Nella Corte d’Onore della Biblioteca Sormani, 

con prenotazione obbligatoria a partire da 7 giorni prima dell’incontro, sul sito https://www.affluences.com/biblioteca-sormani disponibile su App per dispositivi mobili.

Il racconto del Cortigiano di Edgarda Ferri, edizioni Solferino, 2021.“Il mio nome è Baldesar Castiglione. Sono nato a Casatico a un’ora di cavallo da Mantova. Devo ad un vecchio se sono nato qui, e sono quello che sono: il cortigiano più famoso del Rinascimento”. Con queste parole l’autrice ci invita a prendere confidenza con Baldassarre Castiglione, testimone di un’epoca che ha trasformato il mondo. Edgarda Ferri dialoga con Mirella Maifreda.

Per acquistare online Il racconto del cortigiano:

https://www.bookdealer.it/goto/9788828207375/607

di Claudia Angeletti


Durante i lavori del Consiglio ecumenico delle Chiese, riservati strettamente ai/lle delegate, la Ekd, Chiesa Evangelica della Germania che unifica sia le chiese luterane che quelle riformate, e in particolare la Chiesa Evangelica del Baden, la regione dove si trova la città di Karlsruhe, hanno organizzato un fitto programma di “cultura e incontri”, su temi di rilievo per le chiese e per i/le cittadine/i. Tra questi nell’ambito tematico Donne, uomini, famiglia e diversità di genere” è stato organizzato un laboratorio/workshop sull’argomento “Come possono le chiese contribuire alla prevenzione della violazione dei diritti umani nel settore della prostituzione? Come possiamo avere un impatto sulla nostra legislazione per prevenire il traffico di esseri umani destinati alla prostituzione?”.

Principale ispiratrice dell’evento è stata la pastora Claudia Roloff, preoccupata da anni della situazione creatasi in Germania dall’approvazione di una legge regolamentarista (2000) che, legalizzando la prostituzione, ha visto un incremento abnorme della domanda di prestazioni sessuali a pagamento. Pertanto, insieme ad altri soggetti (associazioni per i diritti umani e anche partiti politici), sta avanzando la richiesta di adottare invece una legge abolizionista sul modello nordico, che punisca il cliente e predisponga tutto quanto è necessario per reintegrare nella società le donne/ragazze prostituite, perlopiù senza il loro consenso.

L’invito a chi scrive a presentare la situazione della piaga della prostituzione in Italia è stato determinato dall’apprezzamento del quaderno dei “16 giorni contro la violenza 2021”, che per la prima volta avevamo tradotto in tedesco.

Nel mio intervento introduttivo al laboratorio, ho quindi presentato le riflessioni elaborate dalla Fdei (Federazione delle donne evangeliche in Italia) e dall’Oivd (Osservatorio Interreligioso sulla Violenza contro le Donne): 1. una definizione della prostituzione come violenza sulle donne/ragazze, strettamente connessa alla tratta di esseri umani, una mercificazione del corpo femminile, né sesso (se sessualità è un rapporto vissuto in libertà e reciproco amore), né lavoro (se lavoro è una partecipazione umana alla co-creazione di una nuova terra dove regni la giustizia), bensì sfruttamento per il guadagno di biechi affaristi senza scrupoli; 2. compiti delle chiese: superare il pregiudizio e la condanna moralistica nei confronti delle prostitute, persone fra le più fragili, ferite nel corpo e nell’anima, riconoscere invece il nostro peccato di indifferenza, silenzio e talvolta complicità con l’acquisto di sesso da parte dei maschi, rileggere la Bibbia e le sue storie di prostitute con occhi di donna, utilizzare a questo scopo la teologia femminista, evidenziare nella predicazione l’aiuto che Dio ha dato alle donne coinvolte in situazioni di questo tipo, ricordare che nel Vangelo Gesù si è identificato con le vittime del sistema patriarcale di dominio annunciando un regno di Dio dove le prostitute entreranno prima dei cosiddetti benpensanti (Matteo 20,31), educare bambini, giovani e uomini adulti all’affettività e a una sana sessualità. Infine mettersi in rete anche a livello europeo con le associazioni laiche e femministe per favorire un cambiamento anche della legislazione del proprio paese, laddove non funzioni; 3. ho presentato le proposte che giacciono in Parlamento in Italia, alcune tese a cancellare la buona, ma poco applicata legge Merlin e a introdurre un modello regolamentarista, altre invece (come quella della senatrice Alessandra Maiorino) che propongono un’abolizione della prostituzione sul “modello nordico”, rafforzando la legge Merlin (1958).

Che quest’ultimo tipo di proposta legislativa sia da sostenere lo ha dimostrato la dettagliata relazione di suor Viviane Wagner, attivista del Mouvement du Nid che dagli anni ’30 persegue la costruzione di un mondo senza prostituzione, sia operando a livello sociale con luoghi di rifugio (nidi) per le prostitute, sia in tempi più recenti impegnandosi a livello politico per chiedere una legge abolizionista. Che è stata ottenuta il 13 aprile 2016, grazie a un’azione insistente condotta insieme a tutte le associazioni per i diritti umani, a sindacati, a singoli politici spesso donne, che ha pian piano modificato l’opinione pubblica. Nelle scuole francesi ad esempio è stato diffuso massivamente un fumetto molto realistico (Pour toi Sandra) che mostra il meccanismo sottile e perverso tramite il quale anche le ragazze francesi possono trovarsi coinvolte in giri di sfruttamento sessuale, sfatando una certa visione glamour offerta da alcuni film o altri media. La legge francese ha avuto risultati eccellenti: dall’inizio della sua applicazione non si sono registrate più morti di prostitute, numerose fra loro hanno beneficiato dei percorsi di uscita, numerosissimi i “clienti” multati o che hanno scelto di partecipare a stage di sensibilizzazione, a pagamento; l’84% della popolazione tra i 18 e i 24 anni ritiene questa un’ottima legge, l’81% delle donne vede nella prostituzione una violenza contro le donne, alcune prostitute hanno intentato processi contro i loro prostitutori (termine introdotto nel vocabolario), ottenendo un buon risarcimento in denaro, oltre alla condanna al carcere degli sfruttatori. Tutto questo naturalmente ha avuto un costo per lo stato, compensato però dalla confisca dei beni degli sfruttatori arrestati. Quanto alle chiese, la Conferenza dei Vescovi (cattolici) si è impegnata nel 2018 con un documento che ha informato le chiese sulle reali cause della prostituzione e l’ha messa in prospettiva con la rivelazione biblica vetero e neo-testamentaria, sottolineando come Gesù guardò a queste donne di cattiva reputazione con amore e misericordia, permettendo loro di ritrovare la propria dignità.

L’intervento finale della Dr. Brigitte Schmid-Hagenmaier, psicoterapeuta specializzata in traumatologia e nel trattamento di prostitute durante i percorsi di uscita dalla prostituzione, e vice-presidente del Comitato Donne del Partito Socialdemocratico del Baden-Württemberg ha illustrato nel dettaglio e cifre alla mano i danni fisici e mentali multipli che provoca la violenza subita dalle donne in questa attività sessuale che avviene nel 95% dei casi senza il loro consenso: il 65% soffre di PTS (stress post-traumatico), il 50% di altri disordini mentali che si aggiungono, la quasi totalità delle donne fa uso di droghe e di alcool, è usuale un dolore cronico addominale, per non parlare dei numerosi decessi per malattie sessualmente trasmesse.

Di grande interesse anche la puntualizzazione sulle posizioni politiche che hanno rispettivamente in Germania vari settori dell’opinione pubblica, partiti e associazioni varie: un gruppo consistente approva la prostituzione e l’attuale legge regolamentarista in vigore, sostenendo che il mercato ha una domanda che porta ricchezza e che la prostituzione è nient’altro che “sex-work” legalizzato (in realtà anche nei luoghi legali moltissime donne/ragazze sono state prima oggetto di tratta), mentre alcuni settori femministi, pur ritenendo la prostituzione una forma di violenza, ritengono legittima quella volontaria in quanto libera scelta della donna, infine chi vorrebbe cambiare la legge lo fa sia in nome dei diritti umani delle donne e dell’idea innegabile di violenza, ma anche considerando che la prostituzione è un peccato contro il corpo di esseri umani, fatti a immagine di Dio, donne e anche uomini e vorrebbe quindi riaffermare questo imprescindibile valore cristiano nella società.

«Il Sinodo del Baden, interpellato a prendere una posizione pubblica in questa direzione, ha recentemente discusso la questione, rimandando però una delibera netta in favore dell’adozione di una legge abolizionista sul “modello nordico”, per evitare una divisione con la Diaconia che vede il modello nordico come conservatore, da una parte, e per timore di essere additati dall’opinione pubblica come poco aderenti ai valori cristiani, dall’altra» mi ha detto la pastora Roloff in conclusione del nostro workshop. «D’altronde lo stesso fatto che questo tema che riguarda milioni di persone trafficate e messe sul mercato della prostituzione non abbia trovato uno spazio centrale nell’ambito del Consiglio Ecumenico significa che non c’è ancora consapevolezza dell’emergenza mondiale che esso rappresenta» ha continuato con accento critico. «Grazie all’insistenza di un gruppo di donne, pastore e non, di Karlsruhe che sono intenzionate a modificare l’attitudine di ambigua prudenza del Sinodo (e in prospettiva anche del Consiglio), si è trovato uno spazio per il nostro workshop nel Centro Gender, che ci ha dato la sala più grande, ma ha schiacciato il nostro evento tra altri due workshops paralleli. Uno di questi condotto da un africano sul tema dell’ascolto e della guarigione ha dirottato gli africani, mentre sarebbe stato interessante sentire le esperienze di chi vive nei paesi da cui provengono in Europa la maggior parte delle prostitute, come la Nigeria».

In conclusione, «chi ha partecipato ha apprezzato i nostri interventi e ha confermato la sua volontà di impegnarsi nelle proprie chiese tedesche a condividere le informazioni ricevute sia sulle leggi italiane, sia su quella francese e le prospettive di speranza che essa ha portato», ha affermato Roloff: «con la nostra determinazione riusciremo a far capire che essere contro la prostituzione non è affatto una posizione anti-liberale, né moralistica, bensì un contrasto alla violenza in nome della giustizia sociale e per un’idea di sessualità basata sulla vera libertà e quindi sul consenso».

«Infatti l’esperienza in Francia» ha detto Viviane Wagner «insegna che una legge abolizionista protegge realmente le donne dalla violenza».


(https://riforma.it/it/articolo/2022/09/12/contrasto-delle-chiese-alla-prostituzione-un-argomento-divisivo, Riforma.it, 12 settembre 2022)

di Daniela Preziosi


Giorgia Meloni sarà eletta dalle donne, o soprattutto dalle donne? Per quanto negli ambienti della sinistra per bene l’ipotesi possa sembrare paradossale, arriva a questa conclusione la previsione di Alessandra Bocchetti. Bocchetti, romana, saggista e teorica ma promotrice di pratiche, è un’istituzione per il femminismo, non solo quello romano. E la sua biografia è più o meno la storia del movimento. Da bambina studia dalle Orsoline, poi si occupa di cinema militante nella Unitelefilm, la casa di produzione del Pci. Poi arriva la rivoluzione delle donne: nel 1975 fonda il collettivo femminista Studio Ripetta: una comunità di femministe che intrecciano storia, filosofia, antropologia, sociologia, letteratura. Da quel cenacolo, nel 1978 fonda con altre donne il Centro Culturale Virginia Woolf – Università delle Donne. Sono suoi molti testi che animano, in genere sferzano, il dibattito fra femministe. Soprattutto le pratiche femministe e la critica al potere. Nel 2011 è sul palco della manifestazione Se non ora quando a Piazza del Popolo, insorgenza femminista contro il berlusconismo. È stata severa con il ddl Zan, nell’ultima stagione del parlamento: ce lo ha raccontato a luglio dello scorso anno, usando quella che per il mondo lgbt suona come una provocazione: «I gay pride con i loro carnevali sessuali, porno sadomaso, hanno smesso da parecchio, ai miei occhi, di significare libertà», ci spiegò, «Zan a piazza del Popolo si è presentato con due trans a mo’ di sorelle Kessler», «mi chiedo cosa ho in comune con chi per essere donna ne assume gli stereotipi più retrivi. Per essere donna non basta “sentirsi” donna. Bisogna assumerne la storia, non solo rossetti e tacchi a spillo. Il femminismo è stato il più grande processo di destrutturazione critica mai prodotto nella storia del pensiero. E adesso arriva Zan con le sorelle Kessler? Ma le donne non si sentono offese?». A ottobre uscirà il suo Basta lacrime (Vanda edizioni).

Lo ha detto anche Hillary Clinton: «L’elezione della prima premier in un paese rappresenta sempre una rottura col passato, ed è sicuramente una buona cosa. Però poi, come per ogni leader, donna o uomo, deve essere giudicata per quello che fa». Siamo alla vigilia di una probabile elezione di Giorgia Meloni. La considera anche lei una buona cosa, che poi dovrà essere giudicata per quello che fa? Sento fare ipotesi. Dove sta prendendo i voti la Meloni?

C’è chi dice da Forza Italia, chi dice dalla Lega o addirittura dal Pd. Non sento nominare quel bacino certo, quello di coloro che in genere non votano. Secondo me è proprio lì che prenderà tanti voti. Tra i non votanti due su tre sono donne e sono le più povere, le meno istruite, le più sfortunate, quelle che affrontano a mani nude le difficoltà del giorno per giorno, da sempre trascurate dalla politica.

I partiti della sinistra trascurano le donne più deboli?

Dovrebbero essere naturalmente soggetti di attenzione della sinistra, a loro la sinistra dovrebbe dare parola, ma la sinistra adesso è attratta da altri soggetti. A queste donne la parola sarà Giorgia Meloni a darla, una parola di riscatto, di speranza, di novità. Sarà un’illusione, ma tuttavia tante di queste donne si impegneranno a votare e voteranno lei, in lei vedranno quella forza, quello spazio, quell’ascolto che non hanno.

In lei, una donna di destra a dir poco tradizionalista?

Se non badi all’appartenenza, se non sai la storia, se non sei informata, la sua immagine è attrattiva. È una donna contro tutti, anche contro i suoi stessi alleati. Al posto di un uomo forte, una “donna forte”? Questo suo andare avanti da sola è un’immagine di forza. Sono queste donne che voteranno la Meloni e che la faranno vincere.

Un gruppo di associazioni di donne ha sottoscritto un documento a suo favore. Hanno risposto alcune, fra cui Natalia Aspesi, parlando di «falsa illusione» delle femministe.

È imbarazzante come si parla a vanvera del femminismo. Il femminismo non ha mai lavorato per avere una donna presidente del Consiglio, ha lavorato piuttosto a un cambiamento strutturale. Abbiamo lavorato contro l’assetto patriarcale. Una donna presidente del consiglio potrebbe essere un effetto ma non uno scopo. Comunque Meloni non avrà certo il voto delle femministe. Non basta una spolverata di femminismo all’ultimo minuto.

Una spolverata che peraltro non è pervenuta. Adesso Meloni ha chiesto alla Rai di censurare il cartone Peppa Pig perché in un episodio c’è una bambina con due mamme.

Le frequentazioni della Meloni sono imbarazzanti, compromettenti: Orbán, il Family Day di Verona, Vox, i peggiori nemici delle donne e della loro libertà. Antiabortista, votò sì in quel parlamento surreale dove ci si interrogava se quella minorenne fosse la nipote di Mubarak. La troviamo a fianco di Pillon (Simone, senatore leghista, antiabortista e tradizionalista, ndr). Ecco, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa, da donna e da madre, del disegno di legge di Pillon, quella mostruosità che non protegge certo la famiglia perché solo a leggerlo fa passare la voglia di sposarsi e di mettere al mondo figli.

Glielo dico io: Fratelli d’Italia era d’accordo.

Certo, ma vorrei sapere se questo accordo da parte sua viene da convenienze tutte politiche o da convinzioni personali, perché a una donna e soprattutto a una madre quel disegno di legge dà il voltastomaco. Una trappola mortale in nome di una perfetta uguaglianza mai esistita tra donne e uomini.

E nonostante questo lei pensa che ci saranno molte donne che la voteranno?

Vede, lo dicevamo prima: Meloni è una donna forte. Appartiene a quella generazione di donne che non si chiedono più se le donne sono capaci di fare quello che fanno gli uomini, ma cominciano a pensare che lo possono fare meglio. La cifra del vittimismo, tanto caro alla sinistra, vera trappola per le donne, non le appartiene, le politiche delle pari opportunità le fanno orrore. In questo sono proprio d’accordo con lei. Tuttavia penso che la Meloni sia un vero pericolo per le donne. Il suo assetto è totalmente patriarcale. «Dio», «Patria» e «Famiglia» a casa sua sono scritti in maiuscolo. Le femministe hanno lavorato per metterli tutti in minuscolo, ben sapendo che la famiglia può essere un inferno, e che Dio e Patria decisamente non sono stati troppo amichevoli per le donne.

Resta che la sinistra italiana nel suo complesso non si presenta all’appuntamento con una premier donna. Perché?

La sinistra italiana ha avuto delle grandi donne che avrebbero benissimo potuto fare da premier, ma sono state liquidate senza neanche il trattamento di fine rapporto, messe a lato, fatte sparire. Ma di questo non do la colpa agli uomini. Gli uomini fanno il loro mestiere, attaccatissimi al potere come sono. Di questo sono piuttosto responsabili le donne: per mancanza di immaginazione, per troppa deferenza, per credere che l’ubbidienza sia una virtù. C’è da dire che l’ubbidienza spesso premia, ma non immette a grandi scenari: non sarai mai solista, ma sempre nel coro. Ma a pensarci bene forse non è neanche troppo responsabilità delle donne. La nostra libertà è cosa recente e noi donne stiamo imparando a essere libere. Non è cosa da poco.

Lei riconosce una forza personale a Giorgia Meloni. Secondo lei da dove viene questa forza?

Si capisce leggendo la sua autobiografia: un rapporto strettissimo con la madre, la certezza di essere stata una figlia desiderata, voluta contro tutto e tutti, essere uscita prestissimo dalla galassia paterna. Io non la voterò, naturalmente. È un’avversaria, forte e temibile, ma non una nemica. Mi piace pensare che mai una donna possa essere nemica delle altre fino in fondo. Anche se la storia ha di che smentirmi, mi piace pensare così.


(Domani, 12 settembre 2022)

di Fabrizia Giuliani


Sosteneva Saussure, padre della linguistica novecentesca, che per capire a fondo come funziona una lingua dobbiamo saper distinguere l’uso – individuale e collettivo – dei parlanti, dal sistema, che lui chiamava langue. Quest’ultima è un’astrazione, c’è ma non si vede, come non si vedono molte altre cose che regolano la nostra esistenza, a cominciare da meridiani e paralleli.

Le parole ci sono ben presenti, invece, nella loro concretezza: dette o scritte, alte o basse, corrette o scorrette. La lingua ci appare, ed è fatta di questi atti, dal buongiorno alla Divina Commedia: la descrizione della sua struttura, del sistema, è il punto d’arrivo, la ragione della fatica del linguista, che ha ben presente il tasso di idealizzazione di qualunque istantanea se ne faccia. Per quanto necessaria alla sua descrizione, la fotografia di uno stato di lingua è sempre irreale, dato il carattere di sviluppo continuo a cui è sottoposto ogni idioma. Il dizionario, che rappresenta il tentativo di dar conto del lessico di una lingua, è una parte essenziale di questa fotografia, il fermo immagine indispensabile per comprendere a che punto siamo: cosa cambia, cosa entra e cosa esce, e soprattutto come si aggiornano gli stessi criteri di descrizione e selezione.

Le scelte operate dal Dizionario della lingua italiana Treccani per questa edizione 2022 rappresentano, da questo punto di vista, una vera e propria rivoluzione. Per la prima volta verranno lemmatizzate anche le forme femminili di nomi e aggettivi – non solo “amico”, ma “amica”, non solo “buono” ma “buona” – e sarà restituita piena autonomia lessicale a nomi identificativi di professione presenti cancellati dalla tradizione androcentrica come “notaia” o “soldata”.

Dovrebbe essere superfluo sottolineare come non si tratti solo di parole, come queste scelte non investano solo la lessicografia, ma la cultura, il sapere e la politica.

E se è comprensibile leggere nelle righe introduttive del Dizionario che il criterio al quale si sono ispirati gli autori – i bravissimi Patota e Della Valle – è l’inclusione, forse non è nemmeno questa la parola giusta. Non si tratta di allargare, ma di dar conto delle trasformazioni avvenute o, se si preferisce, di smettere di tacerle, far cadere divieti non scritti ma profondamente radicati.

Le donne non sono una categoria oppressa, ma più di metà della popolazione; da tempo esistono notaie, soldate, avvocate e sindache, dovrebbe essere naturale dar conto della loro presenza come la si è data di maestre e infermiere, dato che la lingua – il sistema – lo consente. Chiediamoci, piuttosto, perché non è avvenuto, perché le resistenze a rappresentare linguisticamente il cambiamento, ossia la presenza delle donne nella vita pubblica, siano state così tenaci. E forse possiamo risponderci che sì, qui è precipitata tutta l’ostilità a un processo tanto irreversibile quanto temuto, come l’ultimo voto contro l’uso del femminile istituzionale in Senato ha mostrato. Ma è un’ostilità che pesa, perché, come scrive la linguista Cecilia Robustelli «ciò che non si dice non esiste»: se la lingua nega e cancella i fatti si è costrette ogni volta a ricominciare. Con la saggia scelta di Treccani mettiamo finalmente un punto fermo: consentiamo alla lingua di riaccostarsi al mondo e alla forbice di chiudersi.

