di Luca Celada


La prima presa di posizione progressista per la pace è finita catastroficamente. Difficile definire altrimenti l’appello per una conclusione negoziata al conflitto ucraino prima sottoscritto la scorsa settimana da trenta parlamentari del progressive caucus (tra cui Alexandria Ocasio Cortez, Rashida Tlaib e Ilhan Omar), ma successivamente “ritirato” dopo 24 ore e una pioggia di critiche piovute da ogni parte, ma specialmente “da sinistra.” L’appello non era certo radicale, ribadiva la solidarietà con il popolo ucraino di fronte all’invasione russa, elogiava le politiche di Biden e anche il sostegno militare, limitandosi ad auspicare però l’affiancamento di un sincero tentativo di dialogo per un eventuale accordo di pace. La ricerca cioè del dialogo USA-Russia che in privato molti ammettono dovrà essere necessaria condizione per la fine del conflitto. La semplice suggestione di un dialogo è stata però attaccata come capitolazione. Il repentino dietrofront ha inoltre dimostrato come sia tuttora inaccettabile ogni variazione dalla linea ufficiale dei risultati sul campo e della guerra “vincibile,” malgrado ogni indicazione al contrario nel pericoloso vicolo cieco dell’escalation. Medea Benjamin è fondatrice di Code Pink, storica formazione femminista e pacifista, autrice di un libro di prossima uscita scritto con Nicolas Davies (War in Ukraine) come prontuario per una pace possibile. Le abbiamo chiesto delle prospettive di un movimento pacifista che negli Stati uniti possa essere portatore delle istanze di un partito della pace contro il teorema militarista dell’intransigenza.

È rimasta sorpresa dalla violenza della reazione alla lettera e dalla rapidità della marcia indietro?

Sì, da entrambe le cose. Quando il testo ha cominciato a circolare l’estate scorsa pensavo che sarebbe stato facile trovare un centinaio di firme, almeno quelle dei componenti del progressive caucus, e forse anche di più. Sono stata una delle persone che hanno battuto i corridoi del Congresso cercando adesioni e non avrei mai pensato di avere tante porte sbattute in faccia. Perfino quando sono andata da Bernie Sanders suggerendo che anche lui si sarebbe potuto fare promotore di un’iniziativa analoga nel Senato, mi è stato detto senza mezzi termini che il dialogo con Putin era fuori discussione. Insomma ero già esterrefatta che fosse stato tanto difficile trovare anche solo trenta firme per una lettera in fondo così misurata e non avevo previsto la reazione che avrebbe suscitato. Speravo che a questo punto della guerra fosse più chiaro ai parlamentari quanto sia una tragedia per il popolo ucraino, per gli Americani e per tutto il mondo. Pensavo che i tempi fossero maturi per un’iniziativa come questa. Chiaramente mi sbagliavo.

Code Pink è nata in opposizione alla guerra irachena di Bush contro cui vi fu mobilitazione di massa. Perché secondo lei oggi il movimento progressista vive un tale dilemma?

Questa guerra si è certamente rivelata un dilemma per la sinistra. Avrei immaginato che i progressisti americani avrebbero potuto essere d’accordo sulla necessità assoluta di convincere tutte le parti a sedersi per trovare un modo per fermare le uccisioni e allontanare la possibilità di un conflitto nucleare. Invece si riscontra una diffusa tendenza a schierarsi a favore del flusso ininterrotto di armi verso l’Ucraina con l’obbiettivo di riconquistare ogni metro di terra invaso dai Russi. E ora esplicitamente contro l’idea stessa di un negoziato con Putin, equiparato alla capitolazione. La reazione a quella lettera da parte dello stesso Partito democratico è stata la conferma di una posizione irrazionale e pericolosa.

Insomma si parla tanto di offramp, di “via d’uscita” con cui Putin possa aver salva la faccia, ma forse non è lui l’unico ad averne bisogno?

Proprio così, si direbbe che anche Biden e Zelensky a questo punto ne abbiano bisogno. Hanno tutti puntato la propria reputazione sull’intransigenza. Dal punto di vista di un’organizzazione a conduzione femminile come Code Pink, tocca rilevare il militarismo al testosterone a cui siamo abituate. Dove ci si immagina possa portare questa guerra? Credo che in Europa siate forse un passo avanti per quello che riguarda la contestazione. Negli Stati uniti al momento è difficile radunare anche poche centinaia di persone per dire “basta alimentare questa guerra”. Credo che presto forse educheremo più persone. In ogni città che visito incontro gruppi che stanno iniziando a fare pressione sui propri rappresentanti e forse a breve avremo manifestazioni davanti agli uffici dei parlamentari. Di recente abbiano assistito ad alcune prime contestazioni durante comizi elettorali, quindi credo che siamo agli stadi iniziali della costruzione di un movimento che possa crescere velocemente dopo le elezioni.

Quindi non esclude che possa organizzarsi un movimento pacifista anche in USA?

Sì, anche se mi preoccupa molto il fatto che l’opposizione alla guerra sia stata in parte cooptata per ora dalla destra. Durante le finali di baseball (world series) alcuni gruppi hanno attaccato Biden per tutti gli aiuti spediti in Ucraina che ci avvicinano alla potenziale guerra nucleare. È quello che avrei voluto vedere da parte progressista anziché un gruppo di destra ben finanziato. Paradossalmente le voci più forti contro la guerra sono quelle di Trump e Tucker Carlson (commentatore Fox News, ndr). I progressisti faranno bene a prendere la parola e in fretta. Invece abbiamo esempi come quello di Ilhan Omar (parlamentare del Minnesota, parte del progressive caucus) che normalmente è una delle voci più incisive sulla politica estera, che invece ha prima firmato poi rinnegato l’appello a negoziare dicendo che le circostanze erano mutate, e dinanzi alle critiche di alcuni attivisti ha apertamente sostenuto le forniture di armi. Se non riusciamo ad avere dalla nostra parte nemmeno qualcuno come lei, significa che sarà più difficile del previsto costruire un movimento ampio.

Paradossalmente vi sono state prese di posizione, perfino da personaggi come Kissinger, a favore di un maggiore impegno per trovare soluzioni pacifiche…

Sì, ci sono molte voci, accademici, ex diplomatici, ex militari come il generale Mike Mullen, ex capo di stato maggiore, l’ex ambasciatore a Mosca, Jack Matlock, ex funzionari della NATO, oltre a personalità internazionali come il papa e il segretario dell’ONU Guterres. Molte però stentano a farsi sentire nella stampa mainstream. Una critica particolarmente lucida l’ha fatta Jeffrey Sachs (economista della Columbia, ndr.), ma dopo aver affermato che vi erano buone probabilità che ci fosse una mano americana nell’attentato al gasdotto Nord Stream 2, è stato radiato dai talk show.

Quali sono le prospettive per un movimento pacifista internazionale?

Mi sembra che iniziative come le manifestazioni per la pace indette in Italia promettano bene. Abbiamo intenzione di rafforzare i collegamenti con gruppi come Stop the War in Inghilterra e l’International Peace Bureau in Germania. Potrebbe essere utile invitare attivisti europei qui da noi per convincere i nostri politici. È urgente progredire e farlo in fretta.


(il manifesto, 2 novembre 2022)

di Alberto Leiss


È uscita una nuova edizione del libro di Lia Cigarini La politica del desiderio: il femminismo della differenza dagli anni Sessanta a oggi. Una pratica politica basata sul “partire da sé” e sull’invenzione simbolica. La “libertà relazionale” che chiede modifiche radicali al modo di vivere e produrre. Uno sguardo e una chiave per comprendere meglio la crisi che stiamo vivendo. Ma dal mondo degli uomini finora è mancata la capacità di capire e rispondere.

«La vittoria delle destre per l’Italia è una sventura, che tuttavia rivela alcuni fatti e può aprirci delle porte strette, se sappiamo analizzare le nuove contraddizioni con i nostri strumenti. Intanto, quando si parla di destra e sinistra bisogna distinguere tra uomini e donne: cioè tra un sesso in crisi e uno in movimento […] La sinistra ha abbandonato un’ipotesi incentrata sul protagonismo e sull’autorità femminile per tornare a una politica che rivendica la parità. In campagna elettorale si è presentata alle donne con un programma tutto diritti e parità, di nuovo basato sulla rappresentazione delle donne come sesso svantaggiato, laddove il senso comune femminile si era già spostato sul protagonismo. […] E la destra ha finito con l’interpretare le aspirazioni femminili meglio della sinistra, mettendo in campo donne che non avevano la preoccupazione di difendere parità e diritti».

Sono parole pronunciate dalla filosofa femminista Luisa Muraro non, come potrebbe a tutta prima sembrare, a proposito della vittoria di Giorgia Meloni, del suo partito e (molto meno) dei suoi alleati il 25 settembre del 2022, ma nel lontano 1994, subito dopo l’affermazione della coalizione formata da Berlusconi con la Lega di Bossi e Alleanza nazionale di Fini. Successo che portò all’elezione alla presidenza della Camera della trentenne «cattolica integralista, leghista di ferro» Irene Pivetti.

A definire così la neoeletta alla terza carica dello Stato e a raccogliere le opinioni di Luisa Muraro e di Lia Cigarini, fondatrici della Libreria delle donne di Milano, è Ida Dominijanni in una intervista sul manifesto raccolta il 25 aprile di quell’anno. Giornata in cui nella capitale del Nord si svolse la grande manifestazione antifascista che apparve come una prima risposta vitale delle forze di sinistra e democratiche al successo poco previsto e scioccante del neonato centrodestra. Al corteo si presentò a sorpresa anche Umberto Bossi: sopportò i fischi, voleva affermare una sua diversità1. Questa intervista, seguita dall’articolo di Lia Cigarini Meteore, uscito sulla rivista della Libreria di Milano Via Dogana qualche mese dopo, chiudeva la prima edizione del libro La politica del desiderio, raccolta dei principali scritti di Lia Cigarini a partire dai primi anni Settanta, pubblicato nel 1995 da Pratiche Editrice con una introduzione di Dominijanni.

Ora è stato ripubblicato da Orthotes con una nuova nota introduttiva di Stefania Ferrando (il saggio di Dominijanni si conserva in appendice) e una seconda parte che comprende scritti fino al 2020, chiusa da un’intervista all’autrice di Riccardo Fanciullacci. La lettura di questi testi consente una conoscenza diretta dell’elaborazione teorica e pratica del femminismo della differenza nel nostro paese, e anche una interpretazione di un buon mezzo secolo di storia politica italiana – e non solo italiana – dal punto di vista delle donne che hanno vissuto e vivono una ricerca di libertà secondo una via radicalmente alternativa a quella seguita dalle culture politiche, maschili, sia di radici marxiste, sia di orientamento cattolico o liberale, per non parlare delle realtà più a destra.

Un esercizio utile per comprendere il presente, a quasi trent’anni da quel 25 aprile che apriva, dopo l’89, dopo Tangentopoli e con la nuova legge elettorale maggioritaria (il “mattarellum”), la cosiddetta “seconda Repubblica”.

È seguito l’alternarsi di governi di centrodestra e centrosinistra, dei governi “tecnici” e delle inedite maggioranze seguite alle affermazioni dei 5 Stelle e della Lega di Salvini: ora ci ritroviamo, per così dire, al punto di partenza. Con la novità non di poco conto che la destra è più radicalmente a destra, con in mostra i vecchi legami con il neofascismo, ed è guidata da una donna che per la prima volta sale al governo del paese.

A maggior ragione, forse, serve provare a adottare uno sguardo femminile.

Quale desiderio

Ma che cosa significa l’espressione «politica del desiderio»? C’è il desiderio, il bisogno profondo «di valere come singolarità» che prova ogni persona – scrive in apertura Stefania Ferrando – e che viene intercettato dalle società neoliberali offrendo però «surrogati scadenti e violenti, che si traducono nella competizione, nella dinamica della prestazione, in relazioni strumentali e quindi alla fine in una esistenza a disposizione del mercato, schiacciati da una realtà che, di per sé, appare immutabile». Ma c’è una libertà – e un desiderio di libertà – che il liberalismo non conosce (o forse la intravede e cerca di sradicarla), simile a quella di chi crea opere d’arte, «ed è la libertà di inventare nuove mediazioni, indipendenti dai soldi e dai rapporti di forza. Che vuol dire: uscire dal determinismo, scoprire che il mondo racchiude molti mondi e che noi già lì abitiamo».

