Con una correttezza che si commenta da sé il sito di Repubblica sta rilanciando un brano di InOnda del 25 agosto scorso in cui Eugenia Roccella, neoministra della famiglia e della natalità, mi citava al contrario per avvalorare la sua posizione antiabortista. Avveniva in mia assenza, cioè senza contraddittorio, il che era scorretto già di suo. Repubblica raddoppia la scorrettezza, senza riportare la mia precisazione di allora. La ripubblico qui di seguito.

PS. Rep ha aggiornato riportando il mio post. Ringrazio e spero che tanto basti.


Pagina Facebook di Ida Dominijanni del 25 agosto

Nella puntata di stasera di #in onda (scusate il ritardo, l’ho vista in restart) Eugenia Roccella, cattolica fondamentalista arruolatasi in FdI, ha usato il mio nome per attaccare la 194. Sono le femministe della differenza, ha detto, a sostenere da sempre che l’aborto non è un diritto. È vero, lo sosteniamo e io l’ho scritto: in una direzione diametralmente opposta a quella di Eugenia Roccella, come lei dovrebbe sapere se non fosse in mala fede. Quando in questo paese si poteva ancora discutere, dire che l’aborto non è un diritto significava dire che è più che un diritto: è un potere inalienabile del materno, è una libertà insindacabile di ogni donna, è un’esperienza insondabile dall’esterno, è spesso la conseguenza di una sessualità maschile aggressiva e inconsapevole. Voleva anche dire, e vuole dire, che le donne continueranno ad abortire anche se l’aborto smettesse di essere consentito e legale: guardare a quello che sta succedendo negli Usa per credere. Roccella se ne faccia una ragione, parli per sé senza farsi scudo di altre come la sottoscritta, e la smetta di usare il femminismo della differenza a fini strumentali e contundenti. Quanto alla 194, consiglio vivamente a lei, a Meloni e a Fdi di sfilare il tema dall’agenda elettorale: le donne di questo paese, di sinistra e di destra, non consentiranno mai che quella legge venga abrogata, svuotata o usata, nella parte preventiva, come grimaldello di una pedagogia autoritaria della maternità obbligatoria


(profilo Facebook di Ida Dominijanni, 22 ottobre 2022)

di Michela Spera, Fiom nazionale


Questo testo è nato in occasione dell’incontro alla Libreria delle donne di Milano (22/10/2022) a partire dal libro del Gruppo lavoro della Libreria Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo. Moretti&Vitali 2022, con particolare riferimento al ciclo di incontri di presentazione del volume a delegate e delegati Fiom.

 
Ci prendiamo la libertà di appropriarci della parola lavoro e ne ripensiamo radicalmente il senso”. Con queste parole Dalla servitù alla libertà. Vita, lavoro e politica per il XXI secolomostra, dalla quarta di copertina, la pratica politica del Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano e l’incrocio, in un lungo arco di tempo, del pensiero politico femminista sul lavoro con quello di tante donne: tra queste, molte sindacaliste e molte della Fiom e della Cgil. Un bel libro, curato da Giordana Masotto, che rimette in ordine e a disposizione di tutte e tutti le questioni e il pensiero politico delle donne sul lavoro. Ne abbiamo discusso in Fiom e nelle Camere del Lavoro, in un confronto serrato e inedito tra la pratica politica delle donne e la pratica politica e sindacale di delegate e delegati, sindacaliste e sindacalisti, con donne e uomini che ricoprono ruoli di responsabilità nel mio sindacato.

Il primo di questi incontri si è svolto a Roma in luglio, nel corso dell’assemblea nazionale delle delegate che aveva per titolo “Un senso nuovo”. La discussione sul libro è stata con Michele De Palma,nuovo segretario generale della Fiom-Cgil. Lì è emerso con chiarezza che ci avventuriamo certo in relazioni e contesti non nuovi, ma sicuramente nuovi sono stati i contenuti, le parole e le pratiche al centro della discussione. Portare lì questo libro è stato un atto politico che ha riguardato tutte e tutti. Il libro, da cui traspare ‘il lavoro del pensiero sul lavoro’, è uno strumento prezioso per chi fa sindacato: apre nuovi confronti e rinsalda relazioni, diventa strumento di riflessione, di consultazione e di conoscenza. Ma soprattutto fa capire che non si tratta tanto di discutere singoli argomenti che riguardano le donne e il lavoro, quanto di focalizzare il “processo di come si diventa soggetti politici”. Processo che riguarda tutte e tutti, ma su cui le donne si stanno impegnando con inedita libertà.

Nei vari incontri è apparso chiaro che gli uomini sono colpiti da una radicalità dei contenuti per loro imprevista, contenuti che, d’altronde, sono gli stessi su cui si stanno interrogando: rappresentanza, democrazia, crisi della politica, crisi del “sindacato”, parola che, non dimentichiamolo, significa “insieme con giustizia”. La pratica di relazione tra donne che contrattano nei luoghi di lavoro ne ricava nuova autorevolezza, dà senso alla destabilizzazione e al portato emotivo provocati dal “partire da sé” delle delegate quando discutono di lavoro e di rapporto con l’organizzazione, valorizza la loro capacità di tenere tutto insieme e la forza di una visione generale e non particolare delle cose. Le donne metalmeccaniche provano a cambiare la realtà, fanno politica, discutono e rendono evidente il sapere e l’esperienza acquisita, i limiti che hanno forzato.

Ma fanno ben emergere anche i limiti con cui fanno fatica a fare i conti. Emerge con forza il tema del patriarcato, morto non perché non si manifesti più nel sindacato come altrove, ma perché ha perso il riconoscimento delle donne. È stato ribadito che il tema della misoginia va riconosciuto e combattuto come problema politico generale che non può trovare soluzioni se non si riconosce che misoginia e violenza sono strutturalmente un problema maschile. Abbiamo fatto luce sul tema della crisi della politica maschile, incapace di affrontare la complessità dell’oggi; l’urgenza, per gli uomini, di “misurarsi col pensiero politico delle donne”. E questo, ci pare, sta incominciando ad accadere.

Nell’incontro di Roma, De Palma ha sottolineato che, nel rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, tutti gli elementi d’innovazione sono il risultato di relazioni tra donne, da una parte e dall’altra parte del tavolo. Relazioni che hanno saputo costruire, nella fase negoziale, una intelaiatura di norme che altrimenti non sarebbero state neanche oggetto di attenzione nella discussione. Riconoscere i problemi e fare della “contrattazione nella contrattazione” un elemento “conflittuale” in ogni discussione, anche nella costruzione e composizione dei gruppi dirigenti, in un percorso che prescinde dalla moderazione e dal “perimetro assegnato” dalla politica delle quote. Una pratica politica che va oltre, radicata invece nella esperienza, nella presenza e nella forza delle relazioni delle donne.

Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, del  Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano,Moretti&Vitali, 2022. Oltre la crisi della politica. Che cosa sta emergendo dal ciclo di incontri di presentazione del libro a delegate e delegati Fiom: parliamo di vita/lavoro, di rappresentanza e di autorità, di conflitti e contrattazioni. Aprono la discussione Giordana Masotto e Michela Spera, Fiom Nazionale.

Per acquistare onlineDalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo: https://www.bookdealer.it/goto/9788871868578/607

di Vera Politkovskaja


Sono passati sedici anni dall’omicidio di mia madre, la giornalista Anna Politkovskaja. Mia madre è sempre stata vista come una persona scomoda non soltanto dalle autorità russe ma anche da quanti, tra le persone comuni, semplicemente aprono i giornali e leggono gli articoli. Perché la maggioranza della popolazione russa crede purtroppo a tutto quello che viene diffuso dagli schermi dei canali di Stato, un mondo virtuale creato dalla propaganda dove, tutto sommato, ogni cosa pare andare bene. Mentre i problemi che vengono segnalati periodicamente alla popolazione sono soltanto i problemi imputabili invece per gran parte ai Paesi occidentali o, come si usa dire in Russia con un sorrisetto, «all’Occidente in decomposizione».

Nei suoi articoli mia mamma non parlava mai di cose piacevoli; quasi sempre, il suo ruolo era quello di portatrice di cattive notizie. Diceva la verità, nuda e cruda, sui soldati, sui banditi, sulla gente comune finita nel tritacarne della guerra. Parlava di dolore, sangue, morte, corpi lacerati e destini infranti.

Ho cominciato a vivere con il pensiero che un giorno, prima o poi, mia madre avrebbe potuto non esserci più, molto tempo prima che venisse uccisa. «Vivere con il pensiero» non è però l’espressione più corretta. Meglio forse dire che, semplicemente, vivevo, come se la nostra famiglia fosse la più ordinaria del mondo, come se la vita che conducevamo fosse tra le più normali. E, in effetti, fino a un certo punto lo era, sebbene mia madre abbia sempre saputo che la sua sarebbe stata una fine violenta. Tuttavia, la guardava da una prospettiva puramente pratica, addirittura ci scherzava su e, comunque, ne parlava sempre con calma. Era una donna pragmatica, ed era spaventata dalla morte solo nella misura in cui l’avrebbe potuta cogliere all’improvviso, troppo presto, in un momento magari in cui noi, i suoi figli, non ci eravamo ancora «alzati in piedi», non ci eravamo ancora stabilizzati e sistemati nella vita. Con lei però non abbiamo mai parlato della sofferenza che può provocare la perdita dei propri cari, o del suo stesso possibile destino. Nessun discorso pomposo e lacrimoso, nessune mani torte, anche perché con lei sarebbe stato inutile: con lei, l’unica possibile linea d’azione era guardare a testa alta e dritto in faccia il proprio destino.

Eppure, nonostante tutto, non abbiamo potuto evitare l’effetto sorpresa, quando è successo: è stata uccisa nel momento in cui meno me l’aspettavo. Il fatto è che mia madre non si è mai nascosta da nessuno, non ha mai smesso di lavorare, di aiutare le persone; ha sempre considerato la sua morte possibile come il prezzo da pagare per la scelta di vita che aveva fatto e per il percorso professionale che stava percorrendo.

Il 7 ottobre 2006, il giorno in cui mia madre è stata uccisa, avevo ventisei anni e mi stavo preparando a diventare madre a mia volta. Fino a quel momento avevo voluto credere che la popolarità di Anna Politkovskaja in Occidente potesse in qualche modo proteggerla dagli eventuali rischi, da una morte violenta. Mi sbagliavo.

I dittatori hanno bisogno di sacrificare persone per consolidare il proprio potere. L’unico modo per proteggere la libertà è combattere la menzogna e dire la verità. In Russia la libertà manca. Ho deciso di scrivere questo libro per ricordare la lezione che mia madre ci ha lasciato: chiamare sempre tutti con il proprio nome, compresi i dittatori.


(traduzione di Marco Clementi)


Il memoir


Vera Politkovskaja, oggi 42enne; aveva 26 anni quando sua madre Anna, giornalista della «Novaja Gazeta», nota per il suo dissenso nei confronti di Vladimir Putin, venne uccisa sulle scale della sua casa di Mosca. Il libro Mia madre l’avrebbe chiamata guerra, di Vera Politkovskaja (in collaborazione con Sara Giudice), uscirà per Rizzoli a gennaio 2023. Racconterà la vita e le battaglie della giornalista assassinata alla Fiera di Francoforte.

La giornalista Anna Politkovskaja (1958-2006) su «Novaja Gazeta» e nei libri espresse critiche riguardo alla politica di Putin e alla guerra cecena. Fu assassinata nel 2006 a Mosca.


(Corriere della Sera, 20 ottobre 2022)

di Annie Marino


Questi pensieri hanno cominciato a svilupparsi durante la presentazione del libro di Alessandra Bocchetti L’anno dell’ambiguo materno, il 24 settembre scorso. Sarebbe però inesatto affermare che siano nati lì, perché già esistevano. Non ho mai avuto il desiderio di essere madre, tutto quello che veniva detto sull’esperienza della maternità mi sembrava lontano da me e, di più, percepivo quella distanza come una salvaguardia.

Nel corso di dell’incontro ha però avuto luogo un cambio di prospettiva: non ero esclusa, non lo sono. A un certo momento si è parlato infatti di come alcune donne, dopo aver messo al mondo la creatura, sentano per la prima volta di poter accedere a espedienti come la violenza, per proteggerla o farne il bene. Questa consapevolezza è per loro sgradevole e, immagino io, in parte non si riconoscono, in parte credono di trovarsi nella necessità e di esserne sopraffatte. Se questo non è esattamente ciò che è stato detto, mi è però d’aiuto nel dire ciò che intendo io: temo una trasformazione così imprevedibile di me stessa.

