipocrisia dell’Occidente, che si sente libero di massacrare, e poi fa l’anima candida. L’umanità vorrebbe che i problemi reali, riscaldamento climatico, pandemie, povertà che ricomincia a crescere, fossero affrontati insieme. L’80% degli italiani non è favorevole all’aumento delle spese militari. Considera l’emergenza climatica il problema grave. Il direttore della Cia afferma in una intervista che cerca di convincere i politici, che non ascoltano, della stessa cosa. Le persone ragionevoli sanno che collaborare è meglio. L’Occidente rifiuta. Vuole «avversari strategici», nemici, vuole schiacciare gli altri. Ha le armi. L’Ucraina si potrebbe risolvere come la crisi Iugoslava: con una separazione. Ma l’Occidente non vuole soluzioni, vuole fare male alla Russia: non fa che ripeterlo. Ora si sente inquieto perché la Cina sta diventando ricca. La provoca, la accusa con pretesti (ce ne sono: scagli la prima pietra chi è senza colpe). Cerca lo scontro. Vorrebbe umiliarla militarmente prima che cresca troppo. La classe dominante occidentale ci sta portando verso la terza guerra mondiale. Nelle foto si allineano facce sorridenti dei leader occidentali, felici delle portaerei, delle bombe atomiche, trilioni di dollari di armi, con cui si potrebbero risolvere i guai del mondo, usati per rafforzare il dominio. E tutto imbiancato da belle parole: democrazia, libertà, rispetto dei confini, legalità. Dietro, come zombi, giornalisti, editorialisti e politici di stati vassalli come il nostro, a ripetere. Sepolcri imbiancati. Su una scia di sangue di milioni di morti straziati dalle nostre bombe. Da Hiroshima a Kabul, e continueranno.


(Corriere della Sera, 31 luglio 2022)

di Betti Briano


Recensione del libro di Laura Guglielmi, Lady Constance Lloyd. L’importanza di chiamarsi Wilde, Morellini editore 2021


Lo stupore è il primo sentimento che coglie chi viene a conoscenza del libro. L’icona gay della letteratura inglese aveva una moglie? Ebbene sì, Laura Guglielmi ci racconta quale donna fu Lady Constance Wilde; una che non visse il suo tempo semplicemente come ‘moglie di’ ma da protagonista e in piena autonomia intellettuale. Il suo nome però è rimasto relegato nel cono d’ombra del celebre consorte, secondo il destino comune a molte donne eccellenti del passato che si sono trovate a fianco di uomini importanti.

Il romanzo di Laura Guglielmi vuole restituire a Constance quello che la storia le ha negato. L’opera si presenta come l’autobiografia postuma di Constance con la protagonista che parla di sé in prima persona; il racconto viene sapientemente intercalato con lettere che lo arricchiscono di punti di vista altri e interessanti riferimenti ambientali. Si svolge in tre atti, come la celebre commedia L’importanza di chiamarsi Ernesto, che decretò il successo di Oscar Wilde.

Nel prologo si legge l’autopresentazione della protagonista: «Mi chiamo Constance Mary Lloyd. Avevo ventidue anni quando ho incontrato Oscar Wilde, ma lui non è l’unica cosa importante, anche se il nostro è stato un grande amore. Non mi sono mai sentita vittima di mio marito: questa che state per leggere è la mia storia, la mia parte di verità».

Il primo atto racconta l’infanzia e la giovinezza della protagonista fino a ventidue anni. Di origine irlandese, cresciuta in una famiglia agiata, con una madre nevrotica e violenta e un padre assente, supera il periodo buio dell’infanzia grazie allo stretto legame con il fratello Otho; assai interessante e indicativo della condizione femminile dell’epoca il racconto della sua formazione autodidatta, ‘obbligata’ a causa dell’esclusione delle donne dall’università.

Nel secondo atto entra in scena Oscar Wilde. I due si conoscono in un salotto in cui lei si esibiva nella lettura in italiano di brani della Divina Commedia; diverranno una coppia all’avanguardia nell’ambiente intellettuale londinese. Entrambi coinvolti nei movimenti artistici e sensibili alle istanze politiche progressiste, lei fu anche impegnata in alcune delle battaglie femministe della seconda metà dell’800. Constance svolse anche un’intensa attività di pubblicista; diresse una rivista che promuoveva una rivoluzione nel modo di vestire delle donne, e pubblicò racconti, collaborò attivamente alla scrittura di alcune delle opere del marito. In questo atto assistiamo alla rottura dell’idillio di coppia: le difficoltà economiche e i debiti contratti a causa della condotta dispendiosa del marito e l’irruzione nella loro vita di Bosie, il giovane aristocratico con cui Oscar instaura la relazione omosessuale che lo condurrà al famoso processo per “sodomia”.