Queste sono invece parole scritte insieme da Lia Cigarini e Luisa Muraro2 che così proseguono: «Il linguaggio e le relazioni sono il luogo di questa scoperta, anzi: noi siamo il luogo di questa scoperta, nella misura in cui ci lasciamo modificare nello scambio con le altre, gli altri. Mettere le relazioni al cuore della politica, è come l’apertura di un mercato libero e creativo, dove uno/una smette di essere numero, mezzo, variabile, categoria, questione […] e acquista quella che i linguisti chiamano competenza simbolica: l’autorità di dire con le sue parole quello che gli capita di essere e di vivere. Dunque la libertà».

Ho riportato questo lungo passo perché contiene già molte delle parole-chiave che raccontano questa differente idea e pratica della politica. Ed è significativo che ciò avvenga in un testo che partiva dall’analisi di un documento sindacale3, scritto da cinque sindacalisti della Fiom – quattro uomini e una donna – in cui si leggeva tra l’altro che «l’esperienza e il punto di vista delle donne è condizione ormai irreversibile per i rapporti sociali». Una premessa indicativa della consapevolezza di un assetto completamente mutato delle relazioni tra uomini e donne, subito contraddetta però, nello stesso documento, dalla tendenza tipica della cultura della sinistra a ridurre la cosa a “questione sociale” al problema di una “categoria” colpita da determinate ingiustizie. Il ripetersi di questa «riduzione delle donne, da presenza viva e parlante, a un problema, oggetto di un discorso neutro- maschile – osservano le autrici – è impressionante».

Politica e simbolico

Come può emergere una «presenza viva e parlante» delle donne e come può contribuire a una politica di segno nuovo? Capace di coinvolgere anche il mondo maschile? La ricerca di Cigarini nei primi gruppi di autocoscienza si orienta subito al lavoro che “partendo da sé”, dalla propria esperienza reale e dal contesto relazionale in cui è vissuta, guarda prima di tutto alla “narrazione” e alla invenzione di un altro linguaggio. Grazie anche a una reinterpretazione delle scoperte della psicanalisi, da Freud a Lacan4. L’autrice ci tiene a puntualizzare che se sono gli anni del ’68 e successivi quelli che vedono emergere e realizzarsi il femminismo e “il taglio” del separatismo, le origini e la dinamica del movimento delle donne sono fin dall’inizio distinti e diversi da quelle che hanno caratterizzato la rivolta studentesca e giovanile, e poi l’ideologia dei vari gruppi di sinistra, il ’69 operaio, e dall’altro lato la deriva della lotta armata.

Anzi questa storia nasce prima del ’68. Già nel 1965, ricorda Cigarini5, esisteva a Milano il gruppo Demau (Demistificazione autoritarismo patriarcale) che nei due anni successivi produsse vari testi su quella che ancora veniva definita “questione femminile” per poi pubblicare nel ’69 Il maschile come valore dominante6. Analisi nella quale tra l’altro si critica la «mistica della lotta politica» in cui restano rinchiusi i movimenti anti-autoritari, che non vedono e non mettono «al centro della loro lotta la problematica delle donne».

I primi scritti raccolti nel libro di cui parliamo infatti affrontano subito alcuni nodi simbolici emersi già nei primi anni Settanta. Una polemica con Elvio Fachinelli e il regista della Grande abbuffata Marco Ferreri7: secondo l’autore de Il desiderio dissidente il film racconta che il maschio sta diventando inconsistente e superfluo mentre la femmina si rivela «madre mortifera». Non sembra questa obietta Cigarini – la realtà delle cose, piuttosto si tratta di «fantasmi». Abitanti menti maschili che avvertono che qualcosa sta cambiando ma sempre con caratteristiche rimozioni: si vede del femminismo la critica al maschio-padrone, e la si liquida sbrigativamente come cosa schematica, “ottocentesca” (i maschi-padroni non esistono più?), ma non si vedono le donne stesse, il loro moto di liberazione, il loro stare insieme, e la «lotta per dare un linguaggio a questa gioia (delle donne)».

Si vede invece la figura della madre e la si definisce mortifera. La critica prosegue utilizzando termini analitici (l’attribuzione alla figura materna del potere fallico nasconde «il desiderio di ucciderla per mettersi al suo posto») e si conclude con un folgorante riferimento alla concreta realtà italiana: una società con «madri onnipotenti ed esaltate, donne particolarmente asservite e mute, parata virile e fascismo endemico». Parole scritte nel 1974, che purtroppo non suonano troppo anacronistiche anche oggi.

Altro passaggio determinante, due anni dopo, è l’intervento scritto insieme a Luisa Abbà, L’obiezione della donna muta8. Anche in questo caso si parte dalla propria esperienza personale, gli anni di analisi, l’abbandono della politica in un partito, il disagio provato, fino al blocco della parola, anche nel gruppo di autocoscienza quando da questa pratica si avverte il bisogno di spostarsi su altri temi. Dal “personale” al “politico”: lavoro, istituzioni, medicina, la gestione di una libreria… Ma qui sorge il rischio di ricadere in nuove astrazioni, di rompere la relazione con se stesse e con le altre, “la perdita della sessualità”. «Mi sono convinta – recita il testo, originariamente pubblicato anonimo, come usava nel movimento, sul Sottosopra rosa9 – che la donna muta è l’obiezione più feconda alla nostra politica. Il “non politico” scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra».

Vedere e provare a nominare il rimosso, a partire dal proprio silenzio oltre che da quello altrui. Un esempio di come l’esperienza analitica e il punto di vista aperto dalla psicanalisi possano contenere la tendenza della politica (maschile) alla verbosità vuota, alla costruzione di analisi astratte, all’indicazione di “obiettivi” che non sono nelle nostre mani.

Potere e autorità

La vittoria elettorale di Giorgia Meloni a capo dei Fratelli d’Italia ha riaperto una discussione sul rapporto tra donne e potere. Come mai a sinistra, e nei partiti e movimenti che si collocano nell’area democratico-progressista, il tanto parlare di diritti e di parità non si è ancora tradotto in Italia in forti leadership femminili? Appena eletto segretario del Pd Enrico Letta ha deciso di sostituire i due capigruppo maschi alla Camera e al Senato con due donne. Una scelta che ha avuto il sapore di una logica correntizia (contro il renzismo interno) oltre che essere un premio ma di tipo octroyé – al protagonismo femminile. Le donne di destra, poco favorevoli alle quote, si affermano perché omologate ai modelli maschilisti? E quelle di sinistra non dimostrano spesso forme di subalternità ai potentati maschili nei partiti? La filosofa Michela Marzano si è chiesta se «l’ossessione che hanno certe donne di arrivare a ogni costo al potere» non sia sbagliata. «La libertà e l’autonomia femminile, con il potere, c’entrano poco»10.

Negli scritti di Cigarini si ritrova il filo di una continua riflessione ed esperienza su questo punto. La libertà femminile è il frutto di una competenza simbolica su di sé e nasce dalla relazione e dello scambio con altre donne. Naturalmente ogni donna è un universo a sé e la relazione si incarna con il riconoscimento delle altre, di un’altra, vedendo anche le “disparità”. Anzi è proprio la relazione di “affidamento” con un’altra donna alla quale si riconosce un di più, se sono chiari il desiderio e il contenuto dello scambio, che produce autorità femminile. Questa critica all’idea di una indistinta “sorellanza” ha sollevato discussioni nel mondo femminista. Disparità, affidamento, autorità: questa dialettica non porterà, di fatto, a nuove gerarchie di potere?

Autorità è una parola che ha anche il significato di un potere che si istituzionalizza. Ma il senso che le si attribuisce in questo caso è opposto (più simile, ma non coincidente, con “autorevolezza”). Per Cigarini, e nella ricerca di questa tendenza del femminismo, l’autorità è «una figura dello scambio», non è un sinonimo del potere che si incarna in questa o quella persona. Anche se naturalmente esistono donne alle quali l’autorità è riconosciuta. D’altra parte «quella dell’autorità femminile è una questione aperta, sempre in forse»11. E il lavoro per riconoscerla, costruirla «è tremendo», giacché l’ingombro creato nei secoli dal simbolico maschile è pesantissimo: «ha occultato e confuso la differenza dei sessi, persino nella procreazione, dove non vi è, da nessuna parte, la donna e il suo desiderio».

Da qui, anche, la valorizzazione della “relazione materna” che ancora una volta, pur radicandosi nel rapporto con la madre reale, è una figura simbolica, che spinge alla ricerca di una propria genealogia, orienta la “contrattazione” tra donne per affrontare gli inevitabili conflitti. Non esistono “madri simboliche” in carne e ossa, ripete Cigarini: questa ricerca e questa pratica politica vuole formare «autorità femminile alla quale tutte possono attingere per realizzare liberamente nel mondo i propri desideri”. Una pratica che “impedisce che si formi un’autorità di tipo materno o di tipo fallico, nel senso che la libertà di stabilire le regole misurata con la libertà dell’altra è tua».

Naturalmente lo scoglio del potere non può essere rimosso: «La questione del potere scrivono Lia Cigarini e Luisa Muraro in un articolo uscito su questa rivista12 – [è] centrale per la politica (come per la vita degli esseri umani e per la vita in genere)». Per le due autrici il femminismo ha vissuto la possibilità «provata praticamente, di creare autorità senza potere nei rapporti sociali. Fino alla distruzione di ogni forma di potere?», si chiedono. E la risposta è questa “formula”: il massimo di autorità con il minimo di potere. Non sarebbe “volontarismo”, perché la più parte delle donne «sono internamente oppresse dal potere, dalla sua logica e dai suoi simboli».

Ma è una formula che può essere fatta propria anche dagli uomini? Non lo sappiamo, osservano Cigarini e Muraro, perché “manca da parte maschile un lavoro di presa di coscienza. Non possiamo quindi sapere quanto l’avere potere conti per un uomo e per la sessualità maschile”.

Femminismo e sinistra

In numerosi interventi nella parte centrale del libro – cronologica- mente tra fine degli anni Ottanta e anni Novanta – Cigarini torna su un episodio emblematico del rapporto tra il femminismo e la sinistra, in particolare il Pci dell’ultimo periodo prima della “svolta” che ne cancellerà il nome, e di fatto anche la sostanza. È l’iniziativa di Livia Turco, giovane responsabile femminile nella segreteria Natta, succeduto a Berlinguer, di lanciare una “Carta itinerante delle donne comuniste” intitolata Dalle donne la forza delle donne13. Il documento, che fu approvato dalla Direzione del Pci nel 1986 e che animerà in effetti numerose iniziative politiche e sociali verso le realtà femminili, nel mondo del lavoro e non solo, era costituito da una prima parte che mutuava dal femminismo della differenza i concetti del ruolo fondamentale delle relazioni tra donne, del desiderio e della libertà femminili, e in una seconda parte con una serie di obiettivi e rivendicazioni programmati- che. Una sorta di “compromesso”, quindi, tra l’ispirazione del femminismo radicale e la “politica di massa” per com’era intesa dal Pci. Ma il punto dolente fu la scelta delle donne comuniste – non senza discussioni interne – di battersi per il “riequilibrio della rappresentanza” tra donne e uomini nelle istituzioni, e di fatto accentuando una forma di politica separata dentro il partito nelle commissioni femminili. In questo modo le donne, secondo Cigarini, rinunciavano a “mettersi al centro” della politica in un partito e dell’azione per cambiarlo, inoltre aprivano l’equivoco che donne elette in Parlamento lo fossero per rappresentare altre donne.

Nel Pci che dopo la scomparsa di Berlinguer cercava una difficile via di rinnovamento tra tendenze interne opposte, le idee del femminismo della differenza venivano formalmente riconosciute. Il congresso del cosiddetto “nuovo Pci”, nel marzo dell’89, fu aperto da un intervento di Luce Irigaray, autrice di quel libro, Speculum14, che aveva inaugurato la riflessione sulla differenza sessuale, pagando la sua “eresia” con l’espulsione dall’Università di Vincennes e la rottura con Lacan e l’Ecole Freudienne de Paris, dove Luce si era formata.