L’analisi di Daniela Santoro all’incontro di Via Dogana Tre del 2 ottobre, peraltro, ha messo bene in evidenza come anche le donne che nella maternità sperimentano una trasformazione positiva di sé o nuove modalità di relazione, possano essere esposte a dispendiosi investimenti di energia o a vere e proprie conseguenze negative: come a non dimenticare mai che il compito assegnato è garantire la riproduzione, non il piacere.

Partendo ora da me, tenendo conto adesso solo di me, non riesco a parlare di maternità come di “aumento” o “diminuzione”, parole che sono state usate durante la discussione che si è svolta il 24 settembre. Riesco a dire solo trasformazione, prima di tutto perché la maternità realizza la possibilità che a ogni donna è data a partire dal proprio sesso e che, quindi, di per sé esiste sempre nel suo corpo, nella sua vita, nel suo desiderio. Il rapporto a due con la creatura viene dopo e di questo non posso dire niente perché, è vero, ne sono esclusa.

Si può trasformarsi al di fuori della maternità, certo, ma quale altra trasformazione è più potente? Quale è più spaventosa? Non ci dovrebbe essere una ragione altrettanto potente per una donna che trova già il proprio piacere altrove, per decidere di accoglierla?È a me stessa, per iniziare, che ho posto questa domanda e mi sono risposta istintivamente che un grande amore sarebbe una buona ragione, dicendolo per la prima volta a voce alta in un confronto con Silvia Baratella, con lo stesso tono con cui avrei detto “un’avventura straordinaria”. Mi è parsa una risposta insufficiente. Quando Silvia mi ha invitata a riflettere su quello che intendevo, sono arrivata solo a ribadire quanto sia importante, vitale, il mio piacere[1]. Credo quindi che sia necessario continuare a parlare di maternità e a inventare nuove pratiche per la maternità come scelta politica; mi sembra però che anche gli uomini alla luce del superamento di narrazioni come quelle dei padri a cui quasi bastava lavorare duramente o, almeno, lavorare, per essere considerati dei “buoni padri”, abbiano adesso qualcosa da dirsi, da dire.

Vorrei tornare su un’altra parola che è stata utilizzata nel corso della discussione del 24 settembre. La parola è “godimento” ed è ciò che sento quando vengo invitata temporaneamente nel rapporto tra alcune amiche e le loro bambine, occupandomi di queste ultime per lasciare alle madri qualche ora per sé. Questo godimento è riconducibile, nel mio caso, non alla condivisione di alcune cose che sono appannaggio esclusivo o privilegiato delle creature piccole e al loro effetto disintossicante, ma al tempo e allo spazio che si crea per le madri: alla libertà femminile possibile, ancora, fuori dall’isolamento, nella relazione; mentre, pur nell’improvvisazione, io mi accorgo di cavarmela piuttosto bene con le piccole, anzi, sono brava. Allora: cosa si può fare perché tutta questa libertà e questo sapere femminile non siano sprecati? Ci deve essere qualcosa di più, se si vuole, che si può fare.  


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 20 ottobre 2022)


[1] Dopo giorni, durante la riunione di Via Dogana Tre del 2 ottobre, ho definito un grande amore come: «il realizzarsi delle condizioni essenziali per la cura e l’accudimento senza che il proprio piacere venga meno».

di Farian Sabahi


Nella Repubblica islamica dell’Iran alle donne è vietato cantare in pubblico. Paradossalmente, in certe circostanze sono invece obbligate a cantare e, se rifiutano, rischiano di essere uccise.

È successo alla liceale Asra Panahi, 16 anni, assassinata dalle forze di sicurezza: l’hanno picchiata a sangue perché, con altre compagne di classe, si era rifiutata di cantare un inno dedicato alla Guida suprema, l’ayatollah Khamenei.

Lo denuncia su Telegram il Consiglio di Coordinamento del sindacato iraniano degli insegnanti, secondo cui varie ragazze sono state trasferite in ospedale dopo il pestaggio in una scuola nella città azerbaigiana di Ardebil (nord ovest), teatro di proteste di larga portata.

Ed è proprio qui, nelle province dell’Azerbaigian, che i vertici di Teheran temono il fermento, dopo i disordini nelle province iraniane del Kurdistan (ovest) e Sistan e Balucistan (sud est).

Avvocato e vicepresidente della Commissione per i diritti umani dell’Ordine degli avvocati nella provincia dell’Azerbaigian orientale, giovedì scorso Sina Yousefi aveva dichiarato che le persone arrestate nel capoluogo Tabriz sono oltre 1.700 e nulla si sa del loro destino.

Tra questi, lo studente Aysan Adibek e sua sorella Siddika Adibek: spariti la settimana scorsa, non hanno contattato la famiglia e non hanno un avvocato. Yousefi aveva quindi dato avvio a un comitato di difesa per i manifestanti arrestati, ma venerdì è stato fermato dalle forze di sicurezza e non si sa dove sia finito.

Se ieri pomeriggio a Teheran su viale Enqelab, il viale della Rivoluzione, c’erano cortei pacifici di studenti che camminavano in gruppo, passando davanti alle forze di sicurezza, a preoccupare è Elnaz Rekabi.

Domenica pomeriggio la scalatrice iraniana ha gareggiato in una competizione di arrampicata a Seul senza velo. Per questo motivo – scrive IranWire, sito di giornalisti dissidenti iraniani – sarà trasferita direttamente da Seul nella famigerata prigione di Evin a Teheran.

La giovane sarebbe stata ingannata dal capo della Federazione di arrampicata iraniana: obbedendo agli ordini dei pasdaran, l’avrebbe condotta dall’albergo di Seul all’ambasciata iraniana.

Ieri pomeriggio l’atleta ha scritto un post su Instagram per dire che il copricapo le è caduto «inavvertitamente»: «Mi scuso per avervi fatto preoccupare, sto tornando a Teheran insieme alla squadra». Se Elnaz Rekabi torna in Iran, senza chiedere asilo politico, è perché suo marito è lì.

Il suo caso è stato sollevato dalle Nazioni unite con le autorità iraniane: «Seguiremo la vicenda da molto vicino – ha dichiarato Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani con sede a Ginevra – Le donne non dovrebbero mai essere perseguite per ciò che indossano e non dovrebbero mai essere sottoposte a violazioni come la detenzione arbitraria o altre violenze per come sono vestite».

In Iran, le donne praticano sport fin dai tempi dello scià quando, in pantaloncini corti o minigonna, servivano a dare l’immagine di un paese moderno: erano un tassello nella propaganda di regime.

Nella Repubblica islamica, praticare sport rispettando le regole non è facile: il velo è sempre obbligatorio, così come un abbigliamento che copra il corpo e ne nasconda le forme.

Per le iraniane, lo sport è stato e resta uno strumento di emancipazione, ma non tutte le storie sono a lieto fine: campionessa nei 20 km rana femminile in acque aperte, quando Elham Asghari decise di fare il giro dell’isola di Kish, nel Golfo persico – dandosi tre giorni di tempo – venne investita da una barca della polizia. Un trauma fisico e psicologico. A convincerla a non mollare era stato il padre, ex lottatore olimpico.

La speranza è che – in questa battaglia per maggiori diritti – gli uomini siano accanto alle donne.


(il manifesto, 19 ottobre 2022)

di Marina Santini


María-Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, Edizione indipendente, Madrid Verona 2021, 207 pagine, 17,00 euro- e-book 8,00.


Il piacere femminile è clitorideo è un’affermazione semplice e netta ed è il titolo del nuovo libro di María-Milagros Rivera Garretas. C’è il richiamo al testo di Carla Lonzi del 1971 La donna clitoridea e la donna vaginale, ma qui l’autrice ci fa fare un passo avanti: noi donne non siamo più divise in due categorie perché tutte nasciamo clitoridee. Indipendentemente dalle scelte sessuali, il piacere per le donne è clitorideo e si irradia nel sentire a tutto il corpo, non rimane circoscritto all’organo sessuale. È dunque un modo di stare nel mondo, di avvicinarsi alle cose e di conoscere.

Rivera Garretas, con una scrittura che fluisce con la forza gioiosa della sua verità soggettiva, ci accompagna in un percorso alla riscoperta dell’origine del piacere femminile, che molte hanno sperimentato ma poi perduto, perché tante volte sostituito dall’idea del co-ire, proposta-imposta dalla sessualità maschile. Nel primo capitolo Confondere l’orgasmo scopriamo come questa confusione abbia richiesto prima l’invenzione nel 1641 della vagina ad opera di un anatomista dell’università di Padova e poi nel XX secolo dell’orgasmo vaginale, creando in molte donne una dissociazione. Credendo che l’orgasmo femminile dipenda dal coito, dal cercare un godimento contemporaneo a quello dell’uomo, noi donne perdiamo il piacere femminile libero: piacere del sentire, delle viscere e dell’anima, come segnala il titolo del primo paragrafo.

In una recente presentazione del libro alla Libreria delle donne di Milano, l’autrice ha sottolineato che «non c’è piacere clitorideo se non lo vivi nell’anima carnale, piacere cognitivo, perché noi donne pensiamo e amiamo senza divisioni, senza separazioni». Ma cosa può impedire di cogliere questo flusso? Riflettendo sulla sua esperienza e su quella di tante altre, Rivera Garretas scopre la violenza ermeneutica, la violenza interpretativa della realtà che, a partire dalla scuola mista, che lei non ha frequentato, educa a imparare e rispettare la conoscenza maschile. E continua: «Io l’ho dovuta rispettare da adulta, quando ormai ero all’università. E ho sentito profondamente che tutta quella conoscenza non aveva niente a che fare con me che pure ero una bravissima studentessa. Ho scritto la tesi di dottorato ripetendo coscienziosamente il pensiero del pensiero. Una donna educata nel rispetto del pensiero del pensiero può essere fedele a quell’educazione o meno. Io non sono stata fedele».

Nel libro scopriamo come agisce la violenza ermeneutica cercando di cancellare il pensiero dell’esperienza, valorizzando solo il riferimento a ciò che altri hanno precedentemente scritto. La lealtà politica (nel senso della polis) al pensiero del pensiero distrugge il piacere del conoscere e del creare come donna. Infatti dal pensiero del pensiero la madre è assente, eppure l’università, dichiarandosi Alma mater studiorum, ne usurpa il nome. Ricorrendo all’etimologia delle parole l’autrice smaschera l’usurpazione patriarcale della cultura femminile, come è il caso delle erme che fin dall’antichità erano i sassi lasciati dalle viaggiatrici in onore della dea Era, signora e protettrice delle vie, per ringraziare del percorso fin lì compiuto, diventati poi segno per indicare la strada migliore da seguire. Il mucchietto di pietre che si andava formando al passaggio delle viandanti «è segno divino sul terreno e orienta una donna nella sua strada».

In un ricco excursus storico, Rivera Garretas, docente emerita di storia medievale dell’Università di Barcellona e tra le fondatrici di Duoda, il quarantennale Centro di ricerca delle donne e del relativo master, mostra come la violenza ermeneutica si sia imposta nel tempo e come le donne abbiano risposto, ad esempio con la Querella de las mujeres, tenendo viva la genealogia femminile, la cultura della nascita, della casa materna, della politica prima, cioè del piacere di essere donna, della consapevolezza che Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, come rivela il titolo del libro di Luisa Muraro. Ripercorrendo il modo con cui ha costruito la biografia di Suor Juana Inéz de la Cruz, Rivera Garretas delinea in pagine puntuali alcune caratteristiche del pensiero del pensiero e suggerisce un metodo che prende sul serio ciò che un’autrice dice e non quello che gli altri dicono che lei dicesse. Sottolinea come ha interpretato l’opera della religiosa e letterata seicentesca messicana secondo il sentire, i sensi, il godimento e la felicità che le suscitava. Un metodo ben diverso da quello cartesiano, che limita il conoscibile al razionale. Lei fa e propone pensiero dell’esperienza, pensiero ispirato, pensiero di pensum, come ha detto la teologa Antonietta Potente nella presentazione promossa da Studi Femministi. Pensum come la quantità di lana che riceveva ogni giorno nella Roma antica una donna per filare. Infatti si fila con le mani, le mani e il piacere clitorideo hanno molto in comune, come mostrano tanti affreschi e tavole medievali della Visitazione della Vergine a Elisabetta, presentati anche in questo libro, ricco di riferimenti alla storia, all’arte, alla letteratura, alla mitologia, alla filosofia, alla medicina, campi del sapere attraversati con profonda erudizione ma senza pesantezza.

