di Adnkronos


Le dichiarazioni di Vladimir Putin vanno prese sul serio. L’avvertimento arriva dall’ex-cancelliera tedesca Angela Merkel a commento della minaccia del presidente russo di utilizzare armi nucleari in caso di attacco contro l’integrità territoriale della Russia nel quadro della guerra in Ucraina. «Bisogna prendere sul serio le sue parole», ha detto Merkel, che ha chiesto di «non minimizzarle fin dall’inizio come se fossero un bluff» e di «affrontarle seriamente», secondo quanto riporta la radio tedesca Rnd.

«Questo non è un segno di debolezza o di pacificazione, ma un segno di saggezza politica, una saggezza che aiuta a mantenere un margine di manovra o, cosa almeno altrettanto importante, a raggiungerlo», ha spiegato l’ex-cancelliera.

Putin ha avvertito la scorsa settimana, dopo aver annunciato il decreto “mobilitazione parziale”, del possibile uso di «ogni mezzo» in caso di «minaccia all’integrità territoriale» russa, sottolineando che «non si tratta di un bluff», commenti che hanno innescato un’ondata di critiche da parte della comunità internazionale.


(https://www.adnkronos.com, 28 settembre 2022)

di Francesca Maffioli


Il prossimo ottobre uscirà la nuova edizione del dizionario italiano Treccani diretto da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, in tre volumi: il Dizionario dell’Italiano Treccani (Parole da leggere), il Dizionario storico-etimologico (Parole da scoprire) e la Storia dell’italiano per immagini (Parole da vedere). Con la pubblicazione del nuovo dizionario, insieme all’aggiornamento che prevede ad esempio l’introduzione di neologismi, si saluta un altro importante e atteso cambiamento: sostantivi e aggettivi saranno sia nella forma femminile sia in quella maschile, e non più tra parentesi ma in ordine alfabetico.

Proprio un anno fa veniva pubblicato il primo Quaderno del «Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini», intitolato Dove batte la lingua oggi (per Iacobelli editore; su queste pagine avevamo anticipato uno stralcio del saggio di Laura Fortinindr), in cui si ricordava come già nel 1987 Sabatini parlava di sessismo della lingua italiana. La scrittrice e giornalista Maria Rosa Cutrufelli, presidente del centro che ha sede alla Casa internazionale delle donne di Roma, risponde in merito a questo cambio di prospettiva che disegna in maniera più fedele ciò che a livello linguistico era già cambiato e continua a cambiare.

La prossima edizione del dizionario italiano Treccani sceglie di registrare le forme femminili dei nomi e degli aggettivi femminili insieme a quelli maschili, superando la prassi secondo cui il femminile risulta, ma solo in dipendenza dal maschile. Come vede questa scelta? Perché ancora tante critiche? 
Sono passati trentacinque anni da quando Alma Sabatini scrisse un libro famoso e ancor oggi utilissimo: Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Da allora la società è cambiata radicalmente, ma i mutamenti linguistici hanno tempi molto lunghi e nei dizionari «donna» è ancora sinonimo di «casalinga». Credo che dobbiamo essere grate (e grati) a Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, che hanno avuto il coraggio di adeguare il dizionario Treccani ai nuovi tempi. L’innovazione forse più interessante (almeno per me) consiste nel fatto che le forme femminili degli aggettivi e dei sostantivi non sono più messe fra parentesi, come semplici derivati dal maschile, ma hanno una pari dignità. Cioè vengono levate dalle parentesi e messe insieme al maschile, seguendo un ordine alfabetico. Per esempio troverete «Amica/amico» o, al contrario, «Direttore/direttrice». E naturalmente troverete anche i nomi professionali (nomina agentis) declinati al femminile, come «rettrice» o «avvocata» (che, sia detto per inciso, erano già in uso nel medioevo, ma che poi, nella «modernità» si erano persi: anche nella lingua ci sono corsi e ricorsi). Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, insomma, hanno cercato di rimettere le parole in sintonia con la realtà. Un’operazione coraggiosa, perché è assolutamente vero, come ebbe a dire Luisa Muraro, che «la lingua batte dove la politica duole». Gli attacchi subiti da Della Valle e Patota sono molto significativi, infatti, non di una resistenza a un cambiamento linguistico, ma a ciò che questo cambiamento registra. È come se i detrattori della nuova Treccani sperassero che, non nominando la nuova presenza femminile nella società, questa presenza possa sparire d’incanto. Questo rifiuto del cambiamento, oltretutto, si palesa in modo molto violento. Non «obietta» con garbo (e competenza) il giornalista Giovanni Sallusti quando scrive: «è la Treccani che diventa le Treccagne». La lingua, si sa, è uno strumento che serve a esprimere le nostre opinioni. Ma le opinioni cambiano e si possono cambiare, sostanzialmente o formalmente. Io non spero che Giovanni Sallusti cambi opinione, ma il modo di esprimerla, almeno questo sì, lo spero in nome di una comune civiltà. Si può discutere senza offendere. O no?

Nel 1991 la filosofa Luce Irigaray scriveva «Parlare non è mai neutro», spiegando come il falso universalismo promosso dai sostenitori del neutro maschile fosse da opporre al linguaggio sessuato, capace di nominare le soggettività. In che modo secondo lei la grammatica può essere guardata come il riflesso delle relazioni che abitano l’umano? 
A questo proposito, mi è capitato di citare più volte un libro molto illuminante: L’infinito singolare della semiologa Patrizia Violi. In questo libro Patrizia Violi si chiede se il riflesso della differenza sessuale nella lingua (come, per esempio, l’esistenza dei generi grammaticali) è un semplice «accidente» o rifletta un concreto bisogno espressivo dei parlanti. Subito dopo, osserva che il linguaggio è il luogo in cui la soggettività si costituisce e prende forma, dato che il soggetto si può esprimere solo attraverso il linguaggio e il linguaggio, a sua volta, non può costituirsi senza un soggetto che lo fa esistere. Il problema è che il linguaggio esprime anche le posizioni di dominio nella comunità dei parlanti, e dunque il linguaggio, nella nostra cultura, per tradizione registra la voce di un solo soggetto che parla per tutti, azzerando le differenze: un soggetto che non è neutro se non in apparenza, ma che in realtà è maschile. Ma chi non viene «nominato» non esiste e il diritto all’esistenza, a essere «visibile» anche attraverso la parola, è ciò che chiedono tutti i soggetti finora esclusi, per l’appunto, dalla «nominazione»: le donne, come sempre, ma anche le persone non binarie, il mondo lgbtq e così via.

Uno degli argomenti feticcio di chi si scaglia contro l’utilizzo di medica, avvocata, ministra o ingegnera continua a essere il trito «suona male». Secondo lei il fatto che queste parole vengano registrate in un dizionario può aiutarne a diffonderne l’uso? Quanto la norma linguistica in alleanza alla lingua d’uso può concorrere a un cambiamento? 
Il «sistema della lingua» possiede una grande forza d’inerzia e i mutamenti linguistici, come ho detto, hanno tempi molto lunghi e sono tutt’altro che facili da indirizzare nel verso auspicato. Ma, nel caso della nuova Treccani, non c’è un incitamento ad andare in una direzione invece che in un’altra: piuttosto, si registra un cambiamento già avvenuto nei fatti. E questo facilita la comprensione e agevola e legittima quello che alcuni linguisti chiamano «il sentimento dei parlanti».

Il «Centro di documentazione internazionale Alma Sabatini», promuove da anni attività di studio e di ricerca inerenti all’uso non sessista della lingua. Le cose sono cambiate? 
Dopo trentacinque anni, direi che è ancora valido quello che Alma Sabatini scrisse a chiusura delle Raccomandazioni: «Quello che ricerchiamo è una riforma nel profondo dei nostri simbolismi politici, estetici, etici, che si riflettono in quella apparente superficie o parte emergente dell’iceberg che è la lingua». Tutte le riforme sono difficili, ma questa credo che sia la più difficile di tutte. Però anche la lingua sta cambiando, è inevitabile, per adeguarsi ai bisogni dei nuovi soggetti. Nel secondo Quaderno del Centro, in uscita a breve, troverete un dibattito molto interessante e significativo fra ragazzi e ragazze. Leggendo le loro opinioni (e le loro richieste) potrete rendervi conto facilmente di quanto questo argomento li appassioni e di come non sia più possibile far finta che il problema non esista.

Nella raccolta di saggi «L’invenzione delle personagge» (Iacobelli editore, 2016), lei ha partecipato con un suo intervento a questo volume (nato all’interno della Società italiana delle Letterate, ndr) che per scelta delle curatrici Roberta Mazzanti, Silvia Neonato e Bia Sarasini declinava nel titolo il sostantivo «personaggio» al femminile plurale. In letteratura quali differenze racconta, rispetto ai personaggi, la categoria critica delle personagge? 
Questo è un tema difficile da affrontare in poche righe. Qui posso soltanto ribadire quello che scrissi in quella raccolta di saggi molto innovativa (e anch’essa molto coraggiosa, perché il dibattito attorno a questo tema è ancora alle prime battute). Scrissi che, per narrare, bisogna entrare nel cuore dei personaggi messi in scena, maschi o femmine che siano. 
Per farlo, è necessario un profondo processo di empatia. Ma l’empatia, per quanto grande, non potrà mai cancellare l’ombra che il corpo di chi scrive getta sulla pagina: un’impronta originaria che testimonia una differenza originaria. Più semplicemente: l’esperienza del nostro corpo vivente si rifletterà sempre, in qualche modo, in maniera diretta o indiretta, sulla pagina. Ma questo riflesso talvolta non è facile da cogliere. Né da chi scrive né da chi legge.


(il manifesto, 27 settembre 2022)

di Ida Dominijanni


Gli occhi dell’altro sono spesso più veritieri dei propri. Colpisce, per tutta la lunga notte dei risultati elettorali, lo scarto fra come ci guardano dall’estero e come ci guardiamo noi. Gli altri, al di qua e al di là dell’Atlantico, puntano il dito sulla luna: per la prima volta in Italia vince un partito postfascista, per la prima volta spetterà a una donna mettersi a capo di un governo. Da noi si preferisce guardare il dito, normalizzando il risultato con la conta delle percentuali e dei seggi e glissando sul postfascismo, decretato dalla stampa liberale argomento obsoleto. Quanto alla “prima donna” l’attenzione è già tutta puntata sulla reazione dei maschi, i suoi alleati in primo luogo che in superficie festeggiano ma di certo in cuor loro non gradiscono lo smacco.

Gli storici del futuro saranno più precisi. Scriveranno che nel centesimo anniversario della marcia su Roma, e mentre nel cuore dell’Europa infuria una guerra che fa implodere definitivamente il campo ex comunista novecentesco, in Italia un partito con la fiamma tricolore nel simbolo vince le elezioni e va – legittimamente, come del resto il fascismo storico e il nazismo – al potere. Questo, alla fin fine, è il fatto, e i fatti storici sono sempre un misto di ripetizione del e differenza dal passato. No, non si annuncia un ritorno di fascismo-regime. Però sì, i sovranismi di oggi riciclano molti e sostanziali ingredienti del fascismo di ieri. L’Italia non ridiventa fascista, ma certo la discriminante antifascista, fondamento valoriale e politico della repubblica nata dalla resistenza, vacilla. Drammatizzare questo fatto con gli occhi rivolti al passato è presbite, minimizzarlo è miope. Metterlo a fuoco nelle sue cause e nei suoi effetti, interni e internazionali, in un sistema politico come quello italiano che da trent’anni non trova pace, sarebbe il primo nodo da sciogliere.