Pochi mesi dopo il crollo del muro di Berlino e il metodo con cui il Pci andò alla rimozione del proprio nome di fatto cancellarono quei tentativi di contaminazione. Nelle formazioni seguite alla fine del vecchio partito le politiche rivolte alle donne saranno sempre più improntate alla parità e ai diritti. Ma la legge non ha principalmente il potere di cambiare la realtà, può registrare il cambia- mento quando avviene nella testa e nei comportamenti delle persone.

Il lavoro e la legge

Questo tentativo di lettura dei testi di Cigarini, mettendoli saltuariamente in relazione con gli eventi della storia politica italiana dell’ultimo mezzo secolo sarebbe monco se non citassi almeno altri due aspetti della sua riflessione e esperienza. Il mondo del diritto, e quello del lavoro.

La professione di avvocata ha portato l’autrice a riflettere radicalmente sul funzionamento della giustizia nel processo e sul significato della legge. Da un lato l’idea che la pratica politica femminista tende ad agire «sopra la legge»15, cioè nel luogo «dell’esistenza simbolica, il luogo dell’autorità che io oggi riconosco ad altre donne e mi riconosco». Il rischio di puntare in primo luogo a nuove leggi è quello di passare da una condizione di «escluse-internate» in un ordine normativo segnato dal maschile, a quello di «incluse-internate» nello stesso ordine. Come ha scritto Antoinette Fouque quello che si desidera è invece «un gran balzo al di fuori, in indipendenza», che cambia quella condizione. Ciò non vuol dire che si escluda la possibilità, vista la crescita del cambiamento ottenuto dal movimento delle donne, della creazione di un nuovo diritto. Ma questo, secondo l’autrice, può avvenire se si creano nella pratica del processo quelle relazioni tra donne, avvocate, clienti, magistrate, che sappiano modificare le norme costruendo nuove mediazioni. Che devono necessariamente avere una valenza universale.

Al mondo del lavoro è dedicata una sezione, “Immagina che il lavoro”, nella parte nuova del libro che copre gli anni più vicini. Anche qui i testi sono in grande misura il racconto di pratiche che nel corso degli anni hanno coinvolto sindcaliste, ma anche imprenditrici, intorno alla Libreria delle donne di Milano. Il titolo della sezione rimanda al Sottosopra che nel marzo 200916 fa un punto su questiscambi, insistendo sulla idea che per lavoro si debba intendere «tutto il lavoro necessario per vivere». Quindi non solo l’attività produttiva riconosciuta dal mercato economico, ma anche tutto il lavoro di cura, o di “manutenzione”, della vita, che in genere è svolto dalle donne senza essere, letteralmente, messo nel conto. Un punto di vista che apre a una concezione del “mercato” radicalmente diversa: un luogo a cui “portare tutto”. Non solo le prestazioni professionali, ma anche desideri, sentimenti, relazioni. Un cambiamento che dovrebbe coinvolgere tutti, donne e uomini, nei loro tempi e modi di vita.

Ma la sezione è aperta da un intervento di spessore teorico – Se Marx avesse capito17 letto nel 2015 al convegno I ritorni di Marx, tenuto presso la Fondazione Luigi Longo di Alessandria. Il ritorno all’autore del Capitale di Lia Cigarini presenta un Marx «mai rinnegato», ma riletto – e corretto – con gli occhi di Simone Weil, accostata al contemporaneo pensiero di Antonio Gramsci. Due coetanei che non si conoscevano, «corpi fragili, abitati da un’intelligenza superlativa e dalla passione politica».

Da questa lettura esce assai ridimensionata la pretesa “scientifica” delle previsioni di Marx (un «idealismo utopico») così come l’aver concentrato nell’economia la «chiave dell’enigma sociale della sottomissione del numero più grande ai pochi detentori del potere». Ne deriva un’idea di libertà del lavoro, e di libertà di e per tutte tutti che non rimuove la “singolarità irriducibile” del soggetto, ma senza avere nulla a che fare con la libertà borghese o con quella del neoliberismo: una «libertà relazionale», che «non è data una volta per tutte ma che si struttura nella interdipendenza tra gli esseri umani».

E questa acquisizione, propria del movimento delle donne e del femminismo, possono essere – afferma Cigarini – «una possibile risposta agli interrogativi e alla estrema sofferenza del mondo del lavoro».

Una risposta mancata

Quel saggio su Marx terminava, ribadendo la “complessità”, ma anche la verità di una idea della libertà non liberale ma relazionale. Qualcosa che supera il paradigma dell’uguaglianza, oltre un mondo “già pensato” (giustizia, socialismo, comunismo): la libertà delle donne «apre un campo non concluso ma in divenire: il conflitto tra i due sessi è dinamico». «Noi ci stiamo pensando aggiungeva Cigarini – ma se gli uomini a loro volta non lo fanno, in specifico, se non pensano al rapporto tra produzione e riproduzione continuano a mancarci le mediazioni necessarie».

Come in altri interventi l’autrice qui poneva la necessità – a questo punto della storia – dello sviluppo di “relazioni di differenza” tra donne e uomini per aprire un mutamento complessivo, che spesso questo femminismo ha nominato come un “cambio di civiltà”. Qualcosa che presume una modificazione radicale dello sguardo e del desiderio anche da parte nostra. La domanda rivolta a noi maschi torna nella lunga intervista condotta da Riccardo Fanciullacci, che chiude il volume ricapitolando e aggiornando tanta parte del materiale precedente. Intanto siamo entrati in un nuovo decennio e le cose non vanno molto bene.

È in crisi la politica della rappresentanza e dei partiti, e sono in crisi le stesse grandi democrazie occidentali: siamo davanti al precipizio nella guerra dopo una pandemia i cui effetti e interrogativi non sono ancora sciolti, conclusi. La lettura di Cigarini è che questa crisi sia in buona misura interpretabile con la caduta della pretesa di universalità che avevano le costruzioni e istituzioni maschili, quindi anche come un effetto del movimento delle donne. Ma ancor più come prodotto «dell’insufficienza della risposta che a questo hanno dato gli uomini».

L’intervistatore prova ad argomentare che, se non nei luoghi del potere, dell’informazione, della politica, ma nell’agire quotidiano, a fronte dei maschi che reagiscono con violenza, fino al femminicidio, c’è sicuramente una maggioranza di uomini che accettano per esempio il fatto di essere lasciati, per- ché «sanno che questa possibilità è nell’ordine delle cose giacché è conseguenza della libertà femminile». Questo è vero, riconosce l’autrice, tuttavia non sanno ancora mette- re in parola questo mutamento, dargli valore simbolico e quindi farne discendere conseguenze piano politico o sul piano della organizzazione del lavoro.

Cigarini, a questo proposito, fa un esempio sul quale non posso mancare di interloquire. Ci sono stati lunghi anni di interlocuzioni tra la rete di Maschile plurale, della quale faccio parte, e le femministe della Libreria delle donne di Milano. In particolare nei seminari annuali organizzati da “Identità e differenza” in Veneto18. Anche da quegli scambi è cresciuto un impegno sul terreno del contrasto alla violenza maschile e nella diffusione di gruppi di uomini che riflettono sulla propria differenza sessuale. Una pratica che però stenta a uscire dal “tra uomini”. Una sorta di separatismo speculare?

«Non è più la politica tradizionale – osserva Cigarini – ma non è neppure ancora una politica che mette al centro lo scambio con le donne e con ciò che il movimento delle donne ha generato […] mi pare un appuntamento mancato». Credo che siano osservazioni fondate. Posso dire che nei gruppi di Maschile plurale, e in altre realtà simili diffuse un po’ in tutta Italia, si conferma la ricerca di uomini anche molto giovani verso luoghi dove parlarsi, tra maschi, in un linguaggio diverso da quello prevalente nei luoghi di lavoro, al bar, in palestra, allo stadio. Che c’è il racconto di relazioni diverse con le compagne o mogli, con i figli piccoli. Con altri uomini. Che c’è un consapevole rifiuto della “maschilità tossica”, propria e altrui. Emerge però un grande interrogativo su che cosa sia e cosa si debba intendere per politica. Quel salto di qualità simbolico e pratico resta come un oggetto rispetto al quale il desiderio sta come acquattato.

Forse, in forme più o meno inconsce, teme, manifestandosi pienamente, di produrre altri terribili guai?


1 All’esibizione antifascista a Milano Bossi farà seguire – come si ricorderà – una intesa di fatto con Massimo D’Alema, segretario del Pds, che porterà otto mesi dopo alla caduta del primo governo Berlusconi, sul tema delle pensioni, e alla nascita del governo “tecnico” di Lamberto Dini. L’Ulivo di Prodi vincerà nel 1996 anche perché la Lega di Bossi non si alleò con Berlusconi e Fini.

2 La politica del desiderio e altri scritti, Napoli-Salerno, Orthotes Editrice, 2022. Al fondo e al centro della politica, su Via Dogana, n. 64, Io e il capitale, marzo 2003, p. 213.

3Pubblicato su Critica Marxista, 2002, n. 5-6.

4 Lo argomenta nel suo saggio Ida Dominijanni: «C’è al cuore del pensiero politico di Cigarini un nocciolo senza il quale tutti gli strati perdono di significato e si disfano nell’equivoco. Questo nocciolo […] ha a che fare con la psicanalisi e più precisamente con il debito, disconosciuto, che il concetto di materialismo ha contratto con l’eredità di Freud e che la politica si rifiuta di assumere nel proprio bagaglio teorico e pratico» (in La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 337).

5 Ivi, p. 253.

6 Firmato da Lia Cigarini, Daniela Pellegrini, Elena Rasi, pubblicato sulla rivista Il manifesto, 1969, n.2, e poi nel libro di Rosalba Spagnoletti I movimenti femminili in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1971.

7 La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 19.

8 Ivi, p. 25.

9 Sottosopra sarà la testata di tutti i principali documenti pubblicati negli anni dalla Libreria delle donne di Milano.

10 Nell’articolo Donne, meglio libere che di potere, su La Repubblica, 11 ottobre 2022.

11 Note sull’autorità femminile, pubblicato su Madrigale 1989-90, n. 4. In La politica del desiderio e altri scritti, cit. a p. 99.

12 Lia Cigarini, Luisa Muraro, Politica e pratica politica, in Critica Marxista, 1992, n. 3-4. In La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 169.

13 Di questa esperienza parlano le pro- tagoniste in C’era una volta la Carta delle donne, a cura di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, Roma, Biblink, 2017. Vedi anche Livia Turco, Compagne. Una storia al femminile del Partito comunista italiano, Roma, Donzelli, 2022.

14 Luce Irigaray, Speculum, traduzione di Luisa Muraro, Milano, Feltrinelli, 1975.

15 La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 149.

16 Immagina che il lavoro, Sottosopra, marzo 2009 (https://www.libreriadelledonne.it/pubblicazioni/sottosopra-immagina- che-il-lavoro/). Vedi anche il nuovo libro, a cura del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, Bergamo, Moretti e Vitali, 2022.

17 La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 259.

18 Cfr. Teresa Lucente, Il luogo accanto. Identità e differenza, una storia di relazioni, Roma, Effigi edizioni, 2020.


(Critica Marxista n. 5, 2 novembre 2022)

di Luciana Castellina


Io non sono una pioniera del femminismo. Innanzitutto per ragioni generazionali, visto che appartengo a quella maturata nel dopoguerra, quando la promessa dell’emancipazione, e dunque della conquista di diritti uguali a quelli degli uomini, ci parve di già una bella prospettiva: non avevamo capito che quelli che servono a noi non sono gli stessi. Sono stata però una precoce recluta del nuovo femminismo che comparve sulla scena italiana intorno al ’68 – non figlia del movimento, ferocemente maschilista – e però accanto, perché ci aveva insegnato la ribellione. 
Ebbi fortuna, perché a coinvolgermi fu il «femminismo della differenza», di cui tutt’ora rimango una fedele discepola. A convincermi fu Lia Cigarini, e fu più facile perché, sebbene parecchio più giovane di me, avevamo una provenienza analoga, la Fgci, di cui lei fu anzi la prima segretaria donna di una grande provincia, Milano (la nostra antica comunanza ha fatto sì, non a caso, che il primo scritto femminista della rivista «il Manifesto», del 1969, fosse firmato da Lia).