Nel terzo atto si parla del processo e delle conseguenze sulla vita dei protagonisti. Wilde come sappiamo sarà condannato e verrà messo all’indice da quella stessa società che tanto lo aveva ammirato e osannato. Constance non abbandonerà mai il marito e si adopererà per proteggere i figli dalle conseguenze delle disavventure paterne e dal peso del nome che portavano. Nel 1896 decide di lasciare l’Inghilterra coi bambini; si trasferisce in Italia, nel Levante Ligure.

L’Epilogo della ‘commedia’ presenta la nuova vita della protagonista in terra di Liguria. Ci parla dell’esilio condiviso con vari rappresentanti della comunità straniera cosmopolita residente a fine ’800 in Riviera, della nuova relazione amorosa che comunque non le impedirà di conservare il legame col marito né di fargli avere il suo sostegno e purtroppo di una malattia non riconosciuta che la porterà alla morte sulla soglia dei quarant’anni a Genova, ove sarà sepolta nel cimitero monumentale di Staglieno.

Al libro va riconosciuto il duplice merito di aver dato voce ad una ‘grande’ donna dimenticata, ma anche a tutte le donne che nella seconda metà dell’800 lottarono per conquistare un’esistenza libera e col loro esempio come anche con l’impegno nel movimento per i diritti e per l’affermazione di un ruolo attivo della donna nella società consegnarono alle generazioni successive un mondo più vivibile.


(https://eredibibliotecadonne.wordpress.com/2022/04/08/lady-constance-lloyd-limportanza-di-chiamarsi-wilde/, 28 luglio 2022)

di Laura Fortini


Recensione al libro di Maria Rosa Cutrufelli, Maria Giudice. La leonessa del socialismo, Roma, Perrone Editore, 2022.


Nel bellissimo Scrivere la vita di una donna, pubblicato in Italia da La Tartaruga nel 1990, la studiosa femminista Carolyn G. Heilbrun osservava come vi siano molti modi per scrivere di una donna, tra i quali l’autobiografia, il romanzo, la biografia. In Maria Giudice. La leonessa del socialismo (Perrone editore 2022) Maria Rosa Cutrufelli coniuga biografia e romanzo insieme alla propria autobiografia per scrivere la vita di una donna d’eccezione come Maria Giudice, nata nel 1880 sulle colline dell’Oltrepò pavese e vissuta attraversando da protagonista tutto il Novecento, le sue lotte, le sue guerre, fino al 1953, data della sua morte a Roma.

Lo sguardo narrativo di Maria Rosa Cutrufelli accompagna da sempre con un tono e un timbro particolare le storie di personagge e personaggi dei molti romanzi storici a sua firma, da La Briganta del 1990 che racconta in prima persona l’autobiografia finzionale di una donna del secondo Ottocento italiano, alla coralità polifonica de La donna che visse per un sogno, del 2004, dedicato a Olympe de Gouges e alle donne che insieme a lei vissero in modi diversi la Rivoluzione francese; per passare poi a D’amore e d’odio (2008) che tramite le voci di donne e uomini attraversa tutto il secolo scorso. Ma sono solo alcuni dei titoli dell’ampia opera narrativa di Maria Rosa Cutrufelli, che sceglie di rappresentare una donna importante ma poco nota del Novecento italiano come Maria Giudice in un modo particolarmente efficace, partendo da sé e dalle motivazioni che l’hanno indotta a scriverne e a indagarne la biografia facendone narrazione. In questo modo Maria Rosa Cutrufelli si pone al di là del verosimile del romanzo storico assumendo interamente la relazione propositiva con una donna del passato, non conosciuta di persona ma che le è nota grazie alla figlia Goliarda Sapienza: ed è conoscenza e interrogativo che si attiva non solo nella relazione con l’altra, ma che passa negli incontri del gruppo di scrittrici che negli anni Novanta del Novecento si riunì a lungo, discutendo anche della prima guerra del Golfo e di che cosa significasse pacifismo, resistenza, “necessarietà” – termine di Goliarda Sapienza – di alcune guerre, questioni tutte tra le nostre mani anche adesso.