Il fatto accade, in primo luogo, in costanza di un tasso di astensione del 36 per cento, il più alto alle elezioni politiche della storia della repubblica, che al sud raggiunge picchi del 50 per cento. Significa che un terzo dell’elettorato e metà di un terzo del paese, vuoi per disinteresse, per disperazione o per protesta, al rito elettorale non crede più. La politica-spettacolo scivola sempre più, è stato efficacemente detto, in uno spettacolo senza pubblico. Dove il richiamo al fascismo o alla discriminante antifascista suona più o meno come la citazione di un geroglifico in una classe di marziani, e ben di più conta la consuetudine ormai inerziale a votare per l’ultimo prodotto disponibile e pubblicizzato sul mercato politico, della serie “proviamo anche con lei, non si sa mai”.

In secondo luogo. Meloni vince, con un balzo che dal 4 per cento del 2018 la porta al 26,5 per cento di oggi; ma non stravince, e cresce soprattutto a scapito dei suoi alleati (rispetto al 2018 la Lega crolla dal 17 all’8,8 per cento, Forza Italia dal 14 all’8). L’agognata maggioranza assoluta necessaria al centrodestra per farsi in casa il presidenzialismo “madre di tutte le riforme” non c’è. Quella per governare sì, anche se è tutto da vedere se e quanto reggerà alla prova della ferita narcisista di due maschi alfa come Salvini e Berlusconi messi in riga da una donna. Tanto più che con il suo 8 per cento la neonata formazione centrista di Calenda e Renzi manca di un soffio il sorpasso di Forza Italia, ma diventa pur sempre una tentazione a portata di mano per un eventuale sganciamento di Berlusconi dai suoi alleati euroscettici. Se a questo si sommano le divergenze interne alla coalizione sulla politica economica e la prevedibile resa dei conti interna alla Lega, i destini del futuro governo a guida meloniana sono più incerti di quanto appaia fulgida l’egemonia della destra sulla società italiana.

Che è pari all’annunciata implosione del campo opposto, dove la sconfitta politica e culturale è perfino più eclatante di quella numerica. Sono note le responsabilità del segretario del Partito democratico nella conduzione del gioco. A vanificare il ruolo di partito-guida del centrosinistra che il Pd si era sempre attribuito hanno contribuito la rottura isterica con Conte reo di lesa maestà nei confronti di Draghi, le oscillazioni fra la costruzione di un fronte antifascista (ma senza i cinquestelle) o di un’alleanza programmatica (con Calenda, poi sottrattosi), lo spostamento tardivo verso contenuti di politica sociale in contrasto con l’ossequio precedente all’agenda Draghi. E sopra tutto questo, la sottovalutazione delle trappole di una legge elettorale ai limiti dell’incostituzionalità, fatta apposta per premiare l’unità e punire le divisioni.

Come sempre in questi casi, tuttavia, serve a poco o nulla la crocifissione del leader di turno, che peraltro ha già annunciato la sua intenzione di cedere il passo di qui a poco (magari a una donna, perché a sinistra si ricorre alle donne solo quando ci sono cocci da incollare e non quando la partita si può vincere). Con ogni evidenza il problema non è Letta o solo Letta, bensì la natura irreparabilmente contraddittoria e irriformabile di un partito geneticamente sospeso fra (abiura della) sinistra e adesione al credo neoliberale, attaccato alla funzione di governo e di “perno del sistema” come uniche ragion d’essere, e diventato di recente il garante di un atlantismo acritico a trazione anglo-americana dopo essere stato per decenni il garante di un europeismo acritico a trazione tedesca. Né le colpe della desertificazione di oggi vanno messe solo sul conto del Pd. La sinistra radicale non ha dato prova migliore di sé, con la decisione di Sinistra italiana di tornare a stringere con il Pd un’alleanza non poco innaturale date le diverse posizioni di partenza sulla guerra in Ucraina, e con l’ennesimo scacco matto dell’area aggregatasi in Unione popolare.

Il risultato è stato un disorientamento senza precedenti dell’elettorato di sinistra, che in parte – e magari obtorto collo – ha trovato nei cinquestelle un argine a cui affidare due messaggi in bottiglia: l’urgenza di ritrovare, a sinistra, un radicamento nei ceti popolari, e l’urgenza di calmierare l’atlantismo con qualche domanda più che legittima sulle prospettive politiche e geopolitiche della guerra in corso. Il partito di Conte se ne è giovato, ma che sia stato effettivamente la carta giusta su cui puntare per questa duplice scommessa è tutto da vedere, al di là dell’abilità che il suo leader ha dimostrato nello smentire con un 15 per cento (pur sempre la metà rispetto dell’exploit del 2018) i pronostici che davano per morto il movimento pentastellato. La vicenda non è comunque liquidabile con la diagnosi imperante di un successo dovuto, soprattutto nel sud, a un assistenzialismo incentrato sulla sola difesa del reddito di cittadinanza. Nel recupero elettorale ha contato la popolarità guadagnata da Conte nella prima fase del governo della pandemia, evidentemente non del tutto soppiantata dalla mitografia agiografica del successivo governo di Mario Draghi.

Il che vorrà pure dire qualcosa che l’informazione mainstream non vuole sentirsi dire, intenta com’era stata, all’epoca dell’insediamento del governo Draghi, a festeggiare l’archiviazione per via tecnocratica dei populismi. Il voto di domenica dice l’esatto contrario, confermando la regola per cui tecnocrazia e populismo si alimentano a vicenda l’una essendo l’altra faccia dell’altro. Certo, qualcosa di sostanziale è cambiato dal 2013: allora la fine del governo tecnico di Mario Monti scatenò il populismo “né di destra né di sinistra” di un movimento informe come il Movimento 5 stelle di Grillo e quello di destra della Lega xenofobica di Matteo Salvini; oggi la fine del governo Draghi premia un partito d’opposizione di destra come quello di Giorgia Meloni e un movimento diventato partito come quello di Conte, ricollocato a sinistra e passato all’opposizione dopo una lunga (e bifronte) esperienza di governo.

In un certo senso il quadro è più chiaro, così come ovunque nel mondo si va chiarendo la destinazione divaricante dei populismi, o verso il sovranismo tradizionalista di destra o verso un’iniezione di vocazione popolare perduta nella sinistra. Ma l’alternanza di tecnocrazia e populismo si conferma come la spia più evidente, e tuttora accesa, della crisi verticale della democrazia rappresentativa italiana. Anche le crisi più estenuate, però, a un certo punto si chiudono. Difficile scommettere che dalla propria sconfitta una sinistra parlamentare possa trarre le energie per una qualche palingenesi. Più facile prevedere che la via d’uscita si profili nello scontro fra la stretta d’ordine che la destra di governo tenterà di imprimere a un paese sull’orlo del collasso e il conflitto sociale che ne scaturirà.


(L’Essenziale, 26 settembre 2022)

di Alexandra Petrova


«Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta» 
Adam Zagajevskij


Da sei mesi non riesco a non pensare neanche per un’ora alla guerra che l’esercito russo ha iniziato la mattina del 24 febbraio su ordine del governo russo. Non ci sono scuse per questa guerra, che non è solo un’onta indelebile per tutti i cittadini russi, compresi quelli che vi si oppongono, ma lo è anche per le persone che come me, se pur vivono all’estero da decenni, continuano a parlare e scrivere nella loro madrelingua.

Se la patria è madre, allora mia madre è una serial killer. O forse è stata presa in ostaggio, è una vittima di violenza domestica? La sua volontà comunque è asservita alle forze oscure. Non ha saputo ribellarsi. E poi non è un po’ troppo comodo pensare di essere una vittima che annuisce a un burattinaio? E se vogliamo parlare di responsabilità, forse anche io avrei dovuto parlare con più sicurezza e a voce più alta di come sono state coltivate certe tendenze, direi delle fissazioni imperialiste, condividere non solo con gli amici più stretti le mie premonizioni di lunga data su questa guerra, ricordare di continuo che la Russia ha iniziato la guerra in Georgia nel 2008 e si è impadronita di una parte del suo territorio, parlare della guerra cecena in cui l’esercito russo ha dato prova di crudeltà e sadismo senza precedenti, ricordare che la Russia ha bombardato città civili in Siria, che nel 2014 ha annesso un territorio dell’Ucraina, di un altro paese sovrano, che… Ma non si sapeva forse già? Non sono stati pubblicati i libri di Anna Politkovskaja in tutto il mondo, compresa l’Italia? Non accadeva tutto di fronte al mondo intero? Gli affari però sono molto più importanti della graduale perdita di varie libertà dei cittadini di un paese e delle sue aggressioni verso gli altri. Il gas, il petrolio, il denaro. Così, come si può vedere, sto cercando di spalmare un po’ la responsabilità, e perfino le colpe (che gravano giustamente sui russi) sul mondo, almeno quello occidentale. Con questo non voglio dire che ci sono due verità, ma vorrei ricordare che questa guerra non è solo l’ennesima sconfitta del mondo russo, ma anche in parte di quello occidentale.

Le grandi sconfitte sono fatte anche dalle storie personali. Mio nonno materno è nato a Kharkov, in ucraino Kharkiv, il mio bisnonno a Kiev, anche se, come la mia bisnonna, ha vissuto tutta la vita a Kharkov, che all’epoca era il capoluogo dell’Ucraina. Il mio bisnonno era un artista e un fotografo. Dilettante, perché per il suo rango doveva essere al servizio dello stato. Creava lanterne magiche per le quali vinceva premi nazionali e internazionali e insegnava il disegno anche gratuitamente, faceva dei corsi aperti per i giovani perché credeva che l’uomo che ama l’arte non potrà mai diventare cattivo. Era nato nel 1871, e come si sbagliava! Dopo la Rivoluzione non poté più fare ciò che amava. Il suo laboratorio fu espropriato e distrutto selvaggiamente. Suo figlio, mio nonno, si trasferì a Mosca, dove all’epoca viveva mia nonna, e nel 1930 fu arrestato come anarchico-mistico. Dopo la prigione fu mandato in Kirghizistan, dove, in un posto che non esisteva sulla mappa, nacque mia madre. La guerra separò mio nonno e mia nonna. Lei e mia madre, all’inizio dell’invasione tedesca dell’URSS, si trovavano in Bielorussia, dove mia nonna insegnava inglese alla scuola ufficiali. Questo la salvò quando riuscì a salire sull’ultimo treno in partenza da Kalinkovichi insieme ai futuri ufficiali, all’inizio dell’agosto del 1941. Il treno fu bombardato durante il tragitto, ma riuscì a giungere, anche se non nella sua interezza, in territorio libero. Il 21 agosto i tedeschi entrarono in città. A metà settembre, a tutti gli ebrei fu ordinato di trasferirsi nell’area a loro destinata, il ghetto. Il 20 settembre fu detto loro di indossare i loro abiti migliori e di attendere gli ordini. Il 21 settembre furono caricati su un camion e portati alla stazione ferroviaria da dove, appena un mese prima, era passato il treno che aveva portato via mia nonna e mia madre. C’era un lungo fossato vicino alla ferrovia. Ed è lì che venivano gettate le persone morte e talvolta ancora vive. I camion effettuarono 12 viaggi. In un solo giorno furono uccise 700 persone. Soprattutto bambini, donne e anziani. Nei mesi successivi gli ebrei rimasti furono braccati con l’aiuto della polizia locale e sterminati. Mia nonna era ebrea. Non per religione, come a volte si intende in Italia, ma per nazionalità, perché in URSS non c’era più la religione, ma la nazionalità invece era correttamente registrata in tutti i documenti, quindi i tedeschi non erano gli unici a tenere le liste. Oggi mia nonna e mia madre si trovano nelle liste della Shoah come sopravvissute. Ma per i tedeschi questo massacro era solo «un’azione», la chiamavano ufficialmente così. Non vi ricorda forse una certa «operazione speciale»?