Fortunata fui anche per via di un precoce incontro con un’altra importantissima esponente del nuovo movimento: Luisa Muraro, conosciuta a un dibattito sul divorzio alla biblioteca di Montevarchi, uno dei primi e per di più in una zona che come allora la Toscana, dominata dalle famiglie mezzadrili, all’argomento restava molto ostica. Quando mi dissero che ci sarebbe stata questa Muraro, docente della Università Cattolica, mi irritai: perché far parlare proprio l’avversario più duro su una questione già così difficile in quella zona? Luisa era giovane e incinta. Dopo poco ci trovammo, con mia sorpresa, sostanzialmente d’accordo. Tanto che l’indomani telefonai alla assai intelligente responsabile femminile della federazione Pci di Milano, Nora Fumagalli, per dirle: guarda che alla Cattolica c’è un gruppo molto interessante di donne, prendici contatto. Da allora non ci perdemmo più di vista, sempre più convergenti anche sulle questioni politiche generali.

Adesso molti degli scritti più antichi e parecchi nuovi di Lia Cigarini sono stati raccolti dalla casa editrice Orthotes in un libro – La politica del desiderio (pp. 374, euro 25) – curato da Riccardo Fanciullacci (c’è anche una sua bella intervista all’autrice) e da Stefania Ferrando che scrive la nota introduttiva. 
Non tenterò nemmeno di riferire, e neppure di accennarvi, a tutte le tematiche che il volume affronta, nemmeno al saggio assai intrigante sul rapporto con la psicoanalisi scritto da Ida Dominijanni nel ’95 (era a introduzione della prima edizione de La politica del desiderio, per Pratiche editrice nel 1995, ndr) e qui ripubblicato. Scelgo un solo tema, il lavoro, del resto quello su cui Lia ha scritto le cose più interessanti, anche perché, cosa rara, ha continuato a partecipare assiduamente alla vita sindacale, portando nel dibattito delle lavoratrici, a cominciare dai primi collettivi femminili di fabbrica, la nuova consapevolezza: la contraddizione di genere. Aggiungerei anzi: il lavoro, come tema particolarmente segnato dalla differenza sessuale, un problema diventato anche più esplosivo da quando le donne sono massicciamente entrate nel mercato del lavoro.

E quando proprio la conquista del diritto ad accedere a tutte le professioni ha mostrato quanto grande, anzi drammatico, sia il peso di una società ancora patriarcale, che non ha nemmeno mai seriamente messo in discussione la divisione fra lavoro produttivo, per il mercato, e quello riproduttivo, non pagato né socializzato, pur essenziale per il mantenimento dell’umanità. E così è proprio in seguito a una conquista come l’accesso a tutte le carriere che, paradossalmente, le donne si sono ritrovate con un’identità ancora più appiattita su quella maschile, la differenza sessuale ancora una volta calpestata.

All’inizio si è forse pensato che sarebbe gradualmente venuta alla luce, via via automaticamente risolvendosi; e invece è accaduto il contrario. Le stesse lotte per l’occupazione, per la parità di retribuzione, quelle per il welfare – restato tutto centrato sulla figura del capofamiglia – non hanno fatto che rendere più evidente l’urgenza di prendere in conto la questione di genere e quindi la insuperata separazione fra lavoro per il mercato e il lavoro domestico di cura. E dunque la necessità di considerare a tutti gli effetti «lavoro» tutto quello che è necessario per vivere, non più concepibile come attività residuale, affidata alla benevolenza femminile. Con evidenti grosse conseguenze di carattere più generale di cui sarebbe obbligatorio prendere atto: che non è possibile pensare di modificare i rapporti sociali di produzione senza pensarli insieme a quelli di riproduzione, e dunque della necessità di rivedere leggi e comportamenti alla luce della differenza di genere che ne è alla base. È proprio a partire dal lavoro che più limpidamente appare l’imbroglio grazie al quale viene regolata la nostra società, che vengono scritte le sue leggi e plasmati i comportamenti. L’imbroglio di far credere che esista un cittadino neutro, quando quel neutro è tutto disegnato sull’identità maschile, contrabbandata come modello universalistico.

Per svelare l’imbroglio, le donne stanno prendendo la parola ma non senza esser confrontate con nuove minacce. Contro cui è urgente rispondere innanzitutto rinominando con le proprie parole quelle che ci sono state imposte dal maschio, quelle «ufficiali» del «femminismo di stato», che cerca di convincerci che quanto devono volere è conquistare un pezzetto di quanto hanno gli uomini. Sicché il tripudio di fierezza per aver conquistato una percentuale crescente di presenza nella magistratura, nella medicina, nella scienza, nella politica, in fabbrica, finisce per corrispondere, in realtà, con una maggiore oppressione: un doppio lavoro stressante che o costringe ad abbandonare o altrimenti a subire il disagio imposto dall’obbligo di rispettare regole che ci sono state cucite addosso dal sistema che della natura della donna non ha mai voluto prendere atto: a farci sentire menomate perché non capaci di rendere altrettanto se non a costo di enorme fatica e sacrificio, finanche ad obbligarci a rinunciare a diventare madri, di perdere un potere che pure in molte vorremo conservare. Costrette a perdere la felicità oltreché l’autonomia.

Nel momento in cui assistiamo al varo di un governo espresso da una maggioranza che come primo progetto di legge ha presentato quello che riconosce diritto di cittadinanza italiana al feto, ma non alla donna che lo porta nel grembo; e che lancia una campagna per incrementare la natalità pur senza fare nulla per renderla possibile a tutte le donne che lo desiderino, rischiamo di perdere anche il diritto pur con fatica conquistato, il diritto di decidere se avere figli o non averli.

Costrette a subire la campagna già lanciata dal presidente Fontana intesa a far sentire le donne colpevoli dell’estinzione degli italiani, che, visto il tasso di natalità ridotto all’1,3%, potrebbe verificarsi in un tempo prevedibile. La minaccia di abolire il diritto all’aborto si accompagnerà sicuramente all’accusa alle donne di essere responsabili del crollo delle nascite. La battaglia per cambiare il nostro modo di vivere, per socializzare il lavoro di cura attrezzando servizi collettivi adeguati per bambini, vecchi e malati, spostando l’accento a questi investimenti anziché a quelli destinati a moltiplicare merci superflue, ridurre finalmente l’orario di lavoro e renderlo flessibile non per risparmiare salario ma per adattarsi ai bisogni più elementari, tornare a puntare su uno scambio fondato sul valore d’uso e non solo su quello di scambio, credo sia ormai un obiettivo possibile e un impegno urgente. Vorrei che tutte e tutti leggessero questo libro di Lia Cigarini per ritrovare il coraggio di ripensare al mondo, di ritrovare il proprio agio in una visione diversa del vivere, liberandosi dalla gabbia che ci è stata cucita addosso. In gabbia ci lasciamo Giorgia Meloni con il suo titolo di presidente del Consiglio.


(il manifesto, 1° novembre 2022)

di Flavia Perina


La scelta del rave di Modena come casus belli per l’introduzione di una nuova fattispecie di reato, epicentro del “pacchetto legge e ordine” con cui Giorgia Meloni ha deciso di debuttare da premier, è forse la più significativa, quella che spiega meglio la direzione imboccata dal nuovo governo. Tra i tanti casi di cronaca che angosciano l’opinione pubblica, dai femminicidi agli abusi sui bambini, dai pazzi liberi di accoltellare gente al supermercato agli stupri, è stato scelto quello che più sollecita l’immaginario che una volta avremmo definito benpensante. Folle di ragazzi riuniti, senza controllo, senza permessi, che si abbandonano a un rito dionisiaco fatto di musica, droghe e stordimento collettivo sono il nemico perfetto per ogni segmento elettorale di FdI, i laboriosi imprenditori del Nord, le partite Iva che tirano la carretta, le famiglie con figli adolescenti. Inutile sottolineare il doppio registro usato a Modena e a Predappio, mettere a confronto i due raduni e il diverso registro utilizzato: la risposta ufficiale è che Predappio c’è da anni e persino i sindaci Pd hanno sempre tollerato, la verità vera è che nella visione dell’elettorato di destra i rave sono un insopportabile e pericoloso fenomeno di devianza collettiva, Predappio no. E dunque: da domani rischierà fino a sei anni di carcere chi «invade territori ed edifici allo scopo di organizzare raduni di oltre 50 persone», una soglia così bassa da rendere sanzionabile una qualsiasi festa sulla spiaggia e persino l’incontro occasionale di un paio di classi di studenti. Una norma-bandiera, senza dubbio, ma anche una norma furba. Massimo impatto simbolico e minimo costo politico. Certo non ci saranno rivolte di piazza per il giro di vite contro i rave. Certo non si perderanno voti, come magari sarebbe successo dando la scossa ad altre turbolenze, tipo gli ultras del tifo calcistico o certi cortei di categoria (vedi i tassisti) a cui da anni è consentito esplodere mortaretti e fumogeni in pieno centro. Segue la stessa regola l’altro filone identitario del primo Consiglio dei ministri della destra, cioè la fine del cosiddetto “approccio ideologico al Covid”. Ci si limita al ritorno in servizio dei medici obiettori del vaccino, ritenuto segnale sufficiente a marcare il cambio di passo rispetto alle scelte di Mario Draghi. Resta sullo sfondo il richiamo al modello alternativo di Donald Trump e Jair Bolsonaro, i due super-leader che guidarono l’approccio della destra all’epidemia incitando a battere il virus con l’indifferenza, “da uomini”, al massimo con qualche iniezione di disinfettante. E anche qui la svolta va misurata col core-business meloniano. Magari non c’è (ancora) la sanatoria delle multe, magari non c’è (ancora) l’abolizione dell’obbligo di mascherine, ma con un gesto minimo si marca un cambiamento che rassicura l’elettorato dei commercianti, delle piccole imprese, dei laboratori, stufi di spendere in barriere di plexiglass, impianti di aerazione, disinfettante. Mai più ci impicceremo dell’afflusso ai vostri negozi o ai vostri uffici, mai più vincoleremo voi, i vostri dipendenti o i vostri orari di apertura alle quarantene o ad altre simili limitazioni. Il primo Consiglio dei ministri ci consegna così una risposta piuttosto chiara alla domanda che da molte settimane l’opinione pubblica si pone: di che pasta è fatta questa destra, cosa pensa, cosa vuole, dove porta il Paese? Ecco, questa destra che ha adattato a sé stessa tanti aggettivi, sovranista, populista, conservatrice; questa destra che vuole lo Stato forte quando si parla di rave e lo Stato leggero quando si parla di vaccini; questa destra delle regole ma anche delle non-regole, è soprattutto una destra pragmatica. Cerca la conferma del consenso, e se possibile il suo ampliamento, più che la costruzione di un nuovo ordine. Risponde al suo popolo più che a principi astratti. E il suo popolo è l’impasto costruito in vent’anni dalle prassi politiche dei tre alleati-concorrenti – Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e ovviamente Giorgia Meloni – che la neo-premier cavalca, oggi, meglio degli altri due. C’è l’idea di uno Stato-guardiano, certo, ma anche la convinzione che questo guardiano debba fermarsi sulla soglia delle case e dell’intraprendere dei cittadini perché quelli non sono affari suoi. C’è l’idea della forza della legge, di sicuro, ma anche la convinzione che la legge conti meno se costituisce un intralcio a certe libertà. E anche la libertà è opinabile: vale tantissimo in economia, è meno assoluta nel campo dei diritti e persino delle modalità di raduno di più di cinquanta persone. All’interno di questo immaginario ventennale i pesi si redistribuiscono. Meloni ha attenuato l’imprinting garantista del berlusconismo fermando l’abolizione dell’ergastolo ostativo e la riforma Cartabia che avrebbe reso alcuni reati minori procedibili solo su querela. Ha minimizzato le priorità salviniane in materia di immigrazione, accantonando per ora il ripristino dei Decreti Sicurezza. Prende tempo su reddito di cittadinanza, pensioni, flat tax, innalzamento del limite del contante, non solo perché sarà impossibile mantenere le mirabolanti promesse fatte dai suoi partner ma anche per evitare proteste e ostilità immediate. Ha scelto legge e ordine come argomento del debutto perché è argomento suo, e quindi marca il diritto di primogenitura che ha conquistato il 25 settembre, ma anche perché il gran colpo di fortuna del rave di Modena le ha offerto l’occasione di usare il pugno di ferro evitando temi di legalità assai più scomodi e complessi. Pragmatismo è anche questo: assicurarsi, per quanto possibile, un esordio senza troppi contraccolpi.