Con descrizioni accurate e precise, l’autrice ritrova e ci fa riconoscere nelle opere pittoriche e architettoniche tracce evidenti della presenza di simboli femminili: la conchiglia, la spirale, la rosa, la perla. Rilegge narrazioni e riti legati al culto di Maria come il rosario, l’Annunciazione e l’Assunzione, riportandoli alla loro origine di misteri clitoridei; indica come Sant’Anna rifondi la genealogia femminile matrilineare delle Tre Madri, già presenti nella tradizione religiosa mediterranea prepatriarcale: Nonna – Madre – Figlia, una catena aperta all’infinito che il Cristianesimo spezza con la sostituzione del padre e del figlio, che non divenne padre,  “lasciando così l’umanità orfana in termini religiosi di madre e padre” .

Spinte da una scrittura mossa e a spirale, incontriamo un inanellarsi di scoperte simboliche che danno parola a esperienze finora senza nome. Non a caso Antonietta Potente parla di questo libro come di una Nuova Annunciazione. Un libro con il senso della profezia, infatti l’autrice riesce a vedere, e farci vedere, quello che nel presente in nuce già c’è e, nel dirlo, lo fa accadere: un nuovo inizio, l’era della perla.

Bibliografia

– Studi Femministi, El placer femenino es clitórico, 7 febbraio 2021

http://www.studifemministi.it/presentazione-libro-rivera-garretas/

– Libreria delle donne di Milano, Il piacere femminile è clitorideo, 26 febbraio 2022 – Video YouTube

– Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, 480 pagine, 20,00 euro.

– Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011, 128 pagine, 13,00 euro.

– María-Milagros Rivera Garretas, Sor Juana Inés de la Cruz. Mujeres que no son de este mundo, Sabina editorial, Madrid 2019, 236 pagine, 18.00 euro.


(Leggere donna n. 196 luglio/agosto/settembre)

di Lia Cigarini


Mi sembra di avere deciso molto presto, intorno ai tredici-quattordici anni, che non avrei mai voluto diventare madre. Da una parte, per quello che riguarda il corpo avevo le stesse sensazioni di Traudel, cioè una difficoltà proprio di accettare il corpo che si ingrossa, l’allattamento e, a un certo punto della gravidanza, di non poter cambiare idea. Dall’altra perché le mie eroine del passato, che più o meno avevano lottato per le donne, non avevano figli quasi tutte.

Poi mi sono messa, nel rapporto coi miei nipoti (quattro maschi), nella posizione della zia, che è ottima perché hai la crema dell’infanzia: li porti al cinema, parli con loro, eccetera e quel rapporto è stato splendido.

Sono invece molto convinta della relazione materna come simbolica. Mi ricordo che nel gruppo giuriste del Palazzo di Giustizia a un certo punto, mi sembra la giudice Laura Curcio, ha detto: «Allora per concludere i nostri discorsi si può dire che le nostre esperienze vanno a finire nella madre come fonte del diritto».  

Luisa Muraro dice sempre che quella definizione l’ha spinta a  scrivere L’ordine simbolico della madre.

Franca Chiaromonte e io abbiamo sottolineato nel numero 8 di Via Dogana cartaceo intitolato Il comunismo di cui non possiamo fare a meno, il fatto che Marx aveva detto che nel comunismo la società avrebbe dato a ciascuno secondo il suo bisogno, tuttavia i comunisti non hanno mai parlato dell’unica relazione esistente dall’inizio dell’umanità, cioè non hanno mai detto che è solo la madre che dà al bambino secondo il suo bisogno.

È impressionante questa cosa perché l’avevano sotto gli occhi tutti i giorni.

Io credo che questa cancellazione sia stata una tra altre delle ragioni della sconfitta del grande movimento marxista e operaio.

Penso sia necessario per ciascuna di noi (madri e non madri) chiedersi se questa relazione ha lasciato una traccia in noi tale da rilanciare in un contesto buio e depressivo una pratica politica capace di trasformare i rapporti di forza in rapporti liberi.


(#VD3 www.libreriadelledonne.it, 19 ottobre 2022)

di Letizia Paolozzi


Nel femminismo che mi ha cresciuta, la maternità occupava un posto poco evidente. O meglio: quando veniva implicata, era per disconnettere sessualità da maternità. In effetti, le più vecchie tra noi ricorderanno il “più devianza, meno gravidanza” delle manifestazioni.

Certo, l’essere madre poneva interrogativi ma relegati in un angolo a fronte del problema e dell’angoscia di trovare una via d’uscita nel caso, anzi, nei differenti casi in cui io, altre, non volessimo diventare madri.

In quel tempo infatti il “no” doveva pagare lo scotto di condizioni-capestro tra sofferenze, imbarazzi e silenzi intorno al modo in cui si abortiva. Non ne sono sicura ma probabilmente, anche per questo motivo la parola pubblica sulla maternità si trovò risucchiata dai discorsi intorno alle politiche di controllo e alla legge che doveva autorizzare l’aborto.

Nel frattempo, si presentavano sulla scena donne con aspirazioni diverse da quella di mettere al mondo una creatura: il femminismo non voleva più saperne della santificazione della maternità o del modello “una donna che non è madre non è una donna”.

Il lavoro politico si concentrò sull’autonomia femminile a disporre del proprio corpo e scegliere per sé. Tuttavia, simili convinzioni, se appartengono a molte di noi, non hanno mai prodotto l’unanimità.

Se negli Stati Uniti, i militanti antiabortisti iniziano a difendere già nel 1980 (la sentenza Rose vs Wade è del 1973) le loro idee con il porta-a-porta e i gruppi di pressione, adesso, la nomina di un terzo dei 9 giudici della Corte Suprema da parte di Trump ha autorizzato la Corte a realizzare il progetto di soppressione del diritto all’aborto: ogni Stato ha ormai la possibilità di rendere l’interruzione volontaria della gravidanza illegale, a seconda della propria legislazione.

In Europa, le destre conservatrici al governo in Polonia, in Ungheria, ora in Italia, si pongono minacciosamente contro  l’autonomia femminile supponendo di poter imporre nuovamente la maternità come destino biologico. Intanto,   arretrano i ragionamenti sull’irresponsabilità maschile.

La legge 194 fu un compromesso tra culture distanti; con il tempo le sue crepe si sono allargate (dai tanti medici obiettori di coscienza alla difficoltà a reperire la pillola RU-486).

 Distanti le culture e tante, diverse le motivazioni. Non si possono racchiudere in quelle tirate in ballo da Giorgia Meloni che ha parlato di “donne costrette ad abortire, per esempio perché non hanno soldi per crescere quel bambino, o perché si sentono sole”.

Il corpo femminile è un campo di battaglia nel quale confliggono volontà di controllo e domanda di autonomia, un groppo di desideri e paure, di slanci e pentimenti.

In questa altalena, interrompere la relazione appena iniziata significa forse un debole desiderio di maternità (lo racconta in “Ninjababy” la regista norvegese Flikke) che invece per la società, ogni donna dovrebbe coltivare.

Allora, più che iscriversi nell’orizzonte simbolico della libertà femminile, l’aborto mi sembra evocare un’affermazione della soggettività e contemporaneamente un rimedio, via d’uscita, compromesso di colei che non nutre il progetto di generare un’altra vita.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 19 ottobre 2022)

di Monica Benedetti


Quando per la prima volta ho sentito Giorgia Meloni proclamare con orgoglio l’elenco delle sue identità (italiana, cristiana…) tra le quali “sono una madre” ho provato un sobbalzo non certo di felicità.

Mi risultava infatti impossibile conciliare il suo “sono una madre” con la posizione politica del partito che dirige e, direi, incarna con successo, in merito a troppe questioni: l’immigrazione, il silenzio sullo scempio  ambientale, il rifiuto di riconoscere simbolicamente scelte affettive e sessuali diverse da quelle prescritte dal patriarcato, la finta lotta alla povertà culturale ed economica di fette sempre più ampie del Paese…

Come è possibile proclamarsi “madre” e tollerare i barconi che affondano nel Mediterraneo?

Come è possibile strizzare l’occhio ai ricchi e non combattere realmente contro l’oppressione e lo sfruttamento dei poveri? Come pretendere l’invisibilità o l’insignificanza sociale dei/delle omosessuali e  trans ma contemporaneamente desiderare (credo) che tua figlia sia libera un giorno di amare chi amerà?

Dovrei sentire Giorgia Meloni mia simile perché, tecnicamente, siamo due madri?

Perché trovo repellente questa sua dichiarazione “sono una madre”, dichiarazione che potrei del resto sottoscrivere anch’io?

Anch’io sono una madre, infatti, ma soprattutto sono una figlia della prima generazione di donne che hanno fatto il femminismo, quindi di quelle donne che abbiamo imparato a chiamare “madri simboliche”. Tra i doni che hanno trasmesso a donne come me, c’è anche la libertà o meno di desiderare dei/lle figli/e. Per quanto mi riguarda, da che ho memoria di me, non li ho mai desiderati, per cui ho passato gli anni della mia prima e seconda giovinezza impegnata in sistematiche e forse anche nevrotiche pratiche contraccettive. Nel frattempo, dai miei vent’anni in poi, ho conosciuto molte coetanee che via via diventavano madri, nelle circostanze più disparate, con o senza partner, addirittura in coppia con altre donne. Ho visto la loro gioia, le fatiche, le ansie, gli entusiasmi, l’appagamento, la solitudine. Pur non negando fatica e preoccupazioni, dai loro racconti, talvolta molto diversi tra loro, mi era chiaro che stavano vivendo tutte un’esperienza fondativa e travolgente, dalla quale si esce irrimediabilmente e totalmente trasformate. Ho sempre sentito un profondo rispetto per le loro storie e le loro vite, unito a un senso di estraneità profonda: ascoltavo, sicuramente memorizzavo, ma non capivo e non mi emozionavo veramente.

Con il senno di poi, credo che più che con le creature questo mio rifiuto di far figli avesse a che fare con il mio rapporto con il maschile. Un figlio lo vedevo, nelle mie fantasie (non troppo irreali), come un legame indissolubile con un uomo, che attraverso di me sarebbe “passato” in un figlio del quale non mi sarei mai più potuta liberare e quindi, attraverso il figlio, io sarei stata per sempre vincolata al padre di lui/lei. Non ho mai pensato a una genitorialità esclusiva, non avrei mai potuto o saputo avere un figlio da sola. E comunque non lo desideravo affatto, pur facendo in quegli anni la maestra elementare, e pur vivendo con profondo coinvolgimento e piacere il rapporto con i bambini e le bambine delle mie classi.

Mia figlia è quindi nata quando ho trovato per lei un padre al quale non ho avuto paura di legarmi e che all’epoca amavo moltissimo. Ho provato a restare incinta a trentasette-trentott’anni, ed è andato tutto liscio. Sono sicura che se non fosse stato così non mi sarei certo disperata, avrei accettato la sterilità come un evento del destino, invece malgrado l’età ho avuto una gravidanza splendida, durante la quale sono sempre stata bene, in totale armonia con la mia pancia che cresceva, con la bambina che lanciava segnali di presenza sempre più distinti ed emozionanti.

Nei primi mesi dalla nascita di mia figlia, però, mi sono resa conto di aver sottovalutato il carico che l’accudimento di un neonato, e in generale di un bambino piccolo, richiede ad una donna, soprattutto se questa donna non ha al fianco altre donne e se lavora a tempo pieno. Io dovevo, ma soprattutto volevo, continuare a lavorare. Il padre si è rivelato poco utile, non avevo attorno a me legami femminili con cui condividere fatiche e dubbi. Eppure mi sono presa cura di Laura con sollecitudine ed empatia, anche se ogni gioia era annacquata dallo sfinimento, dalla mancanza di condivisione, dalla noia della routine.

Per tre anni sono uscita di casa solo per andare al lavoro, ho fatto fronte ad ogni necessità, in uno stato larvale, tuttavia vigile e reattivo, eppure, non so come, il rapporto con mia figlia si è comunque fatto solido ed intenso. Ma per tre anni ho goduto poco e male dell’averla messa al mondo. Questo scarto temporale ed esistenziale che si è creato però tra la sua nascita e il pieno godimento della sua esistenza è stato fondamentale per molti aspetti, soprattutto perché mi ha resa consapevole che, almeno per me, essere madre e generare sono due esperienze totalmente diverse. Generare, per me che ero riuscita a farlo pur in età avanzata, appariva come un’esperienza “naturale”, intesa però come banale. Avevo un utero, e aveva funzionato; avevo un uomo, e aveva funzionato pure lui: che merito c’è in questo? Il mio corpo e quello del padre di Laura erano riusciti a lavorare bene insieme, come natura comanda. Dove stava il mio contributo specifico? Cosa mi rendeva diversa dai mammiferi della specie umana?