Mio nonno fu nuovamente arrestato dopo la guerra, nel ’47, e inviato nel Gulag, dove visse fino alla metà del 1953. Tuttavia, anche dopo il rilascio, non gli fu permesso di vivere nelle grandi città, e nemmeno nel raggio di cento chilometri da esse. Per molto tempo mia madre non ha saputo che suo padre era vivo. Per caso, da uno sconosciuto, scoprì che era un nemico del popolo e non un eroe di guerra come aveva pensato, e quando finalmente, dopo la morte di Stalin, venne a Leningrado per vederla, lei non volle comunicare con lui. Mio nonno è morto solo, lontano dalla famiglia.

Non sapevo nulla di queste storie, finché un giorno, già adulta, non le ho scoperte per caso. Nella nostra società non si facevano troppe domande ai parenti. La mia è la storia di molti altri.

Poco prima di questa guerra avevo programmato di andare a Kharkov, la città dei miei antenati, di cui cercavo di sapere qualcosa da diversi anni. Non lontano dal luogo di nascita di mio nonno c’è una bella cittadina chiamata Chuguyev, dove si trova la casa-museo di un importante pittore, Ilya Repin, che nacque in Ucraina ma lavorò tutta la vita in Russia ancora prima della Rivoluzione d’Ottobre. In quel museo erano stati trovati alcuni documenti legati alla mia famiglia, e la direttrice del museo desiderava incontrarmi. La sera del 24 febbraio, in una giornata in cui tutto stava già precipitando fin dal primo mattino, ho letto la notizia dell’uccisione di un ragazzo di 14 anni a Chuguyev. A sei mesi dall’inizio della guerra siamo ormai abituati alla morte dei bambini. In quel momento mi è sembrato impossibile, assurdo, folle, e improvvisamente ho sentito che ancora una volta avevo perso i miei parenti, l’opportunità di ripristinare la storia.

Durante e dopo la Seconda guerra mondiale, a molti sembrò impossibile continuare a scrivere. Tuttavia, alcuni iniziarono, o continuarono a farlo, affinché la memoria non tradisse i morti e testimoniasse contro gli assassini. Prevedo quindi una nuova fioritura della letteratura ucraina, che ha già prodotto testi di grande valore. All’epoca non furono però solo le vittime e i vincitori a scrivere. Fortunatamente, anche alcuni autori tedeschi alzarono la voce contro la Germania nazista. Thomas Mann, che chiamava Tolstoj e Dostoevskij i suoi maestri, disse durante il suo discorso del 1945 La Germania e i tedeschi presso la Biblioteca del Congresso di Washington: «Non esistono due Germanie, quella del bene e quella del male, esiste solo una Germania, le cui migliori qualità, sotto l’influenza di un’astuzia diabolica, sono diventate il male personificato. La Germania malvagia è una Germania buona che ha sbagliato strada, si è messa nei guai, ha sguazzato nei crimini e ora sta affrontando una catastrofe. Ecco perché è impossibile per un uomo nato tedesco rinunciare completamente alla Germania cattiva, carica di colpe storiche, e dire: Io sono la Germania buona, nobile, giusta; guardate, indosso un vestito bianco. E vi consegno il maligno». 
Sconfitta, perdita, lutto – in questo momento è quello che io auguro alla Russia e ai suoi cittadini.

Purtroppo anche chi non è stato un complice dovrà bere questo calice amaro. Questa nuova sconfitta sarà più ovvia, più marcata, più fatale di tante altre che ha vissuto la Russia e che hanno prodotto grandissimi testi di Pushkin, Tolstoj, Cechov, Dostoevskij, Mandelshtam, Cvetaeva, Achmatova, Blok, Andrej Belyj. 
Per questo oggi vedo nella sconfitta della Russia una possibile purificazione, una rinascita, forse, un giorno, una nuova poesia. Non so se la guerra italiana in Etiopia abbia prodotto tutto questo. A prima vista sembra di no, anche se i 275.000 etiopi uccisi dovrebbero creare un’eterna insonnia. La guerra fatta dal tuo paese, soprattutto se è ingiusta, non può non lasciare tracce. Gli aguzzini e le vittime, gli osservatori, gli ignari e i negazionisti, in qualche modo sono e saranno toccati tutti. E poiché la cultura russa fa parte della cultura europea, questa sconfitta sarà sentita anche al di fuori della lingua russa. La sentirete anche voi.

Alexandra Petrova è nata a Leningrado, attuale San Pietroburgo, nel 1964. Laureata in Lettere all’Università di Tartu, in Estonia, dal 1999 vive a Roma dopo avere trascorso alcuni anni a Gerusalemme. I suoi testi poetici, molto noti in Russia e a livello internazionale, sono stati tradotti in diverse lingue, e in italiano si possono leggere nell’antologia La nuova poesia russa (Crocetti, 2003) e in un volume a lei dedicato, Altri fuochi (Crocetti, 2005). Nel 2016 è uscito in Russia il romanzo Appendix (“Appendice”), in larga parte ambientato a Roma, che ha vinto il Premio Andrej Belyj. L’intervento che qui si pubblica è una versione ridotta del discorso che Alexandra Petrova ha tenuto il 21 agosto a San Mauro Castelverde, in Sicilia, in occasione del Festival di poesia Paolo Prestigiacomo.


(Alias – il manifesto, 24 settembre 2022)

L’anno dell’ambiguo materno. Note, appunti, illuminazioni da un seminario del Centro Culturale Virginia Woolf – 1982, di Alessandra Bocchetti , Somara! 2022. Pensare insieme ed essere audaci. Godere. Generare. Alessandra Bocchetti ci accompagna alla riscoperta, quarant’anni dopo, della passione creativa di un gruppo di giovani donne, “quelle del Virginia Woolf”. Questo libro è un invito a continuare a coltivare l’ebbrezza del desiderio. In dialogo con l’autrice Paola Mammani e Luisa Muraro.

Per acquistare online L’anno dell’ambiguo materno:

https://www.bookdealer.it/goto/9788894380729/607


L’incontro sarà trasmesso in streaming sul canale YuoTube della Libreria https://www.youtube.com/watch?v=QpkL0oRRlYI

di Tiziana Nasali


È stato proposto alla redazione del sito della Libreria un articolo scritto da Maria Dell’Anno in ricordo di Giulia Galiotto, uccisa nel 2009 dal marito e pubblicato su Noi Donne. La discussione che ne è nata è stata illuminante per le argomentazioni che alcune hanno portato a sostegno della sua pubblicazione. Provo a darne conto.

Scrive Maria Dell’Anno «…il mio cervello ha davvero difficoltà a concepire questi due dati di fatto: tu non esisti più e il tuo assassino è libero».

Questo è il fatto, lei è morta e lui è vivo e libero. Questa contraddizione non ha soluzione perché l’omicidio, come una serie di altri reati, non può essere riparato attraverso il ripristino della situazione precedente. Lo Stato può soltanto, attraverso la pena, attribuire disvalore alle azioni umane e stabilire l’entità della pena, dando così una misura al disvalore.

Maria si chiede quanto disvalore lo Stato attribuisca alla vita di una donna uccisa dall’uomo che le è più vicino. Scrive: «13 anni. Dovevano essere 19. Una sentenza dello Stato italiano lo aveva condannato a 19 anni di carcere. 19 anni per averti tolto la vita». E più avanti: «Non che l’ergastolo riporti la persona uccisa in vita, però, non so, psicologicamente pensare che il tuo assassino non fosse più libero di vivere la sua vita mi dava una qualche forma di rassicurazione sull’equilibrio della bilancia della giustizia».

Capisco bene l’indignazione di Maria e dei famigliari della vittima: spesso di fronte a quei reati che colpiscono le donne, come molestie, stupri e ovviamente femminicidi, ho pensato che le pene comminate fossero troppo lievi e ho provato un senso di ribellione di fronte alle liberazioni anticipate. Pur riconoscendo la validità del principio sancito dalla nostra Costituzione che la finalità della pena debba essere la rieducazione e il reinserimento sociale di chi commette reati, la liberazione anticipata fa saltare la misura che Maria – e molte/i –  si era data interiormente per trovare l’equilibrio nella bilancia della giustizia. Sono consapevole che l’equilibrio è sempre difficile e precario quando si tratta di omicidi ma proprio perché nessuna pena riporta in vita la persona uccisa, è importante tenere viva la contraddizione. Tuttavia, quando si tratta di reati commessi da uomini contro le donne non è solo sul piano della legge che bisogna cercare giustizia. Forse non lo è in nessun caso, tanto che si diffonde sempre più la pratica della giustizia riparativa*, ma sicuramente non lo è nel caso dei reati contro le donne.

Scrive ancora Maria: «Lo Stato che ha condannato tuo marito a 19 anni per punire la tua morte e che poi l’ha liberato dopo 13 non ha detto nulla ai tuoi genitori. Non li ha informati che l’assassino della loro figlia ha pagato il suo debito con la giustizia, che è libero di tornare a casa […] lo Stato non si è curato di loro. Ha semplicemente chiuso un fascicolo di carta che portava il nome di tuo marito: liberato e affidato ai servizi sociali».

Non voglio discutere l’entità della pena: possiamo pensare che 19 anni siano tanti oppure pochi… a me personalmente 19 anni per un femminicidio sembrano pochi, ma non è questo il punto e mi pare che neanche per Maria sia questo.  Servono parole che aiutino tutte/i noi a elaborare l’irreparabile e a ritrovare una nuova misura quando la precedente salta. È il piano della giustizia, che nel caso dei reati contro le donne dovrebbe anche riuscire a rimediare allo squilibrio simbolico ancora presente nel rapporto fra i sessi e affermare nell’ordinamento giuridico il principio della inviolabilità dei corpi femminili.


(*) La giustizia riparativa ha come obiettivo quello di prestare più attenzione ai bisogni delle vittime nel processo penale attraverso il loro coinvolgimento attivo, quello dell’autore del reato e quello della comunità civile.


(www.libreriadelledonne.it, 21 settembre 2022)


di Comunità filosofica femminile Diotima


Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 7 ottobre 2022, dalle 17,20 alle 19 per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 11 novembre.