(La Stampa, 1° novembre 2022)

di Laura Caffagnini


Report dell’evento NO ROOM INSIDE ME FOR ME del 25 ottobre 2022 presso l’Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne (OIVD)


«Noi come esseri umani siamo fatti in modo tale che non possiamo far male agli altri senza che questo torni indietro a ferire noi stessi. Questo è il messaggio che voglio lasciare agli uomini che comprano le donne e le bambine nella prostituzione: tu stai facendo male a tutti incluso te stesso». Una chiusa potente quella dell’altrettanto potente docufilm “NO ROOM INSIDE OF ME FOR ME”, video-intervista di Caterina Gatti a Rachel Moran, donna sopravvissuta alla prostituzione e autrice del magistrale libro “Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione”. La proiezione, seguita dalla discussione con la regista, è avvenuta nell’incontro online organizzato il 25 ottobre dall’Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne (Oivd) in collaborazione con la Federazione Donne Evangeliche in Italia (Fdei). Incontro che prosegue l’impegno di affrontare la questione prostituzione come espressione della violenza contro le donne al termine di un ciclo di quattro incontri su “Religioni e prostituzione”. Dopo aver ascoltato donne di diverse religioni e attiviste impegnate in associazioni si è ascoltata una sopravvissuta impegnata nella campagna abolizionista che con il suo libro ha indicato una via.

L’intervista è nel segno dell’empatia, una comunicazione schietta e delicata tra donne che inizia quando la regista rievoca un’esperienza personale da modella: l’oggettificazione del corpo femminile si afferma molto prima di arrivare all’estremo livello della prostituzione. E termina nello stesso segno quando Moran, dopo aver nominato l’orrore del suo vissuto dai quindici ai ventidue anni, pensa a un futuro diverso anche per i suoi carnefici. La sua è una elaborazione etica e politica dell’esperienza vissuta, hanno riscontrato donne e uomini che al termine della visione hanno dialogato con Caterina Gatti proponendole domande e riflessioni. Etica nello stigmatizzare lo sfruttamento degli uni sulle altre, politica nell’immaginare una società che non sia basata sul dominio degli uomini sui corpi delle donne e sul potere del denaro. Il cuore dell’analisi di Moran è immortalato nel titolo del documentario che dice il massimo danno della prostituzione: la dissociazione. «Lui sa quanto stai male, ma non si vuole fermare perché tu non sei un essere umano per lui. Così devi elaborare tutto questo, sai che la tua umanità è sminuita per tutto quel tempo, fingi di non saperlo perché saperlo sarebbe un’agonia. Ma tu sai nella tua mente ciò che sta realmente accadendo. Quello è ciò che crea la separazione. Devi divorziare da te stessa, dai tuoi stessi pensieri, sensazioni, opinioni, volontà e desideri. Non c’è spazio per te stessa in te stessa».

Il dialogo tra Caterina e Rachel illumina tanti scenari: l’abuso sessuale travestito da lavoro, lo sfruttamento delle ragazze migranti, la legittimazione di una maschilità predatoria, la miseria e l’abuso sessuale come antefatti alla prostituzione, l’importanza dell’educazione e di una nuova narrazione. Il giudizio che emerge dal film non può che respingere ogni tentativo di dare rispettabilità e legalità a un’istituzione sociale basata sullo stupro a pagamento.


(OIVD newsletter, 31 ottobre 2022)

Redazione


La neoministra della famiglia e natalità Eugenia Roccella è intervenuta più volte sul tema dell’aborto, dicendo che “non è un diritto” e ascrivendo l’origine dell’affermazione al femminismo della differenza.
Una parte del movimento delle donne, in primis le femministe della differenza, nel 1975 ha portato avanti una posizione radicale chiedendo l’abolizione del reato di aborto, cioè la sua depenalizzazione, non un intervento legislativo. Poi, negli anni successivi, molte sono scese in piazza per difendere la 194 e chiederne una migliore applicazione, continuando a promuovere momenti di discussione con un punto fermo: il sì della donna non si può saltare, una donna non può essere obbligata a diventare madre.
Questo pare che la ministra Roccella se lo dimentichi, o non lo sappia.


Pubblichiamo qui un intervento di Ida Dominijanni su Facebook e alcuni articoli che ci sembra importante rileggere. Per chi ha tempo, c’è un’intera sezione del sito, Noi e il nostro corpo, che riporta ampiamente documenti storici e articoli degli ultimi vent’anni.


22-10-2022: Pagina Facebook di Ida Dominijanni

4-2-2005: Sulla vita umana di Luisa Muraro

12-2-2005: Il ripensamento femminista di Luisa Muraro

10-5-2018: Luisa Muraro: l’aborto non è un diritto di Antonella Mariani


(libreriadelledonne.it, 31 ottobre 2022)


La farmacia era l’unico posto che per due anni ha frequentato, oltre la palestra e la stanza 204 dell’hotel di Cesano Maderno, in provincia di Milano. L’atleta della Nazionale Nina Corradini, adesso diciannovenne ma all’epoca minorenne, ci andava di nascosto per comprare il lassativo Dulcolax, “un estremo tentativo” per soddisfare i parametri del peso della squadra azzurra di ginnastica ritmica e non ricevere così le “pressioni mentali” delle allenatrici della Federginnastica.

«Mangiavo anche sempre meno – confessa – ma ogni mattina salivo sulla bilancia e non andavo bene: per due anni ho continuato a subire offese quotidiane».

Umiliazioni verbali – già denunciate anche da professioniste come la ballerina della Scala di Milano Mariafrancesca Garritano o le britanniche Nicole Pavier e Eloise Jotischky – che Nina Corradini ha deciso di raccontare adesso, un anno e mezzo dopo che è riuscita a uscire dal “circolo vizioso”, come lo definisce lei.

«Me lo ricordo il giorno in cui ho trovato la forza di andare via, era il 14 giugno 2021. Avevo passato ogni minuto degli ultimi mesi precedenti a desiderare di scappare da lì. Ora voglio informare e proteggere le bambine più piccole: tutti devono sapere la realtà».

Riavvolgere il nastro per Nina Corradini non è facile: «Fino a qualche mese fa piangevo ancora, però ora riesco a raccontare tutto senza lacrime. Merito anche delle sedute dallo psicologo, sono in cura da un anno». Aveva quindici anni quando, nella primavera del 2019, è stata chiamata dalla Federazione per una prova. «Poi mi hanno convocato per i tre mesi estivi a Follonica, al termine dei quali sono stata confermata in squadra».

Così la ginnasta romana, che a dodici anni dalla Lazio Ginnastica Flaminio era passata alla Faber Ginnastica Fabriano, si è trasferita con le Farfalle a Cesano Maderno: 7-8 ore di allenamento al giorno, poi le lezioni fino alle 20.00 per la scuola privata. I primi due mesi sono trascorsi con serenità, poi il mondo che aveva idealizzato è svanito: «Per le allenatrici ero solo una pedina, non c’era rapporto umano. Non mi hanno mai chiesto come stessi».

Nina quotidianamente veniva pesata con le altre compagne, «in mutande e davanti a tutti, sempre dalla stessa allenatrice», che segnava i dati su un quadernino ed emetteva il proprio giudizio: «Cercavo di mettermi ultima in fila, non volevo essere presa in giro davanti alla squadra. L’allenatrice mi ripeteva ogni giorno: “Vergognati”, “mangia di meno”, “come fai a vederti allo specchio? Ma davvero riesci a guardarti?”. Una sofferenza».

Il controllo del peso avveniva dopo la colazione: «Infatti per due anni non l’ho mai fatta. Ogni tanto mangiavo solo un biscotto, ovviamente di nascosto, mentre ci cambiavamo per l’allenamento». Nina non sapeva più come fare: «Mi pesavo quindici volte al giorno. Il lassativo mi disidratava e, non mangiando, non avevo più forze. Mi ammalavo, avevo poco ferro nel mio corpo. Una volta sono svenuta a colazione, ma le allenatrici mi hanno fatto andare lo stesso in palestra, pensavano fosse una scusa».

Un incubo a occhi aperti, vissuto da sola, da cui si è svegliata a diciott’anni: «Sul treno mi sono sentita sollevata. Durante il mio periodo in squadra non ho mai parlato dei problemi con i miei genitori, neanche con le compagne: la competizione era molto alta, era più forte dell’amicizia. Inoltre credevo che loro stessero bene, mi sentivo quasi in colpa a stare male».

Addirittura, sostiene Nina, il rapporto delle allenatrici con le atlete variava in base al loro peso: «Se eri dentro i loro canoni ti trattavano in modo diverso». Ma qual è lo standard? Non lo sa, Nina: «Non ce l’hanno mai detto. Io pesavo sui 55 chili (per 175 cm di altezza, Ndr), ma l’allenatrice aveva sempre da ridire. Il cibo era diventato un incubo, pensavo alle conseguenze del mangiare determinati alimenti. Avevo imparato che di notte perdevo 3 etti e che un bicchiere d’acqua ne pesava 2». Le istruttrici erano tre, più la maestra di danza.

«Ma soltanto una era quella che si esprimeva con commenti negativi, era sempre la stessa, le altre si limitavano a leggere i dati sul quaderno. Non so se la Federazione sia a conoscenza di questo metodo: magari dei controlli sì, ma del trattamento e delle umiliazioni no». E la Federginnastica, contattata da Repubblica, ha dichiarato che per il momento preferisce non commentare.

La testimonianza di Nina è importante. I suoi genitori sono contenti che abbia deciso di parlare: «Non è stato facile raccontare a loro quanto accaduto e i reali motivi che c’erano dietro la mia decisione di abbandonare la ginnastica ritmica. Gliene ho parlato separatamente: mamma si è messa a piangere in un ristorante, papà invece si è arrabbiato tanto con le allenatrici. Anche perché ero minorenne».

Tuttora Nina, al primo anno di Scienze della comunicazione, deve fare i conti con i fantasmi del passato: «Faccio fatica a mangiare davanti ad altre persone». Con le sue parole vuole rompere il silenzio che si cela su queste pressioni psicologiche. «Spero di dare voce a tutte le altre vittime di queste pressioni».


(la Repubblica, 30 ottobre 2022)

di Chiara Cruciati


Giovedì Amineh Kakabaveh si è presentata nella facoltà di Scienze politiche della Sapienza a Roma, appena occupata dagli studenti dopo il pestaggio della celere di martedì: «Non restate mai in silenzio», ha detto. Poche ore prima avevamo incontrato la deputata curda iraniana svedese, in questi giorni in Italia, per parlare della rivolta in Iran.

La sollevazione, iniziata 42 giorni fa, è partita dal Rojhilat, il Kurdistan in Iran. Per la prima volta dai territori curdi ha raggiunto l’intero paese.

La questione va vista da una prospettiva storica: i movimenti di sinistra sono stati sempre molto radicati tra i curdi. In Iran il partito di cui ero parte, Komala, è stato uno dei movimenti socialisti più strutturati contro lo scià. Da lì ha preso ispirazione il Pkk in Turchia. Allo stesso modo la prima rivista femminista in Medio Oriente è stata pubblicata nella città curda iraniana di Mahabad. In Rojhilat, nonostante la Repubblica islamica, le donne hanno sempre combattuto. Fino a Jihna Mahsa Amini, di Saghez, la mia città natale. Le autorità hanno provato a mettere sotto silenzio la famiglia, ma non ci sono riuscite. E la protesta è diventata un movimento nazionale: tutto l’Iran per la prima volta si è sollevato contro il fondamentalismo islamico. Nelle piazze sentiamo gridare «Il Kurdistan cuore e anima dell’Iran». È un evento storico, la ricomposizione di una divisione voluta dalle autorità, dell’emarginazione delle minoranze come quella curda o balucia. I giovani, guidati dalle donne, hanno una mentalità diversa: non si sentono parte di una rivoluzione – quella islamica – vecchia di quattro decenni, ma figli di una nuova prospettiva politica. Hanno perso tutto, non hanno lavoro nonostante studino per anni, non hanno futuro, non hanno niente da perdere se non la vita.