Speriamo sia il primo passo, c’è tanto da fare.


(La Stampa, 11 settembre 2022)

di Mariapia Bonanate


Nell’inferno in cui le donne afghane sono state ricacciate dai talebani, private dei diritti che erano riuscite a conquistare negli ultimi vent’anni, perseguitate, obbligate a vivere in clandestinità, si è accesa una luce. Che ha un nome, Nadima Noor, trentanove anni, un sorriso che le crea un alone luminoso, uno sgargiante turbante color zafferano, elegante negli abiti tradizionali, famosa in Afghanistan per i suoi video ironici e comici su TikTok, dove interpreta una donna pashtun, Pantigalla Kalai, che cerca di risolvere i difficili problemi familiari di ogni giorno. Ma anche perché ha creato una Ong che aiuta migliaia di persone a sopravvivere e che lei incontra di persona.

Una donna che parla per la gente che non ha più voce e sta tentando una missione che può parere impossibile. Non per lei, che ha deciso di rischiare la vita. Vuole “convertire” i talebani a rispettare le donne, a riconoscerne i diritti, a esprimersi e affermarsi nelle loro professioni. Vuole avviare un dialogo di riconciliazione perché l’Afghanistan ha bisogno di amore e di luce. «Sono qui per fare la differenza. L’approccio con i talebani è sbagliato, queste persone spesso sono state strappate alle loro famiglie, sono state plagiate, violentate, bullizzate. Sono dei bambini-soldato diventati adulti, avrebbero bisogno di un sostegno psicologico e invece gestiscono uno Stato. A maggior ragione bisogna percorrere la via più difficile per aiutarli a rinnovarsi», ha detto nelle interviste che ha rilasciato a Barbara Schiavulli, che ha il merito di aver fatto esplodere la sua vicenda sui media internazionali.

Lei ci prova ogni giorno, nascondendo le paure che di notte diventano un incubo. Quando la fermano per strada, sfodera la sua innata gentilezza e abilità tutta femminile, ricorda loro che un uomo pashtun rispetta la propria madre e sorella e lei è loro sorella. Presi in contropiede e sorpresi dal suo piglio deciso, la lasciano andare.

Cresciuta in Canada, nel 2019 è ritornata in Afghanistan per ritrovare le sue radici ed essere pienamente sé stessa. Un anno fa avrebbe potuto, con il passaporto internazionale, lasciare Kabul. Ha scelto di rimanere. Parlare la stessa lingua dei talebani è stato il suo nuovo passaporto, anche quando fu arrestata per avere ospitato un inglese sospettato di spionaggio e rimase in carcere per 29 giorni. Quando i pashtun entravano nella sua cella, li invitava a togliersi le scarpe e a pregare, poi gli offriva il tè. Se ne andavano pacificati.

A chi le rimprovera di cercare il dialogo con il nemico, risponde: «Adesso la gente ha fame, e bisogna che l’economia riprenda; dobbiamo trovare un modo perché tutto si rimetta a funzionare, portando luce e non altra miseria, essendo migliori, dando l’esempio. Noi donne dobbiamo usare la nostra vulnerabilità per trasformarla in forza. Le donne sono forti, qui in Afghanistan e nel resto del mondo, con il tempo le cose cambieranno, gli uomini cambieranno».

Riuscirà Nadima a realizzare il suo sogno di pace e di amore nel martoriato Afghanistan? Dipenderà molto anche dal sostegno che le verrà dalle tante donne che si riconoscono in lei e che decideranno di non lasciarla sola.


(Famiglia Cristiana n. 37, 11 settembre 2022)

di Paola Piacenza


Prima di domandarle dell’impatto esercitato dalla sua scrittura sul mondo esterno – cinema, editoria, immaginario (cosa forse difficile da valutare per un autore e, azzardo, per lei forse anche poco interessante), vorrei chiederle dell’impatto che lo scrivere ha prodotto sulla sua ricerca di verità. “Verità” è una parola grossa, quasi pericolosa, ma mi ha colpito la frequenza con cui lei l’ha chiamata in causa nella sua scrittura e nelle poche interviste che ha concesso. In I margini e il dettato individua “la lingua cattiva” tra i principali nemici della verità delle donne. Quando le è stato chiesto della lunga pausa intercorsa tra il primo e il secondo libro – passa un decennio tra L’amore molesto e I giorni dell’abbandono – ha risposto: «In realtà non c’è stata nessuna pausa. Ho scritto moltissimo, in quei dieci anni, ma niente di cui mi potessi fidare. Erano racconti molto lavorati, molto studiati, ma senza verità».

Tutto ha un impatto, viviamo di urti, e immagino che nel bene e nel male anche i miei libri abbiano dato qualche spintone. Quanto alla verità, ha ragione: verità è una parola pericolosa e forse ne ho abusato. Avrei fatto bene, probabilmente, a ricorrere a “sincerità”, più vicina in effetti alle mie intenzioni. Ma “sincerità” implica l’assenza assoluta di finzione e a me invece interessa sempre più quella particolare battaglia di verità che si compie tutta e soltanto sul terreno del “finto”. Il Pilato del quarto Vangelo, quello di Giovanni, chiede con colta ironia a Gesù che si è appena autodefinito testimone di verità: «Che cos’è la verità?». Per me, per la mia scrittura, oggi non contano tanto i problemi che solleva la domanda di Pilato, ma la verità del personaggio così come si esprime anche attraverso l’irruzione di quella domanda. Insomma, quando parlo di verità, parlo del bisogno di ogni buon narratore di scrivere storie più vere di quelle che chiamiamo con un luogo comune “storie vere”.

Da sempre lei scrive e al contempo riflette sulla scrittura: come articola il dialogo tra questi due aspetti della creazione? Sono immaginario e analisi razionale complementari? Esauriscono il suo gesto creativo o c’è ancora una parte che manca (una componente di insoddisfazione, di inesplorato è sempre un buon carburante…)?

Ai miei occhi non sono momenti diversi: anche la riflessione è uno sforzo di immaginazione. Tendo anzi a pensare che sbozzare dal proprio corpo un io che scrive sia, nel suo complesso, il gesto creativo primario. Prima di quel gesto, l’autrice o l’autore non ci sono. Ci si inventa di frase in frase, di abbozzo in abbozzo, di opera in opera. Forse il modo secondo cui chi scrive prende forma scrivendo – con le sue intermittenze, col suo eclissarsi e poi riapparire, con il suo materializzarsi in opere, operine e operette alla ricerca di compimento e compattezza – andrebbe più indagato, più raccontato. In effetti chi scrive – il suo modo di inventarsi – è parte sostanziale di ogni narrazione.

La vita delle donne è al centro di tutta la sua opera e in più occasioni ha dichiarato di credere nell’esistenza di una scrittura femminile. Che cosa può dirci della sua natura? E come rifuggire i cliché legati al genere quando la si definisce? Nel cinema quando una regista realizza opere più “forti” della media, come per esempio nel caso di Kathryn Bigelow, capita (spesso) che si dica: “dirige come un uomo”.

Comincerei col chiedermi perché dire di una donna che “dirige come un uomo” suona più o meno come un complimento, e perché dire di un uomo che “dirige come una donna” pare quasi un insulto. È un esercizio utile. Ci si rende immediatamente conto che per noi donne entrare con qualche titolo nel mondo è entrare per forza nel mondo degli uomini, apprendere i linguaggi e i gerghi che hanno elaborato, le culture che hanno prodotto. Il successo stesso ha solo due strade: o imporci in quanto icona, figura potente, di come loro ci hanno inventate in funzione delle loro necessità; o dimostrare continuamente che sappiamo giostrare alla grande sul terreno che loro stessi hanno perimetrato, proprio per farci dire: brava, vai premiata, sai esprimerti in ogni settore proprio come noi, e forse in qualche raro caso addirittura meglio. C’è naturalmente una terza via, ancor più ardua, che da almeno un secolo è sempre più frequentata: acquisire al meglio lo strumentario elaborato dagli uomini e forzarlo, distorcerlo, servircene per dire davvero di noi. Non credo però che quel “noi” esista di per sé. Di per sé esiste solo la nostra condizione odierna, col suo sottaciuto, il non dichiarato, il non pensato, le piccole conquiste sempre a rischio. Per il resto siamo completamente da inventare, cosa terribile e insieme meravigliosa.

Tutti, non solo gli autori, appartengono al mondo che li ha cresciuti, dove si sono sperimentati i primi affetti e dolori, dove si sono fatti i conti con la cultura. Di lei, a partire dai dettagli e dai riferimenti dei suoi romanzi, si intuisce che sia cresciuta negli anni ’50. Se è stata davvero testimone di più di mezzo secolo nell’evoluzione del nostro costume, quali conclusioni ha tratto? Penso a come sono cambiati i rapporti tra uomini e donne e alla fluidità sessuale, soprattutto per le nuove generazioni.

Il Novecento è stato un secolo di grandi terribili sovversioni, di grandi orribili restaurazioni. La sua è storia di gabbie forzate e riaddobbate versando sangue a fiumi. Il materiale di ogni forzatura e di ogni restauro – non bisogna mai dimenticarsene – sono i corpi vivi. Siamo tutte e tutti corpi vivi ingabbiati. Ci siamo dibattuti e ci dibattiamo nella lingua locale che ci è toccata, nell’ambiente in cui siamo nati, nei confini e tradizioni nazionali, nelle reti imperiali, nel genere che ci è toccato in sorte e nell’educazione che ci è stata di conseguenza data. A forza di dibatterci, parecchio è cambiato, specialmente nella condizione femminile. Ma la restaurazione è potente, minacciosa. E, tra i corpi vivi, i corpi delle donne sono i più minacciati: è lì nell’allestimento di vecchie-nuove gabbie per noi donne che si gioca il trionfo definitivo dei restauratori di ogni tipo. Tutto ciò che può aiutarci a sfuggire alle sbarre va incoraggiato. La fluidità sessuale mi piace. A meno che non sia un gioco senza sostanza, in cui fluire tra la gabbietta femminile e quella maschile è solo riproposizione di stereotipi, una divertita riemersione di vecchi ruoli stilizzati.

Quando penso ai personaggi femminili che “si disfano” nei suoi romanzi non posso non andare con la memoria alla lettura di scrittrici come Colette e Willa Cather o scrittori come Flaubert. Ha già detto in altre occasioni che la lista dei suoi amori letterari sarebbe troppo lunga da compilare, ma mi chiedo se ci siano riferimenti più mirati a questo: la crisi, il cambiamento, la transizione.

Non voglio far torto a nessuna delle autrici che amo, ma sui temi che lei mi propone resta per me fondamentale Clarice Lispector. Andrebbe letta e riletta con molta attenzione.

Infine, mi ha sempre molto colpito come le sue non-interviste, i dialoghi per mail, come quello che pubblichiamo in queste pagine, siano altrettanti pezzi di scrittura, rivelatori di pieghe magari inesplorate della creazione, ma anche di posizioni politiche forti che resistono alla pressione della correttezza a ogni costo. È così? Che cosa rappresentano per lei questi incontri estemporanei a distanza?

Piano piano, col tempo, sono diventati un’occasione per precisare, scrivendo, la mia fisionomia di autrice. Le domande sono uno stimolo, mi spingono a cercare, a definire, la me stessa che scrive. A volte ci riesco, a volte no.

In passato aveva dichiarato di augurarsi un governo di sole donne. Alla vigilia delle elezioni politiche, che riflessioni sta facendo?

Mi piacerebbe, sì, che fosse messo alla prova un governo di sole donne. Ma – spero si sia capito – quando parlo di donne non intendo invenzioni maschili del femminile. Intendo donne capaci di sottrarsi alla potente tradizione politica dei maschi proprio perché la conoscono a fondo e sono in grado di non subirla, ma di reinventarla.


(Io Donna, 10 settembre 2022)

di Maria Grazia Ligato


Ti dicono un “no” che ti sembra un torto, ti salta la mosca al naso e con cortesia ma granitica determinazione lavori per quasi vent’anni come una goccia inesorabile che scava la montagna fino a raggiungere l’obiettivo. Non da poco: un progetto che impatta sulla costruzione identitaria dell’Europa quasi più dell’euro. Il merito va a Sofia Corradi, pedagogista di fama e pluripremiata, nominata dal presidente Sergio Mattarella Commendatore della Repubblica e insignita dal re Filippo VI di Spagna del prestigioso Premio Europeo Carlo V.

Soprattutto, Corradi è conosciuta come “Mamma Erasmus”: se milioni di ragazzi hanno potuto viaggiare su e giù per il Vecchio Continente lo devono a lei che ha dato vita all’Erasmus, il programma di scambio internazionale per studenti che, a oggi, ha portato a vivere un’esperienza all’estero quasi cinque milioni di ragazzi, partiti italiani, francesi, spagnoli e tornati europei. Sofia Corradi lo ha ideato nel 1969, la Ue lo ha varato nel 1987: diciotto anni in cui la pedagogista ha lavorato con pazienza e indomito entusiasmo, contattando i rettori di tutte le università europee, convincendo le loro mogli, “tampinando” ministri e burocrati nella verifica di risorse economiche. E inanellando a rifiuti e disinteresse piccole aperture e passetti avanti, fino ad arrivare a convincere il presidente francese François Mitterrand ad appoggiare il progetto. «Più di una volta per riuscire a farmi passare al telefono qualche personaggio importante ho dovuto dire che ero la segretaria del professor Corradi» ridacchia la professoressa.

L’idea nasce appunto da un “no” sfrontato: nel 1959, a poco più di vent’anni, è appena tornata dalla Columbia University dopo un anno di master in Diritto comparato frequentato grazie alla borsa di studio Fulbright. È entusiasta dell’esperienza, le mancano tre esami per laurearsi in Giurisprudenza a La Sapienza di Roma. Li ha già sostenuti a New York, così chiede che le siano riconosciuti. Le ridono letteralmente in faccia, Sofia ridà gli esami a Roma ma dentro di lei attecchisce quell’idea all’apparenza folle che oggi è diventata un modo di vivere e pensare allo studio, all’interculturalità e all’Europa: un progetto di studi reciprocamente riconosciuto da Università di Paesi diversi.

Diciotto anni di tentativi: la parola ostinazione forse non basta! Cosa ha dato forza e durata alla sua determinazione?

Sono andata avanti passo dopo passo, senza sapere quanti altri ostacoli si sarebbero presentati, di volta in volta credevo di essere a un passo dal risultato e invece… Così anno dopo anno sono arrivata in fondo.

A volte i no ricevuti aiutano più dei sì a perseguire la propria strada…

I “no” che si ricevono sono senz’altro un enorme stimolo a cambiare le cose e per me hanno rappresentato il punto di partenza. Certo, è necessario un grande spirito combattivo: rinunciare è semplice, ingaggiare una o più battaglie per fare in modo che il “no” si trasformi in un “sì” è impegnativo, ma porta enormi soddisfazioni. Sinceramente pensavo a un percorso più rapido, invece il risultato non arrivava e io non volevo “mollare”. Ma alla fine, con un po’ di rabbia e un bel po’ di diplomazia sono riuscita a raggiungere l’obiettivo.

Quali consigli per una ragazza oggi?

Alle ragazze di oggi consiglio di perseverare, di non arrendersi e avere fiducia in sé stesse. Ma spesso il segreto è accompagnarsi a una buona dose di diplomazia e flessibilità.

Erasmus è un tributo a Erasmo da Rotterdam, teologo viandante, autore dell’Elogio della follia: ne occorre un po’ per cambiare il mondo?

Il nome del Programma in realtà nasce da un acronimo che in parte è stato costruito ad arte (European Region Action Scheme for the Mobility of University Students). Tuttavia, il personaggio di Erasmo da Rotterdam si presta benissimo a rappresentare alcuni aspetti che lo animano. C’è il tema del viaggio innanzi tutto, dell’amore per lo studio, e sì, perché no, quel pizzico di follia che è alla base di tutti i sogni che ci sembrano irrealizzabili. Cambiare le cose è uno di questi e senza un po’ di follia si rischia la resa.

Quale è stato il momento in cui ha capito che quello che stava facendo avrebbe avuto un impatto potente sui giovani?

Il Programma è iniziato nel 1987 con la movimentazione di un numero relativamente modesto di studenti, poi, visto il grandissimo successo e le risorse attribuite, ha raggiunto numeri inaspettati. La sensazione del grande impatto l’ho percepita sin dall’inizio, nei racconti degli studenti di ritorno dall’esperienza. Il cambiamento, la crescita, la maturazione erano palesi e soprattutto gli studenti erano felici, soddisfatti e orgogliosi di sé stessi, ricchi di entusiasmo e di nuove amicizie, di relazioni nuove con colleghi di Paesi diversi. L’orizzonte si era aperto! La frase più ricorrente è tuttora “l’Erasmus mi ha cambiato la vita”.

È in contatto con gli erasmiani?

Certo, gli erasmiani mi cercano, li sento e li incontro con immenso piacere. Purtroppo la pandemia ha cambiato molto la vita relazionale di tutti noi, spero che in futuro andrà meglio. È bello anche assistere all’“effetto collaterale” degli amori nati in Erasmus. E più di una coppia mi ha fatto il grande e inaspettato onore di chiamare la bambina Sofia. Un grande regalo!

Le piace essere chiamata “Mamma Erasmus”?

È proprio come mi sento! Ho avuto l’idea del Programma per dare ai giovani l’opportunità che io non avevo avuto, perché gli studi all’estero non fossero solo un privilegio per chi poteva permetterselo economicamente. L’ho fatto con spirito materno, come ogni mamma prova a rendere migliore il futuro dei propri figli.

Stanno per partire le sue nipoti…

Partiranno a settembre, una per la Francia, l’altra per la Spagna. Il mio consiglio per loro? Portate con voi la valigia dei vostri sogni e lasciate a casa tutti gli altri pensieri, famiglia e parenti inclusi! Io farò il tifo dall’Italia come tutte le altre “nonne Erasmus”.


Sofia Corradi, 87 anni, laureata in Giurisprudenza, pedagogista e già Professore Ordinario di Educazione degli adulti ha ideato e costruito con un lungo lavoro il Programma Erasmus per l’interscambio degli studenti fra le università europee. Il programma ha fatto viaggiare milioni di ragazzi e ha compiuto 30 anni nel 2017.