Venerdì 7 ottobre, ore 17,20-19, aula Megalizzi (ex T4)

Lucia Vantini – Esposizione di sé. Fare spazio tra desiderio e pericolo

Venerdì 14 ottobre, ore 17,20-19, aula Megalizzi (ex T4)

Annarosa Buttarelli – Vicissitudini dellautodeterminazione femminile

Venerdì 21 ottobre, ore 17,20-19, aula Megalizzi (ex T4)

Laura Colombo e Marco Deriu – La questione maschile, un dialogo a due voci

Venerdì 28 ottobre, ore 17,20-19, aula Megalizzi (ex T4)

Ida Dominijanni – Teatro di guerra. Estetica dei corpi

Venerdì 4 novembre, ore 17,20-19, aula Megalizzi (ex T4)

Stefania Tarantino – Il corpo esposto della madre tra immaginario e simbolico

Venerdì 11 novembre, ore 17,20-19, aula Megalizzi (ex T4)

Linda Bertelli – Desiderare il lavoro, lasciare il lavoro

Gli incontri si terranno in aula Megalizzi (ex T4), nel palazzo dei dipartimenti umanistici, Università di Verona, via San Francesco 22.


Grande Seminario di Diotima


Corpi esposti

È un tempo in cui i corpi delle donne sono sovraesposti sulla scena pubblica proprio per la loro presenza sempre più diffusa. La presenza è un fatto positivo, ma per questo anche è diventato molto più esile e difficile il passaggio tra la forza d’attrazione esercitata su di noi dall’esteriorità e il ritrovarsi tra sé e sé come luogo sorgivo di sentire, di silenzio e orientamento. Il continuo andirivieni tra interno ed esterno, tra sentire intimo e messa in gioco pubblica, tra pura visibilità e silenzio vivo ha rappresentato da sempre per le donne una misura per agire in modo sensato e pieno l’esistenza. La soglia tra interno ed esterno ha garantito spazi di silenzio interiore e partecipazione alla vita relazionale senza per questo precipitare e perdersi nella pura esteriorità.

Oggi questa soglia è più sottile perché siamo coinvolte nella iperesposizione dei corpi, nella vita tutta all’esterno, che è il massimo pericolo di perdita di sé, ma anche un segno del nostro tempo da interrogare.

Non sono state solo la pandemia, la guerra vicina e le tante guerre lontane, a esporre i corpi al pericolo di visibilità massima e di conseguenza a un disciplinamento pubblico. È stata anche la riduzione della sessualità a sesso e genere, cioè a pura esteriorità biologica e linguistico-nominalista, molto più controllabile discorsivamente di una dialettica vivente tra interno ed esterno, propria di una sessualità libera e in divenire. 

Tale esposizione pubblica del corpo femminile si ha inoltre in un momento in cui sono in atto diverse strategie istituzionali per indurre le donne a diventare madri. Si dice infatti che la denatalità incida negativamente sull’economia italiana. In questo modo viene messo in questione lo stesso immaginario e simbolico del senso dell’essere madre, pensato e voluto dalle donne.

Sappiamo tuttavia che oggi come un tempo la nostra esperienza eccede non solo le istituzioni, ma lo stesso lavoro gerarchico, con tutte le diverse forme di performatività, di cui facciamo esperienza. E oggi come un tempo sappiamo che occorre entrare in conflitto per fare di questa eccedenza una strada simbolica e politica di scoperta e di invenzione.

Rimane l’enigma della questione maschile. Quali sono state le iniziative degli uomini nei confronti di questa eccedenza e della cultura delle donne? Che conseguenze ne hanno tratto? Quanto sono disposti a trasformare il loro agire e il loro senso di sé? Siamo partite dal presupposto che il trasformare le relazioni tra donne avrebbe modificato la risposta maschile al vivere assieme. È avvenuto?


Bibliografia:

Il mondo stringe in “Per amore del mondo” n. 18, 2022 nel sito www.diotimafilosofe.it.

Lia Cigarini, La politica del desiderio e altri scritti, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.


(diotimafilosofe.it – https://www.diotimafilosofe.it/grande-seminario/corpi-esposti/)

di Angelo Mastrandrea


Un racconto corale su come è cambiato ai nostri giorni il ruolo delle donne in agricoltura è ciò che emerge dal libro di Laura Castellani, Contadine si diventa, Donne in agricoltura, uscito per VandA edizioni. Tra il 2018 e il 2019 l’autrice ha effettuato 35 interviste a contadine al di sotto dei 40 anni e dopo averne pubblicati alcuni stralci sulla pagina Facebook Essere Contadine, storie di giovani donne in agricoltura, ha raccolto nel volume le riflessioni che l’hanno accompagnata «in questo percorso di ricerca e relazioni tra donne», come ha spiegato.

L’universo agricolo italiano visto attraverso lo sguardo in prima persona delle protagoniste mostra con la forza dell’esperienza e delle storie reali i lati di un mondo dai tratti arcaici, anche se profondamente cambiato, giacché ancora disseminato di pregiudizi. Castellani, sociologa e ricercatrice indipendente, ci guida con la sua analisi lucida e mai ideologica, alla scoperta dei dettagli di questa fotografia, in cui si delineano le difficoltà di chi ha scelto una vita non facile al di fuori dagli agi cittadini, che però cova in sé anche un grande potenziale di cambiamento.

«Ho raccolto storie di progetti agricoli e di vita che non sono sempre andati a buon fine, ma in ogni donna c’è e c’è stata la voglia e la determinazione di rialzarsi e di andare avanti, cambiando strada e mettendo in discussione la propria idea iniziale, qualora risultasse non percorribile. La terra dunque, che tradizionalmente si configurava come causa di controllo e oppressione della donna, diventa oggi contesto di autorealizzazione per tutte le intervistate», scrive l’autrice.

In un momento in cui l’agricoltura mostra la sua volontà di ritornare a metodi più rispettosi dell’ambiente, lo spazio agricolo diviene per le donne luogo di autodeterminazione, dove confluiscono capacità e aspirazioni in un progetto che è al tempo stesso di lavoro e di vita. «Questo libro è nato anche per lasciare traccia di un cambiamento che sta avvenendo, nella famiglia mezzadrile la donna era pressoché invisibile, aveva ruoli determinati e circoscritti all’interno della gerarchia famigliare, che prevedevano più che altro la cura del focolare domestico, mentre il lavoro nei campi le riguardava solo in certi periodi, come quello della fienagione o della raccolta del grano. Oggi le cose sono molto diverse e le donne hanno un ruolo di primo piano nel contesto agricolo».

Dalle testimonianze prende forma la figura della contadina multitasking, che si occupa della vendita, dell’osteria, ma anche dei campi, sfatando lo stereotipo tutto attuale con il quale si vorrebbe di nuovo incasellare le donne nei soli ambiti dell’agricoltura sociale o didattica, che c’è, ma unita alla volontà di gestire l’intero contesto, compresi i mezzi di produzione. È proprio lì che si annidano ancora i pregiudizi più limitanti verso alcune delle attività che si svolgono in campagna, come emerge dal racconto di Barbara, giovane agricoltrice, mentre parla della sua esperienza alla guida del trattore: «Papà è contento, nonostante ci siano delle persone che non danno un soldo di fiducia a una donna che porta il trattore e dicono che è pericoloso, soprattutto per una donna. Non vedo dove sia il problema, nel senso che c’è pericolo sia per l’uomo che per la donna».

O in quello di Denise, che racconta di quando è andata ad acquistare il mezzo e si è sentita presa in giro dal rivenditore: «Sto sopra al trattore dieci ore al giorno e quindi qualcosa so, per fortuna, ma se fosse stata un’altra magari sarebbe andata diversamente». La capacità di svolgere diverse mansioni risponde a quella concezione integrata dell’agricoltura che è tipica dello sguardo d’insieme che aveva un tempo il/la contadina, che permetteva di lavorare con le consociazioni e in continuità con i cicli lunari, in quella dimensione magica che è una delle perdite più ingenti seguite alla disgregazione portata dall’agricoltura industriale.

Ma è nel recuperare questo eclettismo che è possibile affrancarsi dall’idea che esso implichi una conoscenza di minore qualità. «Dalle interviste è emersa la voglia delle donne di formarsi, di diventare esperte, spesso partendo come autodidatte, ma senza paura di mettersi in discussione e di tenere in considerazione i tanti fattori che permettono poi ad un’azienda di continuare ad esistere. Che si tratti di investimenti o di canali di vendita, le contadine hanno dimostrato di avere una grande forza e determinazione nel voler raggiungere il proprio obiettivo», racconta ancora Laura Castellani. «Oggi spesso le contadine, che siano agricoltrici, erboriste o casare, sono coloro che si occupano della vendita diretta dei prodotti, rappresentando il volto dell’azienda e riflettendo un dato importante in discontinuità col passato della famiglia tradizionale agricola, in cui c’era solo la dimensione privata, mentre quella relazionale pubblica non esisteva». Nelle vite delle intervistate, che lavorano tutte in aziende piccole o medie e hanno scelto di coltivare in maniera sostenibile secondo una visione di agricoltura quanto più possibile naturale, la voglia di cambiamento personale si mescola alla volontà di prendersi cura anche del territorio in cui si agisce, rivelando quanto le donne possano essere motore propulsore del cambiamento e fautrici di una visione innovativa che guarda al benessere della comunità.


(Extraterrestre – il manifesto, 22 settembre 2022)

di Redazione di Feminist Post


[…] Dell’aborto chimico si parla come di un passo avanti nell’autodeterminazione. Soprattutto le più giovani possono fare confusione tra contraccezione “del giorno dopo” (che va assunta entro 72 ore dal rapporto a rischio) e pillola abortiva, con la quale si può interrompere la gravidanza fino alla nona settimana.

Alle ragazze va spiegato che la RU486 non fa “sparire” la gravidanza, ma appunto la interrompe, e si conclude con l’espulsione del contenuto dell’utero. Il processo è notevolmente più lungo e doloroso rispetto all’aborto chirurgico (aspirazione o metodo Karman): tre giorni e oltre per la RU486, pochi minuti in sedazione e quasi sempre ricovero in day hospital per il Karman. La scelta tra i due metodi deve essere consapevole. La RU486 non è necessariamente un aborto “più facile”, perché può comportare un notevole impegno fisico e psicologico che non tutte sono in grado di affrontare. Che la RU486 garantisca un aborto più “libero” è tutto da dimostrare.

Il Ministero per la Salute ha autorizzato la somministrazione della RU486 nei consultori, ma nella gran parte delle regioni la pratica non ha ancora corso: né nelle Marche, di cui si è parlato molto in questi giorni, né nell’Emilia rossa. Una prudenza che non va stigmatizzata: ci si deve accertare che i consultori, su cui vi è stato un notevole disinvestimento negli ultimi anni, siano davvero in grado di accompagnare il percorso abortivo e di gestire in tempi rapidi eventuali complicazioni.

Per fare ulteriore chiarezza, vi segnaliamo uno dei libri fondamentali per capire il dibattito sull’aborto chimico: “RU 486: Misconceptions, Myths and Morals” (RU486: Idee sbagliate, miti e morale). 
Pubblicato dalla casa editrice femminista Spinifex Press, fu nominato per il Premio per i Diritti Umani australiano alla prima pubblicazione (1991), ristampato e aggiornato nel corso degli anni, fino a una nuova edizione nel 2013 (il testo integrale si trova qui).