È a partire da quella esperienza che Maria Rosa Cutrufelli inizia la narrazione della vita di Maria Giudice interloquendo con le sue poche ma significative fotografie, nelle quali il ritratto di Maria Giudice emerge dal fondo scuro del tempo storico: ecco allora “il ritratto intimo di una donna reale”, alla quale piaceva scrivere articoli, grande lettrice che la madre e il padre fecero studiare, comprendendo che la prima forma di emancipazione per le donne è quella culturale. Maria Rosa Cutrufelli segue passo passo le forme dell’apprendimento di una ragazza di fine Ottocento che impara dal padre, ateo, garibaldino prima repubblicano poi, il senso morale della politica; dalla madre, che le insegna l’amore per i classici, la forza della parola scritta. E quindi a Voghera e poi a Pavia Maria Giudice studiò nel convitto e presso la Regia Scuola Normale femminile, l’allora istituto magistrale, divenendo maestra e coniugando insieme allo studio la passione per la politica e la lettura appassionata di Turati, Treves, Bakunin, e passando attraverso le rivolte del 1898, represse dai cannoni di Bava Beccaris. In quegli anni Maria Giudice cominciò a collaborare con il settimanale “L’uomo che ride” diretto da Ernesto Majocchi, poi nel 1902 con il quindicinale socialista “La parola dei lavoratori” su cui scrive sulle donne e il diritto di voto. E grazie a Cutrufelli sentiamo risuonare la sua parola ferma e disinvolta che afferma: “No, signori miei, non vi scalmanate tanto, non gridate allo sfacelo. La donna è nel suo diritto quando prende parte alla lotta della scheda”.

Tra i molti meriti di questo libro, infatti, vi è il restituire a Maria Giudice la sua parola e seguirne le tracce nei tantissimi rapporti della polizia dopo la sua iscrizione nel 1902 al Partito socialista e le molte denunce per manifestazioni non autorizzate, incontri e riunioni clandestine, poiché era divenuta intanto a soli 24 anni Segretaria della Camera del lavoro di Voghera. Spesso è l’unica donna a parlare nei comizi e scrive a questo proposito con ironia: “Voialtri signori siete così socialisti quando si tratta di voi, così poco socialisti quando si tratta di noi!”. Condannata talmente tante volte al carcere al punto da divenire la sua unica dimora stanziale, è lì che conosce Carlo Civardi, anarchico e sovversivo, con il quale andrà a vivere senza mai sposarsi e rivendicando la libera unione come forma intima, assolutamente personale, ben diversa dalla potestà maritale del matrimonio di allora.

Al momento in cui però si palesa la gravidanza della prima figlia, piuttosto che partorire in carcere Maria Giudice si rifugia in Svizzera, dove conosce Angelica Balabanoff e insieme fondano il periodico “Su Compagne!”, perché pur essendo entrambe critiche con un femminismo che ritengono filantropico, entrambe hanno a cuore la libertà delle donne. Dopo quindici mesi di esilio però Maria Giudice tornò in Italia, rientrando di nuovo in carcere anche se incinta, e nel corso degli anni successivi metterà al mondo sette figli, che mantenne con il suo mestiere di maestra, continuando al tempo stesso le sue battaglie sulle pagine de “L’Avanti” su cui scrive insieme a Angelica Balabanoff, e poi su quelle del periodico “La Difesa delle Lavoratrici”, fondato da Anna Kulishoff e sostenuto dalla Confederazione Generale del Lavoro insieme al Partito socialista. Il licenziamento dalla scuola e la grande guerra costituirono motivo di separazione da Civardi, interventista lui che va volontario, lei fermamente contro la guerra, che dirige in quegli anni la Camera del Lavoro di Torino, diviene Segretaria del Partito socialista e direttrice del “Grido del popolo” in cui dibatte a lungo con Gramsci, che le subentra al momento del suo arresto.