(Io Donna, 10 settembre 2022)

di Maria Dell’Anno


Ciao Giulia*. Oggi ho saputo che il tuo assassino è stato liberato. Tu forse lo sai già. O forse no, non so se da morta puoi ancora sapere qualcosa di quello che capita in questo assurdo mondo. 
Assurdo. Perché è assurdo pensare che tu non ci sei più, non esisti più su questa Terra, e che invece lui, che ti ha uccisa, che ha deciso di ucciderti, che ha deciso di prenderti a sassate e di gettarti nel fiume provando a simulare il tuo suicidio, è libero di vivere la sua vita. Quella vita che tu non hai più. 
Ecco, il mio cervello ha davvero difficoltà a concepire questi due dati di fatto: tu non esisti più e il tuo assassino è libero. 
13 anni. Dovevano essere 19. Una sentenza dello Stato italiano lo aveva condannato a 19 anni di carcere. 19 anni per averti tolto la vita. Per aver deciso di toglierti la vita. Per aver deciso di togliere la vita a sua moglie, che qualche anno prima aveva promesso di amare. Ne ha scontati solo 13. 13 anni di privazione della libertà per aver deciso di toglierti per sempre la tua di libertà. Dopo 13 anni è libero di tornare a casa e perfino di riprendere lo stesso lavoro che faceva prima, come se avesse fatto una lunga vacanza in America. Ti ha uccisa perché ha ritenuto fosse più conveniente ucciderti che separarsi. Forse, dopotutto, lo Stato non gli sta dicendo che aveva torto. 
Ho conosciuto i tuoi genitori, sai Giulia? Ho il privilegio di chiamarli amici. Ho il privilegio di condividere con tua mamma riflessioni su di te e sui diritti delle le donne, delle bambine, perché il futuro del mondo è loro. Li ho conosciuti perché volevo raccontarti – te e altre donne che come te non hanno più la loro vita perché uccise da un uomo che aveva detto di amarle – e attraverso loro ho conosciuto te. 
Lo Stato che ha condannato tuo marito a 19 anni per punire la tua morte e che poi l’ha liberato dopo 13 non ha detto nulla ai tuoi genitori. Non li ha informati che l’assassino della loro figlia ha pagato il suo debito con la giustizia, che è libero di tornare a casa, e che magari se lo possono ritrovare al supermercato di fronte agli yogurt. No, lo Stato non si è curato di loro. Ha semplicemente chiuso un fascicolo di carta che portava il nome di tuo marito: liberato e affidato ai servizi sociali. 
Servizi sociali. La nostra bellissima Costituzione pone come finalità della pena la rieducazione e il reinserimento sociale; in quest’ottica l’ergastolo è palesemente incostituzionale; per alcuni è inumana anche la stessa pena del carcere, e forse se il mondo non si autodistruggerà a breve farà in tempo a vedere anche l’abolizione di questa sanzione in parte dell’Occidente. 
Ma dell’ergastolo a cui sono condannati i genitori e i figli di chi viene uccisa lo Stato non pensa? Perché quello, sì, è un ergastolo senza alcuna possibilità di libertà condizionata. 
Tua madre racconta di te nelle scuole continuando a fare il suo lavoro di maestra. Tuo padre l’accompagna parlando di te con ogni persona che incontra. Perché tutti dovrebbero parlarne, sempre, mi ha detto una volta. Tua sorella, la tua metà, è andata a un concerto contro la violenza sulle donne portando un palloncino a forma di fiore con scritto “Giulia sempre con noi”. 
Amavi la musica, lo so, amavi la vita, lo so, guardavi con fiducia al futuro, lo so. So talmente tanto di te che in certi momenti ho davvero la sensazione di averti conosciuta, anche se so che purtroppo non è vero, che esisti solo nei ricordi che ho ascoltato e nella mia immaginazione di donna e di scrittrice. Sei un fantasma. Un fantasma di cui sento forte la presenza ogni volta che entro nella casa dei tuoi genitori. Un fantasma che annusa il profumo dei fiori nel suo giardino, un fantasma che mi sembra stia per affacciarsi da un momento all’altro alla porta della cucina per dire che è ora di apparecchiare la tavola. Un fantasma che porto con me e che racconto ad ogni presentazione del libro in cui ti ho ridato voce. Anche adesso, mentre scrivo, non riesco a trattenere le lacrime al pensiero che in realtà non esisti più. 
Tu no. Ma lui sì. Ecco, se è così difficile per me concepire questi due dati di fatto – tu sei morta e lui è libero – davvero non riesco a capire come possano farlo i tuoi genitori. Non ci riesco. Non che l’ergastolo riporti la persona uccisa in vita, però, non so, psicologicamente pensare che il tuo assassino non fosse più libero di vivere la sua vita mi dava una qualche forma di rassicurazione sull’equilibrio della bilancia della giustizia. Così mi pare che i piatti siano stati abbattuti da un tornado. Perché non si tratta solo della pena in sé: la pena è solo un modo in cui lo Stato esprime il disvalore che attribuisce a quell’azione. E che disvalore attribuisce lo Stato italiano alla tua uccisione in quanto donna? Poco. Evidentemente la vita di noi donne non vale molto. 
Denaro. Questa è l’unica cosa che lo Stato riserva alle vittime, ai parenti delle vittime: un risarcimento in denaro. Teorico, perché in pratica i grandi risarcimenti quantificati nelle sentenze rimangono per lo più virtuali. Ma anche se pagati, ci sarà mai una cifra che possa risarcire una vita? Ci sarà mai una cifra che possa compensare la sedia vuota a un tavolo con quattro lati? Francamente no. 
Mediazione penale. L’avvocata di tuo marito ha proposto all’avvocata dei tuoi genitori una mediazione per giungere ad un risarcimento che lui possa sventolare di fronte allo Stato per dimostrare di essersi riabilitato compensando anche le vittime del suo reato. Ma come si fa a mediare con chi si è arrogato il potere di decidere della vita di un’altra persona solo perché quella vita intralciava un po’ i suoi piani? Mediare significa rinunciare ciascuno a qualcosa per trovare un punto d’incontro a metà strada tra le proprie richieste. A cos’altro dovrebbero rinunciare i tuoi genitori? Quale punto d’incontro dovrebbero trovare i tuoi genitori con l’assassino della loro figlia? «Come può pretendere misericordia chi non ha avuto pietà della sua vittima? Come può pretendere attenuanti, giustificando la sua crudeltà con scuse e pretesti, chi con quella stessa crudeltà non ha concesso attenuanti, non ha dato ascolto né alle ragioni né alla sofferenza della sua vittima, non ha fermato la sua mano assassina davanti al suo strazio? Come può?» Queste sono parole di tua madre. 
Insomma, per quanto inconcepibile, dovrò abituarmi a questa contraddizione: tu sei morta, sei polvere, sei un fantasma, mentre l’uomo che ti ha uccisa è vivo e libero. 
Io continuerò a sentirti nelle parole di tua madre Giovanna, a vederti negli occhi di tuo padre Giuliano, e a immaginarti seduta accanto a tua sorella Elena. Ciao Giulia. 


* Giulia Galiotto, 30 anni, impiegata, è stata uccisa l’11 febbraio 2009 a San Michele dei Mucchietti (Sassuolo, MO) con almeno sette colpi di pietra alla testa da suo marito, che l’ha poi gettata nel fiume Secchia allo scopo di simularne il suicidio. Grazie all’incontro con i suoi genitori – Giovanna Ferrari e Giuliano Galiotto – ho voluto raccontarla restituendole la voce all’interno del libro E ’l modo ancor m’offende (Ed. San Paolo, 2022). 


(https://www.noidonne.org/articoli/per-giulia-galiotto-un-ricordo-e-una-denuncia-19024.php, 9 settembre 2022)

di Luciana Tavernini


Incontriamo María Milagros Rivera Garretas in occasione della traduzione del suo libro Il piacere femminile è clitorideo. L’autrice, docente emerita dell’Università di Barcellona, vi ha fondato con altre nel 1982 Duoda – Centro di ricerca di donne e, nel 2021 a Cáceres, Dhuoda • Amor • Sentir • Mujeres • Placer • Mística • Naturaleza • Seguir naciendo. Svolge un costante lavoro di scambio tra femministe della differenza italiane e spagnole. Ha tradotto con Ana Mañeru Mendez tutte le poesie di Emily Dickinson, di cui ha scritto una biografia per giovani.


La scrittura del tuo libro è trascinante come l’acqua di un torrente e conduce in un percorso inaspettato, a volte a spirale. Riconnetti, anche attraverso l’etimologia delle parole, la ricchezza delle tue conoscenze di storia, arte, letteratura, mitologia, filosofia, medicina, senza che l’erudizione sia esibita. Ho avuto la sensazione di accompagnarti mentre procedevi nelle tue scoperte e, rileggendo, trovavo sempre qualcosa di nuovo. È un libro da studiare, soprattutto in gruppo, per la molteplicità degli aspetti proposti.

Come è nato questo tuo modo di scrivere, che chiami “l’intelligenza, l’intendimento e metodo della lingua materna”?

La scrittura ha trascinato anche me. Prima di scrivere non ho letto testi particolari, non ho cercato documenti, non ho stabilito percorsi e collegamenti, non ho costruito un indice provvisorio. Ho lavorato su quello che mi veniva in mente, seguendo il filo del pensiero come si andava dipanando. Poi ho controllato le fonti e i dati perché, essendo storica del Medioevo, non potevo prescinderne. La scrittura stessa ha trasformato me e mi ha trasportato: transport è un’espressione che Emily Dickinson usa nella sua poesia per riferirsi all’orgasmo clitorideo. Le parole che sentiamo vere, quelle che danno piacere, hanno la capacità di trasportare anche te nella scrittura perché ti guidano e ti portano, ti danno l’orgasmo della parola giusta.

Il momento più importante per me è stato quando ho trovato il filo del primo paragrafo, quello più importante in un libro. Lì mi è venuta l’espressione equivocarse de orgasmo. Sbagliare orgasmo è quello che è successo a me. Certo, il piacere femminile lo conoscevo bene, ma negli anni ’70 non riuscivo a mettere in connessione il piacere che io avevo sempre sperimentato con quello che mi si diceva essere il piacere della vita adulta che chiamano sessualità.

Una volta capita questa espressione mi è venuto da ridere, mi sono rivista giovane leggere Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale: le donne di allora non volevano di nuovo essere divise. Quello che proponeva Carla Lonzi sembrava una falsa alternativa.

La mia è scrittura dell’esperienza ispirata dal piacere per questo è una scrittura trascinante.

Da che cosa hai dovuto liberarti e che relazioni ti hanno aiutato a scrivere il libro?

Mi sono dovuta liberare dalla violenza ermeneutica universitaria. Io sono ‘universitaria’ dalla nascita, nella mia famiglia – padre, madre, zie e loro antenati – si è sempre parlato di università come di una cosa vicina, interessante e importante. Sapevo che soffrivo di qualcosa che era lì ma non dipendeva da me. Ho preso coscienza molto tardi della differenza che c’è tra il piacere di conoscere, di vivere, di scrivere, e invece imparare il sapere maschile come piacere universale, adatto anche per le donne. Nel 2019, quando ho scritto la biografia Sor Juana Inés de la Cruz. Mujeres que no son de este mundo, il nodo si è sciolto in me: ero sottomessa a una violenza grande che poteva essere nominata. Ho legato la violenza ermeneutica universitaria alla difficoltà di sentire piacere incontrata nelle università in diversi paesi e in molti anni.

La prima volta che ne ho parlato in pubblico è stata con un gruppo di professori e professoresse dell’Università di Barcellona. Io parlavo con paura, tentennando perché era il luogo più difficile: invece ha funzionato.

In questo percorso mi hanno accompagnato la memoria, i ricordi, la presenza – non più viva, ma vivente in me – di mia madre. Ho avuto un bel rapporto con lei da bambina e da adolescente, poi non più per molti anni, in cui si sono alternati momenti di distanza e di vicinanza. Ci assomigliamo moltissimo. Lei insegnava con la lingua materna greco classico nei licei e, prima della guerra civile, all’università. Scrivendo questo libro, attraverso i ricordi di gesti e insegnamenti di lei, ho capito cose che allora non capivo bene.

Mi ha aiutato molto anche la relazione con Barbara Verzini, che stava scrivendo La madre nel mare. L’enigma di Tiamat. Non sapevamo ancora della pandemia ed è iniziata una relazione settimanale telefonica che persiste ancor oggi. È una grazia. Non abbiamo come per il libro né indice, né ordine del giorno, né obiettivi. È una condivisione come facciamo noi donne nella pratica delle relazioni.

Il piacere femminile è clitorideo è un titolo forte che alcune hanno sentito disturbante come se volesse riprendere una questione, partita dalle riflessioni di Carla Lonzi cinquant’anni fa e quindi data per conclusa. Alcune lo hanno sentito come impudico e provocatorio, soprattutto quelle che si ‘confondono di orgasmo’ fino a sentire quasi un rifiuto a leggere il libro, come ci hanno riferito in un gruppo di discussione. Altre l’hanno sentito come un’affermazione liberante.

A noi sembra che tu ci faccia fare un passo avanti. Che cosa c’è di diverso rispetto a Carla Lonzi e perché hai voluto questo titolo?

L’ho voluto fortemente perché non ho mai dimenticato Carla Lonzi. Il libro parte da lei e dalla mia esperienza del suo scritto, ma non parla di lei. Ho letto La donna clitoridea e la donna vaginale nel 1972 e ha prodotto in me un impatto fortissimo ma non sono riuscita in quel momento ad arrivare fino in fondo. Il piacere femminile è clitorideo è diverso perché non è un libro di teoria, di filosofia e neppure di politica. Il libro non fa pensiero del pensiero, è pensiero dell’esperienza, come quello di Teresa d’Avila, di cui sono lettrice sin da bambina. Lei diceva: «Non dirò niente che non abbia sperimentato molto». È un libro della vita come quelli di tante mistiche, senza pretendere di paragonarmi a loro. Tenta di entrare nel mistero del piacere clitorideo, il mistero non si dà mai per concluso.

Sul rifiuto di alcune per il titolo credo che vi sia un grande dolore nello sbagliare piacere, non è questione di presa di coscienza. È un dolore senza parole, almeno lo è stato nella mia esperienza e in quella di molte donne che conosco. Ho sentito questo rifiuto nel 1972, non è stato un rifiuto della verità del testo che è rimasta viva in me, ma ho provato rifiuto del dolore che mi faceva sentire e che non aveva un nome. Ho voluto questo titolo perché, se non si sbaglia orgasmo, c’è solo piacere. Il titolo è chiaro e semplice e dice quello che il libro è, non ha altra pretesa. Non va contro, non entra in controversia. È interessante che Kiki Bauer, la disegnatrice tedesca che vive a New York, abbia fatto la copertina interpretando il senso schietto del titolo: solo colore e scritto.

Nella nostra esperienza i nomi e l’insistenza su di essi possono farci credere nell’esistenza di cose che non ci sono: la vagina è un esempio molto potente. Nel libro dati la sua prima nominazione e denunci come successivamente l’orgasmo vaginale sia stata la manovra più perversa della politica sessuale sostenuta dalla medicina scientifica, dalla psichiatria e dalla medicina maschilista. Questo ha portato molte donne a credere che l’orgasmo femminile dipenda dal coito, lasciandosi così spogliare del proprio piacere.

Perché è stato necessario inventare la vagina e l’orgasmo vaginale?

Ci sono state forme di resistenza femminile?

Non avevo mai dubitato dell’esistenza della vagina, fino a quando mi interrogai sul fatto che molte donne colte ancor oggi confondano la vulva con la vagina. Una giovane giornalista in televisione diceva che la clitoride è nell’estremo superiore della vagina. Capisco che non l’abbia mai trovata. Anche internet confonde. Cercando come scrivere senza offendere me e altre donne mi sono chiesta: «Ma la vagina esisteva nel Medioevo?» Non lo ricordavo, pur avendo studiato i trattati di ginecologia come quelli di Trotula, di cui esistono più di 200 manoscritti. Ho letto tanti testi. Ho chiesto a Carmen Caballero dell’università di Granada che aveva pubblicato una ricerca su un libro ebreo di ginecologia. La parola vagina non c’era. Dunque, doveva essere stata inventata. Ma quando? Ci sono dizionari maschili, utili a loro modo, in cui è scritto quando compare per la prima volta una parola in un testo. Ho trovato persino la data, 1641, significativa perché queste manovre perverse della politica sessuale maschile vengono sempre dall’esistenza nella società di molta libertà femminile e non del contrario. Nel 1641 la prepotenza degli universitari (l’inventore era un anatomista dell’università di Padova) è molto grande e loro possono dire cose terribili sulle donne, affermando che sono scientifiche: la caccia alle streghe è vinta dagli stati moderni, anche se terminerà nel ’700. Le streghe avevano una grande forza di massa tra le donne: potevano, di fatto non di diritto, permettere o vietare anche agli uomini di dire perché non sarebbero stati creduti. Ma le streghe non erano più lì. Anche il discorso del metodo di Cartesio è un’altra prova, come spiego nel libro.

Nel Seicento c’è grande forza tra le donne. Basta pensare alla Querela delle donne. La libertà femminile, l’amicizia tra donne, le Preziose, i salotti, sono sentire femminile diventato comune, che fa comunità. Penso che l’invenzione della vagina serva per rafforzare gli uomini nel patriarcato. L’anatomista di Padova scrive che la vagina è fatta «per il comodo scontro virile». Fa ridere quando si traduce il suo pezzo. Le donne clitoridee non sono reattive, si inventano forme di resistenza, ad esempio le frigide (ma non è un nome nostro) hanno resistito, non hanno mai confuso l’orgasmo.


Duoda Recerca de dones: http://www.ub.edu/duoda/

Rivista: http://www.ub.edu/duoda/web/es/revista

Master: http://www.ub.edu/duoda/web/es/cursos/6/

María-Milagros Rivera Garretas: http://www.mariamilagrosrivera.com

Carla LonziLa donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta femminile, Milano 1971

María-Milagros Rivera Garretas, Donne in relazione. La rivoluzione del femminismo, Liguori, Napoli 2007, 104 pagine, 12,82 euro, e-book 6,99

María-Milagros Rivera Garretas, Emily Dickinson: Vita d’Amore e Poesia, Vanda Edizioni, Milano 2021, 120 pagine, 13 euro, e-book 8,90

María-Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, Edizione indipendente, Madrid Verona 2021, 207 pagine, 17,00 euro, e-book 8,00

María-Milagros Rivera Garretas, Nominare il mondo al femminile, Editori Riuniti, Roma 1998, 216 pagine

María-Milagros Rivera Garretas, Sor Juana Inés de la Cruz. Mujeres que no son de este mundo, Sabina editorial, Madrid 2019, 236 pagine, 18.00 euro

Barbara Verzini, La madre nel mare. L’enigma di Tiamat, Edizione indipendente, Madrid Verona 2020, 110 pagine, 16,00 euro, e-book 8,00


(Leggendaria n. 154, giugno/luglio 2022, pp. 27-29)


di redazione


«Il mondo stringe» è il bellissimo titolo dell’ultimo numero di “Per amore del mondo”, la rivista online di Diotima, comunità filosofica femminile che ha sede all’Università di Verona. In questa edizione n. 18, i cui articoli sono scaricabili gratuitamente (https://www.diotimafilosofe.it/per-amore-del-mondo/il-mondo-stringe-2022/), l’indice spazia su molti temi, da riflessioni sulla guerra (Insopportabile) alle lezioni del Grande seminario 2021 (L’irrinunciabile), alle trascrizioni degli incontri su Genere e differenza sessuale, alla Questione maschile, all’Invidia delle donne, alla Storia vivente, a Femminismo ed ecologia… impossibile rendere conto di tutto. La chiave è annunciata dal titolo e così introdotta dalla redazione: «Le esperienze legate alla pandemia ci hanno mosse a interrogare a fondo la verità dei bisogni in una tensione che ha a che vedere con un agire giusto e non di giustizia astratta. “Per amore del mondo” ci sentiamo ora richiamate nello spazio del presente […]: il mondo stringe e altresì si stringe, ci stringe. Durante la pandemia abbiamo toccato con mano come gli spazi del nostro quotidiano possano inaspettatamente ridursi, ma non è stata solo questione di spazi materiali. Si è trasformato un sentimento: ci siamo trovate in una situazione di avvicinamento, di intensificazione di relazioni, a essere co-strette, strette in un insieme, a volte troppo. La contiguità, il contagio sono ancora temuti. È stata anche una presa di coscienza diffusa di come il nostro pianeta sia estremamente piccolo e il destino di ognuno interconnesso, in modo quasi imprescindibile. In questo momento storico possiamo vedere le relazioni che si fanno sempre più fitte e intense. […] Il pensiero e le pratiche che si generano sono nutriti da come viviamo questo tempo e le strette del mondo. Che presa? Quali parole? Due aggettivi, ora: irrinunciabile e insopportabile. L’irrinunciabile, «ciò per cui sentiamo che l’esistenza ha un gusto e un valore», come può diventare un elemento politico che trasforma le relazioni con il mondo? Le parole non mancano, così come i passi da compiere. Le abbiamo cercate e trovate davanti allo scoppio di una guerra vicina, alla crisi che ne consegue, alla questione climatica e della salute globale. Un insopportabile, tutto questo, che costringe a patire e pensare per uscire dalle narrazioni già dette, da visioni dicotomiche, e introdurre una trasformazione simbolica del discorso. “Per amore del mondo”, in questa stretta, tra irrinunciabile e insopportabile, di cui il pensiero deve farsi carico, invita a stagliarsi su un orizzonte grande, non eurocentrico, decolonizzante, cercando una conoscenza trasformativa anche e soprattutto nell’agire quotidiano. […] Il mondo co-stringe a un altro sguardo».


(www.libreriadelledonne.it, 8 settembre 2022)


di Umberto Varischio


È ancora estate, di giorno fa caldo, ma nella notte, con le finestre non completamente chiuse, si sentono i primi segnali dell’arrivo dell’autunno.

Mi sveglio, mi alzo e comincio a sentire che il mio corpo mi avverte che le temperature stanno, seppur lievemente, cambiando: un brivido, poi un altro, poi tutto si normalizza e come ogni mattina vorrei iniziare le mie quotidiane attività del dopo-sonno, ma sono “inverso”. Sono vissuto in una struttura sociale in cui il maschio ben difficilmente sente freddo e lo ammette, ma non è una buona giornata e quindi, invece di seppellire queste sensazioni nel profondo e stendere su di loro il velo della quotidianità, mi fermo a riflettere. C’è una punta di paura nel mio stomaco, mi sento fragile, vulnerabile, con l’età che giorno dopo giorno procede e mi avvicina alla vecchiaia. Sino a qualche anno fa la reazione sarebbe stata di fastidio: «Insomma, mi coprirò maggiormente, che cosa sarà mai!». Ma il “mal-essere” non mi lascia e la paura si lega al pensiero delle restrizioni per questa guerra non dichiarata in cui siamo immersi, che nel prossimo inverno porteranno a una diminuzione del riscaldamento e da subito a un aumento spropositato delle bollette e in generale del costo della vita. Sento un aumento di battito cardiaco e di temperatura delle mani, è l’inizio di un attacco di collera verso chi ha deciso che per vincere la loro guerra, io – poco, dato che, almeno per ora, ho sia le risorse economiche che abitative per farvi fronte – ma soprattutto alcuni milioni di uomini e di donne dovranno soffrire, ammalarsi e magari anche morire: sì, morire perché ogni anno migliaia di persone muoiono sia di troppo caldo che di troppo freddo, perché non si possono permettere, a differenza di qualche arrogante banchiere, un condizionatore o qualche dispositivo per scaldarsi. Ma provare ira, e ammettere di provarla, non basta: bisogna renderla parola e azione relazionale e collettiva, razionalizzare almeno in parte, pur senza escludere le mie emozioni, i miei sentimenti e le mie esperienze. Contrastare un uso del potere sociale e politico che, attraverso una serie di pratiche esplicite e implicite, è solo volto a esercitare il controllo sulla vita e sulla morte delle persone. E che può portare sino a legittimare, come in questo caso, l’esposizione alla morte di particolari gruppi umani e individui da parte di chi lo esercita e che dovrebbe, invece, impegnarsi a non perpetuare la guerra, ma almeno a tentare di fermarla. E non, ipocritamente, far passare le misure prese come un contributo alla “transizione ecologica”.