Palese è da qualche anno il ruolo centrale delle rivendicazioni delle donne nelle rivolte in Medio Oriente: i femminismi portano avanti il tema della più generale giustizia sociale. Se lo aspettava anche in Iran?

Da oltre due decenni a rappresentare il cambiamento radicale in Medio Oriente sono i movimenti femministi. Sono le donne a sfidare l’islamismo, da quello radicale dell’Isis a quello politico della Repubblica islamica. Un fatto che deriva da decenni di oppressione delle donne, dei nostri corpi, della nostra personalità e della nostra identità, che è stata sessualizzata dallo stato, dalle famiglie, dai clan. La rivoluzione nel Rojava, l’esperienza armata curda che ha aperto alla messa in discussione del patriarcato, e le primavere arabe hanno avuto un ruolo importante nell’avanzamento delle rivendicazioni delle donne. Nel 2011 le donne erano presenti nelle piazze ed erano nel mirino della polizia: sono state stuprate, gli è stato detto che il loro posto era dentro casa. Ma a Tahrir e nelle piazze arabe le donne c’erano. E se quelle rivoluzioni sfortunatamente hanno fallito, le idee non sono morte: quell’esperienza vive ancora e la partecipazione politica è cambiata radicalmente. Lo si vede anche nel nuovo protagonismo dei social media e del giornalismo indipendente. In Iran i media sono sotto il controllo governativo ma la modernità dell’informazione ha permesso di raggiungere il mondo fuori.

Molti parlano oggi di inizio della fine della Repubblica islamica. Condivide?

Non è facile dirlo. In questi 43 anni il regime si è creato una protezione, una forza di sicurezza imponente, pasdaranbasij, polizia. Mi dicono però che in Kurdistan sono molti gli agenti che si stanno unendo alla rivolta. Il regime non cadrà domani, ma migliaia e migliaia di giovani manifestano da oltre 40 giorni, cantano «Jin jiyan azadi», tolgono il velo, si riprendono in video senza hijab. Fino a un mese fa era impossibile dentro la maggior parte delle famiglie. Il cambiamento vero è nella società ed è questo l’importante. In Medio Oriente i regimi cambiano, ma se le società restano le stesse la trasformazione non è mai reale. Stavolta invece siamo di fronte a stravolgimenti sociali, dall’Egitto al Rojava.

Lei è passata dalla guerriglia in montagna al parlamento svedese. Può raccontare la sua storia?

Provengo da una famiglia povera. Quando Khomeini è andato al potere avevo quattro anni. Pochi anni dopo il Kurdistan è stato militarmente invaso, moltissimi giovani uccisi. Ho iniziato a manifestare e per questo la mia famiglia è stata di fatto posta agli arresti domiciliari. Le autorità hanno cercato di costringere mio padre a farmi sposare, ma ero una bambina e si è rifiutato. A tredici anni ho deciso di andare in montagna per non mettere in pericolo la mia famiglia e difendere me stessa: sono rimasta nei peshmerga per cinque anni. Ho combattuto perché non volevo che continuassero a prendersi tutto, il nostro corpo, i nostri diritti, la nostra identità di donne curde. Il mio destino poteva essere quello di Mahsa Amini. A diciannove anni ho chiesto asilo politico tramite l’Onu che all’epoca organizzava l’accoglienza: la Svezia si offrì di ospitarmi. Dissi alla delegazione svedese che volevo studiare. In Iran non ne avevo avuto la possibilità: nessun bambino dovrebbe rinunciare alla penna per il kalashnikov. Avevo frequentato solo un anno di scuola, sotto lo scià, poi con la rivoluzione islamica milioni di curdi uscirono dal percorso scolastico. Ho iniziato a lavorare con mia madre e a studiare a casa. Sotto i peshmerga mi hanno insegnato a leggere e scrivere in curdo e in farsi. In Svezia ho fatto le scuole serali. Di giorno lavoravo per sostenere la mia famiglia rimasta in Iran. Sono entrata nel Left Party svedese, ci sono rimasta per venticinque anni. Undici anni in parlamento con loro, poi tre da indipendente.

Perché ha lasciato il Left Party?

Ero contraria al velo per le bambine. Chiedevo di vietarlo e lasciare libertà di scelta a diciott’anni, ma il partito riteneva fosse una misura tacciabile di islamofobia. Io la ritengo una pratica razzista: in Europa, anche a sinistra, si considerano tutti i musulmani uguali, un popolo monolitico, cancellano le diversità e dunque la ricchezza. Io ho indossato l’hijab, ho subito un’imposizione dallo stato, dai media, dalla società che considerano il rifiuto di indossarlo un motivo di disonore. L’hijab è diventato una fonte di identità, anche tra donne e famiglie che non sono religiose praticanti. In Turchia con Atatürk e in Iran con lo scià il velo era stato vietato. Io sono contraria a qualsiasi forma di imposizione: ognuna deve essere libera di scegliere. Per questo credo che alle bambine non vada fatto indossare.

Lo scorso giugno Svezia e Finlandia hanno firmato un memorandum con la Turchia per poter entrare nella Nato: fine dell’embargo sulle armi e del sostegno alle unità curde siriane Ypg e Ypj ed estradizione di curdi che Ankara ritiene terroristi. Cosa è successo da allora?

Quell’accordo è il prodotto del fallimento della sinistra a livello internazionale. Svezia e Finlandia volevano a ogni costo entrare nella Nato, paesi con duecento anni di neutralità hanno firmato un accordo con la Turchia per la persecuzione dei curdi e delle associazioni curde. I casi di estradizione di curdi in Turchia al momento sul tavolo sono quattro, legati a reati criminali. Quelli con l’asilo politico non potrebbero essere estradati, ma abbiamo comunque paura che per motivi di propaganda politica e convenienza possano essere cacciati. Zinar Bozkurt, ad esempio, è ancora in prigione, anche se omosessuale, e la sua estradizione è stata fermata solo grazie all’intervento della Corte di giustizia europea. Esistono trattati che vietano l’estradizione di rifugiati politici, li hanno firmati sia la Svezia sia la Turchia, ma qui l’obiettivo è politico: Erdoğan deve tenere in piedi la sua propaganda interna per vincere le elezioni del prossimo anno. La questione curda nella narrazione erdoganiana è fondamentale per cementare il consenso. Per questo preme per mantenere il Pkk nelle liste del terrorismo europee, sebbene in Turchia gli attentati compiuti tra il 2014 e il 2015 abbiano avuto tutti come target la comunità curda, ad Ankara, Suruç e Diyarbakır.


(il manifesto, 29 ottobre 2022)

di Matilde Quarti


Quando incontro Rebecca Solnit è una giornata di sole e di vento, come quasi sempre a San Francisco. Mi ha dato appuntamento alla libreria Green Arcade, a metà di Market Street, arteria che taglia la città in diagonale da Twin Peaks, il suo punto più alto, ai moli dell’Embarcadero. La Green Arcade è una libreria di quartiere e di lotta, tanto accogliente con il cliente che fa capolino quanto chiara nella sua inclinazione politica, e il proprietario, Patrick Marks, è un buon amico di Solnit. L’atmosfera, mentre la intervisto, tra scaffali di legno e pile di saggi di attualità e di storia e un banco di scintillante novità (ma poche, perché oltre che di quartiere e di lotta la Green Arcade è soprattutto una libreria di – vastissimo – catalogo), è quella di un confortevole salotto casalingo. Sembra difficile, quasi impossibile, inquadrare la produzione di Rebecca Solnit: scrittura e attivismo, nel suo cangiante lavoro, si compenetrano incessantemente e, allo stesso modo, i suoi testi sono un continuo rimando tra argomenti, come una scatola cinese, come una matrioska, le suggestioni letterarie lasciano spazio all’attualità politica, le dissertazioni storiche aprono squarci sulle più recenti ondate femministe. Un gioco di specchi che si ritrova anche nel suo ultimo saggio, Le rose di Orwell(Ponte alle Grazie, 2022), dove la minuta vicenda personale di un grande scrittore che amava prendersi cura dei suoi fiori diventa lo spunto per parlare di un Orwell inedito, rispetto all’uomo severo raccontato da gran parte della critica, aprendo divagazioni che toccano persino Tina Modotti e Stalin, per parlare, in ultima sintesi, di totalitarismi e rapporti di potere. I rapporti di potere, d’altronde, sono un tema caro a Solnit, che percorre più o meno esplicitamente gran parte della sua opera. La raccolta di saggi Gli uomini mi spiegano le cose(Ponte alle Grazie, 2017, traduzione di Sabrina Placidi) e il memoir femminista Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie, 2021, traduzione di Laura De Tomasi), si muovono su questo stesso filo rosso: la riflessione femminista non può prescindere dal discorso sul potere e sui corpi. Sono questi gli spunti da cui prende avvio una conversazione in cui Solnit parla di misoginia e sopraffazione, della crisi attraversata dalla sua città, San Francisco, negli ultimi decenni, di autoritarismi e di Trump, di attualità e, in fin dei conti, di politica in tutte le sue sfaccettature.

Partirei dal suo libro che ha avuto maggior risonanza in Italia: Gli uomini mi spiegano le cose. Cosa pensa indichi della società il calore con cui è stato accolto?

Il saggio che dà il titolo alla raccolta è stato pubblicato nel 2008, ma il libro è uscito solo nel 2014. In ogni caso, il mio proposito era cercare di collegare alcune delle cose più orribili che possono accadere alle donne alle credenze e ai valori della nostra società. Può trattarsi di un evento minuto, come un uomo che, durante una cena, non crede che una donna abbia il diritto o l’autorità di parlare di un dato argomento, oppure può svolgersi nella sfera professionale, dove, ugualmente, una donna può essere trattata come se non fosse competente nel proprio campo. O ancora, come racconto proprio in quel saggio, può essere la storia di una donna che urla terrorizzata perché il marito sta cercando di ucciderla, ma la gente intorno, invece di ascoltarla, dà per scontato che sia pazza. Sono tutti esempi che fanno eco a un’esperienza molto specifica delle donne: essere trattate come incompetenti. Si tratta, sempre, di un attacco alla voce di una donna, al suo diritto di essere considerata a pieno titolo una persona, una cittadina, la parte di una comunità. Ho un’intera collezione – che ho chiamato “le Olimpiadi del mansplaining” – di esempi di quanto sto dicendo: tra questi figura anche la vicenda di una donna a cui degli uomini hanno cercato di spiegare come si pronunciasse il suo nome.

Il saggio inizia con un aneddoto personale.

Ero convinta che avrei scritto un testo relativamente divertente, perché ho iniziato con l’aneddoto di un uomo che mi voleva spiegare un libro che avevo scritto io: insomma una cosa fastidiosa, ma non pericolosa. Però, procedendo nella scrittura, mi sono resa conto di quanto velocemente stessi passando da questo spunto alla storia che ho appena raccontato: un uomo che trovava divertente aver visto correre fuori di casa una donna, nuda, nel cuore della notte, che gridava che il marito stava cercando di ucciderla. Perché ai suoi occhi doveva essere per forza pazza, non poteva essere attendibile. Questo cambio di prospettiva mi ha scioccato.

Quando raccontiamo la violenza di genere, la prima cosa che dovremmo fare è parlare di patriarcato, eppure è una parola che fatica ancora a entrare nel discorso politico.

Il problema è di chi comanda: le femministe non hanno problemi a usarla, questa parola. Si tratta di cambiare lo status di un termine, e forse non è un processo diverso dal cambiare l’intero sistema valoriale di chi decide cosa sia valido e cosa no. In inglese usiamo molto il termine “misoginia” e sono contenta che l’italiano abbia reso più popolare la parola “femminicidio”. “Femminicidio”, “cultura dello stupro”, “misoginia”, “patriarcato”, “sessismo”: ognuno di questi termini ha un significato e, di solito, quando le persone rifiutano una parola stanno anche rifiutando la realtà che ci sta dietro.