La foto che la ritrae intorno al 1916 accanto a Umberto Terracini in carcere dice di lei e della sua determinazione contro la guerra, e di quanto e come sia stata parte della storia del Novecento senza mai perdersi d’animo: alla sua uscita dal carcere nel 1917 torna alla guida del Partito socialista torinese e organizza le manifestazioni delle donne per il pane e per la pace che diventano sciopero generale scandito dal ritmo “Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliamo la pace, mai più la guerra!”, represso duramente. Oltre millecinquecento gli arresti, tra loro, di nuovo, Maria Giudice, che apprende in carcere della morte di Civardi in guerra e che per questo motivo si difenderà in tribunale pur non riconoscendone l’autorità, per poter stare accanto ai suoi figli. L’incontro con Giuseppe Sapienza, avvocato palermitano, la conduce nel 1919 in Sicilia, dove il partito la invia con un incarico di propaganda in tutta l’isola, che infatti lei percorre in lungo e in largo, tra la mafia e i fascisti che fanno agguati, e assumendo nel 1920 la segreteria della Camera del lavoro di Catania e la direzione de “L’Unione”, giornale dei sindacati. La distanza da quella che lei definì la “cultura barbuta” si accentua durante il congresso di Livorno nel 1921, al quale Maria Giudice partecipa ma non interviene. Al ritorno in Sicilia subisce un attentato fascista da cui a malapena si salvano lei e Peppino Sapienza, con cui ormai conviveva, riunendo poi a Catania le loro numerose famiglie, di tante figlie e figli, tre lui insieme a quelli di lei, e poi Goliarda, figlia di entrambi.

Maria Giudice continuava intanto a essere dirigente del partito e direttrice di giornale, e a tornare in carcere con l’accusa di istigazione a delinquere e odio di classe dopo le cariche della polizia e gli spari sulla folla in un comizio a Lentini nel 1922. Nel 1926 “il deserto avanza”: sciolti i partiti, i circoli operai, le leghe contadine, l’arresto di Gramsci nonostante l’immunità parlamentare, “L’Unione” diviene un giornale clandestino, e lei è ormai una sorvegliata speciale, considerata un elemento pericoloso. Nel deserto che avanza, lo sfaldarsi della famiglia per problemi economici e anche per sospetti tentativi di violenza sessuale, la figura di Maria Giudice, nonostante la sua tenacia e determinazione con cui studia il greco e il latino da autodidatta in anni in cui non è possibile l’attivismo che sempre l’ha contraddistinta, progressivamente si appanna: accompagna nel 1942 la figlia Goliarda a Roma per studiare all’Accademia di Arte drammatica e lì vive isolata e sola, fino a che la caduta del fascismo e l’occupazione tedesca della città non la coinvolge nella scrittura del giornale clandestino “Vespri”, ciclostilato e fatto circolare dalla Brigata partigiana Vespri che le permette ancora una volta di combattere con le parole, mentre la figlia Goliarda fa la staffetta partigiana della brigata che libera nel 1944 da Regina Coeli Pertini e Saragat. Nel dopoguerra la leonessa del socialismo e l’altra leonessa, Angelica Balabanoff, contribuiscono alla nascita dell’UDI e appoggiano Saragat. Ma molta la fatica del vivere e tre anni dopo la morte di Giuseppe Sapienza nel 1949 muore anche Maria Giudice e la figlia Goliarda la ricorderà in molte delle sue opere.

Come giustamente nota Maria Rosa Cutrufelli la vita di Maria Giudice è davvero sovrabbondante: tanta storia grande, tante lotte, “decenni di impegno” scrive Cutrufelli, tanto carcere, tanta vita, tanti figli. Senza così tanta sovrabbondanza, senza così tanta fame di cambiamento non è però possibile raccontare il secolo dell’emancipazione femminile e tutta l’età contemporanea, i suoi cambiamenti radicali, anche i costi che ciò comportò. Perché sta nell’intreccio tra impegno e attivismo estremo di donne come Maria Giudice il motivo per cui il Novecento è stato un tempo storico di così tanti e grandi cambiamenti, la cui eredità difficile, ma anche così ricca, arriva fino a noi grazie al lavoro di quante venute poi, come Goliarda Sapienza e Maria Rosa Cutrufelli.