Il libro è frutto del lavoro di tre studiose: Renate Klein, biologa e docente di Women’s Studies alla Deakin University, Janice G. Raymond, nota femminista americana e professoressa emerita di Women’s Studies e bioetica all’Università del Massachusetts, e Lynette J. Dumble, chirurga e ricercatrice presso il Royal Melbourne Hospital e visiting professor di chirurgia presso l’Università del Texas.

Ecco la traduzione del sommario di “RU 486: Misconceptions, Myths and Morals”, dal sito dell’editore:

«Questo libro è diventato un testo classico per gli attivisti della salute e le femministe interessate alle complessità di come i farmaci vengono sviluppati, commercializzati e venduti alle donne di tutto il mondo. In questo libro le autrici ripercorrono l’insolita storia della pillola abortiva francese RU486 (mifepristone). Esaminano la scienza e la politica dalla sua nascita fino all’uso sulle donne.

– La RU486 è un farmaco miracoloso per l’aborto, un’alternativa sicura ed efficace alle procedure abortive convenzionali? 
– Privatizza e de-medicalizza l’esperienza dell’aborto? 
– La sua disponibilità è una “vittoria” per le donne? 
– La RU486 è sicura per l’uso nei Paesi del Terzo Mondo e nelle aree rurali remote? 
– Chi beneficia dell’aborto chimico e che influenza ha la RU486 sui servizi abortivi esistenti?

Le autrici sostengono che le affermazioni positive sulla RU486 (mifepristone) sono piene di miti e idee sbagliate. La RU486 usata da sola è un abortivo fallimentare e necessita dell’aggiunta di una prostaglandina, un farmaco pericoloso. Ma le percentuali di “successo” del cocktail di farmaci RU 486/prostaglandina rimangono tra il 92 e il 95 percento, rispetto al 98-99 percento degli aborti per aspirazione. L’aborto per aspirazione, che è meglio praticare con un anestetico locale, non comporta l’uso di farmaci nocivi e si conclude in 30 minuti. Al contrario, gli aborti con RU486/PG durano giorni, a volte settimane.

Sanguinamenti abbondanti, trasfusioni, vomito, dolore intenso e infezioni sono tra gli effetti collaterali imprevedibili. Alcune donne sono morte per sepsi ed eventi cardiovascolari. L’aborto con la RU486/prostaglandina va a vantaggio della professione medica, delle aziende farmaceutiche e delle economie sanitarie del governo.

Attraverso un’accurata ricerca e analisi, le autrici scoprono la verità: l’aborto chimico è mal concepito e non etico. Esse avvertono che i servizi abortivi a bassa tecnologia sono in pericolo, poiché il mainstream saluta l’aborto con la RU486 come “sicuro ed efficace”, cosa che non è.»

(testo originale qui, traduzione di Maria Celeste)

In Italia un aborto con metodo Karman costa mediamente 1.200 euro, mentre per un aborto chimico ne bastano 40. Per questa ragione il sistema sanitario nazionale ha tutto l’interesse a promuovere la RU486. Noi diciamo invece che a una donna che vuole interrompere la gravidanza va garantita la possibilità di scegliere tra i due metodi. Scelta che può essere praticata solo a condizione che gli ospedali continuino a farsi carico delle IVG chirurgiche.


[…]


(Feminist Post, 21 settembre 2022 – https://feministpost.it/insights-reflections/ru486-o-pillola-abortiva-miti-fraintendimenti-e-business/)

di Luciana Castellina


Sono contenta che nella giornata in cui ricorre il triste secondo anniversario della scomparsa di Rossana venga presentato, alla casa delle donne di Roma, il libro* curato da Gabriele Polo e edito dalla casa editrice della Cgil Futura (e questo è già qualcosa che sottolinea la costante attenzione che Rossana ha sempre avuto per il sindacato e la classe operaia). Perché, come dice il titolo, tratta dei due movimenti storici che sono stati la sostanza della sua vita, il comunismo e, come risultato di un’esperienza più tardiva – il femminismo. 
Che rapporto c’è fra i due e, anzi, domanda più grossa sottesa: è possibile avere un partito in comune?

Per approdare a un pensiero ricomposto credo si debba partire da una ricognizione sul femminismo, il più nuovo dei due movimenti, e quello che, a partire dagli anni ’70, ha più lavorato su sé stesso (cosa, ahimè, che non ha colpevolmente fatto quello comunista), tanto da esser oggi denominato «il nuovo femminismo». È su questo che Rossana si è molto interrogata negli ultimi anni, tant’è vero che le tante iniziative che si sono tenute dopo la sua morte si sono quasi tutte fatte su questo argomento (tanto da costringermi ogni volta a ricordare che Rossana è stata anche, e direi soprattutto, una militante comunista a tutto tondo, nella versione Pci e in quella Manifesto e Pdup.

Fu lei a svolgere la relazione al congresso del Pdup per il comunismo tenuto a Bologna nel ’76, il primo che sancì la nascita del nuovo partito nato dall’unificazione fra il «nostro movimento organizzato» e quello cui avevano dato vita Vittorio Foa e quanti come lui non avevano voluto seguire il loro partito, il Psiup, quando decise, dopo la sconfitta elettorale del ’72 (non presero il quorum) di entrare nel Pci.

Rossana ha insistito sempre sull’importanza del concetto base del nuovo femminismo: che le donne devono scoprire innanzitutto chi sono, e si tratta di un lavoro lungo tutta la vita, perché hanno finito per soccombere ad una identità che non sono state loro a disegnare, ma che è stata cucita loro addosso dai maschi. I famosi «gruppi di autocoscienza», che si moltiplicarono nella seconda metà degli anni ’70 e che noi della vecchia generazione stentammo inizialmente a capire, proprio a questo interrogativo, che non si erano mai poste, avevano cominciato a rispondere: chi siamo.

Risposta difficile perché le donne sono rimaste impigliate nel grande storico imbroglio del pensiero cd. neutrale, su cui è costruito il nostro intero sistema sociale giuridico politico, che fa riferimento a un cittadino neutro, che è però tutto disegnato sull’identità maschile. L’ineguaglianza ha qui la sua base. 
Si tratta dunque di fare una rivoluzione, che è però ben diversa da quella invocata dal comunismo che vorrebbe sopprimere i padroni, mentre le donne i maschi li amano. E per loro è vitale – ecco il problema – prevedere anche una ricomposizione. E dunque cominciare non solo a costruire l’identità femminile ma anche di ricostruire, dopo averla smantellata, una nuova identità maschile.

Un’operazione che ovviamente spetta ai maschi, che è ora che comincino a lavorarci, ma cui le donne non possono rimanere estranee. Per il femminismo è un passo importantissimo perché si tratta di passare dall’essere movimento di parte ad essere protagoniste della rivoluzione universale. 
Non è facile nemmeno per il comunismo, perché deve riconoscere il suo esser di parte, e per cambiare deve cominciare a considerare sé stesso come forza per ora mutilata, transitoria, aperta al dubbio, impegnata fino in fondo in una propria nuova rivoluzione.

E perciò occorre rimandare per ora la nascita di un partito in comune? Forse si può anche collaborare – in parte si sta cominciando a farlo – ma la condizione è che ognuno sia consapevole della propria parzialità. Un’operazione molto più difficile per i maschi, perché un conto è mirare a una conquista, un altro prepararsi a una rinuncia. 
Il libro di Rossana che in questo anniversario consigliamo a tutte/i di leggere aiuta a procedere in questa ricerca perché non è assertivo, esplicita i propri dubbi, sollecita risposte. Lo proponiamo anche perché testimonia di un tratto forte della personalità di Rossana: il peso che ha sempre dato al pensiero degli altri, perché degli altri è restata sempre curiosa, non è mai caduta nell’autoreferenzialismo così comune fra gli intellettuali. Non a caso era comunista.

Poiché siamo alla vigilia di un voto e, contrariamente a come di solito è accaduto, non siamo più certi di quale sarà la scelta di compagni con cui pure abbiamo condiviso la storia, mi sono chiesta quale scheda avrebbe messo nell’urna Rossana. 
Di certo so che una ne avrebbe messa, non si sarebbe astenuta per nessuna ragione, anche in un momento come questo che suscita una simile tentazione. E avrebbe scelto un partito che abbia attenzione alla soggettività di ciascuna/o iscritto, e dunque alla sua crescita come protagonista diretto e non solo veicolante la parola di un leader. E per questo mai populista – tendenza oggi sempre più diffusa. E però nemmeno elitario. Un dato raro, che faceva dire con ironia a Togliatti che il Pci era anomalo come quello strano animale che si chiama giraffa.

Di partiti detti di sinistra oggi ce ne sono molti, di giraffe nessuna. Penso che Rossana, con saggio ma lungimirante realismo, avrebbe scelto chi meglio conserva la memoria, alternativa ma al contempo unitaria, e l’impronta della nostra storia comunista.


(*) Un secolo, due movimenti. Comunismo e femminismo, tracce di una vita, ed. Futura, pp. 96, € 13,00


(il manifesto, 20 settembre 2022)

di Umberto Varischio


Su La Stampa del 17 settembre Luigi Manconi, in un commento intitolato “La democrazia dei sensi di colpa”, si occupa dell’entrata in vigore del decreto del governo ungherese che impone alla donna che voglia accedere all’interruzione di gravidanza, l’obbligo di ascoltare il battito cardiaco del feto; instaurando così «una democrazia dei sensi di colpa».

Quest’ultimo sarebbe un «sistema dove tutte le conquiste non solo richiedono fatica – come è normale che sia – ma vengono fatte pagare a caro prezzo e sono da espiare; e dove ogni diritto è sempre precario e revocabile». Manconi mette giustamente in evidenza che la norma rappresenta il tentativo di fare subire alla donna l’espiazione per una colpa che la stessa avrebbe commesso ricorrendo all’interruzione di gravidanza. Per riprendere le parole di Laura Conti in un breve saggio del 1981 intitolato “Il tormento e lo scudo”, si vorrebbe «colpevolizzare la donna due volte: la prima perché abortisce» e quindi uccide un essere umano, la seconda perché lo farebbe senza o con poco dolore.

Con l’ascolto del battito cardiaco, in caso di aborto si vorrebbe provocare o ampliare il sentimento di colpa e i connessi ansia e rimorso; ma in questo caso il sentimento sopravviene per una colpa che la donna stessa non ha commesso.

Un senso di colpa dovrebbe, secondo me, essere invece provato da qualcun altro che un errore o una mancanza invece l’ha effettivamente commessa: quella di deresponsabilizzarsi per tutto quello che riguarda gli aspetti maschili della contraccezione. Molti uomini non sentono questo senso di colpa e rifuggono la responsabilità della gestione di una gravidanza non voluta (spesso anche di quella voluta). Non so quali siano in generale i meccanismi psicologici ed emozionali che sono causa di questa deresponsabilizzazione; in quanto uomo, e interrogandomi su come affronto la mia sessualità, penso che questa mancanza sia dovuta al non avere il “senso del limite”, di qualcosa che non debbo travalicare. Non di rado nel rapporto sessuale, nelle fantasie e nel concreto, vorrei (anche se poi nella realtà non lo faccio, per scelta consapevole generata dal confronto avuto con le donne) “andare oltre” nell’atto, un comportamento che si dice, in modo ridicolo e caricaturale, sia nella “natura” dell’uomo stesso: il  non resistere a un desiderio sessuale, un reagire con violenza a un sesso negato, un non accettare nel rapporto sessuale una “negoziazione” (esplicita o implicita) tra atti che si possono fare e quelli che la mia partner non gradisce; quella stessa “natura” che ci porterebbe a commettere stupri e femminicidi. In questo senso del limite penso ci sia anche il mettere in conto che un rapporto sessuale potrebbe implicare anche il concepimento e quindi la scelta di fermarsi, di non andare oltre (in questo caso di non agire il rapporto sessuale completo oppure di proteggersi).