Per esercitare una forma di potere è indispensabile annichilire anche il corpo. Un suo testo dove è centrale il discorso sul corpo è Ricordi della mia inesistenza. Le chiedo: il discorso sulla violenza di genere è sempre un discorso di corpi?

Il corpo è la scena del medesimo attacco che cerca di distruggere la donna come persona, che cerca di impedire il suo diritto ad autodeterminarsi e stabilire i propri confini: perché solo quando hai una voce puoi dire di no, puoi stabilire dei limiti, puoi testimoniare in tribunale ed essere creduto. Abbiamo sotto gli occhi le modalità sistemiche con le quali gli uomini sono stati in grado di commettere crimini: anche in un’epoca come la nostra in cui, a differenza del passato, la violenza domestica e gli stupri coniugali sono considerati un crimine, nonostante tutto continuano a perpetuarsi, e questo accade perché permane una disuguaglianza di voce e di potere. La violenza fisica è una rappresentazione dell’identità maschile come potere, dominio, controllo. Ed è da questa volontà di dimostrare che la donna non vale niente che nascono le umiliazioni, le mutilazioni del corpo.

C’è una pagina molto potente, all’inizio di Ricordi della mia inesistenza, in cui sottolinea come alle donne venga insegnato a immaginare il proprio assassinio. È una violenza psicologica che inizia tra le mura di casa e plasma la percezione che si ha del mondo.

Parte del motivo per cui ho scritto Ricordi della mia inesistenza è che ci rapportiamo a questi fatti terribili come se accadessero a sole poche donne, anche se la percentuale di donne che sono state violentate o che hanno affrontato un qualche tipo di violenza è piuttosto alta. E vivere in un mondo in cui questo accade a persone della tua categoria significa essere costantemente consapevoli che potrebbe capitare anche a te. Questo ha un impatto enorme, così come lo ha organizzare costantemente la propria vita per evitare la violenza maschile in una società in cui è molto raro che vengano limitate le libertà degli uomini in modo che le donne possano avere i loro pieni diritti. Avviene piuttosto che le donne debbano rinunciare al loro diritto di camminare per strada, di indossare quello che vogliono, di esprimere la loro opinione, di dire di no agli uomini o di lasciarli. Ci viene costantemente ripetuto che siamo noi a dover prevenire la violenza maschile, ma questo non è altro che un modo per deresponsabilizzare gli uomini e sottintendere che la società continuerà a far prevalere i loro diritti.

In questo libro è centrale anche il discorso su San Francisco, la gentrificazione, la crescita dei costi. Com’è cambiata la città negli ultimi decenni?

Ho vissuto in almeno dieci città diverse chiamate San Francisco e quella attuale è la città che meno preferisco. La San Francisco in cui mi sono trasferita, nel 1980, prima della crisi dell’AIDS, aveva il 15% di cittadini neri, mentre ora ne conta forse il 3%. Era molto più accessibile, le persone arrivavano per scoprirsi poeti, attivisti politici, idealisti, ed era anche relativamente facile avere una casa e una vita che non comportasse lavorare sessanta ore a settimana per un’azienda. Poi la Silicon Valley è arrivata come un mostro e si è mangiata tutto. Prima San Francisco era un’alternativa, un rifugio: la città della liberazione gay, delle Sorelle della Perpetua Indulgenza, della nascita del movimento ambientalista con la fondazione del Sierra Club nel 1892, della poesia sperimentale… Mentre ora la Bay Area è diventata uno dei centri del potere mondiale, è il luogo di Google, Facebook, Twitter, Uber, Airbnb, e tutte le altre aziende che hanno cambiato il mondo, per molti versi in peggio, trasformando la privacy in merce.

Il problema che emerge è anche abitativo.

La San Francisco attuale è diventata una città poco accessibile e sta assistendo a una crisi continuativa di homeless (“senzatetto”, Ndr). Si tratta del prodotto di decisioni prese a livello perlopiù federale, oltre al fatto che l’alloggio viene trattato principalmente come una merce speculativa e non come un diritto di base. Alloggio, cibo, vestiti e assistenza sanitaria vengono trattati come prodotti e non come diritti. Mentre è necessario avere salari più alti, più reti di sicurezza, più fondi federali per gli alloggi, che sono stati tagliati. È necessario costruire alloggi a prezzi accessibili per i cittadini a basso reddito, invece nella Bay Area vengono costruiti molti alloggi, ma tutti per redditi più alti.

Ha però anche spesso portato San Francisco come esempio positivo di buone pratiche politiche. Può ancora trainare il resto del paese?

Penso di sì, ma non come un tempo, perché mancano molte voci. Se devi guadagnare 100.000 dollari all’anno per poter restare qui, hai meno tempo per concentrarti sul clima, sui diritti umani o su altre questioni cruciali. Non c’è una forte presenza della destra, ma credo che sempre più persone molto benestanti non avranno il tempo di impegnarsi: potranno sostenere valori progressisti, ma non saranno impegnate politicamente come potevano esserlo quarant’anni fa. Il grande mutamento economico a cui abbiamo assistito ha reso tutti più conservatori, perché, a meno che non si abbia un’eredità, bisogna lavorare molto duramente per guadagnare abbastanza per andare avanti. E i senzatetto ci ricordano che, quando si cade, si cade molto in basso e molto duramente. Mentre negli anni Sessanta e Settanta la società americana aveva raggiunto un tale livello di benessere che molti giovani – bianchi perlomeno – potevano permettersi di fare scelte di vita basate sui propri ideali, senza doversi preoccupare troppo di come sopravvivere.

L’esperienza dell’attivismo è molto importante nel suo lavoro autoriale. È nata prima la Rebecca attivista o la Rebecca scrittrice?

L’attivismo alimenta la scrittura in molti modi, mi porta a contatto con persone straordinarie e mi permette di essere testimone dei cambiamenti. Con Hope in the Dark ho raccolto una serie di argomentazioni sulle teorie del cambiamento. Penso che, prima di essere cittadini di un luogo specifico, siamo cittadini della Terra, e dobbiamo pagare la nostra “quota di partecipazione”, prendendocene cura. Non mi sento eccezionale, ho più tempo libero e più possibilità di scelta di altre persone. Il mio meraviglioso fratello minore David, poi, è stato un attivista fin dall’adolescenza e il suo esempio ha avuto grande influenza su di me: spesso siamo stati impegnati per le stesse questioni, per esempio al momento ci occupiamo entrambi molto di clima. Ma ho l’impressione che negli Stati Uniti ci sia spesso l’attitudine a ritenere la politica il lavoro di qualcun altro, quando invece dovrebbe essere il lavoro di tutti. Credo che per molti americani l’obiettivo sia avere una vita felice, mentre per me deve essere significativa, quindi avere una vita che comporti il farsi in continuazione domande, ma anche impegnarsi per i valori, le comunità, la vita pubblica. Io mi sento grata di avere una vita significativa.

La sua produzione sembra essere caratterizzata da un costante flusso di pensiero in cui, nel discorso sull’attualità, convergono studi sulla lingua, la letteratura, la storia. E mi sembra che il suo nuovo libro, Le rose di Orwell, sia un esempio perfetto di questo suo approccio alla scrittura.

Orwell era già uno scrittore importante per me, ma quando ho scoperto la storia delle sue rose si è svelata ai miei occhi un’immagine di lui assolutamente inedita. Parlare del rapporto di Orwell con i fiori e il giardinaggio mi ha permesso di approfondire tematiche che ritengo particolarmente significative, come il rapporto tra il piacere e la politica, tra il mondo naturale e quello sociale, politico e umano. La vicenda umana di Orwell si lega alla domanda su come sia possibile vivere in tempi difficili, come praticare l’antiautoritarismo e l’antifascismo. Spesso c’è una grande austerità, si ha come l’impressione che nessuno dovrebbe divertirsi fino a quando tutti i problemi nel mondo non saranno risolti. Ma, dal momento che questo non è possibile, allora non sarà neanche mai possibile distendersi. In questo senso, Orwell diventa un esempio perfetto: un uomo serio, posato, che tuttavia traeva grande piacere dai fiori, dalla natura, dalla bellezza, ma anche dalle fiabe e dalle filastrocche. Penso sia un invito a trovare un equilibrio nella propria vita.

Un aspetto di Orwell inedito.

E molto affascinante: non me lo sarei mai aspettato perché i testi su di lui – la maggior parte dei quali scritti da uomini – lo presentano come una figura austera, cupa, ma in realtà aveva un grande senso dell’umorismo, e apprezzava piaceri semplici come una buona tazza di tè, il cibo inglese, trascorrere tempo con il proprio figlio o occuparsi del suo giardino e dei suoi animali. Considerando che il problema più grande del nostro tempo riguarda proprio la natura, il clima, la sopravvivenza umana e di tutta la biosfera, e che il mondo naturale è stato spesso trattato come meramente decorativo, superfluo, al di fuori del regno della politica umana, ho voluto utilizzare Orwell come leva per approfondire il ruolo in realtà politico della stessa natura e collegarmi alla crisi politica attuale.

Il discorso su Orwell si collega anche a quello sui totalitarismi. Nell’ultimo anno, con l’invasione dell’Ucraina, abbiamo avuto modo di vedere come sia ancora attuale parlare di autoritarismo.

La mia pratica femminista si collega per forza di cose a quella antiautoritaria: che si parli di un “capofamiglia” o capo della nazione, si parla sempre di un individuo autoritario che si arroga il diritto di dettare come debba essere la realtà e che vede nella verità e nelle voci indipendenti un nemico. Nelle famiglie patriarcali autoritarie, l’uomo pretende di detenere sempre la ragione, relegando le donne a fonti inaffidabili, e il medesimo approccio avviene a livello internazionale in politica. Come nel caso di Trump, che sostiene di non aver perso le elezioni contribuendo così all’escalation di violenze che ha portato all’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Il punto centrale che collega autoritarismo e patriarcato è il desiderio di determinare a priori quale sarà la verità.

Che cos’è la politica per lei?

Come recita un meraviglioso slogan femminista, il personale è sempre politico. Penso che la politica sia ovunque, in chi ha accesso alla cultura e al mondo naturale, nella qualità del cibo che mangiamo, nei film che vediamo, nel rapporto con gli altri, in ciò che immaginiamo possibile. Tutti, a prescindere dal loro mestiere e dal loro ruolo nella società, operano in un mondo politico. Il personale è politico, il politico è personale: tutto è permeato dalla politica.


(ilLibraio.it, 29 ottobre 2022)

di Ida Dominijanni


Tre appunti sulla Meloneide appena conclusasi con il voto di fiducia della Camera e del Senato al nuovo Governo. Sull’effetto “prima donna”, sulla questione fascismo-antifascismo, sul programma.


1. Come il profluvio di dirette, maratone e talk televisivi dimostra, la “prima donna” è e sarà inevitabilmente oggetto dello sguardo maschile e femminile più degli uomini che l’hanno preceduta. Meloni lo sa e per due giorni si è offerta a questo sguardo generosamente, senza sottrazioni e senza complessi, avendo capito e capitalizzato, grazie alla storia del femminismo che non le appartiene ma di cui si avvale, che oggi come oggi, in tempi di crisi devastante della politica maschile, essere una donna è un vantaggio e non uno svantaggio. La prima donna ha fatto la primadonna, mettendosi al centro della scena con il suo corpo, i suoi gesti, la sua storia, la sua biografia. La rottura stilistica rispetto al linguaggio scisso della politica maschile (fatto salvo Berlusconi, che il confine fra pubblico e privato l’ha rotto da quel dì e anche ieri, in apertura della sua rentrée al Senato, con l’annuncio del suo diciassettesimo nipote) è stata evidente, ed è la sola cosa di cui rallegrarsi.