Per me, quindi, generare non significava essere madre, ci voleva qualcos’altro. Infatti, quando ancora non avevo una figlia, non ho mai sentito di non poter essere in qualche modo madre dei miei alunni ed alunne, o madre delle mie idee, o madre delle mie amiche quando mi prendevo cura di loro. Avevo bisogno di altro, per sentirmi madre di una figlia specifica, e ho passato gli anni successivi alla ricerca di questo “altro”.

Oltre alla relazione quotidiana con mia figlia, altre esperienze mi hanno guidata.

Ad esempio il senso di estraneità che ho sempre sentito nei circoli delle “mamme” del nido, della scuola materna, del parco giochi. Le altre mi sembravano immerse nell’identità della “Madre” (vai a sapere poi se fossero sincere…) e non sembravano avere dubbi sulla perfezione della scelta di generare, sul fatto che “quelle che non hanno figli non possono capire”, che ora iniziava la vita vera. Nessuna diceva, per esempio, a quali istinti omicidi possa portarti l’assenza prolungata di sonno. Ogni tanto la buttavo lì, accolta da un silenzio di gelo. Eppure avevo bisogno di parlarne perché, pur desiderando silenziare mia figlia di notte in ogni modo possibile, poi non lo facevo, anzi, accorrevo ogni volta verso il suo lettino con un’energia amorevole e indomita che riemergeva ogni volta dentro di me, non so come, anche quando avrei giurato che sarei stramazzata al pavimento per la stanchezza e la disperazione.

Un’altra esperienza è stata quella del sentire assolutamente necessaria per me la relazione con le amiche “di prima”, quasi tutte senza figli o con figli ormai adulti, dei quali non avevano quasi più interesse a parlare. Con loro discutevo d’altro, parlavano loro cioè, il che mi ricordava che c’era ancora un mondo là fuori, di cui desideravo notizie anche se mai avrei creduto che un giorno potesse tornare ad essere anche il mio. Quando mi chiedevano di mia figlia tagliavo corto: mi era necessario mantenere il ricordo della mia vita precedente attraverso di loro, inoltre ero convinta che si sarebbero stufate sentendo i soliti scontati racconti “da mamma”. Ogni tanto qualcuna mi consigliava di trovare una baby-sitter e di affidare la bambina a lei, per prendermi un po’ di “spazio” tutto per me. Quando Laura si ammalava, e solo per le ore in cui andavo al lavoro, l’ho poi dovuto fare, ma per il resto, con lei volevo stare io. Non so perché, ma avevo la sensazione che non avrebbe avuto senso aver fatto una figlia e non tenermela vicina, anche se questo comportava delle rinunce. Le donne della generazione di mia madre chiamavano questo tipo di scelta “sacrifici”. Io la sentivo come una scelta gravosa, non come un sacrificio. La figlia era mia e il lavoro di cura toccava a me: essere e diventare madre era una porta stretta che mi ero scelta. Infatti ho cominciato a lasciare Laura ad altri/e quando paradossalmente non ne avrei più avuto il bisogno, quando cioè apprezzavo un po’ di respiro libero per le mie passioni ma non vedevo l’ora di tornare, rigenerata, da lei. Ho potuto lasciarla quando il legame con lei è stato abbastanza solido da pensare che entrambe eravamo ormai fuori dal pericolo di perderci.

Un’altra esperienza è stata la lettura dei romanzi di Elena Ferrante, cui sono molto grata. È riuscita a raccontare in modo non edificante, e tuttavia grandioso, l’esperienza che sentivo di star vivendo: l’esperienza sproporzionata dell’essere madre, il soffocamento dell’esserlo, esperienza in me compresente e senza sintesi dialettica possibile.

Ma Carla Lonzi, invitandoci a sputare su Hegel, ci ha ben avvertite che non è con la dialettica che si risolvono le contraddizioni, anzi, più esse restano aperte più ci possono offrire l’occasione di inventare qualche soluzione nuova.

Ebbene, la mia invenzione esistenziale è stata questa. Il senso e la potenza della mia maternità sono nate da questo scarto che si è creato dall’inizio della nascita di Laura all’inizio dell’amore per lei e per me stessa madre di lei. Credo insomma di essere “diventata madre” lentamente, man mano che la fatica si attenuava, l’attaccamento si approfondiva, il piacere fisico del contatto reciproco produceva non sforzo ma godimento, man mano che ho avuto di nuovo la possibilità e la capacità di simbolizzare quanto mi stava accadendo, che lo ripeto, anche nei momenti più felici a me appariva banale, in qualche modo insufficiente. Ho insomma imparato a ri-concepire me stessa e il mondo con uno sguardo che inglobasse mia figlia e me come un filtro attraverso il quale significare da capo ogni esperienza. Per me il femminismo infatti è stato soprattutto questo: la lezione del “saper approfittare”. Qualsiasi sia la condizione in cui ti trovi, la libertà femminile consiste in questa competenza simbolica del trasformare la necessità (il già dato, il già prescritto) in un’apertura all’invenzione, alla trasformazione, alla trascendenza.

Sarei stata madre, mi sarei sentita veramente madre, nella misura in cui avrei saputo trarre profitto da questa dimensione esistenziale, che ho cercato ma non meritato, per inscrivere nel mondo quello che per me era il senso di tutto questo, il mio senso originale, in fedeltà a me stessa e alle mie madri e al mio desiderio di un certo tipo di futuro, per me, per mia figlia, per il mondo. Senza questo “approfittare” non so, per me non c’è differenza qualitativa tra crescere una figlia, allevare un gatto, scrivere un libro, fare carriera. Qual è la differenza? Se il mio aver generato non cambia radicalmente il mio sguardo sul mondo, cosa lo rende eccezionale, indispensabile, irrepetibile, dal momento che il mio corpo era strutturato dall’inizio per far questo, se solo lo avessi voluto?

Quindi ho spostato anche nella relazione con mia figlia le pratiche politiche apprese dalla politica delle donne. Ho reso cioè la relazione con lei vincolante non solo in senso umano, ma anche simbolico. Ho cercato di vivere, di parlare, di lottare, di amare sentendomi addosso il suo sguardo, e, esattamente come fanno le mamme gatte con i loro gattini, ho mostrato con le azioni quanto sono riuscita ad imparare circa lo stare al mondo con signoria, affinché, osservandomi, Laura potesse imparare a sua volta, per poi poter scegliere chi essere, come essere. Agire in modo libero, fedele a me stessa, felice, efficace, è stato il mio essere madre. Non dare per assolute le misure del mondo, non sprecare tempo nelle recriminazioni, stare sempre e comunque dalla parte dei più deboli, ridere molto, non accettare supinamente, inventarsi soluzioni, schierarsi contro le ingiustizie, dire la verità… Ho sottoposto la mia vita a un vaglio sottile per mostrarle come sia questo lo stile con cui io voglio poter essere sua madre.

La maternità vissuta in questo modo mi ha potenziata, non resa diversa. Per un simile potenziamento non occorre necessariamente generare. Diciamo che a me è accaduto per questa strada, ma ho percorso anche altre strade: l’insegnamento, la relazione politica con altre donne, lo studio della letteratura femminile, il volontariato sociale, l’assunzione di responsabilità rispetto a questioni pubbliche, l’amicizia profonda… Quando penso che nel mio percorso non mi sono sentita simile ad altre madri, mentre ho avuto accanto donne senza figli/e e anche uomini con la stessa radicalità gioiosa, amorevole e intelligente, mi sono convinta che ha ragione Alessandra Bocchetti quando afferma che maternità e materno sono due dimensioni molto diverse.   

Condividevo il materno prima di Laura, perché ho approfittato del simbolico materno per un’esistenza libera, che prevede uno sguardo “altro” rispetto al simbolico patriarcale, sguardo sulle donne e sugli uomini, sul mondo in cui viviamo, sulle scelte che compiamo, sugli animali, sui bambini/e, sulle azioni buone, sul pane quotidiano, sulla giustizia…

L’esperienza del diventare e dell’essere madri è certo materiale prezioso di consapevolezza di sé, di forza e di riflessione, ma non è per me, in nessun modo, un criterio che mi impedisca di sentirmi alleata, amica e compresa da chiunque non abbia potuto o voluto fare questa esperienza.

Per questo il proclama “sono una madre” di Giorgia Meloni non mi fa, nella migliore delle ipotesi, né caldo né freddo. Fuori dal patriarcato, fuori dal già dato, fuori dalle codificazioni e dalla cultura corrente, nel vincolo di relazioni autentiche, qualsiasi esperienza umana può diventare creativa, libera, sovversiva, gioiosa, generosa, fertile. Viceversa, c’è anche un modo per rendere perfino la maternità poco significativa o addirittura insignificante: assumerla come un’identità prescritta che colloca le donne nel loro “giusto” posto, peccato che sia un posto deciso da altri e per altro, che non è certo la nostra felicità.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 18 ottobre 2022)

di Traudel Sattler


Ho sempre avuto un rapporto difficile con la gravidanza e la maternità: di fronte a una donna incinta, al pancione crescente, anche di un’amica, sentivo una incomunicabilità, un forte disagio; e di fronte al latte materno che sgorga dal capezzolo sentivo addirittura ribrezzo. Mi sembrava pura corporeità senza parola, e mi veniva come un istinto di fuga. Effettivamente, quando da giovane vivevo in Germania, sono scappata da una situazione in cui alcune amiche femministe cominciavano a fare figli. Contemporaneamente, il mio atteggiamento trovava legittimazione in una parte anche abbastanza forte del femminismo degli anni ’70: c’era infatti una tendenza a voltare le spalle alle donne che sceglievano la maternità, noi ci sentivamo “più femministe”, più radicali.

A parte questa posizione un po’ ideologica, non mi sono mai trovata davanti al bivio diventare madre, sì o no. Il desiderio di maternità non mi si è mai presentato. Una vita con figli/e, e men che meno con un marito, per me era semplicemente inconcepibile, e avevo anche la fortuna di avere una madre che non me la chiedesse. Neppure sentivo la pressione sociale a fare figli che molte giovani donne oggi denunciano.

Poi ho avuto la fortuna di venire in Italia e di trovare il femminismo della differenza, in un luogo dove si generava libertà femminile, come recita il titolo Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne. Qui ho conosciuto la figura della madre in un senso che ha trovato subito una forte e profonda risonanza in me: colei che è venuta prima di me ed è più grande di me, la madre simbolica. Figura di scambio, figura che valorizzava e autorizzava ciò che avevo desiderato e che avevo già vissuto e praticato ma con incertezza: la preferenza per le mie simili, la ricerca di “antenate” nella storia e nella letteratura. Ho trovato una misura femminile che mi permetteva di poter dire felicemente: “sono una donna”, “scelgo consapevolmente la mia appartenenza al sesso femminile”, sapendo che non è una questione di scelta.

Riferendomi a una società femminile dove la madre è fonte di saperi e di linguaggio (madre simbolica, generare, mettere al mondo, lingua madre…), potevo mettere tra parentesi l’esperienza concreta della maternità che non era materia di scambio, e alla mia iniziale avversione nei confronti di quest’ultima è subentrata l’indifferenza. Per anni ho semplicemente ignorato ciò che le madri, soprattutto le neomamme, dicevano, scrivevano, chiedevano. Ho snobbato per esempio il Müttermanifest, il manifesto delle madri, pubblicato in Germania nel 1987, forse il primo documento che dava voce alle donne che facevano leva sulla potenza e la voglia di procreare per chiedere una trasformazione profonda delle strutture sociali. Mentre vedevo sempre più chiaramente come la nostra storia e cultura, i saperi costituiti si basano sulla forclusione della figura della madre dal simbolico, persisteva, nella mia economia personale, la forclusione delle madri in carne ed ossa. Penso che in parte sia dovuto anche al fatto che il discorso pubblico si focalizzava su asili nido, condivisione dei lavori domestici e educativi con i padri, problemi di conciliazione tra famiglia e lavoro… cosa c’entravo io?

Ho intravisto invece che l’esperienza di essere madre, può essere letta come un vero e proprio gesto di libertà femminile, per certi aspetti sovversivo rispetto all’organizzazione dei commerci sociali e del lavoro, quando il gruppo lavoro della libreria delle donne ha pubblicato, nel 2008, Lavoro e maternità – Il doppio sì. Esperienze e innovazioni. Senza però essermi confrontata in prima persona con le madri che con i loro racconti erano state la materia viva di questa ricerca, ho capito che lo sforzo di risignificare l’esperienza (p.es. l’espressione “il doppio sì” al posto di “problema della conciliazione”) era un guadagno politico per tutte, anche per me. Un superamento della divisione tra madri e non madri.