(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2022)


di Antonella Nappi


Perché fare le battaglie di retroguardia come “studiare” la Meloni che è già stata capita benissimo? Chi la vota è d’accordo con quello che dice, o neppure vota proprio lei. Le donne inoltre se di destra non le smuovi dal considerare la donna di destra.

Vorrei che donne riflessive, come noi potremmo essere, spingessero una politica di avanguardia.

Questa è: come fare la pace tra conflitti di ogni tipo, perché di questo da sempre continua ad avere bisogno il mondo. È questo impegno che va assolutamente privilegiato!

Contro le armi, le distruzioni e contro l’aggravarsi del clima vanno spinti i rappresentanti politici e il voto. Sappiamo della distanza esistente tra rappresentanti politici e popolazione, proprio in Italia in questi mesi su queste questioni.

Mi abbatte pensare che donne colte si preoccupino di aiutare maschi privi di consapevolezza a vincere le elezioni, senza agire uno stimolo nei loro confronti.

Vorrei premere per ottenere una scelta di pace perché sono orripilata dallo sconvolgimento mondiale della sussistenza originato dal conflitto russo-ucraino. Io lo intendo come conflitto contro la pace e coesistenza e per la guerra come vincitrice mortale del patriarcato. Molti altri scrivono: conflitto tra America e Russia su territorio ucraino.

In tempo di elezioni il mio desiderio di fare qualche cosa per la pace è interrogare chi si propone come rappresentante del mio futuro sulla risoluzione pacifica del conflitto. Sulla comprensione delle ragioni che creano conflitto e sulla capacità di privilegiare la soluzione pacifica delle intenzioni dei contendenti invece di voler vincere rispetto a questioni di principio.

Riconosco le motivazioni dell’invasione russa e quelle di legittimità che vengono sostenute dall’Ucraina, queste vanno composte, non sono ragioni per fare morti e distruzioni e per sconvolgere il mondo intero.

Non riconosco affatto l’esigenza di spingere a un conflitto occidentale contro altri Stati e privilegio il contenimento delle pretese in favore di un equilibrio che risparmi vite, beni, relazioni internazionali. Sono contraria al privilegiare il diritto a costo delle vite. E di quante nel mondo! E siamo in tante e tanti a pensarla così.

Oggi siamo più colti rispetto alla considerazione di quanto si soffrono le guerre che alcuni maschi fanno e di quanto le femmine privilegino nei fatti della loro esperienza quotidiana attività di osservazione dei bisogni vitali e di quelli relazionali. Questa capacità più sviluppata dalle donne ha trovato condivisione anche tra molti maschi perché la divisione ideologica dei ruoli lascia ormai libertà personale all’affermazione dei propri desideri. Delegare ai maschi compiti che per noi stesse rifiutiamo è un atteggiamento molto discutibile.

Sviluppare la contrattazione dei desideri, nelle questioni comuni, invece di imporre la vittoria assoluta dei propri, è ciò che la pratica politica espressa dalle esperienze femminili pretende dai maschi. Così come imparare a pretendere un confronto con loro, invece di tacere, lo impariamo oggi tra donne.

Ci si insegna a considerare le ragioni dell’altro e dell’altra e le proprie, riequilibrando gli spostamenti più su un lato o più sull’altro di uomini e donne ed anche tra donne.

Vediamo di condizionare il voto, per quello che possiamo, sulla capacità di impiegarsi per la pace tra contendenti alle elezioni.

Distogliamo la classe dirigente italiana dall’attuale volontà di acuire la guerra e di farla sopportare alla popolazione italiana che ha sempre affermato la non disponibilità a sostenere la guerra, ed oggi in particolare. Queste elezioni devono segnare la non volontà di partecipazione degli italiani ad una guerra, e per di più contro la Russia, paese con cui non abbiamo avuto ostilità.

Mi sembra un buon modo di intervenire chiedere ai candidati come intendono comporre il conflitto tra Russia e Occidente (condotto dall’America a detta di molti). È questo un termometro per misurare tra i candidati l’aggressività e al contrario la ragionevolezza che oggi deve sostituire l’autoritarismo dei guerrafondai del passato. I vecchi termini del processo aggressivo e autoritario del fascismo devono lasciare il posto alla capacità di un processo ragionevole in tutte le questioni, a partire proprio dalla più grave: dalla guerra che attenta alla vita delle popolazioni più povere di tutto il mondo. La popolazione deve avere più voce di quanta non riuscisse ad averne in passato. Fascismo e antifascismo non hanno significato se non nella contrapposizione di processi culturali e politici che oggi dobbiamo saper leggere nella loro presenza in pratiche e contesti diversi.

Vorrei potessimo dare più chiarezza allo scontro in atto e soprattutto mostrare la distanza tra potere e popolazione, tra amanti dello scontro e della vittoria e amanti dei limiti che la sopravvivenza impone anche a se stessi.


(www.libreriadelledonne.it, 5 settembre 2022)


di Donatella Di Cesare


Gira ormai perfino uno spot ministeriale in cui una voce dal tono mellifluo invita a modificare le abitudini per risparmiare energia. Spegnere, staccare, ridurre. Finché poi, di misura in misura, si era arrivati persino all’ipotesi di limitare l’orario scolastico depennando il sabato. Tanto che male c’è? Meno scuola e più armi!

È impressionante la rapidità con cui, nell’arco di pochi mesi, non solo si è imposta come nulla fosse una guerra nel cuore dell’Europa, ma si è inculcata l’idea che per questo sia necessario accettare ogni sorta di sacrifici, anche quelli che minano dal fondo la vita di ciascuno, soprattutto dei più fragili ed esposti. Questa nuova edizione dell’ideologia del sacrificio viene spacciata come mezzo indispensabile per affrontare il disastro imminente: inflazione, crisi energetica, deindustrializzazione, recessione… Il disastro si annunciava già durante la pandemia, da cui – secondo le promesse – saremmo tuttavia dovuti uscire. Mentre la pandemia purtroppo prosegue, la guerra ha segnato l’incipit della catastrofe europea. Sennonché tra le due c’è una bella differenza: se nel flagello della pandemia non mancano le responsabilità umane, la guerra è a tutti gli effetti un evento politico che in nessun modo può essere considerato una calamità naturale, una sciagura fatale e inesorabile.

In questa campagna elettorale il tema, a parte rare eccezioni, viene passato sotto silenzio non solo per l’imbarazzo degli schieramenti, dettato da ragioni opportunistiche diverse, ma soprattutto perché si vuole far passare per ovvio e scontato l’evento bellico. Il che, peraltro, è avvenuto sin dall’inizio. L’attenzione è tutta concentrata sul modo in cui pagare, o meglio, far pagare i costi della guerra. Non si parla invece del modo in cui fermare la guerra. Si dirige lo sguardo sugli effetti, quasi che fossero appunto ineluttabili, e lo si distoglie dalla causa. Il silenzio dei partiti, dunque, non è innocente.

D’altronde nella dirigenza europea le cose non vanno meglio. Alla grottesca boutade di Emmanuel Macron, che ha dichiarato “la fine dell’abbondanza”, si affiancano i proclami patriottici degli altri leader europei che invitano a serrare i ranghi per difendere la “democrazia occidentale” contro l’“autocrazia russa”, preservandola, anzi, da ogni possibile contaminazione di spie e controspie. Che sarà mai, al confronto, la vita di milioni di persone che vanno incontro a terribili danni? Non c’è forse mai stata una tale eclatante ipocrisia nella storia recente della politica europea. E così si può almeno sperare che, nonostante il martellamento propagandistico, questa narrazione alla fine tenga.

Ma dietro tutto ciò si deve scorgere un punto decisivo: l’ideologia del sacrificio richiesta ai cittadini europei è strettamente connessa alla necropolitica che nella guerra d’Ucraina s’impone ogni giorno da una parte e dall’altra del fronte. Una politica incapace di svolgere il proprio ruolo, di mediare per risolvere il conflitto, lascia il posto alle armi, abdica alla violenza, chiede il sacrificio di vittime, sia militari che civili. Così si rivela una necropolitica, cioè una politica che richiede la morte dei propri cittadini, la pretende subdolamente ammantandola di slogan sciovinistici e riprove di fatalità. Nella stessa maniera vengono sacrificate le vite di coloro che, per quanto lontani dalle retrovie, sono comunque colpiti dal conflitto, e cioè quei i cittadini europei che pagheranno sulla propria pelle la catastrofe – un prezzo tanto maggiore quanto più si è vulnerabili. La biopolitica democratica, il cui programma è proteggere anche nel corpo la popolazione (vedi pandemia), può così trasformarsi inquietantemente in politica del sacrificio, che espone la vita, pretende di immolarla.

In tale contesto è interessante notare che gli Stati Uniti si mantengono al di fuori, quasi fossero un santuario, un territorio sacro, non sacrificabile. L’inflazione, a ben guardare contenuta, non comporta certo le conseguenze devastanti a cui sono sottoposti i Paesi d’oltreatlantico. Al contrario l’Europa è destinata a essere territorio della catastrofe. Complici di questo sono i dirigenti europei, ferventi atlantisti, tra visceralità ideologica, avventurismo insano, sete di profitti e inettitudine diplomatica. Le vite prese in mezzo verranno immolate in forme e modalità diverse, sacrificate con disinvoltura.

Lo scenario di questa nuova guerra mondiale mostra con chiarezza che quelle élite, che si autoproclamano “democratiche”, per contrapporsi nettamente alle derive autoritarie e totalitarie, hanno ben poco a cuore la vita della propria popolazione la quale, ai loro occhi, va perdendo sempre più valore. Ormai il “far vivere” della biopolitica classica è facoltativo e a geometria variabile. Sarebbe da sonnambuli non vedere il peggio che viene.


(Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2022)


di Franca Fortunato


Il piacere della lettura e l’amore per i libri, per la narrativa in particolare, appartengono alla storia delle donne ma non avevo mai letto, prima dell’ultimo libro di Bianca Pitzorno, Donna con libro. Autoritratto delle mie letture, edito Salani, un’autobiografia scritta attraverso i libri letti, amati, raccontati, criticati, conservati, scambiati, nel corso di una vita, in un continuum materno di madre in figlia, di donna in donna. I molti romanzi che l’hanno accompagnata dall’infanzia alla vecchiaia, che lei elenca, anche se non tutti, riflettono la donna e la scrittrice che è diventata, avendo avuto «la fortuna e il grande privilegio di nascere in una famiglia» allargata di «accanite lettrici di quel genere considerato “inutile” che era la narrativa». Una vita con i libri, tanto che arrivata a quarant’anni era convinta «che per un essere umano leggere è naturale come respirare, come parlare» perché «così era stato» per lei e «per tutte le persone» che conosceva. Sua madre, anche se la sua famiglia era ricca e istruita, era andata a scuola fino a sedici anni, «alla vigilia del matrimonio quando l’Italia era entrata in guerra volle andare comunque in viaggio di nozze a Capri per via di un libro, del quale si era innamorata». Quando si riuniva con le amiche «per giocare a canasta, dopo un po’ finivano per raccontarsi a vicenda i libri che avevano letto» e quando «si riunivano per ricamare, una di loro leggeva a voce alta, come i frati nel refettorio, solo che le signore invece dei testi sacri ascoltavano leggere romanzi profani». Arrivata a 92 anni «leggeva e chiedeva sempre libri nuovi». La nonna materna «leggeva unicamente romanzi e ne possedeva un gran numero». «A ottant’anni, non potendo più vivere da sola, la indussero a trasferirsi in casa della figlia maggiore. Aveva portato con sé soltanto alcuni dei suoi libri che leggeva e rileggeva, in continuazione. Tra questi le opere principali di Grazia Deledda, che ammirava moltissimo perché sarda, perché donna e perché vincitrice del premio Nobel per la Letteratura.» È dai libri di lei che la scrittrice conobbe Deledda. «Leggevo avidamente quei romanzi, ne ero affascinata. Interiorizzai così profondamente quella scrittura, quel mondo arcaico, che quando molti anni dopo cominciai a scrivere i miei primi racconti mi veniva istintivo scriverli “alla Deledda” […]. Dovetti fare un grande sforzo per trovare una mia voce». La madrina di cresima, nubile e femminista, tra le amiche della madre «era quella considerata “speciale”, perché era l’unica che fosse laureata» e i suoi consigli erano per tutte «una sorta di Vangelo». La maestra «leggeva a voce alta gli unici due libri nell’armadio dell’aula: Pinocchio e Cuore. Ce li lesse e rilesse molte volte». Con la compagna di banco divennero amiche per l’amore per gli stessi libri. Nata e cresciuta tra accanite lettrici, lesse tutti i classici della letteratura per ragazze/i per poi passare ai libri per adulte/i. Un piacere, il suo, per la «bellezza del conoscere e partecipare, sia pure astrattamente, ad altre vite», una passione per «la trasmissione nel tempo, nei secoli, di storie esemplari, emozionanti, tristi, divertenti, appassionate». Sentimenti, questi, espressi con il linguaggio dell’amore: “colpo di fulmine”, “passione”, “appassionarsi”, innamorarsi”, “amare”, “amato”, “adorato”. Donna con libro è un libro bello, piacevole e inusuale, i libri prendono vita dalla vita dell’autrice e l’amore e la passione per essi passano di generazione in generazione, come con la piccola Ines, la figlia di cinque anni di mio nipote, i cui occhi, nell’amore tra madre e figlia, si illuminano ad ogni libro ricevuto in dono.


(Il Quotidiano del Sud, 3 settembre 2022)


di Carola Spadoni


La mostra No Master Territories, di cui a suo tempo avevamo dato notizia nella rubrica Altri luoghi, altri eventi, si è chiusa a Berlino il 28 agosto 2022. Anche se dopo la chiusura, riteniamo importante pubblicare questo interessante servizio e la preziosa intervista con le curatrici.

(La redazione del sito)


La Haus der Kulturen der Welt di Berlino ha ospitato fino al 28 agosto «No Master Territories», uno sfavillante giardino di immagini in movimento che proiettano infinite essenze di donne e del femminile. Guardando la mostra da qualsiasi angolo si ha la sensazione di essere in un caleidoscopio. Territori senza padrone. Un auspicio da estendere ovunque e per chiunque, preso in prestito dalla filmmaker e teorica vietnamita Trinh T. Min Ha. Sa di utopia delle pratiche e delle lucide follie di decenni in cui si disfaceva e rifaceva il mondo in collettività e nel segno internazionale della solidarietà. Come sottolinea Min Ha nel suo libro When the Moon Waxes Red, «Lei che sa di non poter parlare degli altri se non parla di sé stessa, lei che sa di non potersi occupare della Storia senza occuparsi della sua storia, sa anche che non può fare un gesto senza attivare quel movimento da e per la vita». L’altra inappropriata (the «Inappropriate Other») che rifiuta il pensiero binario, le dicotomie e attraversa le soglie di ciò che è concesso e non. Proprio come l’immagine principale della mostra, un fotogramma del film Untitled 77-A di Han Ok-he del 1977 in cui la filmmaker coreana taglia pezzi di pellicola con le forbici in un crescendo performativo nel quale delle immagini si accostano continuamente alle precedenti nel creare nuovi mondi. Ci son voluti due anni e mezzo di ricerca delle curatrici Erika Balsom e Hila Peleg insieme ad un team internazionale, degno di un film festival blockbuster, per scandagliare, raccogliere e selezionare, da mezzo mondo, film non fiction fatti da donne. L’importanza di questa mostra per la storia del femminismo e dei media è evidente tanto quanto per la storia del cinema indipendente; storicizza un periodo in cui i mezzi e le modalità distributive e di circolazione dei film si moltiplicarono oltre le sale e i cineclub inondando contro culture, soggiorni, cortili e centri di attivismo e militanza. Anni in cui i mezzi di produzione si alleggeriscono e le possibilità di filmare la quotidianità e le forme di opposizione e resistenza della miriade di movimenti diventano alla portata di molte. Sono anni in cui il personale diventa politico, in cui l’imprevisto, dai più conformisti, soggetto storico femminile irrompe ovunque, in fabbrica e quartiere, cucina e camera da letto. La potenza che sposta, a volte scardina, i padroni fuori dai territori per mettersi di nuovo al mondo, crea inedite alleanze e linguaggi, la resistenza e il rifiuto dello status quo travolge forme e contenuti. Sia la mostra che il catalogo sono concepiti nel rendere evidente l’importanza di questi lavori e di queste geneaologie per i nostri giorni. Le curatrici dichiarano di aver voluto delineare vari percorsi nella produzione delle immagini in movimento per mettere al centro una critica alla separazione in generi cinematografici della non fiction. Nella categoria non fiction troviamo inclusi il cinema sperimentale, quello educativo, il documentario, la videoarte, i cinegiornali, film prodotti per la televisione come il caso di Processo per stupro del 1979, presente in mostra.

La maggior parte delle filmmakers e artiste in mostra esercitavano altre attività e a volte erano meglio conosciute come editrici, giornaliste, insegnanti, antropologhe, coreografe. Le indicazioni sulle storie ed attività delle filmmakers si possono seguire nella documentazione sul retro delle postazioni di ogni film o video esibito. Attraverso le documentazioni capiamo come spesso i rapporti di lavoro, collaborazione e amicizia creavano reciproche influenze artistiche che generavano nuove produzioni ed alleanze nel segno della solidarietà. All’entrata della mostra il banner di Cauleen Smith Comfort the Afflicted del 2018 ne dichiara le intenzioni: «affliggere i privilegiati, confortare gli afflitti». Le curatrici sono esplicite nel rendere evidente il lavoro femminista sulla memoria e sulle geneaologie come nel caso della rinomata scrittrice Alice Walker che in seguito alla ricerca della tomba di Zora Neale Hurston in Florida, al tempo abbandonata e senza nome, pubblica un articolo nella leggendaria rivista Ms. nel 1975 che genera un rinnovato interesse per la scrittura della antropologa, filmmaker e scrittrice afroamericana. Neale Hurston a seguito di studi etnografici gira dei film del suo lavoro sul campo, field works, di cui un girato in 16 mm nel 1928 in Florida è in mostra. Pour mémoire girato al funerale di Simone de Beauvoir del 1987 da Delphine Seyrig, cineasta, attrice e anche una delle fondatrici del Centre Simone de Beauvoir, è un omaggio doppio a tutte le presenze accorse a salutare la grande scrittrice, attraverso loro la celebriamo e la ricordiamo.

Il cinegiornale Congrès international des femmes à Moscou, girato da Esfir Shub, che lavorava soprattutto come montatrice e che produsse nel 1946 per l’Incontro internazionale delle donne per la pace e contro il fascismo a Mosca, racconta la grande partecipazione delle delegate. Il congresso fu ospitato quell’anno a Mosca perché critico sull’invasione coloniale in Algeria, quindi ostacolato in Francia. Si riflette sulla rappresentazione del cinema stesso nei lavori di Sara Gómez e Barbara Hammer, vediamo gli effetti che i film hanno sul loro pubblico. Il primo, Mi aporte, girato dalla cineasta afrocubana per l’anniversario dei dieci anni della rivoluzione e completato nel 1972, su commissione della Federación de Mujeres Cubanas responsabile per l’avanzamento delle donne nel processo rivoluzionario, viene poi censurato e tolto dalla circolazione. Riemerso di recente e restaurato, mostra le discrepanze tra l’atteso cambiamento per i diritti delle donne e la realtà contingente, incluso un dibattito del pubblico in maggioranza femminile che ne discute la rappresentazione e rende espliciti i problemi di disuguaglianza. Nel film della Hammer, Audience del 1983, vediamo interviste al pubblico prima e dopo tre proiezioni della stessa regista. I contesti sono quelli del cinema lesbico militante femminista in cui si dibatte di desiderio tra donne, rappresentazione di sesso esplicito, e dell’idea di proiezioni solo per donne. Un altro itinerario della mostra è dato con l’esplicita critica ai media e alla rappresentazione dominante del femminile. Molti film e video, spesso con tagliente ironia e umorismo, spostano la tipica descrizione della donna da oggetto a soggetto che incarna visioni non conformiste. We aim to Please di Margot Nash e Robin Laurie del 1976 è un divertente assalto agli stereotipi femminili del trucco, della giusta posa, del canone commerciale di bellezza. Paper Tiger TV, uno storico gruppo di media busters newyorkesi, nel video del 1993 Sisterhood TM fa già il verso al femminismo neoliberal delle donne-in-carriera-a-qualsiasi-costo usando lo schema visivo della pubblicità. Prowling by Night in 16mm del 1990, è un’ilare animazione sulla prostituzione e le sue disavventure a Toronto; gli incontri con il poliziotto di quartiere che regolarmente esige prestazioni gratuite, gli appuntamenti dal ginecologo, la clientela regolare e quella del fine settimana. Il film è composto con disegni realizzati dalle prostitute stesse e l’audio dei loro discorsi. Uno dei temi principali, la legalizzazione della prostituzione. Nella documentazione sul retro della postazione la fanzine Stiletto riporta articoli sul film, accenni all’autrice il cui nome è Gwendolyn, al gruppo di ricerca femminista Studio D sostenuto da fondi del governo canadese, le date di proiezione in un circuito di cooperative sociali e centri di comunità sociale.