(CRS Centro per la Riforma dello Stato, 28 luglio 2022)

di Laura Minguzzi


Come sostiene Giulia Valerio citata da Maria Livia Alga, sembra una regressione tornare alla sorgente viva della libertà femminile, “al corpo libero” del sentire proprio della relazione duale primaria incondizionata, quella con la madre, dove non regna l’aut aut. Nella guerra in corso in Ucraina invece domina il linguaggio dell’assoluto: o si vince o si perde. La sconfitta dell’altro è la vittoria propria. Non c’è spazio per la dimensione negoziale. È la coazione a ripetere della logica maschile? Non è più così per tutti gli uomini. Vediamo intorno a noi agire cambiamenti concreti da parte degli uomini che conosciamo, sappiamo che anche un uomo può sottrarsi alla legge del dominio. Per tornare alla politica della negoziazione, che si basa su una mediazione necessaria, io cerco la mediazione quando sento che mi manca qualcosa per realizzare un desiderio e lo vedo in un’altra, e la mediazione funziona quando anche all’altra manca qualcosa e lo trova in me. Non è un confronto fra due identità compatte ma una ricerca in movimento. Da ciò che manca nasce una relazione che assomiglia a una danza a “corpo libero” in uno spazio vuoto. È lo spazio della libera ideazione di ciò che prima non c’era. Si tratta di non temere il vuoto, l’ignoto, la scoperta. Il desiderio e la fiducia sono la base indispensabile nella mediazione fra due forze. Le donne non hanno bisogno di ordine ma di scambio. Nel disordine possono reggere, ma se non c’è scambio di parola e ha il sopravvento la lingua del potere, cadono in depressione.

Nel presente non abbiamo dubbi sulla forza delle donne, ma non sempre sappiamo come tradurla in autorità femminile. Ne ha dato un esempio la Ministra degli Affari Esteri dell’Indonesia Retno Marsudi, che recentemente al G20 in risposta alle pressioni per prendere posizione contro la Russia ha reagito dicendo: “Ci chiedono di schierarci. Ma perché? Noi vogliamo mantenere relazioni con gli uni e con gli altri”, senza lasciarsi includere in quelle fratrie compatte che non sopportano voci discordanti. In questa voce riconosco la lingua materna, la lingua-ragione, come la chiama Lia Cigarini nel Sottosopra dal titolo Un filo di felicità uscito nel 1989.

Negli ultimi mesi ho vissuto un groviglio di sentimenti e ragionamenti confliggenti, scatenati dagli avvenimenti tragici della guerra. Ho ascoltato l’impulso di offrire la mia solidarietà a un’amica ucraina, Tatjana Isaeva, con cui sono in relazione dal 2009 quando si è rivolta alla Libreria di Milano con una richiesta di collaborazione col Museo delle donne della città di Charkiv, di cui era una delle fondatrici. Le ho scritto una mail chiedendole come potevo aiutarla e lei mi ha risposto con una richiesta di sostegno finanziario, non a lei ma all’esercito nazionale. La cosa mi ha raggelato. Dopo un mese di silenzio da entrambe le parti, mi ha scritto su facebook che la figlia Mariya Chorna, un’artista di graphic design, l’ha convinta a lasciare il paese e la città quasi in macerie e ad accettare l’invito di un’amica pittrice austriaca. Mi ha mandato le foto dell’atelier, lei e la figlia insieme con un nutrito gruppo di artiste attorniate da quadri e acquerelli. Mi ha proposto di comprarne uno. Questo è un modo per loro di continuare a vivere dignitosamente in un paese straniero e io l’ho interpretato anche come un suo desidero di non interrompere la relazione con me. Con gioia ne ho scelto uno, coloratissimo, allegro, con un pizzico di ironia e ho sentito che aveva vinto la lingua-ragione del rapporto con la figlia; Mariya era riuscita a strapparla alla pulsione mortifera che la teneva prigioniera, sotto le bombe, vincolata a una sorta di fissazione/fedeltà identitaria. Questo spostamento di Tatjana mi ha poi ispirata ad acquistare un’antologia di scrittrici ucraine, Negli occhi di lei, perché ho sentito il bisogno intimo di approfondire attraverso la lingua della letteratura il mondo reale. Fin dall’infanzia e ancora di più col femminismo delle origini ho sperimentato come la mediazione delle scrittrici mi abbia guidata e orientata come una Madonna Odigitria (la Madonna-guida della tradizione ortodossa) che ha questa funzione simbolica. Una traduzione politica di questa figura è stata per me la pratica dell’affidamento, che mi ha permesso di realizzare desideri e vivere liberamente con indipendenza di pensiero.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 27 luglio 2022)