E ora mi sono trovata, in modo sempre più ravvicinato, a confrontarmi con la tematica gravidanza e maternità: la relazione di scambio con le giovani amiche delle Compromesse, in particolare Daniela Santoro, e la loro urgenza di pensare politicamente la questione che si pone loro per età anagrafica, ha sollecitato in me la voglia di sapere, attraverso le loro parole, qualcosa del presente che potrebbe sfuggirmi. Poi, sempre nella redazione di Via Dogana, l’impatto forte e diretto con Marta Equi, madre di un bambino piccolo e di nuovo incinta, relazione alla quale non potevo e non volevo più sottrarmi. Non sono scappata come avevo fatto tanti anni fa. Ho sentito il suo forte desiderio di mettere in parola quell’esperienza per me così lontana, e finalmente mi sono messa in una posizione di ascolto e di apertura. L’ho seguita nel suo “viaggio inaspettato” che racconta con parole che sento profondamente vere, frutto di un’autentica fatica. Nel suo “lavoro di racconto dell’esperienza” si è fatta accompagnare da Carla Lonzi – che mediazione felice! Questa pensatrice per me “insospettabile” per quanto riguarda il tema della maternità, ha messo me nella giusta predisposizione e ha aiutato Marta a strutturare la propria esperienza. Il disacculturarsi di Lonzi, un passaggio che Marta ha sentito come vero per sé, ha colpito anche me; con le sue parole Marta ha sviluppato e arricchito questa espressione mostrando il potenziale radicale della maternità per la vita di una donna. Ascoltandola, mi è venuta in mente qualche mia collega e madre che aveva una forza, anche una certa spregiudicatezza, e un’efficacia nell’agire che ammiravo.  

Ora vedo quale forza può prodursi anche in colei che genera, mentre finora avevo attribuito la forza femminile esclusivamente all’essere ereditiere del precedente di forza creato da altre che sono venute prima di noi, cioè alla posizione di figlia in una genealogia femminile.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 17 ottobre 2022)

di Giordana Masotto


Negli anni ’70 abbiamo fatto un cambiamento radicale: abbiamo separato la sessualità dalla maternità. Di più: abbiamo cominciato a ragionare sulla nostra sessualità liberandola dalla gabbia della sessualità maschile. Ragionare con altre nella pratica di autocoscienza stando radicate nei corpi ci ha spalancato un mondo. Personalmente ricordo quanto sia stato per me importante darmi la possibilità di conoscere la mia sessualità tenendola ben distinta dalla maternità. La ricerca della mia libertà passava attraverso la possibilità di tenere separati in sicurezza i due aspetti. E infatti diventava sempre più chiaro che il piacere femminile è strutturalmente non procreativo. Dunque ho fatto tutto quello che c’era da fare per vivere la sessualità senza interferenze procreative. Non credo si tratti solo di competenza in anticoncezionali, né tanto meno di programmazione della maternità o maternità consapevole. Gli intrecci sono più profondi. Qualche anno fa, ripensando a quegli anni a partire dal tema della inviolabilità, scrivevo così:

«Camminavo a notte fonda nelle vie di Milano, dopo quelle riunioni di donne, lunghe lunghe, e tornavo a casa piena di pensieri e di emozioni. Radiante. Non ci pensavo quasi mai, ma avevo la sensazione che fossimo padrone delle strade, che niente ci avrebbe colpito. Prendendo la parola con le altre donne, mi stavo riappropriando di uno spazio interno e credo fosse questo che mi/ci faceva sentire inviolabili (ricordo di altre che dicevano la stessa cosa). Solo noi potevamo dare accesso ai nostri corpi, come alle nostre menti e cuori (quanto si parlava di sessualità e di penetrazione!)».

E infatti si parlava molto anche di aborto: un fascicolo speciale di Sottosopra del 1975 dal titolo Sessualità procreazione maternità aborto rende conto dell’intreccio di tutti questi temi e della ricchezza degli scambi e dei pensieri. Così afferma l’introduzione al fascicolo:

«Il movimento delle donne da anni ha una pratica politica che investe la sessualità e quindi anche il problema dell’aborto.

Recentemente nella società è prevalsa l’idea di trovare un compromesso meno ipocrita e meno iniquo su tale problema, salvo restando che tocca e toccherà sempre alle donne assicurare la limitazione delle nascite con i vari sistemi esistenti dei quali l’aborto è quello principale.

Noi donne invece diciamo: (1) che non vogliamo più abortire; (2) che non si può parlare di aborto senza chiamare in causa la sessualità dominante e la struttura sociale.

I testi qui raccolti documentano la presa di posizione, le riflessioni e le proposte di gruppi femministi e di singole donne. In gran parte essi sono ricavati dalla registrazione di un incontro tenutosi a Milano (1-2 febbraio 1975).»

Tutto ciò chiama in causa anche gli uomini. Allora lamentavamo che la responsabilità fosse tutta nostra, mi chiedo quanto oggi sia cambiato. Quanto gli uomini si interroghino sulla propria sessualità, quanto siano ansiosi di responsabilizzarsi sugli aspetti procreativi. Le donne hanno ripensato le radici del venire al mondo e della convivenza umana (questo riguarda il lavoro, nasciamo dipendenti e moriamo dipendenti, tutto il lavoro necessario per vivere eccetera) hanno riformulato la radicalità simbolica della relazione materna: mi chiedo quanto gli uomini vogliano riposizionarsi, dal momento che spargere in giro il seme senza controllo ha attenuato la sua potenza simbolica patriarcale. Se riconosciamo la forza simbolica e non metaforica del corpo della donna, cosa ne è del rapporto sessuale penetrativo, che è poi quello generativo? Come dicevo, negli anni ’70 ne abbiamo parlato tanto e l’abbiamo messo allegramente in discussione. Forse sarebbe il momento di ribadire che con la penetrazione l’uomo non possiede e non conquista. Al contrario, si riconsegna al corpo femminile da cui ha avuto origine, e può farlo perché una donna gli dischiude questa possibilità.

Tornando alla mia esperienza di quegli anni: anche per me è poi arrivato il momento in cui mi sono chiesta se volevo essere madre. Mi sono interrogata, per un po’ ho lasciato fluire desideri e fantasie, ho immaginato… E un’immagine ha fatto chiarezza (definitiva, adesso posso dire) dentro di me: quando mi pensavo madre mi vedevo sempre madre di una bambina. Dunque questo era un maternage politico e personale, continuare nel percorso di generare libertà femminile. Per essere madre biologica avrei dovuto avere un’apertura differente.

C’è poi tutto il capitolo della relazione materna di cura. Oggi, da anziana, posso dire che non mi è sconosciuta: la vecchiaia malata riapre le porte alle cure materne. La cura delle creature piccole è un paradigma fondamentale, perché chi riceve quelle cure è in una posizione di dipendenza totale. Lì non esistono margini di contrattazione, che invece caratterizzano la reciprocità delle relazioni tra adulti. Ho sperimentato che la stessa dipendenza totale può caratterizzare la vecchiaia malata, in particolare nelle malattie neurodegenerative. Passare nelle relazioni dalla reciprocità/contrattazione alla dipendenza è un processo in direzione uguale e contraria a quello che avviene nel far crescere una creatura per avviarla alla responsabilità/reciprocità delle relazioni. Ragionare sulla relazione materna e sul lavoro del care è dunque particolarmente importante oggi perché si invecchia sempre più e perché, come ci ha insegnato la pandemia, le nostre vite sono sempre più esposte nello spazio sociale.

E questo discorso si inserisce nel grande discorso di riconcettualizzare il lavoro, un cambio di civiltà che renda possibile pensare contemporaneamente, per gli uomini e per le donne, «tutto il lavoro necessario per vivere» – come l’abbiamo chiamato nel Gruppo lavoro –, la sfera produttiva e quella riproduttiva, tenendo presente che quest’ultima riguarda in generale tutto il lavoro del care, che si amplia in una popolazione che invecchia (quest’ultimo io lo chiamo “tutto il lavoro necessario per morire”).

Cura e care, relazioni e dipendenze: su tutto questo è interessante rileggere anche i molti scambi e confronti che abbiamo avuto con Ina Praetorius. Rimando qui al capitolo finale del libro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo delGruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano (Moretti&Vitali 2022).


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 17 ottobre 2022)

di Papa Francesco


Anticipiamo un brano del libro che Papa Francesco pubblica alla soglia del decimo anno di pontificato. Nel volume «Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza», a cura di Hernán Reyes Alcaide (Piemme, uscito martedì 18 ottobre 2022), il Pontefice lancia un appello universale a costruire insieme un orizzonte di pace, un mondo migliore


Più di duemila anni fa il poeta Virgilio ha plasmato questo verso: «Non dà salvezza la guerra!». Si fa fatica a credere che da allora il mondo non abbia tratto insegnamenti dalla barbarie che abita i conflitti tra fratelli, compatrioti e paesi. La guerra è il segno più chiaro della disumanità.

Quel grido accorato risuona ancora. Per anni non abbiamo prestato orecchio alle voci di uomini e donne che si prodigavano per fermare ogni tipo di conflitti armati. Il magistero della Chiesa non ha risparmiato parole nel condannare la crudeltà della guerra e, nel corso del XIX e del XX secolo, i miei predecessori l’hanno definita «un flagello», che «mai» può risolvere i problemi tra le nazioni; hanno affermato che la sua esplosione è una «inutile strage» con cui «tutto può essere perduto» e che, in definitiva, «è sempre una sconfitta dell’umanità». Oggi, mentre chiedo in nome di Dio che si metta fine alla follia crudele della guerra, considero inoltre la sua persistenza tra noi come il vero fallimento della politica.

La guerra in Ucraina, che ha messo le coscienze di milioni di persone del centro dell’Occidente davanti alla cruda realtà di una tragedia umanitaria che già esisteva da tempo e simultaneamente in vari paesi, ci ha mostrato la malvagità dell’orrore bellico. Nel secolo scorso, in appena un trentennio, l’umanità si è scontrata per due volte con la tragedia di una guerra mondiale. Sono ancora tra noi persone che portano incisi nei loro corpi gli orrori di quella follia fratricida. Molti popoli hanno impiegato decenni a riprendersi dalle rovine economiche e sociali provocate dai conflitti. Oggi assistiamo a una terza guerra mondiale a pezzi, che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale.

Al rifiuto esplicito dei miei predecessori, gli eventi dei primi due decenni di questo secolo mi obbligano ad aggiungere, senza ambiguità, che non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta. Non c’è mai posto per la barbarie bellica. Tantomeno quando la contesa acquisisce uno dei suoi volti più iniqui: quello delle cosiddette “guerre preventive”. La storia recente ci ha dato esempi, perfino, di “guerre manipolate”, nelle quali per giustificare attacchi ad altri paesi sono stati creati falsi pretesti e sono state contraffatte le prove. Per questo chiedo alle autorità politiche di porre freno alle guerre in corso, di non manipolare le informazioni e di non ingannare i loro popoli per raggiungere obiettivi bellici.

La guerra non è mai giustificata. Infatti non sarà mai una soluzione: basti pensare al potere distruttivo degli armamenti moderni per immaginare quanto siano alti i rischi che una simile contesa scateni scontri mille volte superiori alla supposta utilità che alcuni vi scorgono.

La guerra è anche una risposta inefficace: non risolve mai i problemi che intende superare. Forse lo Yemen, la Libia o la Siria, per citare alcuni esempi contemporanei, stanno meglio rispetto a prima dei conflitti?

Se qualcuno pensa che la guerra possa essere la risposta, sarà perché sbaglia le domande. Il fatto che noi a tutt’oggi ci troviamo ad assistere a conflitti armati, a invasioni o a offensive lampo tra paesi, manifesta la mancanza di memoria collettiva. Forse il XX secolo non ci ha insegnato il rischio che corre tutta la famiglia umana davanti alla spirale bellica?

Se davvero siamo tutti impegnati a porre fine ai conflitti armati, manteniamo viva la memoria in modo da agire in tempo e fermarli quando sono in gestazione, prima che divampino con l’uso della forza militare. E per riuscirci servono dialogo, negoziati, ascolto, abilità e creatività diplomatica, e una politica lungimirante capace di costruire un sistema di convivenza che non sia basato sul potere delle armi o sulla dissuasione.

E poiché la guerra «non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante» (lettera enciclica Fratelli tutti, 256), torno a ricordare lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, il quale diceva che oggi è imprescindibile compiere una «trasfusione di memoria» e invitava a prendere qualche distanza dal presente per udire la voce dei nostri antenati.