Lungo una parete sono in mostra la serie di foto di Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream del 1980-81, in cui la fotografa ritrae momenti topici della vita quotidiana femminile a New Delhi ricreando insieme a delle attiviste femministe un ‘teatro di sé stesse’ come soggetto e presenza critica. I tanti percorsi continuano con il primo film di Tracy Moffat Nice Coloured Girls del 1987, con ritratti e autoritratti disseminati in tutta la mostra, Christiane Diop e Assia Djebar del 1985-87 di Sarah Maldoror, Soft Fiction di Chick Strand del 1979, Paola di Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, girati in Super 8 tra il 1973 e il ’76, Essere donne di Cecilia Mangini del 1965. Il femminismo italiano degli anni ’70 è presente e ben raccontato nel catalogo dall’affilata penna della storica dell’arte e femminista Giovanna Zapperi. In apertura del catalogo che funge non solo da compendio ma espande il progetto espositivo, un verso di Adrienne Rich ne restituisce la complessità, «We who are not the same. We who are many and do not want to be the same» (Noi che non siamo le stesse, noi che siamo molteplici e non vogliamo essere le stesse).

Intervista alle curatrici

Abbiamo chiesto a Erika Balsom e Hila Peleg, curatrici della mostra «No Master Territories», qualcosa di più sulla coralità dell’evento anche in rapporto alle politiche identitarie contemporanee.

«La mostra – ci dice Erika Balson – nasce dall’esigenza di rivedere la mancata storicizzazione di tante esperienze avvenute nell’ambito femminista delle immagini in movimento e di donne artiste e filmmaker che hanno operato fuori dai canoni precostituiti. Con gli occhi di oggi tornare alle generazioni delle madri e delle nonne per raccogliere le origini e segnare genealogie dei temi scottanti. Nasce anche dall’idea di un femminismo che rifiuta la dominazione in tutte le sue forme, che si occupa non solo di genere ma dei diritti dell’ambiente, della difesa delle risorse naturali, dei diritti sociali civili, delle oppressioni coloniali e dello sfruttamento delle risorse umane. L’idea era fin dall’inizio di realizzare la mostra con una metodologia che rispecchiasse queste intenzioni. Non c’è quindi una narrazione lineare e dominante che rispecchia il pensiero di noi curatrici ma vari percorsi che il pubblico può scegliere a seconda dei propri interessi specifici. C’è anche un programma di film da vedere nell’auditorium e una biblioteca in cui sono raccolti i libri da cui abbiamo scelto alcuni dei testi pubblicati in catalogo. Un’ispirazione per mantenere le coordinate di un’idea centrifuga della storia e della cronologia e tradurla in un pensiero espositivo è stato il testo di Lis Rhodes Whose History? (La Storia di chi?) del 1979. Un’altra chiave da cui abbiamo voluto prendere le distanze è l’idea dell’autore/autrice che abbia uno stile riconoscibile, che abbia prodotto un consistente numero di film per essere riconosciuta tale, e che lavori a tempo pieno come regista. Questo non è il caso per la maggior parte delle filmmakers e artiste incluse in questa mostra che spesso avevano altri lavori ed erano conosciute per altri ruoli professionali.

A questo proposito avete menzionato nella presentazione le filmmakers della Germania dell’Est che potevano lavorare anche nella non fiction con formati come il 35 mm, l’accessibilità ai mezzi e le loro condizioni di produzione erano spesso migliori che in molti paesi dell’occidente.

Erika Balsom: Nel mondo socialista la dichiarazione di uguaglianza tra i sessi era ufficiale, faceva parte dei programmi di partito e di stato, di conseguenza le esperienze femministe sono state molto diverse rispetto all’ovest. Abbiamo scelto film dalla Germania dell’est, dalla Polonia, da Cuba, una deliziosa animazione russa sulla giornata internazionale della donna, l’8 marzo. Questo è un ulteriore percorso all’interno della mostra.

Come considerate il supporto teorico ed espositivo del mondo accademico quando si occupa del femminismo intersezionale e di temi come la decolonizzazione e la restituzione pur mantenendo modalità a senso unico, non dialogiche e sostanzialmente gerarchiche?

Erika Balsom: Io vengo dall’accademia, quindi mi è molto familiare il tuo discorso. Molte di noi hanno sofferto nelle maglie iperproduttive dell’accademia di questi ultimi anni dove la pressione per una professionalità performativa è costante. Pubblicare con regolarità, congegnare corsi che siano di successo, che abbiano un alto numero di iscritti, presenza sui social media, fare costante promozione di se stesse, e competere per risorse sempre più scarse. Tutte dinamiche tipiche del mondo neoliberale. Di fatto nella mostra un filone centrale è quello della critica al femminismo neoliberale che sembra esserne diventata la forma dominante negli ultimi anni, in cui il successo individuale e l’affermazione professionale a tutti i costi sovrastano qualsiasi altra forma e possibilità di emergere. Un femminismo che si realizza per poche privilegiate alle spese della maggioranza. A ricordare che la solidarietà è qui protagonista e ha un peso diverso dalla sorellanza (sisterhood), abbiamo voluto ad accogliere il pubblico il banner di Cauleen Smith. Bisogna lavorare, lottare e creare le circostanze perché la solidarietà esista e renderla salda con il mutuo rispetto delle differenze, mentre la differenza con la sorellanza è che quest’ultima è di solito un concetto e un modo di porsi tra donne quasi in automatico, senza troppe questioni. Le collaborazioni che abbiamo messo in atto per la mostra vengono da queste esigenze così come l’accessibilità del nostro testo che volevamo fosse fruibile da tutte e tutti, non solo da addetti ai lavori o a studiose.

Hila Peleg: Abbiamo saputo oggi dalla responsabile del dipartimento d’educazione del museo che c’è un grande interesse a visitare la mostra da parte di studenti e insegnanti, le richieste arrivano non solo dalle università, anche da classi delle superiori e ne siamo molto contente. L’opuscolo gratuito ad esempio è ricco anche di testi e informazioni approfondite in un linguaggio accessibile a chiunque.

Un altro approccio importante che si evince dai lavori in mostra è la volontà di esporre lo sguardo sullo stigma della donna difficile, sulla filmmaker in opposizione, considerata tale da e in un sistema prettamente patriarcale e oppressivo che viene spesso reiterato anche da figure intellettuali interessanti e in contesti illuminati. Come esporre e rivoltare gli effetti di questo sguardo?

Erika Balsom: Sappiamo bene in tante cosa significa quello che hai appena descritto, non si può certo essere sempre gentili e disponibili in circostanze oppressive o di sfruttamento. Va sempre appurato e considerato da chi è giudicata difficile una donna, e in quali circostanze lavorative e produttive. Un esempio di come abbiamo introdotto questo tema è Processo per stupro, un lavoro fondamentale e quasi insostenibile che abbiamo fortemente voluto. Sì, mi ricordo di averne visto delle parti in tv da piccola e fu tanto importante quanto impressionante realizzare il livello di discriminazione istituzionale verso le donne.

Immagino.

Erika Balsom: Invece di arroccarci in un sentimento vittimista della donna difficile che compiange sé stessa, abbiamo scelto lavori che creano nuovi sguardi e nuovi mondi, in collettività e con ogni mezzo possibile. Video e film prodotti a volte contro ogni previsione.


(il manifesto, 16 luglio 2022)

di Chiara Zamboni


Presento un libro che ha come ragione interna ed intenzione quella di ricostruire gli anni di dibattito e conflitto vissuti da Arcilesbica a partire dal 2016 in Italia. È intitolato Noi le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo. Le autrici sono Cristina Gramolini, Sabina Zenobi, Flavia Franceschini, Lucia Giansiracusa, Stella Zaltieri Pirola. È edito da Il Dito e la Luna (Milano 2021).

Perché le autrici definiscono il 2016 come un momento di svolta? Perché, scrivono, nel maggio del 2016 è stata approvata la legge sulle unioni civili, frutto di una convergenza tra diverse forze politiche e il movimento gay e lesbico. A loro modo di vedere, il movimento Lgbtq di cui Arcilesbica aveva fatto parte integrante fino a quel momento, si è andato allora frantumando internamente per spinte molteplici. Le differenze tra le diverse componenti sono emerse in modo forte, rendendo impossibile quella che era stata precedentemente una convivenza politica militante e fruttuosa.

Dal libro si può ricostruire che due sono stati i motivi più importanti che hanno portato alla rottura di Arcilesbica nei confronti del movimento Lgbtq.

Il primo e più fondamentale motivo di conflitto è stato la contrapposizione netta sulla questione della maternità surrogata. Arcilesbica si è dichiarata contraria perché la maternità surrogata (o per altri) significa sfruttare il corpo delle donne e ridurre la maternità ad un fatto commerciale di scambio di denaro gestito da aziende private. E anche nel caso la donna che si offre venga soltanto rimborsata, il rimborso risulta di fatto una specie di pagamento indiretto. La maternità surrogata viene vista sullo stesso piano della prostituzione, in quanto è la vendita del corpo della donna per denaro.

Lo scontro sulla maternità surrogata ha attraversato in quegli anni anche Arcilesbica, e deve essere stato molto duro e doloroso se una parte delle iscritte, non d’accordo con la linea maggioritaria, è uscita dall’organizzazione.

Il secondo motivo di conflitto riguarda una tendenza politica e culturale più generale che Arcilesbica critica nel movimento Lgbtq. Un conto è – le autrici sostengono – concentrarsi su obiettivi precisi e concordati da realizzare politicamente assieme e che riguardano diritti fondamentali dell’essere umano, altro conto è far proliferare la richiesta di diritti in modo illimitato in risposta a qualsiasi cosa manchi e spezzettando le differenze, facendole sempre più minute. Una specie di coazione alle richieste di diritti specifici e settoriali. Ed in più di questi diritti si dovrebbero far carico lo Stato e le istituzioni, a causa di una visione di richiesta di tutela all’interno di una rappresentazione del soggetto sempre e comunque discriminato e minoritario. Seguendo questa tendenza, il movimento Lgbtq ha rinunciato ad avere una visione più ampia e più propositiva della realtà.

Sono d’accordo con questa critica ad una visione di diritti sempre più minuti non soltanto da parte del movimento Lgbtq, ma che vedo come una deriva della democrazia europea. Si perde di vista una concezione più autenticamente politica di far vivere una civiltà che ci corrisponda. Si smarrisce il senso della polis che nasce dalle nostre relazioni e non dal delegare alle gerarchie di potere e alle istituzioni il realizzare le forme della convivenza.

Tuttavia, per comprendere questo libro che sto presentando, occorre vederlo in rapporto ad un dibattito sempre più aspro, sempre più privo di mediazioni a partire dall’introduzione del termine “trans” in rapporto al femminismo. Non a caso il sottotitolo è: Preferenza femminile e critica al transfemminismo.

La parola trans assume tante, diverse connotazioni a seconda del contesto in cui è declinata. Ad esempio, trans può voler dire la parte più trasgressiva che va oltre il femminismo tale e quale. Oppure che lo attraversa diagonalmente. Può essere un significante vuoto che può essere riempito con libertà. Ma nello specifico viene per lo più interpretato come una presenza egemonica del movimento transessuale. Cioè non soltanto il fatto che al movimento transessuale occorre dare il suo giusto valore, ma che esso è divenuto la misura degli altri movimenti. È per questo che ho usato la parola “egemonico”.

Le autrici del libro sottolineano che non si tratta soltanto di differenza di visioni che sono andate maturando in questi anni, ma anche di uno stile di discussione che si è instaurato e che è decisamente troppo violento.

Mi sono chiesta perché mi interessa il libro Noi le lesbiche. Non sono una storica dei movimenti, ma certo sono sempre molto attenta a quello che sta avvenendo nei movimenti in quanto penso che la politica più viva sia quella relazionale e non quella istituzionale. I conflitti così duri in atto nei movimenti non aiutano quella politica che sento viva e che trova per me il suo luogo più fertile nel femminismo, ma non soltanto nel femminismo. E quindi mi preoccupo quando le cose si fanno stridenti e l’atmosfera tesa, dura. Mi sembra una perdita complessiva di orientamento.

Ma questo libro mi interessa anche per un altro motivo. Perché ha notevole capacità di pensiero teorico-politico. In altri termini le autrici, per spiegare le loro posizioni, sulle quali si può essere d’accordo oppure no, lavorano sulle idee politiche dando loro tutto il peso filosofico che esse possono avere.

Innanzitutto, pongono al centro un pensiero sessuato. Questo le accomuna sia al pensiero della differenza sessuale sia al pensiero Lgbtq, nei limiti in cui quest’ultimo non scivola nel neutro indistinto.

Pongono fin dall’inizio una definizione: essere lesbica riguarda una donna che ama un’altra donna. Ma questa presa d’atto è solo un inizio, per aprire non soltanto a sperimentazioni esistenziali non prescritte e non previstema anche a forme di socialità alternative a quelle prevalenti. Dunque, la sperimentazione altra che questa situazione apre si traduce immediatamente in una critica politica al patriarcato ora sostituito dalla fratria, cioè dal legame profondamente omosessuale tra fratelli maschi che si distribuiscono il potere nelle democrazie occidentali e non hanno che questo da offrire alle donne includendole nei legami di potere maschili. Fondamentalmente la critica viene portata all’ingiusta gerarchizzazione dei rapporti tra uomini e donne, che continua anche nelle forme di politica maschile contemporanea. In questo modo la posizione politica del libro si inscrive nel femminismo che pone al centro il di più che le donne possono offrire alla società, non omologabile alle forme di potere proposte dal mondo maschile.

In questo senso le autrici prendono le distanze dal paradigma prevalente oggi nel movimento Lgbtq. Un paradigma che pone al centro l’eterosessualità normativa come misura di tutte le differenze. Pur non negando ovviamente la posizione di dominio del modello eterosessuale nella società, dato che, amando una donna essendo una donna, ne hanno sentito tutto il peso performativo; tuttavia, non fanno dell’eterosessualità normativa il perno per definire per differenza le lesbiche, i gay, i/le trans, i queer e altro. Soggettività che rientrerebbero tutte sotto la categoria di differenti dall’eterosessualità normativa. Cosa a cui loro si oppongono.

Il paradigma della eterosessualità normativa è in conflitto e tende a cancellare il paradigma della differenza sessuale. E le autrici sostengono questo secondo, dando un contributo preciso sia nella critica sia nella proposta al pensiero della differenza sessuale, in cui si riconoscono. Dove il problema è piuttosto la questione maschile e quali forme oggi prenda.

È per questo che le autrici criticano la gestazione per altri, la Gpa o utero in affitto. Perché si tratta ancora una volta dello sfruttamento del corpo delle donne per usi commerciali secondo un dominio di mercato neoliberista apparentemente neutro, ma in realtà di impronta maschile. Un neoliberismo che baratta per libertà individuale delle fattrici quello che è uno sfruttamento legato alla povertà e al bisogno occasionale di denaro. Cancellando la storia personale di sofferenza che è dietro ogni scelta di divenire fattrici.

Proprio in relazione alla maternità surrogata esse mettono a fuoco con molta chiarezza la questione del limite. Lo individuano nel fatto che non si può fare merce del corpo umano, di nessuna sua parte, né si può fare commercio della vita. Si ricordi ad esempio il commercio di organi umani, che nel nostro ordinamento possono essere soltanto donati.

L’accento più aspro del libro si avverte quando critica il transfemminismo. Non tanto nella forma con cui il movimento Non una di meno l’ha assunto per poter costruire tramite esso “una potenziale sintesi tra tutte le forme di anticapitalismo”, cosa che anche per le autrici può risultare interessante. Ma criticano il transfemminismo nella forma per cui esso va nella direzione di aver allargato la parola femminismo, sottraendola alla sua genesi storica, per farvi includere tutte le soggettivazioni individuali, fluttuanti e trasgressive. Denunciano il fatto che c’è stata una vera e propria occupazione del femminismo, sottraendolo alle donne, alla loro storia e alla loro genealogia, per lasciarle sì, ma all’angolo, sopportate come una delle differenze, per fare spazio a soggettività fluide, gay, queer, trans e per fare del femminismo uno spazio inclusivo sradicato.

L’occupazione di questo spazio simbolico creato dalle donne ha estraniato la vita delle donne a sé stesse nel movimento assieme alle loro radici, a tutta una storia patita e amata.

Questo femminismo allargato e inclusivo trans viene definito per ogni sua componente dalla trasgressione nei confronti dell’eterosessualità normativa. Ed è per questo che l’atto di occupazione del femminismo da parte del transfemminismo mostra ancora una volta il conflitto tra i due paradigmi che ho descritto sopra, quello dell’eterosessualità normativa e quello della differenza sessuale.

Le autrici prendono posizione, come dicevo, per la differenza sessuale, il che significa per loro una precisa collocazione in quanto lesbiche. Scrivono infatti: «L’identificazione primaria con tutte le donne (al di là del loro orientamento sessuale) ci indica la lotta al dominio maschile e per la libertà femminile come la via primaria alla liberazione. Noi lesbiche pensiamo che la visione transfemminista sia una trappola per le donne in quanto non nominano l’oppressione prima, quella sessuale, ci porta nel regno del neutro (su cui troviamo sempre il maschile) e ci impone trasgressioni che non ci interessano» [1].

Noi le lesbiche è evidentemente un libro militante, che però ha anche il merito di mettere in chiaro molti concetti che circolano nel dibattito attuale in modo preciso ed efficace.

Prima di concludere, vorrei portare due critiche al testo. La prima è questa. Le autrici insistono sul fatto che le donne sono tali per natura, il corpo è connaturato biologicamente, e occorre criticare l’identità di genere. Scrivono: «La distinzione tra sesso e genere è stata elaborata in profondità dal femminismo e ne rappresenta una importante conquista che permette di distinguere il dato biologico (sesso) dal costrutto sociale, sottraendo a quest’ultimo il carattere di naturalità e immutabilità» (p. 50). In questo modo fanno propria e rilanciano una proposta teorica del femminismo statunitense che pone la coppia complementare sex (biologico)e gender, costrutto linguistico, collocando la possibilità di intervento politico sul gender. Questa separazione netta tra dato di fatto biologico e linguaggio storico, di matrice anglosassone, ha portato diverse conseguenze negative di natura epistemologica e politica. La più importante è pensare che il corpo non abbia niente a che fare con il linguaggio, mentre c’è una circolarità che corrisponde poi alla circolarità tra esperienza e linguaggio. In cui non c’è un prima e un poi, proprio perché si influenzano a vicenda. Usare il termine “per natura” è scivolare in un dato biologico fattuale. Naturalmente le autrici del libro sanno bene che il corpo è significato da un contesto storico-culturale, ma comunque si attestano sulla distinzione sesso naturale, linguaggio storico.

Nel pensiero della differenza abbiamo piuttosto parlato di porosità tra corpo e linguaggio, evitando ogni forma di naturalizzazione fattuale del corpo. Faccio riferimento al fatto che noi siamo già pensate, in quanto creatura a venire, da nostra madre prima del concepimento e dunque nasciamo essendo precedute da un discorso simbolico sedimentato nei sogni e nell’immaginario di nostra madre. Poi per come nasciamo, – bambine, bambini, intersex – è qualcosa che si inscrive in questo pensiero simbolico che ci precede con il quale inevitabilmente interagiremo nel nostro processo di soggettivazione.

E poi il corpo è corpo vivente, non oggettivo e il dato biologico è uno degli aspetti presi dentro un processo di soggettivazione fortemente relazionale fin dalla nascita. Il corpo vivente ha capacità espressive che coinvolgono il dato biologico inserendolo in un processo molto più ampio e connesso.

Un’ultima osservazione al testo, che riguarda un passaggio secondario ma significativo. Le autrici reinterpretano la classica distinzione butch-femme del lesbismo statunitense degli anni Cinquanta del Novecento come una strada che, per quanto riguarda le donne che si autodefinivano butch in una coppia lesbica, avrebbe portato queste donne ad una trasformazione trans se non avessero accettato il limite del loro sesso. È ovvio che è importante la questione filosofica del limite che esse in questo modo pongono, un limite che apre i giochi di sperimentazione piuttosto che chiuderli. Ma rimanendo alla singola questione, in realtà io credo che sia stato proprio il femminismo degli anni Settanta, della seconda ondata, a spazzare via i ruoli, a criticare il femminile e il maschile stereotipato (a cui la coppia butch-femme rimanda), proprio ripensando la differenza sessuale non in una coppia oppositiva ma a partire da una rielaborazione del legame singolare con il materno.

Le ruolizzazioni identitarie, che sopravvivevano nel lesbismo stesso, sono state modificate e lasciate cadere nella percezione di sé nel continuum materno, che le autrici stesse valorizzano con molta nettezza in questo libro.


[1] Vedi F. Franceschini, L. Giansiracusa, C. Gramolini, S. Zaltieri Pirola, S. Zenobi, Noi le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo, Il Dito e la Luna ed., Milano 2021, p. 50.


(www.diotimafilosofe.it, rivista “Per amore del mondo”, edizione n. 18/2022)

di Giannina Longobardi

 

Intervento per il XXXIII Seminari Públic Internacional de Duoda Centre de recerca de dones Universitat de Barcelona: Amistad en contraste. El arte de las relaciones intraculturales entre mujeres (Amicizia nel confronto. L’arte delle relazioni interculturali tra donne), Barcellona 14 maggio 2022

 

Vi ringrazio moltissimo dell’invito che mi permette di essere oggi qui con voi. Preparare questo intervento mi ha dato l’occasione di ripercorrere le fila di un’avventura, di un interesse e di un impegno che mi hanno coinvolto negli ultimi trent’anni della mia esistenza.