Un senso di colpa in questo caso sarebbe bene che noi maschi lo avessimo e cercassimo di renderci consapevoli di aver commesso un errore e di avere, per questo, fatto del male a qualcuno. Un senso di colpa, o meglio una consapevolezza, non sarebbe qui un sistema di prevaricazione come quello attuato dallo Stato ungherese, ma di civiltà.


(www.libreriadelledonne.it, 20 settembre 2022)

di Piera Bosotti



Erbacce, 20 settembre 2022

di firmatarie


Riprendiamo lo stimolo ricevuto da un articolo pubblicato dalla Libreria delle donne di Milano e ne facciamo un appello esplicito per spingere una politica di avanguardia da parte delle donne in occasione delle elezioni. È quella di domandarsi come fare la pace tra conflitti di ogni tipo. Perché di questo da sempre continua ad avere bisogno il mondo. 
È questo impegno che oggi va privilegiato! 
Contro le armi, le distruzioni, contro l’aggravarsi del clima proprio a causa delle guerre, vanno spinti i rappresentanti politici e le espressioni di voto. E sappiamo della distanza esistente tra rappresentanti politici e popolazione in Italia in questi mesi su queste questioni. 
Vogliamo premere sulle elezioni per ottenere una scelta di pace dell’Italia nei confronti del conflitto russo-ucraino perché siamo spaventate dallo sconvolgimento mondiale che questo sta comportando in ordine alla alimentazione e alla complessiva sussistenza di molti popoli. 
Questa guerra ci appare come una carneficina su cui molti Stati investono nel dispregio della coesistenza e della mediazione tra sistemi politici ed economici diversi; una scelta patriarcale di scontro totale per vincere un nemico e affermare una sola autorità nel mondo. 
In tempo di elezioni il nostro desiderio di fare qualcosa per la pace è interrogare chi si propone come rappresentante del nostro futuro sulla risoluzione pacifica del conflitto, sulla comprensione delle ragioni che lo creano e sulla capacità di privilegiare la soluzione pacifica delle intenzioni dei contendenti, invece di voler vincere rispetto a questioni di principio. 
Comprendiamo le motivazioni della invasione russa e quelle di legittimità che vengono sostenute dall’Ucraina. Queste vanno considerate assieme per trovare una soddisfazione parziale in comune che superi le ostilità che da anni fanno morti e distruzioni in quel territorio e ora soprattutto. 
Non riconosciamo affatto l’esigenza di spingere ad un conflitto occidentale contro altri Stati e privilegiamo il contenimento delle pretese in favore di un equilibrio complessivo che risparmi vite, beni, ambiente, relazioni internazionali. Siamo contrarie al privilegiare il Diritto a costo della vita, E di quante nel mondo! E siamo in tante e tanti a pensarla così. 
Oggi siamo più colti rispetto alla considerazione di quanto si soffrono le guerre che alcuni maschi fanno e di quanto le femmine privilegino nei fatti della loro esperienza quotidiana attività di osservazione dei bisogni vitali e di quelli relazionali. Questa capacità più sviluppata dalle donne ha trovato condivisione anche tra molti maschi perché la divisione ideologica dei ruoli lascia ormai libertà personale alla affermazione dei propri desideri. 
Sviluppare la contrattazione dei desideri, nelle questioni comuni, invece di imporre la vittoria assoluta dei propri, è ciò che la pratica politica espressa dalle esperienze femminili pretende dai maschi. Così come imparare a pretendere un confronto con loro, invece di tacere, lo impariamo oggi tra donne. 
Ci si insegna a considerare le ragioni dell’altro e dell’altra e le proprie, riequilibrando gli spostamenti più su un lato o più sull’altro di uomini e donne ed anche tra donne. 
 
CONDIZIONE DEL VOTO 
Vediamo di condizionare il voto, per quello che possiamo, sulla capacità di impegnarsi per la pace tra contendenti alle elezioni. 
Distogliamo la classe dirigente italiana dall’attuale volontà di acuire la guerra e di farla sopportare alla popolazione italiana che ha sempre affermato la non disponibilità a sostenere la guerra, e oggi in particolare. 
Queste elezioni devono segnare la non volontà di partecipazione degli italiani ad una guerra e la riconferma attualissima della Costituzione. 
Ci sembra un buon modo di intervenire chiedendo ai candidati come intendono comporre il conflitto tra Russia e Occidente. È questo un termometro per misurare tra i candidati l’aggressività, e al contrario la ragionevolezza che oggi deve sostituire l’autoritarismo dei guerrafondai del passato. I vecchi termini del processo aggressivo e autoritario del fascismo devono lasciare il posto alla capacità di un processo ragionevole in tutte le questioni, a partire proprio dalla più grave: dalla guerra che attenta alla vita delle popolazioni più povere di tutto il mondo. 
La popolazione deve avere più voce di quanta non riuscisse ad averne in passato. Fascismo e antifascismo non hanno significato se non nella contrapposizione di processi culturali e politici che oggi dobbiamo saper leggere nella loro presenza in pratiche e contesti diversi. 
Vorremmo poter dare più chiarezza allo scontro in atto e soprattutto mostrare la distanza tra potere e popolazione, tra amanti dello scontro e della vittoria e amanti dei limiti che la sopravvivenza impone anche a se stessi.

 
Antonia Sani Wilpf Italia; Giovanna Cifoletti Difendiamo la salute, Antonella Nappi, Disarmisti Esigenti e alcune socie della casa delle donne di Milano: Tina Faglia, Silvana Galassi, Gabriella Grazianetti, Mariateresa Ceruti, Emilia Giusti, Maria Rosa Del Buono, Isabella Bogni, Cinzia Iraci, Annamaria Osnaghi, Vittoria Cova, Bianca Gentilini, Gloria Ronchi, Paola Chiaia 
 
Ulteriori adesioni possono essere inviate a: antonella.nappi@unimi.it

(noidonne.org, 19 settembre 2022, https://www.noidonne.org/articoli/vogliamo-votare-contro-la-guerra-19050.php)

di Farian Sabahi


Mentre il presidente iraniano Ebrahim Raisi è sulla via del ritorno a Teheran dopo aver partecipato al vertice di Samarcanda, un’altra notizia corre veloce e soppianta quella dell’ingresso dell’Iran nella Shanghai Cooperation Organization (SCO) volto a rompere l’isolamento dovuto alle sanzioni statunitensi. A distogliere l’attenzione dal successo iraniano sulla scena internazionale è la morte della giovane Mahsa Amini mentre era in commissariato a Teheran. Ventidue anni, martedì Mahsa era stata fermata per strada dalla polizia religiosa che perseguita le badhejabì, ovvero le donne che non rispettano il severo codice di abbigliamento imposto alle iraniane che dalla Rivoluzione del 1979 hanno l’obbligo di coprire i capelli con il foulard quando si trovano fuori casa.

Venerdì la televisione di Stato ha dato notizia della morte di Mahsa dopo tre giorni di coma. Sono due i brevi video mandati in onda per dimostrare che non ci sarebbe stato contatto fisico tra gli agenti e la ragazza. Nel primo, in quello che è verosimilmente un commissariato di polizia, si vedono numerose donne; una di loro, presentata come Mahsa Amini, si alza per discutere con una poliziotta in merito al proprio abbigliamento; dopodiché sviene. In un altro video il corpo della giovane viene trasportato verso un’ambulanza. Nel frattempo, visto che la sua morte sta suscitando indignazione tra gli iraniani in patria e all’estero, oscurando i successi in politica estera, il presidente Ebrahim Raisi ha incaricato il ministero degli Interni di aprire un’inchiesta. Il capo dei medici legali di Teheran ha dichiarato alla televisione di Stato che le indagini sono in corso, ma ci vorranno tre settimane.

Ieri Mahsa Amini è stata seppellita a Saghez, la sua città natale nel Kurdistan iraniano, nel nordovest del Paese. Dopo il funerale, diverse persone hanno scandito slogan chiedendo un’inchiesta approfondita. I manifestanti si sono riuniti davanti agli uffici governativi e a quel punto le forze di sicurezza li hanno dispersi utilizzando i lacrimogeni. La ventiduenne Mahsa è l’ultima vittima di un regime che perseguita le donne. Donne che sfidano l’obbligo del foulard, perché anche secondo il versetto coranico «non c’è costrizione nella fede», tant’è che il Corano non lo impone. E, di questi tempi, anche attiviste per i diritti Lgbtqia+ come Zahra Sedighi Hamedani (31 anni) e Elham Chubdar (24), condannate a morte dal tribunale di Urmia (nel nord-ovest dell’Iran) per «corruzione sulla terra», il reato più grave previsto dal codice penale dell’Iran. 
Secondo informazioni ottenute da Amnesty International, «il verdetto di colpevolezza e le sentenze si basano su ragioni discriminatorie legate all’orientamento sessuale reale o percepito e/o all’identità di genere delle due donne e, nel caso di Zahra, al suo pacifico attivismo per i diritti Lgbtqia+».

Le autorità hanno sempre chiuso un occhio sull’omosessualità femminile: per le donne è sempre stato possibile condividere un appartamento e fare una vita in comune, senza attirare l’attenzione. Nel caso di Zahra ed Elham, a metterle nei guai sono l’aver fatto proselitismo, per il cristianesimo, e l’aver «rilasciato dichiarazioni a media nemici». Il cristianesimo non è vietato in Iran: vi sono chiese aperte al culto e in parlamento due seggi sono riservati ai cristiani, ma fare proselitismo è reato. Il mezzo di comunicazione percepito come nemico è l’emittente britannica Bbc: nel maggio 2021 Zahra era apparsa in un documentario sulle persecuzioni nel Kurdistan iracheno delle persone con un diverso orientamento sessuale.


(il manifesto, 18 settembre 2022)

di Elena Tebano


«Ho sempre pensato che si dovesse provocare, attaccare la religione e i generali. Finché non ho capito: niente è sconvolgente come la gioia», Niki de Saint Phalle (1930-2002)


Prima la mostra al Ps1 di New York, l’anno scorso, poi la grande scultura intitolata «Gwendolyn» voluta dalla direttrice artistica Cecilia Alemani alla Biennale di Venezia, adesso la personale con circa cento opere alla Kunsthaus Zürich. Il mondo sta riscoprendo Niki de Saint Phalle. L’Italia ha un motivo in più per farlo: il suo capolavoro, il Giardino dei Tarocchi, è a Capalbio.