Ascoltiamo quella voce per non vedere mai più le facce della guerra. Infatti la follia bellica resta impressa nella vita di chi la subisce in prima persona: pensiamo ai volti di ogni madre e di ogni figlio costretti a fuggire disperatamente; a ogni famiglia violata; a ogni persona catalogata come “danno collaterale” degli attacchi, senza alcun rispetto per la sua vita.

Vedo contraddizione tra quanti rivendicano le loro radici cristiane ma poi fomentano conflitti bellici come modi per risolvere gli interessi di parte. No! Un buon politico deve sempre puntare sulla pace; un buon cristiano deve sempre scegliere la via del dialogo. Se arriviamo alla guerra è perché la politica ha fallito. E ogni guerra che scoppia è anche un fallimento dell’umanità.

Per questo dobbiamo raddoppiare gli sforzi per costruire una pace durevole. Ci avvarremo della memoria, della verità e della giustizia. È necessario che tutti insieme apriamo la via a una speranza comune. Tutti possiamo, e dobbiamo, prendere parte a questo processo sociale di costruzione della pace. Esso ha inizio in ciascuna delle nostre comunità e si innalza come un grido verso le autorità locali, nazionali e mondiali. Infatti è da loro che dipendono le iniziative adeguate per frenare la guerra. E a loro, facendo questa mia richiesta in nome di Dio, domando anche che si dica basta alla produzione e al commercio internazionale di armi.

La spesa mondiale in armamenti è uno degli scandali morali più gravi dell’epoca presente. Manifesta inoltre quanta contraddizione vi sia tra parlare di pace e, allo stesso tempo, promuovere o consentire il commercio di armi.

È tanto più immorale che paesi tra i cosiddetti sviluppati a volte sbarrino le porte alle persone che fuggono dalle guerre da loro stessi promosse con la vendita di armamenti. Accade anche qui in Europa ed è un tradimento dello spirito dei padri fondatori.

La corsa agli armamenti fa da riprova della smemoratezza che ci può invadere. O, peggio ancora, dell’insensibilità. Nel 2021, in piena pandemia, la spesa militare mondiale ha superato per la prima volta i 2.000 milioni di dollari. A fornire questi dati è un importante centro di ricerca di Stoccolma, ed essi ci mostrano come per ogni 100 dollari spesi nel mondo, 2,2 siano stati destinati alle armi.

Con la guerra ci sono milioni di persone che perdono tutto, ma anche pochi che guadagnano milioni. È sconfortante anche solo sospettare che molte delle guerre moderne si facciano per promuovere armi. Così non si può andare avanti. Ai responsabili delle nazioni, in nome di Dio, chiedo di impegnarsi risolutamente a porre fine al commercio di armi che causa tante vittime innocenti. Abbiano il coraggio e la creatività di rimpiazzare la fabbricazione di armamenti con industrie che promuovano la fratellanza, il bene comune universale e lo sviluppo umano integrale dei loro popoli. Al pensiero dell’industria bellica e di tutto il suo sistema, mi piace ricordare i piccoli gesti del popolo che, anche tramite atti individuali, non smette di far vedere quanto la vera volontà dell’umanità sia di liberarsi dalle guerre.

Ma al di là del problema del commercio internazionale di armamenti destinati a guerre e conflitti, non meno preoccupante è la crescente facilità con cui in molti paesi si può entrare in possesso delle armi denominate “di uso personale”, in genere di piccolo calibro, ma a volte anche fucili di assalto o di grande potenza. Quanti casi abbiamo visto di bambini morti per avere maneggiato armi nelle loro case, quanti massacri sono stati perpetrati per il facile accesso che a esse c’è in alcune nazioni?

Legale o illegale, su vasta scala o nei supermercati, il commercio di armi è un grave problema diffuso nel mondo. Sarebbe bene che questi dibattiti avessero più visibilità e che si cercassero consensi internazionali affinché, a livello globale, fossero poste restrizioni sulla produzione, la commercializzazione e la detenzione di questi strumenti di morte.

Quando parliamo di pace e di sicurezza a livello mondiale, la prima organizzazione a cui pensiamo è quella delle Nazioni Unite (l’Onu) e, in particolare, il suo Consiglio di sicurezza. La guerra in Ucraina ha posto ancora una volta in evidenza quanto sia necessario che l’attuale assetto multilaterale trovi strade più agili ed efficaci per la soluzione dei conflitti.

In tempi di guerra è essenziale sostenere che ci serve più multilateralismo e un multilateralismo migliore.

L’Onu è stata edificata su una Carta che intendeva dare forma al rifiuto degli orrori che l’umanità ha sperimentato nelle due guerre del XX secolo. Sebbene la minaccia che essi si ripresentino sia ancora viva, d’altra parte il mondo oggi non è più lo stesso, ed è dunque necessario ripensare queste istituzioni in modo che rispondano alla nuova realtà esistente e siano frutto del più alto consenso possibile.

È divenuto più che palese quanto queste riforme siano necessarie dopo la pandemia, quando l’attuale sistema multilaterale ha evidenziato tutti i suoi limiti. Dalla distribuzione dei vaccini abbiamo avuto un chiaro esempio di come a volte la legge del più forte pesi più della solidarietà.

Ci si prospetta, dunque, un’occasione imperdibile per pensare e condurre riforme organiche, volte a fare recuperare alle organizzazioni internazionali la loro vocazione essenziale a servire la famiglia umana, a prendersi cura della Casa comune e a tutelare la vita di ogni persona e la pace.

Ma non voglio addossare tutta la questione alle organizzazioni, che in definitiva non sono più – ma del resto neanche meno – che un ambito in cui gli stati che le compongono si riuniscono e ne determinano la politica e le attività. Sta qui la base della delegittimazione e del degrado degli organismi internazionali: gli stati hanno smarrito la capacità di ascoltarsi a vicenda per prendere decisioni consensuali e favorevoli al bene comune universale. Nessuna intelaiatura legale può sostenersi in assenza dell’impegno degli interlocutori, della loro disponibilità a una discussione leale e sincera, della volontà di accettare le inevitabili concessioni che nascono dal dialogo tra le parti. Se i paesi membri di questi organismi non mostrano la volontà politica di farli funzionare, siamo davanti a un evidente passo indietro.

Vediamo, invece, che essi preferiscono imporre le proprie idee o interessi in maniera molte volte inconsulta.

Soltanto se sfruttiamo l’occasione del dopo pandemia per reimpostare questi organismi potremo creare istituzioni con cui affrontare le grandi sfide, sempre più urgenti, che ci si prospettano, come il cambiamento climatico o l’uso pacifico dell’energia nucleare.

In questo senso, così come nella mia lettera enciclica Laudato si’ esortavo a promuovere una «ecologia integrale», allo stesso modo credo che il dibattito sulla ristrutturazione degli organismi internazionali debba ispirarsi al concetto di «sicurezza integrale». Vale a dire, non più limitata ai canoni degli armamenti e della forza militare, bensì consapevole del fatto che in un mondo giunto a un livello di interconnessione come l’attuale è impossibile possedere, per esempio, una effettiva sicurezza alimentare senza quella ambientale, sanitaria, economica e sociale. E su questa ermeneutica deve basarsi ogni istituzione globale che cercheremo di riprogettare, invocando sempre il dialogo, l’apertura alla fiducia tra i paesi e il rispetto interculturale e multilaterale.

In un contesto contrassegnato dall’urgenza, e in un orizzonte di condanna della follia bellica e di esortazione a ridefinire la cornice internazionale delle relazioni tra stati, non possiamo ignorare la spada di Damocle che pesa sull’umanità sotto la forma degli armamenti di distruzione di massa, come quelli nucleari.

Davanti a un simile scenario ci domandiamo: chi possiede questi armamenti? Quali controlli ci sono? Come si pone freno alla logica che fa perno sull’accumulo di testate nucleari a fini di dissuasione?

In questo contesto faccio mia la condanna di san Paolo VI verso questo tipo di armamento, che dopo oltre mezzo secolo non è divenuta meno attuale: «Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli».

Non c’è motivo di restare condannati al terrore della distruzione atomica. Possiamo trovare vie che non ci lascino appesi a una imminente catastrofe nucleare causata da pochi. Forgiare un mondo senza armi nucleari è possibile, dato che ne abbiamo la volontà e gli strumenti; ed è necessario, vista la minaccia che questo tipo di armamento comporta per la sopravvivenza dell’umanità.

Avere armi nucleari e atomiche è immorale. Sbaglia strada chi pensa che siano una scorciatoia più sicura del dialogo, del rispetto e della fiducia, ovvero gli unici sentieri che porterebbero l’umanità alla garanzia di una convivenza pacifica e fraterna. Oggi è inaccettabile e inconcepibile che si continuino a scialacquare risorse per produrre questo genere di armi mentre si profila una grave crisi che ha conseguenze sanitarie, alimentari e climatiche e riguardo alla quale nessun investimento sarà mai abbastanza.

L’esistenza delle armi nucleari e atomiche mette a rischio la sopravvivenza della vita umana sulla terra. E quindi qualsiasi richiesta in nome di Dio affinché venga frenata la follia della guerra comprende anche una supplica a estirpare dal pianeta quell’armamento. Il reverendo Martin Luther King lo ha espresso con chiarezza nell’ultimo discorso che pronunciò prima di essere assassinato: «Non si tratta più di scegliere tra violenza e non violenza, ma tra non violenza e non esistenza». La scelta sta a noi.


(La Stampa/Piemme&Mondadori Libri S.p.A., 16 ottobre 2022)

Proseguono i liberi scambi di riflessioni a partire dall’attualità. Oggi ci

incontriamo per parlare di crisi della democrazia e della rappresentanza e aumento

dell’astensionismo (ha votato il 63,9%).

di Ketty Giannilivigni


Come tutti i giovedì dall’inizio della guerra in Ucraina anche ieri pomeriggio (giovedì 13 ottobre 2022, ndr) sotto la Statua della Libertà in piazza Vittorio Veneto a Palermo (a partire dalle 17,00 fino alle 19,00) si sono riunite le donne di UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Donne caffè filosofico Bonetti – Il femminile è politico – #Governo di lei – Donne no Muos no War – CIF – Emily – FIDAPA sez. Palermo Felicissima – FIDAPA sez. Mondello – Associazione Donne Islamiche Fatima – LAB.ZEN 2 – Le Onde – Arcilesbica.

Poche ore prima la senatrice Liliana Segre aveva pronunciato il suo discorso fermo e commosso: secondo il regolamento di Palazzo Madama, infatti, aveva il compito di presiedere (proprio lei che era stata duramente colpita nel corpo e negli affetti dalle leggi razziali della dittatura fascista) la prima seduta per l’insediamento del Senato, dopo le elezioni politiche vinte dall’ultradestra post-fascista. A cento anni dalla marcia su Roma, nel mese di ottobre che le ricordava l’autunno del ’38 quando si era vista esclusa dalla scuola italiana perché ebrea, la Segre ha voluto, ancora una volta, rimarcare il valore della Costituzione italiana e l’importanza delle date del 25 aprile, del primo maggio e del 2 giugno per la storia italiana.

Dopo i risultati elettorali che hanno consegnato l’Italia all’estrema destra, erede della fiamma tricolore incastonata alla base dell’iconografia del simbolo dei fratelli meloniani, era chiaro che la seconda più importante carica dello Stato sarebbe stata affidata all’onorevole Ignazio La Russa, politico comunemente riconosciuto fra i più nostalgici del funesto ventennio. Tuttavia, le parole di questa donna sopravvissuta ad Auschwitz hanno risuonato come un monito rivolto a donne e uomini affinché non si perda la memoria della lotta partigiana contro il nazifascismo.

In sintonia con le parole e le preoccupazioni di Liliana Segre, le donne del Comitato per la Pace di Palermo si sono date appuntamento sotto la Statua della Libertà per intonare Bella ciao, dopo il goffo tentativo registrato durante la manifestazione a favore delle donne iraniane, svoltasi di fronte al teatro Politeama (vedi pressenza.com), in cui si voleva censurare la canzone dei partigiani della libertà e della pace contro le ingiustizie, perché ritenuta da alcuni partecipanti “divisiva”.

Nella piazza di ieri pomeriggio, in cui tutte e tutti si dichiaravano grate/i per le parole di Liliana Segre, Bella ciao è stata intonata e ripresa più volte nel corso della manifestazione – anche nella versione originaria delle mondine – dalle donne delle associazioni in presidio, alle quali si sono unite/i altre donne e altri uomini, nonché esponenti di diverse realtà cittadine – COBAS, CGIL, ANPI, Assemblea NoGuerra-PA, Laboratorio “Ballarò”, etc. – tutte/i a eseguire in coro il canto della libertà.