Il mio racconto riguarda la nascita e lo sviluppo, a Verona, di un Centro Interculturale di donne, che si chiama Casa di Ramia e si soffermerà su alcuni incontri importanti per me.

Quello che caratterizza Casa di Ramia, è che è nata come luogo di scambio e di conoscenza reciproca tra italiane e straniere e il fatto che, benché figuri tra i servizi del Comune, non è un luogo di assistenza a donne in difficoltà. E un luogo di tessitura di relazioni tra donne aperto a qualsiasi donna voglia proporre o partecipare a qualche attività. Volevamo un luogo dove incontrarci per conoscerci al di fuori di quegli scambi monetari attraverso i quali entriamo in contatto con le donne immigrate. Conoscersi è l’unico modo per vincere una doppia estraneità, quella di chi si sente arrivato in un mondo sconosciuto e quella di chi vede che la città ha cambiato volto e non la riconosce più. Conoscersi è un modo di addomesticarsi, di rendere domestico il luogo in cui viviamo.

Casa di Ramia è anche un centro di ricerca e di formazione permanente: fin dalla sua nascita è stata feconda la collaborazione con l’Università, che ha sede nello stesso quartiere, e oggi, soprattutto all’opera di due docenti, due amiche di Diotima, Rosanna Cima e Maria Livia Alga è un punto di riferimento per chi lavora nei servizi sociali.

Quando entro in Casa di Ramia, ho spesso l’impressione di trovarmi in un centro sociale, invece che in un servizio comunale. I luoghi istituzionali hanno orari, spazi definiti, e regole. Casa di Ramia è praticamente sempre aperta: sette giorni la settimana – e affidata alle molte donne che ne fanno uso per le loro attività. Questa forma di autogestione, basata sulla fiducia, è possibile solo perché chi la dirige se ne assume coraggiosamente la responsabilità. Elena Migliavacca è l’amica, di professione assistente sociale, partecipe fin dall’inizio a questa avventura, cui ottenemmo fosse affidato il Centro fin dall’inizio.

Ho affermato che si tratta di trent’anni di coinvolgimento mio personale e penso a tre periodi diversi: i primi anni sono quelli dell’incubazione – anni ’90 – il periodo in cui cresce il desiderio di conoscere le nuove abitanti della città e si intrecciano relazioni tra persone che condividono lo stesso desiderio; segue poi il periodo in cui si compiono i passi necessari a permettere una contrattazione istituzionale con il Comune (creazione nel 2000 di un’Associazione di Donne Italiane e Straniere, Ishtar). Finalmente, dopo cinque anni, nel 2005, si arriva all’apertura del centro da parte dal Comune di Verona.

Prima di cercare di delineare per voi alcune figure che mi sono care, la storia di alcuni incontri, desidero tornare alla storia degli inizi. Agli anni che ho chiamato di incubazione.

In quegli anni insegnavo in un liceo, partecipavo ai lavori di Diotima, Comunità di Filosofe, mi coinvolgevo nel lavoro della pedagogia della differenza, ma continuavo anche la mia formazione. Frequentavo le lezioni e i seminari di Letizia Comba (di lei si possono leggere alcuni saggi nei primi libri di Diotima) che insegnava psicologia dell’arte: nelle sue lezioni si intrecciavano ricostruzioni di genealogie femminili, immagini della Grande Dea negli studi di Gimbutas, miti sumeri della Grande Madre, il sufismo di Attar, quello di Rumi. Alle studenti diceva: si debbono sempre tenere aperte le grandi domande (quelle che riguardano noi e il senso della vita), e indicava la necessità di un passaggio, di una trasformazione, che esprimeva con un gesto: passare da qui, e si toccava la fronte, a qui, e la mano era sul cuore. Per operare questo passaggio dall’intelletto al cuore, al sentire profondo, Letizia Comba sperimentava l’effetto delle immagini, del mito, chiedeva che ciascuna si interrogasse sulle risonanze: come ti tocca?

Sempre all’Università di Verona, c’era un altro insegnante che nutriva interessi singolari, Gabriel Sala che, oggi direi, ricordandolo con gratitudine, e anche con qualche ironia, voleva diventare uno sciamano. Nelle aule dell’Università fece arrivare i suoi maestri sciamani siberiani, con tamburi, resoconti di visioni e racconti di guarigione. Tra loro Nadia Stepanova che oggi insegna sciamanesimo in Buriazia, all’Università di Ulan-Udė: solo nel 1987 aveva potuto far uscire lo sciamanesimo dalla clandestinità cui il regime sovietico l’aveva costretto. Appartenente ad una famiglia che vantava una genealogia di potenti guaritori, solo da adulta aveva deciso di aderire alla chiamata che gli spiriti le rivolgevano in sogni spaventosi. Del suo racconto la cosa che colpì di più me, che pensavo ancora che le immagini che ci visitano appartengano al nostro inconscio, culturale o personale che sia, fu il fatto che quando viaggiava, nel mondo intermedio che lei sapeva frequentare, incontrava gli spiriti del luogo, entrava cioè nel pantheon locale. Se era in Buriazia vedeva gli spiriti del posto, ma se era in Italia e visitava Siena vedeva e descriveva Santa Caterina, della quale prima di allora aveva ignorato l’esistenza.

Come se oltre il cielo a noi visibile, ce ne fosse un altro, cui la maggior parte di noi non accede, popolato e pieno delle grandi figure di trapassati che in quel luogo hanno vissuto e sono state venerate.

Anche altri incontri confermavano l’esistenza di una dimensione alla quale, dopo la distruzione del sapere delle streghe, nessuna di noi sa come accedere.

Una signora, bionda e sottile, che veniva dal sud del Brasile raccontò la sua storia: ragazzina in cura psichiatrica perché vedeva cose che gli altri non vedono, era stata accolta come allieva da una vecchia nera, una curandera: la sua baracca nella favela era evidente meta di pellegrinaggio. Aveva imparato da lei a governare i suoi doni visionari e ad usarli per guarire: le era stato insegnato a entrare e a uscire a suo piacimento da quello stato di coscienza in cui l’invisibile le si rendeva visibile. Le bastava qualche boccata da una piccola pipa (cachimbo) per entrare in uno stato di trance; allora non era più lei, l’espressione del viso e la voce si trasformavano, ed era Preto Velho, il vecchio nero, archetipo dello schiavo africano nell’umbanda. Come potei poi verificare, frequentandola, trasfigurata in questo spirito visualizzava cose non presenti e le riferiva con estrema precisione all’interrogante cui le consegnava in una registrazione perché sosteneva che, tornata in sé, non aveva più memoria di ciò che era accaduto.

Arrivarono anche, in quelle aule, etnopsichiatri da Parigi, da Losanna, che, benché formati nella tradizione psicanalitica occidentale, mettevano in questione l’efficacia delle nostre cure nei confronti di persone provenienti da altre culture.

In questo periodo di incubazione, di incontri e di letture, il mio, il nostro posso dire perché non ero sola, sguardo su chi veniva da lontano cambiava, li avevamo pensati poveri secondo la nostra misura solamente economica del valore, si mostravano invece ricchi, ricchi di saperi e di esperienza dell’invisibile, nutriti da culture che avevano mantenuto viva la capacità visionaria, la relazione con i trapassati e con gli spiriti naturali. Povere eravamo noi che del reale, e di noi stesse in esso, conoscevamo una sola dimensione. Non sapevamo più avere visioni come le sante, né volare fuori dal corpo come le streghe e avevamo perso anche l’idea del fatto che l’invisibile possa essere più significativo del visibile.

La nascita del gruppo e i primi equivoci

Negli anni ’90 a Verona la discussione sulle pratiche interculturali era iniziata soprattutto tra le insegnanti della scuola dell’obbligo che si ponevano molte domande sulle modalità più adatte di accoglienza dei bimbi figli di immigrati. Domande che un po’ alla volta, molto lentamente, si sarebbero posti anche i servizi di cura, gli ospedali, e i servizi sociali.

In quegli anni, per far fronte alla difficoltà di comunicazione alcuni stranieri già esperti, donne soprattutto, si offrivano ai loro compatrioti come traduttrici e mediatrici tra le regole delle nostre istituzioni e i bisogni dei loro connazionali nuovi arrivati. Quella che sarebbe diventata la figura riconosciuta del mediatore culturale era nata in modo informale dalla rete di solidarietà di migranti.

Il primo corso ufficiale per mediatrici culturali che avrebbe permesso il passaggio dal volontariato a una figura professionale riconosciuta si tenne a Verona tra il 1999 e il 2000. Fu l’occasione per noi di incontrare quelle donne straniere che sarebbero state nostre compagne nel dar vita a Ishtar, poi alla costruzione di Casa di Ramia.

Il titolo di mediatrice culturale era ambito da donne che in quanto immigrate subiscono una totale dequalificazione professionale: i loro titoli di studio non sono riconosciuti per esercitare libere professioni, né per partecipare a concorsi pubblici. A donne straniere laureate e professioniste si offrono generalmente lavori di servizio alla persona o pulizie.

Le aspiranti mediatrici, che diedero con noi vita ad Ishtar erano donne colte, intraprendenti, delle vere protagoniste, e facevano quella che noi donne consideriamo la vera politica: tessitura di relazioni, con uno sguardo attento alla situazione dei compatrioti, delle donne, dei bambini.

L’idea stessa di mediazione culturale presentava ambiguità che favorivano la nascita di conflitti tra donne provenienti dallo stesso paese, c’erano tra di noi diverse marocchine, a chi di loro si sarebbe attribuita l’autorità di spiegare alle amiche italiane la cultura del Marocco? Quella che prega per la salute della sua anima o quella che sostiene spavaldamente che per la cura di sé è meglio andare in palestra?

Quando alle persone viene chiesto di essere rappresentanti di qualche cosa, emerge irrimediabilmente la povertà della nostra domanda e gli stereotipi abbondano. Data la astoricità della nozione di cultura che, anche a livello di senso comune, ci è stata trasmessa da certa antropologia, tra italiane e straniere si verificavano anche degli equivoci a proposito della richiesta dell’originario.

Ricordo una serata dei primi tempi: le amiche del Ghana invitarono un gruppo che cantava e faceva musica. Alcune italiane affermarono deluse, sono degli spirituals, non è musica africana, dimenticando l’origine afro degli spiritual americani… Le amiche africane piccate: questa è la nostra cultura oggi, quella che si canta nelle nostre chiese, quell’altra l’ha distrutta il colonialismo.

Accadde anche che fossero le amiche straniere a non tollerare la rappresentazione della loro cultura che veniva offerta in occasione di spettacoli, spesso organizzati da Ong. Una sera andiamo tutte a teatro dove c’è uno spettacolo di maschere dogon. La mia amica del Togo è disgustata dall’addomesticamento folclorico: questa è roba per voi, le maschere girano con grande strepito nelle strade per tre notti di fila e nessuno osa uscire, noi si sta tutti rintanati in casa per non incontrare gli spiriti!

Nel micro di una modesta città di provincia, si verifica ciò che accade anche nel macro: la finzione dell’originario, ad uso e consumo di chi ha il denaro, siano turisti o giovani studiosi, fenomeno che è oggi oggetto di riflessione da parte dell’antropologia stessa. I giovani antropologi che vanno in Mali sull’altopiano dei Dogon per proseguire le ricerche dell’etnologo Marcel Griaule si trovano davanti testimoni che danno risposte autentiche, consultando il testo stesso di Griaule (Il dio d’acqua del 1948). Dato che Griaule ha ritratto i veri dogon, i dogon di oggi possono solo metterlo in scena per la nostra soddisfazione. È un gioco di specchi nel quale chi ha il potere riesce sempre a farsi dire quello che desidera ascoltare e non incontra altro che se stesso.

Una difficoltà imprevista riguardava la categoria le straniere, di cui noi, italiane, avevamo dato per scontata la pregnanza politica.

Già nel primo periodo emersero alcune ingenuità delle donne italiane: chi è straniera? Lisa Jankowski, l’amica tedesca di Diotima, che a Casa di Ramia ha dato vita al Gruppo poesie dal Mondo, e ha favorito la nascita del coro, lei vive in Italia da cinquant’anni… È straniera? No, dicevano alcune, noi cerchiamo relazioni con le straniere vere. E Vanessa Maher, che aveva allora la cattedra di Antropologia all’Università di Verona e che tanto luogo ha avuto nelle storie che vi racconto, è straniera? Sì, rispondeva lei raccontando tutti gli equivoci nei quali si era trovata nel corso della sua vita piena di spostamenti. Nata a Nairobi, in Kenia, è africana, anche se è bionda?

Maggiormente denso di conseguenze fu quello che scoprimmo subito, al momento stesso dell’apertura di questo spazio pubblico destinato alle donne: solo ad alcune donne straniere interessava, come alle italiane, frequentare quelle donne che noi chiamiamo migranti; alla maggior parte di loro interessava soprattutto incontrare donne provenienti dal loro stesse paese. Avevano bisogno di parlare la propria lingua, di conoscersi e aiutarsi reciprocamente, di avere un luogo per tramandare ai bambini cose che altrimenti andrebbero perse. Subito, Casa di Ramia, situata in un quartiere dove è forte la presenza di srilankesi, è stata richiesta come palestra dove insegnare le danze tradizionali ai bambini. La domenica mattina la Casa è occupata da badanti provenienti dall’Ucraina che dopo una settimana di solitudine passata con qualcuno dei nostri vecchi hanno bisogno di ritrovarsi tra loro, cucinare a modo loro, parlare la loro lingua. Non è, come avremmo potuto pensare noi, il momento delle badanti, ma quello delle ucraine che, del tutto casualmente, furono le prime a fare richiesta di poter usufruire di questo spazio. Romene, moldave, bulgare vennero immediatamente escluse perché non avrebbero potuto condividere quel clima di intimità che nasce quando si è tra noi. Così molte delle nostre amiche diedero vita a diverse associazioni di donne marocchine, nacque l’associazione Malve di Ucraina, ci fu un’associazione peruviana, c’è stata un’associazione di Nigeriane che affrontavano il problema dei matrimoni misti…

Incontrarsi tra migranti è, invece, cosa che interessa soprattutto gli uomini. Se le donne desiderano stringere legami con le loro connazionali, sono gli uomini a costituire Coordinamenti Migranti perché hanno a cuore soprattutto i diritti, si occupano di relazioni con la Questura, di permessi di soggiorno, di richieste di cittadinanza, di ammissioni alle graduatorie per gli alloggi popolari. Avremmo dovuto forse saperlo, dato che sappiamo bene che donne e uomini hanno modi diversi di rapportarsi alla sfera pubblica, in realtà non lo avevamo previsto.

La presa di parola

Casa di Ramia non è un luogo dove si risolvono i problemi, spesso gravi, della vita materiale delle donne migranti, né è un luogo dove si elaborano strategie di lotta, è un luogo in cui le donne trovano la possibilità di riappropriarsi della grandezza femminile che è in loro, scoprendo nelle altre la forza che anche a loro appartiene. Le pratiche di presa di parola, che sono state sperimentate richiamano quelle nate nella storia dei gruppi femministi, con un’attenzione particolare al coinvolgimento dei corpi, alla gestualità, con momenti di espressione corale delle emozioni nella danza, nel canto. Si crea un clima di vicinanza, di fiducia, di accoglienza reciproca. Ci sono anche dei momenti che assomigliano alla celebrazione di rituali sacri. Quasi sempre mentre si parla o si ascolta si fanno insieme delle cose. La parola accompagna il fare. Houda (Marocco) legge fiabe, altre commentano, ricordano, aggiungono, mentre altre lavorano insieme ad un grande telaio. Sandra (Nigeria) taglia le stoffe e cuce a macchina, a volte parla, mentre altre anche cuciono, si provano ridendo i nuovi vestiti. Oppure si parla in cucina mentre si mette in pentola quello che poi si condividerà. Sono i modi tradizionali dello stare insieme delle donne: parlare mentre si fa. Si può anche riunirsi in salotto, ma non è questa la modalità in cui molte si sentono a proprio agio: è una modalità di stare insieme troppo di testa. Anche quando fanno dei laboratori nelle classi della scuola dell’obbligo le nostre amiche mettono i bambini a fare qualche cosa. Brigitte faceva infilare perline colorate mentre raccontava storie o cantava qualche canzone in lingua togolese. Non parlava del Togo, non lo rappresentava, in qualche modo era lei il Togo, lo portava lì e i bambini l’amavano molto.

Il gruppo narrazioni funziona da anni sotto la guida esperta di una giovane scrittrice. La narrazione viene costruita circolarmente a partire da un oggetto, o da una parola stimolo che suscita dei ricordi: al racconto dell’una risponde il racconto di un’altra. La conduttrice tiene traccia di ciò che viene raccontato e la volta seguente lo restituisce al gruppo. Ognuna sente che la sua parola è stata ascoltata e accolta e che anche lei ha contribuito al racconto collettivo. Ci sono delle regole: si ascolta, si aggiunge una perla alla collana di frammenti vivi, ma non si giudica né si commenta il racconto dell’altra. A proposito di questa pratica scrive Elena Migliavacca: Il cerchio pone tutte sullo stesso piano, restano dei ruoli nel gruppo ma prendono un altro peso… Ci si siede per terra, attorno ad una piccola fiamma, e si ascolta il racconto dell’altra, fino a che emerge la voglia di raccontare il proprio frammento di storia. E precisa poi: Di racconto in racconto l’io si stanca di identificarsi e giudicare, e il giudizio cade. La sua caduta apre uno spazio di libertà impensato, è un guadagno per tutte. Un guadagno di libertà (Allargare il cerchio, p. 81). Che cosa significa cessare di identificarsi con sé stessi per fare spazio all’altra? Significa accogliere la sua differenza e sapere entrare in risonanza, lasciare spazio alle emozioni e all’immaginazione. Smettere di rifiutare ciò che non conosciamo per esperienza diretta. Il cerchio nel quale risuoniamo non è lo specchio nel quale si riflette la nostra immagine, ma qualche cosa di più grande, di molteplice, di più complesso. Ne nasce una conoscenza reciproca che risponde al nostro bisogno umano di riconoscimento e anche un cuore più grande capace di fare un posto, affettivo, all’altra dentro di sé.

Rileggendo Non credere di avere dei diritti, il testo nel quale le donne della Libreria di Milano hanno ricostruito la storia della nascita del loro movimento politico, ho notato quante volte ritorna l’immagine dello specchio a proposito della scoperta che le donne nei gruppi di autocoscienza facevano di ciò che le accomunava, di ciò che le rendeva simili. Ciò che le rendeva simili era la comune esperienza dell’oppressione subita nel patriarcato. In questa ricerca di somiglianza però quello che non poteva emergere era la differenza, quel di più di desiderio, di libertà interiore già conquistata che erano vive in alcune. La scoperta delle madri di tutte noi come in quel testo si racconta era la possibilità che dallo specchio riverberasse il riflesso, l’immagine di qualche cosa di più grande, di qualche cosa che la singola non era ancora, ma che era possibilità anche per lei.

Nell’esigenza di avere davanti a sé uno specchio, costituito dallo sguardo amoroso dell’altra, si esprime il nostro bisogno umano di riconoscimento. Abbiamo bisogno di essere riconosciute nella nostra umanità, in ciò che ci rende uguali e di pari dignità, ma anche nella nostra unicità, nella nostra differenza. Differenza che è iscritta nel nostro corpo e costituita dalla nostra storia.  Il bisogno di rispecchiarsi nello sguardo di un’altra che ci rimandi un’immagine di grandezza è particolarmente vivo nelle donne migranti che hanno sofferto lo strappo dell’allontanamento dal luogo natale e patito una rottura insanabile tra il prima e il dopo. Nella quale il dopo molto spesso implica insignificanza, solitudine, invisibilità, dequalificazione, povertà, spesso disprezzo razziale.

Quali che siano le ragioni che hanno spinto una donna a espatriare, si tratta di un avvenimento tragico come testimoniano le moltissime, bellissime pagine che María Zambrano ha dedicato all’esilio. Fino a che rimaniamo nell’ambiente natale, la nostra storia, quella che fa di noi ciò che siamo, è naturalmente condivisa con chi conosce la nostra famiglia d’origine e con quelli con cui siamo cresciute ma di essa, delle nostre radici, non abbiamo più alcun testimone quando siamo in un paese straniero. Rileggiamo le parole che María Zambrano mette in bocca ad Antigone: Nella nostra casa cresciamo come le piante, come gli alberi; la nostra fanciullezza è lì, non se n’è andata, però si dimentica. Nella nostra casa, nel nostro giardino, non abbiamo bisogno di avere tutto presente, tutto il giorno, né di tenere tutta la nostra anima all’erta, tutto all’erta il nostro essere. No: in essa dimentichiamo, ci dimentichiamo. La patria, la propria casa, è prima di tutto il luogo in cui si può dimenticare. Perché ciò che è stato depositato in un suo angolo non si perde. […]

E quando si esce da quel mare, da quel fiume, soli tra cielo e terra, bisogna raccogliere tutte le proprie forze, e accollarsi il proprio peso; bisogna unificare tutta la vita passata che ritorna presente, e tenerla sollevata perché non si trascini. […] Bisogna salire, sempre. L’esilio è questo, una strada in salita, quand’anche nel deserto. […] Il cuore, però, bisogna tenerlo in alto, bisogna sollevarlo perché non sprofondi, perché non ci sfugga. E per non venir riducendoci noi, noi stessi, a pezzi.