Nata da una famiglia di aristocratici e banchieri francesi nel 1930, Niki de Saint Phalle ha passato i suoi primi tre anni di vita in Francia, nel castello dei nonni, a cui i genitori l’avevano lasciata ancora in fasce per trasferirsi negli Stati Uniti con il figlio maggiore. Ma è cresciuta a New York, dove, dopo essere stata notata da un agente a 17 anni, iniziò a posare per Life, Vogue Francia, Elle. Fu in quel periodo che la femminista americana Gloria Steinem, come ha raccontato alla curatrice della mostra newyorchese, la vide camminare per la Cinquantasettesima Strada «senza borsa e vestita da cowboy». Un’immagine folgorante: «È la prima donna libera che abbia mai visto nella vita reale. Voglio essere come lei» pensò Steinem. «I ruoli degli uomini sembrano dare loro molta più libertà e io ero decisa a far sì che la libertà fosse mia» avrebbe scritto anni dopo De Saint Phalle a un’amica.

I ruoli considerati da donna all’epoca non facevano per lei. E, anche dopo essersi sposata a 18 anni con lo scrittore altoborghese Harry Mathews e aver avuto una figlia, si rifiutò ostinatamente di sottomettersi ai doveri domestici. Poi a 22 anni finì in manicomio. Era in Francia, dove lei e il marito vivevano una vita bohémienne. De Saint Phalle aveva iniziato, per vendetta, una relazione con il marito dell’amante di Mathews, un uomo molto più grande di lei che le parlava continuamente di suicidio. «Iniziò a fantasticare di andare alla deriva su un galleggiante di gomma con una “grossa spilla da balia in mano”. Iniziò anche ad accumulare rasoi, coltelli e forbici sotto il materasso. Una notte, l’amante di Mathews venne a casa loro e De Saint Phalle la aggredì. Poi ingoiò un flacone di sonniferi, ma, ricorda, era in uno stato così maniacale che non ebbero alcun effetto. Poco dopo, Mathews scoprì l’arsenale di oggetti taglienti della Saint Phalle e la portò in una clinica psichiatrica di Nizza» racconta Ariel Levy sul New Yorker.

Fu sottoposta a dieci cicli di elettroshock e fu lì che, senza doversi più occupare dei bambini o del marito, iniziò a comporre collage con foglie e rami che trovava nel giardino del manicomio. Una settimana dopo essere stata dimessa, racconta ancora il New Yorker, ricevette una lettera dal padre. «Sono sicuro che ti ricordi di quando avevi undici anni e ho cercato di fare di te la mia amante» le scriveva. Nel libro Mon Secret Niki De Saint Phalle ha descritto l’episodio in un altro modo: «Mio padre, questo banchiere, questo aristocratico, mi mise il suo sesso in bocca» ha scritto, spiegando che la sua violenza «aveva spezzato la mia fiducia nel genere umano». Non era l’unico a essere violento, in famiglia. La madre picchiava sua sorella minore Elizabeth «con il lato pungente di una spazzola per capelli», costringeva il fratello Richard per ore a finire tutto quello che aveva nel piatto e una volta obbligò una governante a servire a Elizabeth il suo stesso vomito. Tutti e due sono morti suicidi.

Niki de Saint Phalle è sopravvissuta grazie all’arte. «Probabilmente sarei stata in prigione, o ancora in un ospedale psichiatrico, se l’arte non mi avesse aiutato a tirare fuori tutti i miei sentimenti profondamente aggressivi nei confronti dei miei genitori e della società» ha raccontato. «Avevo una grande rabbia dentro di me».

Agli inizi degli anni ’60 quella rabbia ha dato vita ai suoi «quadri da tiro». Performance art quando ancora la performance art non aveva nome. «Sparava con il fucile contro i suoi stessi dipinti davanti al pubblico. In precedenza aveva preparato le tele con oggetti e sacchetti di ogni tipo, che riempiva di vernice, uova o spaghetti e ricopriva di gesso. Quando questi assemblaggi venivano colpiti, il loro contenuto scorreva sulla tela e la colorava. La Saint-Phalle voleva far “sanguinare” i suoi quadri in questo modo e, naturalmente, si confrontava indirettamente con il dominio degli uomini che sostenevano che le donne non potevano produrre grande arte. Quanto senso dell’umorismo ci sia in questo gruppo di opere è dimostrato da un “quadro da tiro” poco appariscente dei primi anni Sessanta: una superficie di gesso rigonfia e in gran parte intatta è inserita in un’ampia cornice a ghirigori. “Vecchio maestro (non sparato)” è il titolo. Ovviamente, in questo caso l’artista si è astenuta dal colpo di grazia» spiega la Süddeutsche Zeitung.

Le opere per cui oggi è più nota sono le sue Nanas (un termine colloquiale per «ragazze» in francese) figure femminili gigantesche dalle forme rotondeggianti. «Una delle sue performance più spettacolari fu un’installazione che oggi è considerata una pietra miliare nella pratica artistica femminista: nel 1966, Saint Phalle, con il supporto di Jean Tinguely e Per Olof Ultvedt, creò un’enorme scultura colorata e calpestabile di una donna incinta al Moderna Museet di Stoccolma, in cui i visitatori potevano entrare attraverso un portale nella vulva. “Hon” – “Lei” era sdraiata supina sul pavimento, con le ginocchia sollevate e i talloni alzati. All’interno della gigantessa, l’artista aveva installato un bar per il latte e fatto proiettare un film di Greta Garbo. L’installazione, che era tempio, parco giochi e rifugio, riempiva talmente tanto spazio da dover essere distrutta dopo la fine della mostra» spiega ancora la Süddeutsche. La storica dell’arte e curatrice svizzera Cathérine Hug ha scritto che questa «Nana originale», è «ancora una delle cose più radicali» mai realizzate «in termini di nudità femminile» visto che «una vagina aperta, se destinata a scopi diversi dal rapporto sessuale o dal parto è una provocazione smisurata».

Il suo capolavoro è il Giardino dei Tarocchi di Capalbio. De Saint Phalle ha iniziato a concepirlo dopo aver visto il Park Güell di Antoni Gaudí a Barcellona, nel 1955, ed esserne rimasta folgorata. Voleva che fosse «una sorta di paese della gioia» dove «avere un nuovo tipo di vita, semplicemente libera». Lo ha costruito a Capalbio su suggerimento di Marella Agnelli, sua amica dai tempi in cui entrambe avevano lavorato come modelle. Marella le fece conoscere i suoi fratelli, Nicola e Carlo Caracciolo, che possedevano la tenuta perfetta: tra gli ulivi vicino al mare e sopra delle rovine etrusche. De Saint Phalle si presentò «tutta vestita con una vestaglia colorata, sormontata da uno dei suoi magnifici cappelli a tesa larga, con una maquette di creta fatta a mano del Giardino dei Tarocchi» ha ricordato Agnelli nel libro di memorie, Ho coltivato il mio giardino. «Alla fine del loro incontro, i fratelli Caracciolo le avevano regalato un pezzo consistente della loro proprietà» ricostruisce Ariel Levy. Su quel terreno, nel 1979, De Saint Phalle iniziò a costruire le 22 figure dei Tarocchi.

Non avrebbe smesso più fino alla morte, avvenuta nel 2002 per un enfisema polmonare causato dalle esalazioni dei materiali che usava per realizzare le sue opere. Levy racconta che la costruzione del Giardino, per cui De Saint Phalle ha ingaggiato manodopera locale e ha vissuto all’interno dell’Imperatrice-Sfinge, una delle figure più grandi, ha avuto un effetto trasformativo su tutti coloro che vi hanno partecipato. Sugli uomini, nei confronti dei quali l’artista aveva assunto un atteggiamento materno, cucinando e servendogli da mangiare sul cantiere, ogni giorno. «Questo gesto familiare nei confronti di tutti questi belli e giovanissimi machos italiani, che prima erano solo ragazzi di campagna, contadini» ha scritto De Saint Phalle all’ex marito Matthews, «mi ha aiutato ad assumere un potere psicologico. Era facile per loro prendere ordini da La Mama, lo hanno fatto per tutta la vita, purché rispettassi la sottilissima facciata della loro mascolinità». «Molte cose cambiarono, perché ora non si viveva più a Capalbio ma nel mondo. Avevi la mente rivolta al mondo» ha raccontato Marco Iacotonio, uno di quei ragazzi che avrebbe lavorato per oltre vent’anni al Giardino, e poi ne è diventato il custode.

Il lavoro con Niki de Saint Phalle ebbe un effetto liberatorio soprattutto sulle donne. «Queste donne, che provenivano da ambienti molto semplici, improvvisamente, solo lavorando per lei e facendo parte di questo progetto, hanno iniziato a camminare in modo diverso, indossando abiti diversi», ha detto Marella Caracciolo Chia ad Ariel Levy. «C’era una ragazza che è arrivata con la sua famiglia, perché aveva bisogno di un lavoro e tutti si aspettavano che si sarebbe sposata presto: ricordo di averla vista iniziare a indossare jeans e truccarsi e tagliarsi i capelli molto corti. Si vedeva una fioritura».

Il Giardino è rimasto incompiuto, ma è diventato comunque quel luogo magico di libertà che De Saint Phalle aveva immaginato. È pieno di immagini di serpenti, la trasfigurazione dell’aggressione sessuale subita dal padre. Ma, a differenza che nei «quadri da tiro», nel Giardino dei Tarocchi de Saint Phalle ha saputo trasformare la sua rabbia in figure incantate. A trovare la cosa più provocatoria e «sconvolgente» di tutto: la «gioia». Per sé stessa e per chiunque si perda tra i viottoli del suo Giardino.


(27esimaora.corriere.it, 17 settembre 2022)

di Luca Kocci


Dai titoli di molti giornali di ieri, sembrerebbe che papa Francesco abbia cambiato posizione sulla guerra e che, contraddicendosi, abbia deciso di incoraggiare l’invio di armi all’Ucraina perché possa difendersi meglio dall’aggressione russa. Se però si legge tutto quello che il pontefice ha detto alla stampa sull’aereo di ritorno dal Kazakhstan la questione si fa veritiera.

«Secondo lei bisogna dare le armi all’Ucraina per l’autodifesa?», chiede un giornalista della tv tedesca Ard. «Questa è una decisione politica – risponde Bergoglio – che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante, e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più. La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto». E aggiunge: «Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria… Chi non difende qualcosa, non la ama… chi difende, ama».

Quindi «diritto alla difesa, quando è necessario». Ma a condizioni di «moralità». E quelle della Nato, con il suo precedente allargamento a Est «abbaiando alla porta della Russia» e ora con il costante trasferimento di armamenti sempre più sofisticati all’Ucraina, non lo sembrano proprio. Tanto che poco più avanti, rispondendo sempre alla stessa domanda, il papa parla della «fabbrica delle armi». «Questo è un negozio assassino – spiega – Qualcuno che capisce le statistiche mi diceva che se si smettesse per un anno di fare le armi si risolverebbe tutta la fame nel mondo. Non so se è vero o no. Ma fame, educazione… niente, non si può perché si devono fare le armi».