(pressenza.com, 14 ottobre 2022)

di Maurizio Schoepflin


La recente nuova edizione rivista e ampliata del libro di Silvana Panciera Le beghine. Una storia di donne per la libertà (Gabrielli, pagine 174, euro 17,00) mette a disposizione degli studiosi, ma anche di un più ampio pubblico, uno strumento particolarmente utile per conoscere un movimento che ha avuto un ruolo assai rilevante nella storia della Chiesa e che vide protagoniste congregazioni di donne le quali, pur non pronunciando voti monastici, condussero una vita di devozione, povertà e carità. Nei sei capitoli in cui è suddiviso il volume il lettore troverà innanzitutto precise informazioni circa il contesto storico nel quale il movimento beghinale sorse e si sviluppò. L’autrice si sofferma poi a illustrare la vita quotidiana delle beghine, descrivendone le attività, le regole del comportamento, le dimore in cui abitavano. Particolarmente interessante è il quarto capitolo che «offre una sintesi dell’originalità del movimento e delle sue intuizioni mistiche, insistendo sulla sua particolarità di fenomeno laico e soprattutto femminile». Successivamente, Panciera fa conoscere più da vicino varie beghine e ricorda le figure di alcuni loro famosi ammiratori. Il capitolo conclusivo è dedicato a delineare l’eredità visibile dei beghinaggi, tredici dei quali nel 1998 sono stati dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Intitolando il secondo capitolo Un movimento senza origine, senza fondatrice, senza regola unica, senza storiografia, l’autrice offre subito le coordinate essenziali per comprendere l’originalità di questo fenomeno religioso, che fa la sua comparsa verso la fine del XII secolo, sulla scia del rinnovato fervore spirituale che caratterizza varie zone dell’Europa del tempo. Le prime a muoversi sono donne di elevato rango sociale, poi sarà la volta di quelle, più numerose, appartenenti agli strati popolari. Tutte sono caratterizzate da un forte desiderio di vivere la fede evangelica in modo radicale, senza tuttavia abbandonare lo stato laicale. I contemporanei le definiscono mulieres devotae, vanno ad abitare presso ospedali o abbazie, pregano, curano i malati, ma non prendono i voti. Inizialmente suscitano ammirazione, che ben presto, però, si tramuta in sospetto e, ancor peggio, in derisione. Né mogli né monache, la loro condizione non fa riferimento a nessuna autorità maschile, cosa che, come è facile capire, non risulta facilmente accettabile in quel momento storico. Ignota è l’origine dell’appellativo con cui sono passate alla storia; di certo esso ha assunto una caratterizzazione negativa. In Lombardia saranno chiamate humiliate, in Toscana bizzoche o pinzochere. Presto l’Inquisizione si occupa di loro, temendo lo spirito di libertà che incarnano; più di una finisce sul rogo; altre vengono tollerate; qualche raro potente ecclesiastico le protegge. Per niente bigotte, come spesso invece si è insinuato, le beghine, a giudizio di Panciera, meriterebbero una ben più profonda e significativa riabilitazione, a motivo della bella testimonianza che hanno lasciato, soprattutto attraverso la loro grande opera assistenziale, il patrimonio architettonico, l’esemplarità della vita comunitaria, vari scritti di grande valore, come Lo Specchio della anime semplici di Margherita Porete; senza dimenticare l’esaltazione della libertà e dell’amore che le contraddistinse. Anche Marco Vannini, noto studioso di mistica, è convinto della necessità di rivalutare le beghine e scrive nella Prefazione: «La storia di queste donne e delle loro forme di aggregazione, con la loro straordinaria sintesi di comunione e di libertà, di approfondimento spirituale e di impegno caritativo, può davvero far riflettere, non per il passato, ma per il presente e più ancora per il futuro».


(Avvenire, 14 ottobre 2022)

di Silvia Baratella


Monique Serf, ebrea francese, era bambina durante l’occupazione tedesca e dovette crescere nascosta con la sua famiglia per sfuggire ai rastrellamenti nazisti.

In seguito divenne cantante e assunse il nome d’arte di Barbara, ispirato a Varvara Brodsky, una sua antenata da parte di madre: una scelta di genealogia femminile. Tra le grandi voci femminili della canzone francese della seconda metà del ’900 che conosco, Barbara è stata l’unica a cantare su testi (e musiche) propri, quasi tutti legati alle sue esperienze personali.

Nel 1964 fu scritturata dal direttore di un teatro tedesco per una tournée a Gottinga. Non ci andò volentieri: i ricordi di guerra le rendevano sgraditi la Germania e i tedeschi.

Tuttavia fu accolta così affettuosamente dagli organizzatori e fu così apprezzata dal pubblico che cambiò completamente stato d’animo e prolungò la sua esibizione di una settimana. In un parco di Gottinga buttò giù la prima bozza di una canzone dedicata a quella città, che recitò nella sua serata di commiato, più che cantarla, perché non aveva ancora finito di musicarla.

In seguito, la completò e divenne uno dei suoi pezzi più famosi, che cantò anche in lingua tedesca. Göttingen oggi è nei programmi scolastici francesi e ha svolto un ruolo ufficiale nel riavvicinamento post-bellico tra Francia e Germania.

È una parola di donna contro la guerra che affonda le sue radici nelle relazioni e non nelle ideologie o in principi astratti, e mi sembra utile farla circolare in questi tempi bui, in cui c’è bisogno di opporre le nostre ragioni alla propaganda bellica.

Propongo qui il link a un video, insieme al testo francese e a una traduzione, approssimativa, fatta da me.


Göttingen

Bien sûr, ce n’est pas la Seine,

ce n’est pas le bois de Vincennes,

mais c’est bien joli tout-de-même

à Göttingen, à Göttingen.

Pas de quais et pas de rengaines

qui se lamentent et qui se traînent,

mais l’amour y fleurit quand-même

à Göttingen, à Göttingen.

Ils savent mieux que nous, je pense,

l’histoire de nos rois de France

Hermann, Peter, Helga et Hans

à Göttingen.

Et que personne ne s’offense,

mais les contes de notre enfance,

« il était une fois » commence

à Göttingen.

Bien-sûr nous, nous avons la Seine

et puis notre bois de Vincennes,

mais Dieu que les roses sont belles

à Göttingen, à Göttingen.

Nous, nous avons nos matins blêmes

et l’âme grise de Verlaine,

eux c’est la mélancolie même

à Göttingen, à Göttingen.

Quand ils ne savent rien nous dire

ils restent là à nous sourire,

mais nous les comprenons quand-même

les enfants blonds de Göttingen.

Et tant pis pour ceux qui s’étonnent

et que les autres me pardonnent,

mais les enfants ce sont les mêmes

à Paris ou à Göttingen.

Ô faites que jamais ne revienne

le temps du sang et de la haine

car il y a des gens que j’aime

à Göttingen, à Göttingen.

Et lorsque sonnerait l’alarme,

s’il fallait reprendre les armes,

mon cœur verserait une larme

pour Göttingen, pour Göttingen.


Traduzione

Certo, non c’è la Senna,

non c’è neanche il Bois de Vincennes,

ma è così carina lo stesso

Gottinga, Gottinga.

Non ci sono lungofiumi, né canzonette

romantiche e lamentose,

ma l’amore fiorisce lo stesso

a Gottinga, a Gottinga.

Conoscono meglio di noi, penso,

la storia dei nostri re di Francia

Hermann, Peter, Helga e Hans

a Gottinga.

E che nessuno si offenda,

ma le favole della nostra infanzia,

«C’era una volta…», cominciano

a Gottinga.

Certo, noi abbiamo la Senna

e poi il nostro Bois de Vincennes,

ma dio, come sono belle le rose

a Gottinga, a Gottinga.

Noi abbiamo le nostre mattine livide

e l’anima bigia di Verlaine,

loro sono la malinconia in persona,

a Gottinga, a Gottinga.

Quando non sanno dirci niente

restano lì a sorriderci,

ma noi li capiamo lo stesso

i bambini biondi di Gottinga.

E tanto peggio per chi stupisce,

e agli altri chiedo scusa,

ma i bambini sono gli stessi

a Parigi o a Gottinga.

Oh, fate che non ritornino più

i tempi del sangue e dell’odio,

perché ci sono persone che amo

a Gottinga, a Gottinga.

E quando dovesse suonare l’allarme,

se si dovessero riprendere le armi,

il mio cuore piangerebbe

per Gottinga, per Gottinga.


(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2022)

di Umberto Varischio


Nel suo intervento La questione maschile, pubblicato sul sito della Libreria delle donne di Milano, Laura Colombo pone alcune domande che riguardano noi uomini. In previsione della discussione che si terrà durante un appuntamento del “Grande seminario” annuale di Diotima, cercherò qui di riassumerle e tenterò di dare a qualcuna una risposta. Colombo si chiede e ci chiede: se una parte degli uomini è cambiata, da cosa possiamo vedere il loro cambiamento? E se una parte degli uomini sono cambiati, lo sono anche nel profondo? E ancora: come è possibile spostare gli uomini dalla loro posizione egocentrica, quella che chiede disperatamente conferme femminili fino alle molestie e alla morte? È necessario pensare a qualcosa come degli “stati generali della maschilità”? Nelle risposte che riuscirò a dare partirò da me, dalla mia esperienza e dalla mia parzialità, di uomo e di individuo.

Dico subito che non vedo la risposta in eventi come quelli definiti “stati generali della maschilità”. Dichiarazioni maschili contro la violenza, per il riconoscimento della libertà e dell’autorità femminile e per una nuova civiltà delle relazioni tra uomini e donne, solo assolutamente necessarie, ma non possono essere fatte, oltre che praticate quotidianamente, solo in riunioni o discussioni, ma debbono avere anche una visibilità pubblica, per il loro rilievo politico e simbolico. I miei dubbi su iniziative del genere mi sollecitano a porre alcune domande: quanti altri uomini potrebbero sentirsi messi in discussione o si sentirebbero di mettersi in discussione solo per aver sentito parlare di questi argomenti? Quanti uomini si possono raggiungere e coinvolgere con iniziative di questo genere? L’esperienza di questi ultimi vent’anni, anche se hanno visto nascere diverse importanti proposte, alcune locali e una nazionale (MaschilePlurale), mi hanno insegnato che queste prese di posizione pubbliche e collettive non bastano. Bisogna farle, ma non sono un dispositivo che genera di per sé consapevolezza.

Per fare un esempio, la dichiarazione che la libertà femminile è un guadagno anche per noi uomini è sembrata un’affermazione chiave che poteva spingere gli uomini fare passi avanti sul piano della messa in discussione del potere patriarcale, e verso una prospettiva che avrebbe potuto dare maggiore libertà anche a noi. Anche qui, intendiamoci, ho provato nella mia esperienza di vita che è effettivamente così, ma questa consapevolezza non è stata l’inizio di un cammino, ma sua la tappa finale. Il prodotto di tutta una serie di conflitti (anche interiori), di gioie e dolori, di rabbia e felicità che il confronto con donne, a livello personale e pubblico, hanno comportato per me. Un passaggio essenziale per raggiungere questa consapevolezza sono state le esperienze di autocoscienza maschile, che ho cercato e trovato in momenti della mia vita in cui ogni progresso mi sembrava inibito. Mi sono servite, per esempio, ad affrontare il mio rapporto con la sessualità e la mia pulsione ad andare “oltre il limite” come ho raccontato in un contributo pubblicato sul sito della Libreria.

Un’altra questione posta da Laura Colombo riguarda come muovere gli uomini «dalla loro posizione egocentrica, quella che chiede disperatamente conferme femminili», posizione che può portare all’estremo a molestie, violenze e al femminicidio. Un comportamento su cui mi sono interrogato a lungo da quando l’ho riconosciuto sia nella mia vita relazionale sia nel confronto con donne del femminismo in generale e in particolare con quello della differenza. Confronto che mi ha visto, in alcune occasioni, pormi in una posizione di rabbia e di frustrazione quando mi sembrava di vivere una situazione di mancanza di conferme. Per un certo periodo ho cercato di negare la mia dipendenza da queste conferme, adducendo con me stesso spiegazioni autobiografiche che però sono una scorciatoia o peggio una rimozione e non possono spiegare le mie reazioni. Sono riuscito a superare queste reazioni grazie al confronto continuo con queste donne e alla mia scelta di accettare la mia dipendenza e di non rimanere a macerarmi nella autocommiserazione, ma cercando di rilanciare la relazione politica.