Di rimettere insieme i pezzi, di farlo insieme a un’altra, scelta come testimone, sentiva il bisogno la nostra amica Brigitte. Voleva scrivere la sua storia, lasciarla ai figli, ad altri, sì anche, perché no, pubblicarla. Scelse come testimone un’amica con la quale aveva condiviso la fondazione di Ishtar e le vicende di Casa di Ramia, scelse Vanessa Maher. Che era antropologa, che aveva scritto già molti libri, che era anche lei straniera in Italia, anche se in una posizione di prestigio, ma che conosceva l’Africa perché c’era nata. Brigitte aveva sofferto in Italia dei pregiudizi razziali anche di persone che avrebbero dovuto apprezzarla, come gli appartenenti alla famiglia del marito italiano e anche a noi che l’amavamo e ne ammiravamo la bellezza, l’eleganza, la cultura e lo spirito ironico e creativo, pensava di non essere riuscita a spiegare la vera ragione della sua grandezza. Che stava, lei pensava, nella sua origine, in quella storia che inizia prima della nostra nascita e della quale siamo eredi. Voleva raccontarsi ad una che sapesse che ci sono luoghi in cui il denaro non è l’unica misura del valore. Qualcuna che sapesse che in Africa appartenere a una grande famiglia non implica né denaro né possedimenti fondiari, ma antichità. Una famiglia importante è quella che ha una genealogia narrabile, che ha mantenuto il legame con gli antenati e della quale un griot potrebbe raccontare le gesta.

Quando Vanessa, concluso il suo insegnamento di antropologia a Verona, tornò a vivere nella sua casa di Torino, Brigitte la raggiunse lì periodicamente. Da moltissimi colloqui, racconti, discussioni e scrittura, uscì un romanzo anonimo, Ameze, in inglese. Vanessa che rielaborava e stendeva il racconto aveva voluto scrivere nella sua lingua madre, e aveva ambientato la vicenda in una zona di colonizzazione inglese dove aveva vissuto da bambina e da adolescente. La scelta dell’anonimato era di Brigitte che si riferiva a persone, vive e vicine a lei, che in Africa e in Italia l’avevano fatta soffrire e che avrebbero potuto sentirsi ferite per quello che nel libro si diceva di loro. Il suo matrimonio con un missionario comboniano, matrimonio che aveva comportato l’abbandono dell’ordine, non era stato apprezzato né in Africa, dalla famiglia del padre, né in Italia dai parenti di lui scandalizzati, né dai comboniani che non potevano perdonare il tradimento. Entrambe gli amanti pagarono più di quanto avessero previsto.

Ameze è un romanzo che si può con buone ragioni collocare all’interno della letteratura dell’immigrazione. Ricorda Vanessa Maher nella sua postfazione all’edizione italiana (non più anonima dopo la morte di Brigitte) che, nonostante la sua storia risultasse decontestualizzata e trasformata, Brigitte mi disse una volta le seguenti parole che erano, in un certo senso paradossali: hai scritto la storia esattamente come te l’ho raccontata. (p. 244). Penso che, nella relazione così intima di collaborazione con Vanessa, nella quale una parlava e l’altra ascoltava e discuteva, Brigitte avesse ritrovato il senso profondo della sua vicenda umana e, accettando la sua trasformazione romanzesca, lasciando cadere l’attaccamento ai particolari, l’aveva ritrovata collocata in un orizzonte più grande, nella quale avevano rilievo quegli elementi che ne facevano una storia esemplare. Alla fine del lavoro di scrittura il suo stesso sguardo sul passato era mutato ed era pronta a una generale, generosa, riconciliazione. Da una grande festa africana, celebrata con la famiglia d’origine e anche con i parenti acquisiti italiani cui finalmente mostrava lei chi era veramente, Brigitte non è più tornata. Morta immediatamente dopo in un incidente automobilistico in Togo. E su questo che sembra davvero il compimento di un destino, non oso dire.

Nella storia di Brigitte/Ameze ha un peso rilevante la sofferenza provocata dal pregiudizio razziale. Noi, le sue amiche, che la amavamo e la consideravamo una di noi, non abbiamo capito che il nostro sguardo non bastava a compensare quello che una donna nera, povera e dal lavoro precario, in Italia subisce nella vita quotidiana nel contatto con la gente comune. Penso che questa sottovalutazione della sofferenza dell’altra e dell’ingiustizia patita, sia stata alla base dei conflitti politici che si sono verificati negli USA tra femministe nere e bianche. Audre Lorde, ad esempio, si è scontrata con le femministe bianche americane che nella costruzione di un’idea universale di sorellanza tra donne avevano ignorato, anzi, dice lei, avevano reso invisibili, le donne nere. Ignorando gli effetti del razzismo sulle vite delle donne nere, pretendendo di assimilare le loro vite alle proprie hanno finito per riprodurlo. Quali sono i modi in cui una non vede l’altra?

La questione che ci si pone mi pare sia questa: basta l’espressione della nostra solidarietà a colmare questo divario di esperienza? Il nostro tentativo di instaurare relazioni giuste che cosa significa nella generale ingiustizia del mondo e della vita?

Ho confrontato la scrittura poetica di un’amica nigeriana che è grande protagonista della vita di Casa di Ramia, proprio con gli scritti di Audre Lorde, poeta e scrittrice americana, femminista nera e lesbica (1934-1992).

Sandra Faith Erhabour, è poeta nell’inglese che si parla in Nigeria, e a volte in Edo, la lingua che si parla a Benin City. Le amiche del Gruppo poesia hanno pubblicato delle sue poesie in un volumetto in lingua originale (I will never stop writing) ma un’altra edizione con testo a fronte, a cura di Maria Livia Alga, è in corso. Sandra, da molti anni in Italia, è mediatrice culturale e spesso accompagna la notte il pulmino dell’Ausl che contatta sulla strada le prostitute nigeriane offrendo assistenza medica, una coperta, una bevanda calda. Sandra offre il suo sostegno anche alle ragazze che escono dalla tratta e finiscono tra mille equivoci e difficoltà nelle maglie della polizia, dei servizi assistenziali e psichiatrici.

Le poesie di Sandra hanno la forma di un’esortazione, rivolta a sé stessa o ad altre, o sono invocazioni, preghiere. Spronano alla fiducia, ma soprattutto ad assumere liberamente il proprio destino. Siamo state create ad essere e dobbiamo realizzare ciò cui siamo state chiamate ad essere. La vita è lotta e affanno, richiede cura, attenzione ed impegno. Struggle and hastle caratterizzano la nostra vita, ma Dio stesso ha creato il mondo e lo ricrea con struggle and hastle. Quella di Sandra è una chiamata alla libertà e alla responsabilità verso sé stesse. Sii costruttiva e seminatrice (Be a Builder be Sower ). Sii uomo sii donna sii tutt’occhi e orecchi sii quella che dovevi diventare (p. 117).

Se confronto il tono poetico emotivo, la sensibilità di Sandra con quella di Audre Lorde mi colpisce innanzitutto l’assenza del tema della rabbia. Nella Lorde il tema della rabbia per le ingiustizie e le sofferenze delle donne nere e dei loro figli è fondante la presa di parola. Sull’espressione della rabbia punta per la costruzione di un movimento politico delle donne nere americane. Alla madre, amata-odiata, rimprovera di non avere mai espresso la rabbia, di avere insegnato alle figlie a far finta di niente, a ignorare, a tacere. Solo l’espressione politica della rabbia può salvare da atteggiamenti autodistruttivi, al troppo di rabbia accumulata nella vita Audre Lorde attribuisce anche l’insorgere del cancro che la porterà, dopo lunga lotta, alla morte. Ma al valore politico della rabbia non può rinunciare: e se una vita di rabbia furibonda è la causa della morte del mio seno destro, anche adesso, per tenermi il seno, non accetterei nulla di quanto non ho potuto accettare prima (vedi Sister Outsider p. 47).

Al contrario Sandra non nomina il razzismo, che pur in Italia esiste e investe, in modo intollerabile, le nuove generazioni delle figlie e figli nati qui, perché Sandra non costruisce la sua politica relazionale contro qualche cosa, ma sul senso di sé e della propria dignità. Il senso di sé di Sandra non dipende dallo sguardo che gli altri posano su di lei, sguardo che lei non cerca e a cui non risponde, ma da una consapevolezza interiore del valore di sé che dipende dalla sua relazione con Dio e dalla sua esperienza di vita in Nigeria. Sandra è un’immigrata di prima generazione che torna spesso al suo paese e che non cerca l’assimilazione. Le sue radici culturali sono in lei vivissime: non idealizza affatto la Nigeria, né i nigeriani, ma sa che Eravamo liberi come uccelli del cielo e che Siamo stati re e regine. Ed è un’affermazione che si riferisce al passato precoloniale, ma che ha un valore simbolico riferendosi a un assoluto: siamo re e regine perché fatti a somiglianza di quel Lord che è Dio, che ci ha creato bellissimi. Sandra può ancora, a differenza di Audre Lorde e probabilmente della maggior parte di noi, pensare di essere stata chiamata ad essere e a rispondere. Sotto un cielo vuoto, Audre Lorde rivendica il valore della propria vita di lotta: In ogni caso non era previsto che la mia vita esistesse, che avesse un senso, in questo mondo incasinato di uomini bianchi (vedi SO p. 327).

Sandra sa perché è nera: è nera perché è immigrata, è venuta da un grande paese in cui la gente è nera, ma l’essere neri per le ragazze e i ragazzi nati qui, la cui differenza non ha più alcuna radice culturale, è solo un peso irrimediabile e in qualche modo immotivato. Rischiano di essere preda di una rabbia senza scampo, senza alcuna difesa spirituale nei confronti del razzismo e delle discriminazioni che subiscono.

Nell’ultima parte di questo intervento desidero parlarvi dell’occasione di conoscenza e di amicizia che ha rappresentato per me insegnare italiano a donne islamiche. Negli ultimi anni, infatti, mi sono messa a disposizione dell’Associazione fondata da Houda, una giovane donna proveniente da Casablanca, persona di grande passione politica.

La prima delle amiche islamiche che voglio ricordare è Koolud: trent’anni, tre figlie, yemenita, laureata in teologia all’Università di Sanaa, moglie di uno dei due Imam della Moschea di Verona, ottimo inglese, italiano ancora povero, voleva assolutamente conoscere il mondo nel quale era capitata. Quello che mi colpiva in Koolud era il suo ardere, lei era letteralmente ardente. Diceva del marito, l’imam, compagno di studi di teologia di Sanaa: è pigro, non sa guidare, non studia l’italiano. Lei aveva fretta, dormiva poco e studiava molto la notte: Sai, Giannina, il Profeta ha detto: Studia! Studia! Studia! Aveva subito preso la patente per potersi muovere liberamente senza dover usare i mezzi di trasporto pubblici in cui con il suo abbigliamento così marcato era a disagio. Era a disagio anche quando doveva uscire dalla sua abitazione presso la moschea e si trovava davanti le camionette della polizia e agli uomini armati che la sorvegliavano. Per proteggere gli abitanti e i frequentatori della moschea? Per proteggere noi da loro? Koolud usciva per conoscerci, ma era molto attiva nella moschea, insegnava l’islam alle donne e alle ragazze, organizzava per loro gite, e mi avrebbe coinvolto volentieri nella vita della moschea. Le avevo detto che non avevo chiesa e forse sperava che io potessi entrare nell’islam. Questo non mi turbava perché mi pare naturale che chi pensa di essere nella verità la voglia condividere con chi ama e voglia dare ciò che pensa di avere. Sapeva a memoria tutto il Corano e lo cantava sottovoce con una voce bellissima. Giannina, sai che siamo negli ultimi tempi? Gli islamici sono più avvertiti di noi del fatto che siamo negli ultimi tempi. Lo Yemen da cui proveniva era dilaniato dalla guerra da anni. E la Palestina, l’Iraq, la Siria, l’Afganistan milioni di sfollati e di morti. Ma questi morti sembravano essere nella mia testa e non nella sua. Non era la politica che interessava Koolud, alle mie domande sull’Arabia Saudita non rispondeva, quello che le interessava non era ciò che sta nelle mani degli uomini, ma quello che sta nelle mani di Dio: il senso della storia che va verso la realizzazione della profezia: il giudizio finale.

Quello che più mi tocca nella relazione di differenza con le donne islamiche è la presenza di Dio nella loro vita. Il Dio dell’Islam è esigente e ritma la vita quotidiana dei suoi fedeli, in modo che non possano mai distrarsi da Lui. Sono più vicino a te della tua vena giugulare si legge nel Corano (Sura Qaf, v.16). La scansione giornaliera della preghiera, che nel mondo cristiano si mantiene solo negli ordini monastici, segna la vita giornaliera di milioni di fedeli: cinque preghiere al giorno, in qualsiasi luogo si sia, ci si apparta un poco per pregare. Il corpo è sempre coinvolto: dalla purificazione rituale prima della preghiera, nella preghiera stessa con le genuflessioni prescritte, con il digiuno annuale di trenta giorni e il pellegrinaggio con il grande rito collettivo alla Mecca. Per non dire di quella particolare incorporazione della parola sacra che si pratica nelle scuole coraniche di tutto il mondo dove bambini e bambine imparano a recitare a memoria un testo che non capiscono.

La relazione con Dio, in modo particolare quella delle donne, è una relazione individuale che non necessita di mediazioni umane.

Un voto a Dio, un fatto intimo tra Lui e te, è anche per le mie amiche il coprirsi il capo quando escono dalle mura domestiche. È una promessa che costa, e costa non poco nei paesi in cui a causa del velo diviene impossibile avere un lavoro a contatto con il pubblico.

Tra le amiche islamiche che più mi commuovono c’è una giovane donna che ha rinunciato al suo posto di insegnante per venire in Italia, dove le hanno detto erano in atto sperimentazioni di cura forse utili alla sua bambina gravemente handicappata. La decisione di Jamila, di affrontare un percorso di totale spoliazione, dettato dall’amore e sostenuto dall’affidamento a Dio, desta in me un’ammirazione profonda. Senza alcuna risorsa economica la sua vita e quella della bambina sono dipendenti dall’assistenza pubblica e dalle organizzazioni benefiche, che non le risparmiano del resto quella assillante richiesta di emancipazione che viene pretesa anche dalle donne sole con bambini. Ho parlato di percorso di spoliazione e so che una vita precaria (ce lo rammenta Cristina Campo, l’amica di María Zambrano nel periodo dell’esilio romano), che una vita precaria è una vita dipendente dalla preghiera. Del resto l’elemosinare è una delle pratiche di consunzione dell’io, comune a molte discipline spirituali. Nella relazione con l’assoluto deve cadere ogni presunzione di indipendenza, l’idea stessa di potere controllare la propria vita. Che la nostra vita dipenda così poco dalla nostra volontà, ci capita quasi sempre di scoprirlo in occasioni dolorose e impreviste. Qualcuna può rispondere, come ha fatto Jamila per la sua bimba, con una decisione audace e fiduciosa. Cristina Campo cui è tanto caro il tema del destino ci ricorda l’affermazione e la promessa evangelica: Chi getterà la sua vita la salverà. E io per Jamila lo voglio credere con tutto il cuore.

Sempre obbediente alla richiesta di Houda, da qualche anno, mi sono spostata in una zona periferica della città per incontrare un gruppo di donne marocchine, che non parlano l’italiano e che non sono state mai scolarizzate. Houda diceva che non sarebbero mai venute nel centro della città, dove è Casa di Ramia, perché non erano abituate ad usare il bus e non avrebbero neppure avuto il denaro per comprare il biglietto. Alcune di loro parlavano solo berbero, e anche Houda aveva bisogno di una traduttrice. Didatticamente è stata un’esperienza fallimentare, perché io non ho alcuna competenza nell’alfabetizzazione di donne adulte, dal punto di vista del mio arricchimento soggettivo e del nostro reciproco riconoscimento un’esperienza assai ricca. Antonietta Potente ci aveva detto una volta: bisogna conoscere il mondo dalle periferie. Dalle periferie della città – ma non è diverso per le periferie del mondo – ho verificato che noi, le privilegiate, vediamo sempre ciò che manca (ciò che mancherebbe a noi, secondo la nostra misura) mentre chi le abita vede ciò che c’è e spesso lo considera un dono.

Per me la periferia, frutto della crescita disordinata della città, è brutta: l’accozzaglia casuale di edifici, capannoni una volta produttivi ora abbandonati, supermercati vicini ad empori di automobili, mescolati a condomini di edilizia popolare, tutto questo urta il mio senso estetico. Per le mie amiche questo è il luogo che abitano, quasi l’unico che conoscono della città, questa è l’Italia che le ha accolte e che amano, che non vorrebbero più lasciare. Se foste ricche dove vorreste costruire la vostra casa? E immaginavo Casablanca, o i monti dell’Atlante da cui alcune provengono. No, la farebbero lì, dove abitano. Perché? C’è l’ospedale, il mercato, il parco dove incontrarsi e passeggiare insieme. Quanto all’Italia in molte c’è una grandissima gratitudine. Questo paese ci ha dato tanto: cure mediche, inserimento a scuola di figli handicappati, alloggi popolari il cui fitto è proporzionato al reddito e cala se c’è un periodo di cassa integrazione.

Chiuderò raccontando un episodio che mi ha molto toccato e riportato alla mente quello che Simone Weil chiama l’amore implicito di Dio. Nel gruppo si festeggiava il ritorno di una dal pellegrinaggio alla Mecca. Era divenuta Haja, titolo che precede il nome di tutte quelle che hanno compiuto il pellegrinaggio. Constatando il mio interesse una mi chiede: vuoi anche tu fare il pellegrinaggio alla Mecca? Mi stupisco: Non potrei, la Mecca è città proibita ai non islamici. Ma un’altra commenta: Lei il suo pellegrinaggio lo fa venendo qui. Houda mi traduce questo apprezzamento e io sono davvero grata di questa assimilazione, ma anche sbalordita dell’audacia interpretativa, della prontezza con la quale questa donna, per noi ignorante perché illetterata, si azzarda ad andare oltre la lettera del precetto. Lei mi dice: il pellegrinaggio si fa per amore di Dio, ma è lo stesso amore che tu dimostri di nutrire verso di noi.

Al di là delle dichiarazioni di fede, dei nomi con cui indichiamo l’assoluto, ci sono in effetti molte forme dell’andare oltre noi stessi e dell’amare.

 

Bibliografia

A cura di Maria Livia Alga e Rosanna Cima, Allargare il cerchio Pratiche per una comune umanità, Progedit ed. 2020

Brigitte Atay, Vanessa Maher, Ameze. Mondi che si incontrano, Gabrielli ed. 2021

Sandra Faith Erhabour, I will never stop writing. Introduzione di Maria Livia Alga, in corso di pubblicazione

Audre Lorde, Sorella Outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, ed. Il dito e la luna 2014

Cristina Campo, Lettere a Mita, Adelphi 1999

María Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. Carlo Ferrucci, La Tartaruga ed. 1995.

 

(https://www.diotimafilosofe.it/per-amore-del-mondo/il-mondo-stringe-2022/, edizione 18, 2022)

di Ida Dominijanni


Conosco molte femministe che non prendono neanche in considerazione l’ipotesi di votare per Giorgia Meloni, a causa delle sue idee e nonostante sia una donna. Non ne conosco nessuna intenzionata a votarla in quanto donna e nonostante le sue idee. Sarà pure un sondaggio personale e limitato, ma magari fornisce una piccola bussola per orientarsi nel dibattito assai confuso e non poco strumentale che sta montando sul tema e che, come sempre quando si discute di femminismo e politica, ha come principale obiettivo la spettralizzazione e la colpevolizzazione del femminismo.

Per spettralizzazione intendo la pessima abitudine di parlare del femminismo approssimativamente, senza riguardo per la sua storia, le sue articolazioni interne, le sue trasformazioni maturate nel susseguirsi delle stagioni politiche; e quindi facendone una galassia confusa che riparte ogni volta dal grado zero su ogni questione. La colpevolizzazione ne consegue: così rappresentato, il femminismo si può sempre cogliere in castagna per qualche cosa.

Esempi. Non è vero che “il femminismo” abbia mai fatto proprio lo slogan di “una donna” presidente del consiglio, o della repubblica o in altri ruoli apicali, lanciato a più riprese da pezzi di opinione pubblica femminile progressista. Il femminismo radicale l’ha anzi contestato vibratamente, l’ultima volta durante l’elezione del presidente della repubblica: primo perché “una donna” senza un nome e un cognome non esiste, secondo perché “una donna” senza ancoraggio nella politica delle donne non è una garanzia per nessuna, terzo perché il problema, per il femminismo radicale, non è mai stato quello di espugnare o di spartire i vertici della politica maschile, ma di cambiarla.

Secondo esempio. Non è di oggi l’illusione, di recente rilanciata da una petizione promossa da Marina Terragni e contestata da Natalia Aspesi, che tra donne si possa creare un fronte unitario, basato su istanze condivise e trasversale alle appartenenze politiche. E non è di oggi neanche la disillusione, perché se ognuna è in primo luogo una donna nessuna è soltanto una donna e le appartenenze, politiche nonché sociali e culturali, contano, così come contano le differenze e i conflitti interni al femminismo su temi importanti che tanto condivisi non sono, e che alla faccia del trasversalismo portano acqua al mulino di certe forze politiche e non di altre: se della maternità o della gestazione per altri si parla negli stessi termini di Giorgia Meloni se ne avvantaggerà Giorgia Meloni, bisogna saperlo e magari anche avere la schiettezza di dirlo.