E ripropone un esempio che gli è caro, quello dei portuali genovesi che rifiutarono di svolgere le operazioni di carico di armamenti su una nave diretta in Africa: «A Genova alcuni anni fa, tre o quattro anni fa, è arrivata una nave carica di armi che doveva trasferirle in una nave più grande che andava in Africa, vicino al Sud Sudan. Gli operai del porto non hanno voluto farlo, gli è costato, ma hanno detto: “Io non collaboro”. È un aneddoto ma che fa sentire una coscienza di pace».

«La guerra in se stessa è un errore! E noi in questo momento stiamo respirando quest’aria». Papa Francesco non ha modificato la propria linea: condanna l’invasione russa dell’Ucraina, senza però giustificare la guerra. Nonostante le letture selettive delle sue parole da parte di chi vuole fare indossare per forza l’elmetto a Bergoglio.


(il manifesto, 17 settembre 2022)

di Franca Fortunato


La storia delle donne è fatta da tante vite “oscure”, “sconosciute”, come le chiama Virginia Woolf, fino a quando qualcuna/o dal buio del tempo, che tutto rimuove e conserva, non le riporta alla luce. È quello che ha fatto Emilio Grimaldi con il suo ultimo romanzo, Una rosa per Teresina (Officine Editoriali da Cleto, 2022), liberamente ispirato alla storia vera di una donna calabrese, portata via alla sua creatura e rinchiusa in manicomio. Il libro è nato grazie al nipote di Teresina che negli anni ha raccolto «notizie, documenti, visitato archivi storici» e ha consegnato tutto all’autore perché scrivesse la storia della nonna, del nonno e di sua madre Iolanda, la quale ha ignorato la vicenda di sua madre fino all’età di settant’anni. «Quanto stupore e quanta rabbia – scrive il nipote – abbiamo provato nel leggere la cartella clinica di nonna Teresina!». Il libro, in un intreccio storico della Calabria e dell’Italia tra fine Ottocento e primi anni del Novecento, ricostruisce la storia di Teresina Lucà e di Eugenio Gimigliano, suo compagno di vita, appartenente ad una delle famiglie più ricche e nobili di Belcastro. Lei giovane donna dagli «occhi verdi come il mare» viene da una famiglia benestante di Petilia Policastro. Resta incinta quando ancora non è sposata e non lo sarà in seguito, conviveranno con l’approvazione delle rispettive famiglie. Teresina segue il suo compagno e padre dell’unica sua figlia, Iolanda, nei vari trasferimenti come cancelliere tra la Pretura di Catanzaro, Petilia e Gasperina, fino a quando, in piena Prima guerra mondiale, ancora giovane, egli si ammala e muore. È con la vedovanza che Teresina, come tante altre infelici che incontrerà nel manicomio di Girifalco, avrà la sventura di sperimentare la psichiatria di allora, divenuta strumento di controllo da parte degli uomini del corpo e della vita delle donne. Garante di un “ordine sociale” che espelle, internandoli nei manicomi, donne e uomini che non rientrano pienamente nella “norma”. Non è una donna “normale”, anzi fa scandalo, una vedova sola con una figlia piccola che porta il suo cognome e non quello del padre; fa scandalo una donna che ha scelto di vivere in un hotel, che veste elegante, che vive con i soldi che le ha lasciato il suo compagno, che lascia il lavoro in una sartoria perché non vuole «cucire divise per la guerra». Dicerie, invidie, malelingue la denunciano ai tutori della “morale” e lei, incredula e ignara, si ritrova rinchiusa in manicomio per «indebolimento mentale». Invano grida di stare bene e di volere solo tornare da sua figlia, che ha affidato a un parente. Non viene ascoltata, non viene creduta da chi – medici, sindaci, direttori dei manicomi, prefetti – ha il potere di chiuderla in manicomio sostenuti da pseudo-teorie psichiatriche lombrosiane intrise di pregiudizi, sessismo e odio verso le donne. Uscirà dal manicomio quattro anni dopo chiusa in una bara, morta col nome della figlia sulle labbra. Aveva solo quarantun anni. Una storia triste, una verità tragica, e una figlia che era cresciuta pensando che la madre l’avesse abbandonata e il padre non riconosciuta. La storia, nonostante tutto, ha un lieto fine. Certo Teresina non potrà mai avere indietro la sua vita, la verità non può cancellare l’ingiustizia subita, il dolore inflitto a lei e alla figlia, ma resta la consolazione di una figlia che ha potuto ricongiungersi alla madre e riconoscersi in quel padre che morendo non si era dimenticata di lei. Una rosa per Teresina «non è un libro che chiede giustizia» ma fa giustizia, rende giustizia alla verità, a una donna, a una madre sottratta alla propria figlia.


(Il Quotidiano del Sud, 17 settembre 2022)

La pace degli alveari di Alice Rivaz, PaginaUno, 2019. “Credo di non amare più mio marito”, così si apre il diario di Jeanne Bonnard. Con una prosa leggera ed appuntita, Alice Rivaz, getta l’intera storia dell’umanità sotto una luce diversa partendo da piccoli fatti quotidiani. E’ un romanzo  al quale non si è perdonata l’efficacia nel ridicolizzare i miti, i rituali e le manifestazioni esteriori del sistema di valori maschili, attaccandolo dalle fondamenta.

Partecipano Sabrina Campolongo e Markus Hediger.

Introduce Mirella Maifreda.

Per acquistare onlineLa pace degli alveari: https://www.bookdealer.it/goto/9788899699314/607

di UdiPalermo


PAROLE PENSIERI CORPI PER LA PACE. Li stiamo portando in piazza ogni settimana dal 3 aprile scorso, da quando, a poche settimane dall’inizio della guerra in Ucraina, abbiamo iniziato un presidio permanente a Palermo. Ci incontriamo “alla Statua”, davanti al monumento ai caduti, un luogo simbolico per sottolineare la necessità di un cambiamento di sguardo volto a cancellare l’idea stessa del sacrificio patriottico, della dimensione di valore, di eroicità ad esso connessa ed evidenziare, invece, tutta la tragicità che la perdita di vite umane inevitabilmente comporta. 

Lo spunto era arrivato dall’Unione Donne in Italia, noi di UDIPALERMO l’abbiamo rilanciato, coinvolgendo altre associazioni di donne palermitane (Le Rose Bianche – Donne CGIL – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Donne Caffè filosofico Bonetti – Fidapa Palermo Felicissima – Il femminile è politico – #governodilei – Donne no Muos no war – CIF – Le Onde – Arcilesbica).

Ci ha mosse la volontà di sostenere le ragioni della pace e di denunciare il ricorso alla logica della guerra e della forza, in continuità con la estraneità storica delle donne alla guerra e con la loro opera di costruzione di civiltà basata su quei saperi che sostengono la vita e che non la distruggono. Una scelta fondata sull’esperienza e su quei “millenni di assenza dalla storia” che hanno consentito alle donne di spostare la politica su “un altro piano”.

“Fuori la guerra dalla storia” è lo slogan che abbiamo ripreso dal testo di Bertha von Suttner per caratterizzare fin dall’inizio il presidio nel segno dell’opposizione a tutte le guerre oggi in atto nel mondo, conflitti in gran parte ignorati o dimenticati, come ignorate e dimenticate sono le ragioni e le concretissime necessità umane di coloro che da quei conflitti fuggono. 

Ogni settimana ci hanno fatto compagnia in piazza le parole di grandi scrittrici ma anche le immagini d’arte, le musiche e le danze di musiciste/i e di studenti delle scuole cittadine che hanno voluto condividere un pezzo del nostro percorso. In alcuni momenti particolari (il primo maggio, l’anniversario della strage di Capaci, la giornata dei/lle rifugiati/e, la giornata di mobilitazione di Europe for Peace) hanno accettato di essere insieme a noi in piazza anche personalità, donne e uomini di associazioni e gruppi laici e religiosi come noi impegnati a costruire comunità e solidarietà per la pace.

Così intendiamo andare avanti con il presidio, per continuare a dire che la militarizzazione non ferma le guerre, che la stessa solidarietà militarizzata con l’Ucraina è una terribile contraddizione mortifera; che la guerra e la distruzione non sono inevitabili e che la smilitarizzazione, la giustizia, l’uguaglianza e la cura, sono l’unica strategia che aiuterà a gettare semi di pace per l’Ucraina e per il mondo intero.

A partire da ottobre vorremmo allargare l’iniziativa coinvolgendo altre città con gruppi di donne – e di uomini – che condividono il nostro sentire sulla guerra.

Immaginiamo un presidio “fisico” itinerante: ogni settimana una “città” diversa si assumerebbe il compito di organizzare la presenza fisica in piazza, ma in collegamento con le altre tramite una diretta facebook.

Sarebbe un modo di estendere e dare nuovo impulso a questa azione politica che non richiederebbe un impegno costante, come è stato per noi finora, e che potrebbe invece essere diversificata ed arricchita di parole e pensieri nuovi. Ci state?

Le amiche della biblioteca delle donne UDIPALERMO


(UdiPalermo, 16 settembre 2022)

di Umberto Varischio


«Il tema di fondo è quello di una donna premier che porta avanti politiche maschiliste. Giorgia Meloni e il suo partito hanno portato sempre avanti politiche maschiliste. Allora è molto meglio un uomo premier che porta avanti politiche femministe».

Da diversi anni le campagne elettorali ci hanno abituato a dichiarazioni di ogni genere, non escluse quelle maschili di stampo sessista, ma questa non si era ancora sentita!

Una dichiarazione – da parte del segretario del partito principale dello schieramento che si definisce progressista e rivolta alla presidente del probabile maggior partito della destra, possibile candidata al ruolo di presidente del consiglio – che per ora non ha suscitato molta attenzione e, salvo che dalla destra stessa, quasi nessuna reazione. Mi sembra, da uomo, che qualche considerazione andrebbe fatta per non derubricarla a una sciocchezza di poco conto.

Come uomo che da almeno quarantacinque anni si confronta con i femminismi, e in particolare con quello della differenza, un confronto scelto, ma che è stato fonte di momenti alterni di gioia e sofferenza, felicità e rabbia, senso di liberazione e fatica, consapevolezza e confusione, ritengo che tale affermazione racconti molto della situazione in cui si trova oggi, se non nella società almeno in ambito politico, il rapporto uomo-donna nel nostro paese.

Se almeno una cosa mi ha insegnato il rapporto – certo conflittuale, ma fondamentale per la mia vita di ieri e di oggi – con il femminismo e con alcune donne che ne fanno parte, è che un uomo non può essere femminista. E non può portare avanti “politiche femministe” a meno che non abbia forti relazioni politiche con donne di questo vasto e complesso mondo, relazioni che comprendano un riconoscimento dell’autorità e della libertà femminile. Nel vuoto evidente di relazioni di questo tipo in cui si muove l’uomo in questione, proporsi come possibile premier (maschio) che può affrontare i problemi, vuol dire reiterare il pensiero neppure tanto sotterraneo che per certi ruoli decisionali sono meglio gli uomini. Questa sì è una posizione “maschilista”: è una negazione, oltre che di tante parole che vorrebbero dire il contrario, di una pratica attiva di accettazione della differenza femminile. È una conferma che «il problema, per il femminismo radicale, non è mai stato e non può essere quello di espugnare o di spartire i vertici della politica maschile, ma di cambiarla» (I. Dominijanni).


(www.libreriadelledonne.it, 14 settembre 2022)