Queste precedenti esperienze mi hanno messo a confronto con la domanda di quanto io sia cambiato nel profondo e se questo cambiamento non sia solo qualcosa di esteriore. Questo è un aspetto difficile da affrontare, almeno per me; nelle situazioni che ho prima descritto sono consapevole di non avere superato le pulsioni e le reazioni di cui parlavo, e non so fino a che punto possa, più che voglia, superarle. Io, come altri, sono nato e cresciuto in una società profondamente patriarcale che non solo mi ha condizionato psicologicamente, ma è entrata in me profondamente, potrei dire “nelle viscere” e non penso, onestamente, di essere in grado di andare oltre questo condizionamento. I giovani uomini che stanno crescendo o che nasceranno in futuro forse potranno sfuggire a questo tipo di condizionamento profondo e riusciranno a superare anche nel profondo queste pulsioni. Io mi pongo come mio obiettivo realistico e concreto quello di controllarle, essendo cosciente che in alcune occasioni potrei perdere questo controllo, come in passato mi è capitato, anche se da tempo non mi succede più. Sono convinto che metterle sotto controllo, il che non vuol dire assolutamente reprimerle, restando consapevole della loro esistenza, sia per me e alla mia età, un obiettivo. Forse questa non è una risposta completamente soddisfacente, ma preferisco essere cosciente dei miei limiti piuttosto che cercare di superarli in modo velleitario una volta per tutte. Preferisco avere la coscienza anche di questo “limite” per meglio trovare una mia strada particolare e parziale verso la conoscenza di me e la consapevolezza.

Quindi, a partire dal mio vissuto, penso che il cambiamento sostanziale più che da occasioni pubbliche possa venire dai momenti di autocoscienza maschile che mi sembra siano diventando più diffusi, almeno a livello giovanile. Solo questi potranno portare, attraverso percorsi che ogni uomo dovrà scegliere, se non a una soluzione della “questione maschile”, almeno a renderla meno distruttiva. Una pratica accompagnata da una continua ricerca di consapevolezza e da una costante attenzione alla relazione politica con donne, singole e non.


(www.libreriadelledonne.it, 14 ottobre 2022)

di Liliana Segre


Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento della senatrice a vita Liliana Segre, voce autorevole, in occasione dell’apertura della XIX legislatura. Un esempio di politica istituzionale alta, ispirata ad una concezione del potere come responsabilità nei confronti di tutte e tutti e non invece come strumento al servizio delle ambizioni del singolo o del gruppo. La senatrice rievoca le date importanti che hanno scandito la nascita della Repubblica costituzionale, ancora una volta una storia di tutte e tutti perché prima di ogni altra cosa è l’esperienza propria di ciascuna/o.


La redazione del sito della Libreria delle donne


Discorso della presidente provvisoria del Senato Liliana Segre, pronunciato nell’Aula di Palazzo Madama per l’apertura della XIX legislatura il 13 ottobre 2022


Buongiorno a tutti, colleghe senatrici, colleghi senatori.

Rivolgo il più caloroso saluto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quest’Assemblea. Con rispetto, rivolgo il mio pensiero a Papa Francesco (applausi).

Certa di interpretare i sentimenti di tutta l’Assemblea, desidero indirizzare al presidente emerito Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri e la speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato. Il presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole: «Desidero esprimere a tutte le senatrici ed i senatori, di vecchia e nuova nomina, i migliori auguri di buon lavoro, al servizio esclusivo del nostro Paese e dell’istituzione parlamentare ai quali ho dedicato larga parte della mia vita» (applausi).

Anch’io, ovviamente, rivolgo un saluto particolarmente caloroso a tutte le nuove colleghe e a tutti i nuovi colleghi, che immagino sopraffatti dal pensiero della responsabilità che li attende e dalla austera solennità di quest’Aula, così come fu per me quando vi entrai per la prima volta in punta di piedi. Come da consuetudine vorrei però anche esprimere alcune brevi considerazioni personali.

Incombe su tutti noi in queste settimane l’atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore, in una follia senza fine. Mi unisco alle parole puntuali del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «La pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino» (applausi).

Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva. In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio a una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica. E il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato (l’Assemblea si leva in piedi) (applausi).

Il Senato della XIX legislatura è un’istituzione profondamente rinnovata, non solo negli equilibri politici e nelle persone degli eletti, non solo perché per la prima volta hanno potuto votare anche per questa Camera i giovani dai diciotto ai venticinque anni, ma soprattutto perché per la prima volta gli eletti sono ridotti a duecento.

L’appartenenza a un così rarefatto consesso non può che accrescere in tutti noi la consapevolezza che il Paese ci guarda, che grandi sono le nostre responsabilità ma al tempo stesso grandi le opportunità di dare l’esempio. Dare l’esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio con “disciplina e onore”, impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse. Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa assemblea la politica urlata, che tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto (applausi), interpretando invece una politica “alta” e nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all’ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza.

Le elezioni del 25 settembre hanno visto, come è giusto che sia, una vivace competizione tra i diversi schieramenti che hanno presentato al Paese programmi alternativi e visioni spesso contrapposte. E il popolo ha deciso. È l’essenza della democrazia. La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l’imperativo di preservare le istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell’interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti.

Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti.

In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la Costituzione repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti (applausi).

Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica. In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché da essa si sono sentiti difesi. Anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative non conformi ai principi costituzionali – e purtroppo questo è accaduto spesso – la nostra Carta fondamentale ha consentito comunque alla Corte costituzionale e alla magistratura di svolgere un prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto.

Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma consentitemi di osservare che se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione – peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi – fossero state invece impiegate per attuarla (applausi), il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.

Il pensiero corre inevitabilmente all’art. 3, nel quale i Padri e le Madri costituenti non si accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su «sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali», che erano state l’essenza dell’ancien régime. Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla Repubblica: «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Non è poesia (applausi) e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli!

Le grandi nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria. Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date “divisive”, anziché con autentico spirito repubblicano (applausi), il 25 aprile, festa della liberazione (applausi), il 1° maggio, festa del lavoro (applausi), il 2 giugno, festa della Repubblica (applausi)? Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell’esempio, di gesti nuovi e magari inattesi.

Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro l’imbarbarimento del dibattito pubblico (vivi e prolungati applausi. L’Assemblea si leva in piedi) e contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni.

Permettetemi di ricordare un precedente virtuoso: nella passata legislatura i lavori della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” si sono conclusi con l’approvazione all’unanimità di un documento di indirizzo. Segno di una consapevolezza e di una volontà trasversali agli schieramenti politici, che è essenziale permangano.

Concludo con due auguri. Mi auguro che la nuova legislatura veda un impegno concorde di tutti i membri di quest’Assemblea per tenere alto il prestigio del Senato, tutelare in modo sostanziale le sue prerogative, riaffermare nei fatti e non a parole la centralità del Parlamento. Da molto tempo viene lamentata da più parti una deriva, una mortificazione del ruolo del potere legislativo a causa dell’abuso della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia. E le gravi emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza.

Nella mia ingenuità di madre di famiglia, ma anche secondo un mio fermo convincimento, credo che occorra interrompere la lunga serie di errori del passato e per questo basterebbe che la maggioranza si ricordasse degli abusi che denunciava da parte dei governi quando era minoranza, e che le minoranze si ricordassero degli eccessi che imputavano alle opposizioni quando erano loro a governare.

Una sana e leale collaborazione istituzionale, senza nulla togliere alla fisiologica distinzione dei ruoli, consentirebbe di riportare la gran parte della produzione legislativa nel suo alveo naturale (applausi), garantendo al tempo stesso tempi certi per le votazioni.

Auspico, infine, che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo in collaborazione col Governo un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell’inflazione e dell’eccezionale impennata dei costi dell’energia, che vedono un futuro nero, che temono che diseguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente anziché ridursi.

In questo senso avremo sempre al nostro fianco l’Unione Europea con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale.

Non c’è un momento da perdere: dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo (applausi), prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e tracimare.

Senatrici e senatori, cari colleghi, buon lavoro. (l’Assemblea si leva in piedi. Vivi e prolungati applausi)


(www.senato.it, 13 ottobre 2022)

di Sandra Divina Laupper


Il nostro gruppo di donne di Bressanone fin dall’inizio, quando nel febbraio del 2005 lo abbiamo fondato chiamandolo da subito “Baubò”, è stato incentrato sull’argomento della maternità. Infatti è nato sulla spinta dell’urgenza di uscire dall’isolamento sociale in cui alcune di noi, divenute recentemente madri, rischiavano di precipitare a causa di questa loro nuova condizione. Un gruppo comunque voluto anche da chi madre lo era già da tempo, oppure non lo era affatto, ma desiderava contribuire a dare maggiore visibilità a quelle che erano le vere esigenze di chi voleva procreare. La procreazione infatti è una potenzialità femminile con cui comunque tutte noi prima o poi abbiamo da fare i conti, in un modo o nell’altro. Inizialmente ai nostri incontri partecipavano anche Elisabeth P. e Gertraud R., due ostetriche molto impegnate a migliorare le condizioni di assistenza alle donne che vogliono diventare madri durante tutte le fasi che portano alla maternità, dalla gravidanza al parto al puerperio.

Chi di noi era diventata o stava diventando (nuovamente) madre, certamente si trovava in questa condizione per propria scelta, ma sia io che le altre donne del gruppo che avevano scelto di diventare madri, a causa di questa condizione ci vedevamo sottoposte non solo al rischio dell’isolamento sociale, ma – sotto vari aspetti – anche a delle forme di ingerenza sociale tutt’altro che desiderate, che rischiavano di alienarci rispetto al nostro percorso di maternità e quindi rischiavano di alienarci anche rispetto alla figlia o al figlio che stavamo per mettere al mondo. Infatti, queste ingerenze miravano a trasformare il percorso di maternità di una donna in un percorso di assoggettamento a degli standard di “sicurezza” procreativa che più che altro servivano a sottoporre gravidanza, parto e puerperio a un controllo medico il più possibile pervasivo. Invece noi desideravamo vivere il nostro percorso di maternità come un percorso di dispiegamento delle nostre potenzialità materne. Così ognuna di noi, in un modo o nell’altro, ha dovuto scontrarsi con il modo in cui la sanità pubblica concepisce il percorso che una donna fa per diventare madre e lo sottopone a forme forzate di “tutela”. Già questo parla chiaro del mancato riconoscimento delle competenze femminili in fatto di gravidanza, parto e puerperio da parte della sanità pubblica, una sanità degna di una società che si ostina a non dare alcun valore simbolico al fatto che siamo tutte e tutti nati da donna.

Competenze femminili che invece noi sapevamo di possedere, non per ultimo grazie al rapporto privilegiato che ognuna di noi ha saputo instaurare con la propria ostetrica di fiducia, un rapporto che nella politica delle donne avremmo definito di “affidamento”. Una tale relazione con un’ostetrica è irrinunciabile per una donna che desidera diventare madre mettendo in campo tutte le proprie potenzialità affettive, relazionali, di capacità di giudizio come di capacità di cura, cura sia di sé stessa che del percorso da affrontare insieme alla creatura che ha il desiderio di mettere al mondo. Infatti solo da una tale relazione può venirci la misura del nostro desiderio di maternità, ma anche delle nostre paure e ambivalenze, come della nostra debolezza che si trasforma in forza – o viceversa: della nostra forza, non solo fisica, che si trasforma in debolezza. Per dirla con Ildegarda di Bingen: «Dio ha creato l’uomo forte e la donna debole, da questa debolezza è sorta tutta l’umanità».

In Baubò abbiamo presto individuato l’importanza di questo tipo di relazione di affidamento. Ma oggi io direi di più. In questa relazione privilegiata tra due donne vedo infatti lo specchio di una società femminile che si sa costituita da relazioni vincolanti tra donne, relazioni capaci di conflittualità e resilienti a qualsiasi tipo di interferenza esterna, perché capaci di andare oltre il capriccio o la passione momentanea. Nella relazione che si instaura tra donna e ostetrica forse, anche alla luce della discussione nella relazione allargata di Via Dogana 3, possiamo oggi riconoscere la fonte delle mediazioni che servono a una donna per instaurare una relazione proficua con la sua creatura di momento in momento – infatti, tra gravidanza, parto e puerperio i passaggi sono tanti – e che quindi le permettono di diventare madre.

Riconoscere questo significa individuare proprio nella relazione privilegiata tra donna e ostetrica – come in ogni altra relazione vincolante tra donne, madri o no – la fonte della maternità. La società femminile che conosciamo, a questo punto, sapendosi fonte della maternità e quindi base di qualsiasi tipo di società, si fa misura della società nel suo insieme. Misura di una società per la quale il fatto di essere tutte e tutti nati da donna non solo diviene pienamente conoscibile, ma diventa proprio innegabile.


Riferimenti di lettura:

– Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre

– Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico

– Adrienne Rich, Nato di donna

– Silvia Vegetti Finzi, Il bambino della notte


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2022)