Terzo e ultimo esempio. Non è nemmeno di oggi, né di ieri l’altro, la scoperta che nel centrodestra la promozione di alcune donne in ruoli di rilievo è meno infrequente che nel centrosinistra: tema e svolgimento risalgono nientemeno che all’elezione alla presidenza della camera di Irene Pivetti, nell’ormai lontano 1994. Già allora era chiaro – molto se ne discusse, e molto si trarrebbe di utile per l’oggi rileggendo quella discussione – che nel campo berlusconiano si faceva avanti un protagonismo competitivo femminile, aiutato dalla cooptazione maschile, che spiazzava un centrosinistra dove il secondo sesso restava immancabilmente tale. Trent’anni dopo, la resistibile ascesa di Giorgia Meloni a candidata presidente del consiglio ci rimette di fronte alla stessa evidenza, accentuandola.

È un po’ poco però cavarsela contrapponendo al curriculum di Meloni quello di Elly Schlein e continuare a prendersela con l’incapacità dei leader del Partito democratico di cedere il passo al gentil sesso: forse c’è sotto un difetto d’analisi più sostanziale, nonché una granitica incapacità delle donne del centrosinistra di metterlo a fuoco e correggerlo. Né si può all’inverso continuare a invocare la separazione dei destini del femminismo da quelli della sinistra: quel taglio è stato fatto una volta per tutte dal femminismo della differenza negli anni settanta, e non mi pare che qualcuna l’abbia mai revocato per occuparsi della “salvezza della sinistra”.

Temo dunque che rivangare questo tipo di questioni serva a poco per mettere a fuoco “l’elefante nella stanza”, come l’ha definito Giorgia Serughetti, ovvero il fatto che la prima donna candidata a guidare il governo in Italia sia una leader quarantacinquenne della destra radicale che con la politica delle donne non ha niente a che fare. Proporrei piuttosto di capovolgere il cannocchiale, e provare a capire non come noi la guardiamo ma come lei guarda noi, la storia d’Italia e il presente che abitiamo.

L’impronta degli anni settanta

Come per uno scherzo del destino, Giorgia Meloni nasce nel 1977, l’anno apicale dei famigerati anni settanta, quello in cui si consuma il divorzio mai più ricomposto tra la cultura della sinistra storica e quelle dei movimenti giovanili e del femminismo. Nella sua autobiografia, Io sono Giorgia, a quella data non dà tuttavia particolare rilievo, mentre del decennio restituisce, attraverso la memoria della madre che all’epoca era una simpatizzante dell’estrema destra, un quadro tutto sommato più veritiero del ritornante scongiuro mainstream sugli anni di piombo: erano anni, scrive, «animati da un impeto giovanile presto dirottato da un potere cinico e spietato nella logica degli opposti estremismi», ma mossi anche «da una insaziabile voglia di cambiare tutto, condividere tutto, discutere tutto, che ti viene quasi da invidiare in quest’epoca di vuoto a perdere».

Quella memoria indiretta si installerà in lei come un’impronta decisiva: è da lì che nasce la missione di riscattare i suoi fratelli della destra neofascista, la parte perdente del conflitto di quella stagione, dal destino di marginalità cui erano stati consegnati. Del femminismo degli anni settanta, invece, Giorgia non ha memoria politica e non fa menzione; ne reca tuttavia una traccia inconscia e privatizzata, nel rapporto di gratitudine verso la madre (“le devo tutto, a cominciare dalla vita”) e nell’amicizia tenace con alcune collaboratrici irrinunciabili. Se aggiungiamo il tassello come vedremo cruciale dell’assenza del padre che l’abbandona da piccola, in questo quadro di partenza c’è già in nuce tutto il seguito della vicenda.

Ancora due date prima di entrare nelle scelte politiche da adulta. Nel 1989, quando cade il muro di Berlino, Giorgia ha dodici anni; pochi, ma le bastano per annotare, da grande, che «per il nostro mondo fu festa grande. Nei decenni in cui tutti avevano fatto finta di non vedere, o persino esaltato quel modello come il Pci, la destra non aveva dimenticato i fratelli dell’Est Europa schiacciati dall’oppressione comunista»: ecco degli altri fratelli da salvare. Tre anni ancora e Giorgia trova quelli con cui avviare l’impresa. È il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino viene crivellato sotto casa di sua madre, cinquantasei giorni dopo che Giovanni Falcone era saltato in aria a Capaci.

Per la generazione cresciuta dopo gli anni settanta, quelle due stragi hanno lo stesso effetto che per la precedente aveva avuto piazza Fontana: sono la scoperta che nello stato italiano c’è del marcio come nella Danimarca di Amleto, tanto più che si sovrappongono alla scoperta di Tangentopoli che mette sotto processo tutto il sistema politico. Giorgia infila il portone blindato della sezione del Fronte della gioventù della Garbatella e trova lì casa e famiglia, convinta e confortata dalla estraneità del Movimento sociale italiano ai fasti e ai nefasti della cosiddetta prima repubblica: altri fratelli da riscattare dal ruolo dei perdenti della storia.

All’ombra di Papi

A tirarli fuori da quel ruolo ci sta pensando intanto, con mezzi ben più potenti, anche Silvio Berlusconi, che due anni dopo scenderà in campo sdoganando il Movimento sociale italiano e accogliendolo, col rinnovato nome di Alleanza nazionale, nel Polo delle libertà. Curiosamente, però, dell’avventura all’interno della coalizione berlusconiana Meloni nel suo libro tace, limitandosi a raccontare solo la sua strenua militanza e la sua rapida carriera nel retrobottega delle organizzazioni giovanili di An: ne parlerà solo ex post, al momento della rottura con Berlusconi, ricordando come sia stato difficile per lei accettare, nel 2008, la confluenza di An nel Popolo della libertà e «amalgamare i nostri ragazzi con quei giovani rampanti in giacca blu e tacchi alti». Pure, con quei tacchi alti Giorgia è a lungo convissuta negli anni a cavallo del cambio di secolo, che sono tutt’altro che secondari nel suo romanzo di formazione.

Sono gli anni in cui, sotto la regia televisiva e politica del Cavaliere, si dispiega quella sorta di rivoluzione passiva che ha come obiettivo privilegiato il riaddomesticamento delle donne dopo la sovversione degli anni settanta, e che consiste nella traduzione della libertà politica e collettiva guadagnata nel femminismo in (auto)promozione individuale e competitiva, attraverso una forma perversa di “valorizzazione” del femminile nel mercato del lavoro, del consumo e del sesso, nonché nel mercato politico. Aspetto non marginale della (contro)rivoluzione neoliberale in tutto l’occidente, questa operazione mostra nel laboratorio italiano anche il suo presupposto simbolico, ovvero quel declino della legge del padre che è il risvolto del trionfo dell’etica del mercato: la maschera tragicomica di Papi condensa in sé questi due lati di un cambiamento che investe in pieno l’ordine simbolico e sociale del rapporto tra i sessi.

Ma mentre tutto questo si mostra plasticamente nel teatro politico del centrodestra, e mentre il femminismo radicale, dal canto suo, diagnostica la fine dell’ordine patriarcale avvertendo che non si tratterà di un pranzo di gala, sul fronte del centrosinistra le lancette del tempo vanno a ritroso. Finito nel dimenticatoio lo slogan “dalle donne la forza delle donne” che nei tardi anni ottanta aveva tentato di ibridare la cultura dell’allora Pci con le pratiche femministe, nel Pds-Ds-Pd rispunta, sotto la verniciatura della “questione di genere”, la vecchia “questione femminile” fatta solo di discriminazione, auto-vittimizzazione e rivendicazione di quote rosa e ruoli di potere.

Meloni – che, lo sottolinea, discriminata non si è mai sentita – si accorge di questa asimmetria tra i due campi e la interpreta e la capitalizza a modo suo. Annota che «a sinistra parlano tanto di parità, ma in fondo pensano che la presenza femminile in politica debba essere una concessione maschile», mentre «è la destra ad aver fatto emergere più donne al vertice». Ma chiude tutti e due gli occhi di fronte al lato osceno di questa valorizzazione delle donne: in parlamento vota senza battere ciglio sulla nipote di Mubarak, e nel suo libro liquida il sistema berlusconiano di scambio tra sesso e potere come «una condotta privata francamente un po’ spregiudicata».

Cambio di stagione

Eppure del berlusconismo, dalla cui superficie glamour ci tiene a prendere spesso le distanze, Meloni interiorizza i due aspetti profondi che abbiamo già menzionati: l’etica competitiva, che le consente di sfidare gli uomini, e il declino dell’ordine paterno, che fa da sfondo al momento cruciale della sua ascesa politica. Siamo nel 2011, «quando tutto stava per finire». Giorgia è deputata da cinque anni, grazie a Gianfranco Fini è diventata vicepresidente della camera dal 2006 al 2008 e poi ministra della gioventù nel quarto governo Berlusconi. Quando lo spread, nonché l’onda lunga del sexgate, costringe Berlusconi a dimettersi non c’è solo una crisi di governo ma la fine di un mondo. All’imperativo del godimento subentra la disciplina del debito, al carnevale berlusconiano la quaresima di Mario Monti, alle promesse scintillanti della fase trionfale del neoliberalismo l’austerità e un destino di precarizzazione tanto più amaro per le giovani generazioni: l’imprenditore di se stesso che scommetteva sul futuro e sui futures si trasforma nel proprietario di beni e di diritti in cerca di protezione, sicurezza, valori e credenze sostitutivi di quelli che la “società senza padri” non offre più. Il neoliberalismo perde ovunque la sua faccia gaudente e ovunque cerca e trova sponde nelle ideologie neoconservatrici e sovraniste.

Meloni fiuta il cambio di stagione e decide che non può stare con quelli che ne reggono il timone tecnocratico, e che è venuto il momento di “conservare il futuro” e di imbarcare i suoi fratelli verso la terra promessa della riscossa della destra. Aveva già rotto con Fini, quando quest’ultimo l’aveva mollata nel Popolo della libertà (Pdl) andandosene e rischiando “di condannare la destra all’estinzione”. Adesso rompe con Berlusconi che si arrende a Monti: “non mi sento più a casa”, gli comunica. Alza i tacchi, chiude con l’addio ai padri politici il cerchio di una vita cominciata con l’addio di suo padre, vede davanti a sé “un popolo di destra, smarrito dopo anni di scandali e di crisi economica”, e fonda Fratelli d’Italia.

Commento di Franco Berardi Bifo, in una acuta lettura di qualche mese fa dell’autobiografia di Meloni: «Il retroterra psicoculturale della crisi psicopolitica dilagante è la disgregazione della figura paterna e il senso di sperdimento che questo provoca nei figli e nelle figlie. Ma sono le figlie che sanno reagire a questa condizione, grazie alla forza che ha dato loro la storia del femminismo… Invece di piagnucolare per le quote rosa, Giorgia ha preso il comando della nave che affondava. Dimentica il padre, e rifonda il patriarcato partendo dalla fratellizzazione delle donne». Non si potrebbe dire meglio, salvo forse sostituire patriarcato con fratriarcato: Giorgia è una donna che sutura la ferita inferta nei fratelli dalla crisi del patriarcato, compattandoli e imbarcandoli da condottiera sulla nave della terra promessa. Per portarla dove?

Madri e muri

Dalla nave intanto sono scomparse le sorelle: c’è solo lei al comando, e lei decide anche del loro destino, che è né più né meno che il destino materno tradizionale, per quanto corretto con il sale e il pepe della competenza e della competizione, all’interno di una famiglia tradizionale, dove i ruoli di genere tornano al posto loro e gli orientamenti sessuali “devianti” sono risospinti in una maltollerata privatezza senza riconoscimento di diritto. Certo, è un destino centrale, perché siamo in piena crisi da denatalità e questa per Meloni è l’ossessione numero uno, in nessun modo riparabile con l’immigrazione che è la sua ossessione numero due, e dunque tutta affidata alla riproduzione – “naturale”, intende – degli autoctoni: sono i fratelli d’Italia, e solo loro, a poter ingravidare le “loro” donne, nel più classico schema sovranista.

Ma non è solo per questo destino femminile, tanto simile a quello allestito per le donne dal ventennio fascista, che sulla sua nave fratriarcale non possiamo salire: bensì perché la stiva è stipata di una paccottiglia vecchia e nuova di cui bisogna solo liberarsi. C’è una fissazione identitaria che procede per sommatoria di etichette (“io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana, sono patriota, sono italiana”) e che è l’inverso, concettuale e politico, della concezione anti-identitaria della differenza nel femminismo. C’è un’apologia esplicita dei muri come dispositivi di protezione invece del loro rifiuto come dispositivi di segregazione. C’è una monumentalizzazione del passato europeo che dimentica la colpa del colonialismo e derubrica quella del razzismo. C’è, come in tutto pensiero reazionario di oggi a cominciare da quello di Alexander Dugin, un astio verso la sinistra che unisce in un’unica parabola l’anticomunismo e l’antiliberalismo, e una fobia del postmodernismo che rivela, non a caso nella scia di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, una matrice antimoderna schiettamente reazionaria.

C’è infine, ed è posta in gioco discriminante in questa campagna elettorale, un desiderio allarmante di rivincita rispetto alla storia e alla memoria della repubblica. Se Meloni sponsorizza con tanta convinzione il presidenzialismo, attenzione, non è per le ragioni di funzionalità o di efficienza dell’ordinamento accampate dai solerti liberali che le stanno aprendo le porte, ma per farne dichiaratamente la bandiera ideologica dello “scontro fra patrioti e sinistra” sulla base di una lettura fantasiosa e inaccettabile della storia nazionale di prima e dopo l’89. E se accetta di «ribadire per l’ennesima volta di non avere il culto del fascismo» è solo perché non nasconde che tuttavia il vero obiettivo da colpire per lei è l’antifascismo: niente di più e niente di meno che il fondamento della nostra costituzione.

Possiamo guardare con simpatia l’orgoglio con cui Meloni dice «sono una donna», e rintracciarvi perfino un’impronta inconsapevole dell’eredità femminista, all’interno di una storia che tuttavia è il rovescio della nostra. Ma non possiamo seguirla nemmeno per qualche tratto sulla sua nave distopica, e dobbiamo fare di tutto perché affondi. Se fosse ancora in questo mondo, Angela Putino ci inviterebbe a praticare decisamente con lei (e un po’ meglio anche fra di noi) l’arte di polemizzare fra donne.


(essenziale.it, 27 agosto 2022)

di Chiara Calori


Giurista costituzionalista, prima donna ad accedere alla cattedra di diritto costituzionale, Lorenza Carlassare, da poco venuta a mancare, ha insegnato in diverse università – mai qui a Milano purtroppo – prima di tornare alla sua Padova, lei che era padovana di nascita e formazione. Fu allieva di Vezio Crisafulli e fondatrice della Scuola di Cultura Costituzionale dell’Università di Padova.

Non era una femminista militante, nonostante avesse vissuto sulla propria pelle il peso delle discriminazioni: accede alla cattedra di diritto costituzionale, sì, ma appena si sposa la perde perché la commissione che gliel’ha concessa sostiene che «una donna sposata non può avere interessi scientifici». Solo in seguito, per la precoce vedovanza, riguadagna l’accesso all’insegnamento (anche se le seconde nozze per un momento mettono nuovamente in discussione la cosa. Prevarrà il buon senso, è il suo commento pacato1).

La sua lente sul mondo è il costituzionalismo, il mondo è politico e giuridico, ed è l’attuazione o la mancata implementazione delle garanzie costituzionali. Tutte, anche e soprattutto quelle dei diritti sociali, che permettono di contrastare miseria e ignoranza, i veri ostacoli alla dignità e alla piena realizzazione delle potenzialità di ogni persona, nonché della possibilità di essere cittadina/o attiva/o e consapevole.

Nel suo lavoro però ha sempre presente l’opera delle costituenti, le loro battaglie per l’articolo 3 della Costituzione, così come quelle di altre donne venute dopo di loro che abbatterono ostacoli a tale uguaglianza, come Rosanna Oliva che promosse il giudizio di legittimità costituzionale della norma che escludeva le donne dall’accesso alla magistratura. Ma è soprattutto all’inciso del secondo comma dell’articolo 3, quel “di fatto” voluto da Teresa Mattei e altre riferito all’uguaglianza, che tiene Carlassare: è proprio questo, nel suo pensiero, a sorreggere l’intero impianto solidaristico della Carta, il suo ‘cuore’, e a permettere a questa di andare oltre l’uguaglianza.

Guarda e ammira queste donne, ma lei vive bene nel mondo di maschi che è il mondo accademico, si rende conto – e con rammarico – che ciò la allontana dalla familiarità con le sue simili, ma prosegue sul suo percorso: «Sono stata la prima donna [docente di diritto costituzionale] e, per un decennio, anche la sola. Così ho vissuto in un ambiente completamente maschile e ho perso la dimestichezza con le donne. Di questo un po’ mi dispiace, anche se ho, egualmente, delle carissime amiche».

Forse è proprio questo rammarico che, negli ultimi anni, le fa riscoprire la forza della frequentazione e della relazione tra donne, sottoscrive con loro appelli (come quello relativo al dramma umanitario dei migranti2) e ragiona con loro di uguaglianza giuridica (cura la prefazione del volume del 2016 Percorsi di eguaglianza, G. Giappichelli Editore,  a cura di Francesca Rescigno con contributi di Francesca Rescigno, Marilisa D’Amico, Carla Faralli, Orsetta Giolo, Maria Giulia Bernardini e altre).

Lorenza Carlassare si colloca nel mondo come costituzionalista, il compito che si dà è divulgare la cultura costituzionale – le era molto caro il progetto di Scuola di Cultura Costituzionale avviato a Padova – che interpreta nella sua più vera e più profonda istanza. Una lettura che – e questa è una buona notizia – la rende vicina e privilegiata osservatrice anche delle battaglie delle donne.


(www.libreriadelledonne.it, 26 agosto 2022)


1 Intervista a Lorenza Carlassare del 24 novembre 2017, a cura di Silvia Truzzi: http://www.libertaegiustizia.it/2017/11/24/lorenza-carlassare-una-donna-sposata-non-poteva-avere-interessi-scientifici/

2 “Sappiamo e non vogliamo tacere”. Lettera aperta di un gruppo di giuriste, Huffington Post, 4 luglio 2019.


di Umberto Varischio


Negli ultimi giorni, i mezzi di informazione e i social sono invasi di comunicati, prese di posizione, commenti che condannano la diffusione, da parte di una donna, di un video in cui un’altra donna viene stuprata. Sono interventi di uomini e donne che condannano, con toni diversi, la donna che ha diffuso il filmato, ma che poco o nulla hanno da dire sul fatto rappresentato; si condanna, giustamente, la violenza (ma quasi come un atto dovuto) e si passa, in modo molto più esteso, a condannare, anche qui giustamente, chi lo ha diffuso. Quindi, a fronte di un atto di violenza sessuale di un uomo contro una donna… condannano soprattutto l’altra donna!

Anche in questo caso siamo messi a confronto con comportamenti, che come nel caso della messa in discussione della possibilità di aborto negli Stati Uniti, rimuove la responsabilità maschile nel concepimento per condannare, in quell’occasione, la decisione; un altro esempio del dito che indica la luna e dello stolto che guarda il dito. Se si è uomini una condanna, oltretutto frettolosa (per poi passare ad altro), non basta.

Sì, perché anche in questa occasione sarebbe stato il caso che noi uomini ci fossimo in gran numero ed estesamente interrogati sull’atto che l’uomo ha commesso, su quello che vuole dire per me, noi, cosa significa questo atto di estrema violenza per la mia, nostra sessualità, sul rapporto tra noi e le donne: le estranee, ma anche quelle che ci vivono accanto e quelle che ci sono amiche o conoscenti. Della violenza che spesso fa capolino nei miei, nostri comportamenti, atti, parole, espressioni nei loro confronti, del nostro rapporto con la pornografia… e molto altro ancora. Insomma, su un patriarcato che è una struttura di potere che non è apparsa improvvisamente in tutte le società umane, ma che è stata prodotta e strutturata da milioni di azioni e comportamenti di noi uomini; e che, con i nostri comportamenti, anche oggi cerchiamo disperatamente di perpetuare.

Questo discorso, lo so già, potrebbe essere etichettato come una presa di posizione che fiancheggia quello della destra politica e sociale che in questi giorni si difende e attacca al grido di: stuprano una donna e loro se la prendono con un’altra! No, quello che qui io sostengo non è solo l’accusa contro quel singolo uomo; il problema per me non sono solo i singoli uomini che commettono questi atti, ma le migliaia (o milioni) di uomini, bianchi, gialli o neri, ricchi o poveri, istruiti o ignoranti, di destra o di sinistra che agiscono violenze di diverso grado, anche sessuali, sulle donne, spesso quelle con cui condividono la vita.

Ah, scusate, che sbadato; mi sono dimenticato che siamo in campagna elettorale e quindi non solo quasi tutto è lecito, ma anche che distinguo e problemi come quelli che pongo possono tranquillamente passare in secondo, se non in terzo, quarto piano! Non possiamo perderci in sottigliezze: la questione fondamentale è difendere “l’amica” e “l’alleata” o attaccare “la nemica”. È una guerra, bello mio! Ora andiamo a vincere le elezioni; del rimosso maschile ce ne occuperemo, forse, la prossima volta.


(www.libreriadelledonne.it, 26 agosto 2022)