Il che non toglie che per altri versi sia proprio il linguaggio a mostrare come con il suo essere donna Meloni sia tutt’altro che pacificata. Lo dice l’uso del maschile – il presidente e non la presidente – cui si ostina ad affidare il riconoscimento del proprio ruolo, come se il femminile invece lo diminuisse. Lo dice l’uso dei nomi senza cognomi con cui rende omaggio (qualcuna deve averglielo consigliato, perché non l’aveva mai fatto prima) ad altre “prime donne” che l’hanno preceduta, ma rigettandole in una sorta di album di famiglia privato e cifrato dove riconoscerne il ruolo pubblico diventa impossibile ai più. Lo dice la dose permanente di aggressività fallica cui non rinuncia nella sua competizione ravvicinata e spericolata con gli uomini.

Quello che resta stupefacente è come tutte e tutti, donne e uomini, siano cadute/i nel trappolone della “prima donna che sfonda a destra e non a sinistra”, una narrativa che punta dritto a dimostrare che il femminismo trova ascolto più a destra che a sinistra, che la destra è più di sinistra della sinistra e che la sinistra è fuori dal mondo e dalla storia. Strano che nessuna/o provi a rovesciarla e a chiedersi come mai le destre radicali di oggi, non solo in Italia, abbiano bisogno di femminilizzarsi – cosa ben diversa dal femministizzarsi – per addolcire e rendere commestibili i loro contenuti programmatici più retrivi. Provare a sostituire la faccia di Meloni con quella già vista all’opera di Salvini o con la mimica di La Russa o con la stazza di Crosetto per credere: le reazioni sarebbero ben più ruvide di quelle oltremodo contenute che abbiamo visto in Parlamento da parte delle opposizioni. 

2. Conviene riavvolgere il nastro della Meloneide guardardo la prima giornata, invece che dalle centinaia di telecamere piazzate nel palazzo, dal particolare imprevisto delle cariche della polizia sulla manifestazione antifascista della Sapienza. Arrivato puntualmente a smentire una delle solenni dichiarazioni biografico-politiche della neopremier (“vengo dai movimenti giovanili e proverò simpatia anche per chi ci contesterà in piazza”), l’episodio annuncia il clima prossimo venturo, che prevedibilmente farà largo uso dell’ordine pubblico per lanciare segnali d’ordine più generali. Ma non solo: fa saltare d’un colpo uno dei due cardini su cui Meloni e i suoi (La Russa nel giorno della sua incoronazione a presidente del Senato non era stato da meno) allestiscono la loro idea della “riconciliazione nazionale”.

I due cardini sono connessi e riguardano, neanche a dirlo, il fascismo e l’antifascismo. Sul fascismo Meloni se l’è cavata come di consueto con poco, pochissimo, annegandone i contorni specifici nella condanna dei totalitarismi novecenteschi, garantendo di non aver mai “provato simpatia per i regimi antidemocratici, fascismo compreso”, e limitandosi a esecrare le leggi razziali del 1938 invece del regime nel suo complesso. Sull’antifascismo ha fatto peggio. Ha ignorato l’antifascismo della resistenza, ovvero il fondamento della costituzione, e ha attaccato l’antifascismo militante degli anni Settanta, commemorando “i ragazzi innocenti uccisi in suo nome a colpi di chiavi inglesi” e nascondendo sotto il tappeto il filo nero delle stragi neofasciste che percorre la storia della cosiddetta Prima repubblica e che dell’antifascismo militante fu la causa e la ragione. La risposta stizzita di Meloni al senatore Scarpinato che gliel’aveva fatto notare è la controprova che Scarpinato aveva colpito nel segno: questo è il copione della riscrittura della storia e dell’offerta di “riconciliazione nazionale” della destra postfascista. Si può esserne felici e contenti, come certa stampa liberale italiana che da anni accompagna e promuove questo revisionismo in nome e per conto della “normalizzazione democratica” di una “destra conservatrice” ripulita delle sue origini. Ma non ci si può meravigliare se poi contro questa rimozione del fascismo storico e del neofascismo della Prima repubblica l’antifascismo militante rispunta alla Sapienza o altrove.

3. Fin qui l’identità delle origini del melonismo. Sulla quale si innesta una miscela di neoliberalismo e sovranismo solo in apparenza contraddittoria, il sovranismo essendo in tutto il mondo una sorta di evoluzione perversa della weltanschauung neoliberale dissipativa, globalista e gaudente nel suo contrario rancoroso, nazionalista e suprematista. Sì che Meloni è neoliberale quando parla di merito e di capitale umano, di libertà di circolazione del contante, di “non disturbare chi vuole fare” cioè l’impresa; è sovranista quando evoca a ripetizione la nazione e le magnifiche sorti delle bellezze italiche, quando invoca il blocco dei migranti e la procreazione fra conterranei come antidoto al calo della natalità, quando vagheggia l’Europa “dei popoli e delle diversità” contro quella dei banchieri e dei burocrati; o quando con un eloquente lapsus riserva il “tu” a Abubakar Soumahoro, l’alieno nero piovuto dai campi nel parlamento dei bianchi; o quando parla di se stessa come l’underdog che ricorda tanto, è stato notato, i forgotten di Trump – salvo poi promettere la guerra ai poveri sul reddito di cittadinanza. Ed è infine schiettamente reazionaria, destra d’ordine doc, quando parla di carcere ostativo, quando (non) parla del reato di tortura che FdI vuole abolire, quando nomina le differenze come devianze, quando vaneggia di città insicure da consegnare alla vigilanza delle forze dell’ordine.

Questa miscela può essere esplosiva. Paradossalmente la doppia emergenza della guerra e della crisi energetica è, per ora, l’ancora di salvezza del nuovo Governo, perché lì la strada dell’atlantismo e del vincolo europeo è rigidamente tracciata dai poteri nazionali e internazionali senza la cui benedizione la “prima donna” non sarebbe dov’è. Solo per ora però, perché le differenze interne alla sua coalizione in materia di politica estera (né Berlusconi né la Lega hanno rinunciato a distinguersi dalla premier sulle prospettive della guerra in Ucraina) e di politica economica sono anch’esse potenzialmente esplosive. L’unico terreno su cui nel frattempo Meloni potrà consolidare l’identità della “destra conservatrice” è quello tradizionalissimo di una svolta d’ordine. Non saranno mesi facili. Tanto meno senza un’opposizione politica all’altezza della situazione.


(centroriformastato.it, 27 ottobre 2022)

 di Concita De Gregorio


Una fuoriclasse. Sgombriamo subito il campo dalle ideologie, dire bè sì però era un discorso di destra fa sorridere, non trovate? Che obiezione è? Vi aspettavate Dolores Ibarruri? Non vi ricordate di chi stiamo parlando, non sapevate che ha cominciato a quindici anni nel Fronte della Gioventù? Lei è di destra. Certo, che ha fatto un discorso di destra. Impeccabile, tuttavia. Convinto, competente, appassionato, libero, sincero. Avercene, si dice a Roma: avercene a sinistra di presenze di questo calibro da opporre, eventualmente, alle sue ragioni con la forza della ragione. «È nata una leader», mi ha scritto un amico anziano e autorevole, uno non del suo mondo, mentre lei parlava tossendo e bevendo alla Camera. «Da mo’», avrebbe risposto lei che ha detto a Salvini a microfono aperto «così finimo alle tre», e ho finito con il romanesco. La leader c’era già, da anni, solo che ora l’hanno vista tutti – cancellerie del globo comprese – e la verità da dire, la verità gaglioffa, è che non se l’aspettavano: nessuno, se l’aspettava. Né l’opposizione, né i suoi. Si leggeva nei silenzi, nei sorrisi timidi, negli applausi di farfalla dell’emiciclo. Sorpresa. L’attendevano al varco, prevedevano che avrebbe inciampato. Sì, però non ha detto del fascismo. L’ha detto. Eh, ma le leggi razziali: «Il punto più basso della storia, una vergogna». Vabbè, ma la mafia. La mafia. E la storia delle donne, il femminismo? Ecco il suo Pantheon. Già, ma non sono le nostre. No, certo, sono le sue. Ma le chiama per nome, si fa chiamare per nome e per giunta pretende l’articolo al maschile: urge dibattito. Eh no, però: perché l’abbiamo detto tanto, l’abbiamo detto sempre. Non si tratta di imporre una regola, di essere in modo speculare e contrario autoritari/e, con schwa o senza: si tratta di rispettare la sensibilità della persona. Se io ti autorizzo a chiamarmi per nome puoi farlo, se non ti autorizzo no. Fino al punto che se mi sento Mario e sono nata Anna devi chiamarmi Mario – e viceversa. Al limite, la discussione sulla libertà individuale e sul libero arbitrio è persino riaccesa dalle legittime posizioni personali e politiche di Giorgia Meloni: vale sempre, giusto? Vale per lei, che intende farsi chiamare Il Presidente contro la grammatica, e allora vale per tutti, la relatività della grammatica. Poi ciascuno è libero, e qui si apre una grandissima questione fonte di sterminate opportunità per la sinistra: stabilire cosa sia la libertà fuori dalla prescrizione, dall’oppressione cupa del politicamente corretto, dal testacoda di senso del dogma – quando si parla di identità, di libertà, di corpo. Ma non divaghiamo. La Repubblica non è nata dal Risorgimento, è nata dalla Resistenza. Sì, ma si è già detto che era un discorso di destra, giusto? Liberi tutti di opporre eroi a eroi, ragioni a ragioni: vediamo chi vince, chi convince. Fatevi avanti con le vostre opinioni, possibilmente comprensibili perché se nessuno vi capisce non serve a niente dire “non è così semplice”: è semplice, invece, quello che è evidente – di solito. 
Piccola inessenziale precisazione personale. Non sono d’accordo coi due terzi delle cose che ha detto, per quel niente che conta, ma l’ho ascoltata con grande attenzione. Per la prima volta da molti anni ho sentito – in un discorso di insediamento – l’eco di una storia personale appassionata e convinta e ho avuto voglia, avrei voglia, di discuterne. Non è questa forse la linfa della democrazia? Avere qualcuno con idee diverse dalle tue a cui opporre altre ragioni? Poi certo: quando dice «vengo da una storia politica relegata ai margini della Repubblica» mi viene da dire che ci sono buoni motivi, ottimi. E però se anche Liliana Segre obietta che il nemico è il pregiudizio, stiamo ai fatti: Segre sa di cosa parla, sono con lei. 
Il problema di Giorgia Meloni, il suo grandissimo problema, sono i suoi compagni di viaggio. Non è lei che spaventa, è il caravanserraglio di vecchie cariatidi che sono salite a bordo della sua scialuppa entusiaste di ritrovare una verginità grazie alla sua giovinezza. Credo che lo sappia bene anche lei, che tuttavia deve fare con chi ha. Anche a sinistra, del resto, il problema della “compagnia” è stato sempre un freno, un alibi, una valida scusa: si voleva fare, non si poté. Le correnti, gli alleati, i numeri: si voleva rifondare il partito, ma non ci lasciarono – erano i nostri. Ecco: i suoi sono, lo dico con rispetto, una galleria di mostri. Non tutti, parecchi. Lei rivendica di non essere ricattabile, ma molti di loro sì: lo sono e lo sono stati. La usano come scialuppa, come paravento. Sono, in molti, profittatori e portatori di opachi interessi personali. Tuttavia, una cosa c’è da dire: il maestoso potere del tempo è dalla sua parte. È una questione di anni, forse di mesi: la resa dei conti dentro Forza Italia si consumerà a breve, l’elettorato leghista dirà dove si sente più comodo, i vecchi fatalmente spariranno. Qui interviene l’altro tema: se lei lo sappia o no, di essere “usata”. Io credo che lo sappia, e faccia buon viso perché altro non può fare, nell’attesa. Di più, se lei finga: se sia alla fine uguale a loro, solo molto più brava a comunicare – a fare il gioco delle tre carte. Una pericolosa affarista, un’antidemocratica travestita da ragazza di borgata. Rischio, ma non credo. Penso che sia una giovane donna di destra, convinta delle sue ragioni e abituata a fare da sola con la farina che ha. Una grandissima comunicatrice, un’equilibrista, una dissimulatrice: certo. Una che cambia pelle secondo necessità: sicuro. Una politica, insomma. La sua campagna elettorale è stata la migliore di tutte, difatti ha vinto. Draghi l’ha capito bene. Non è questo che conta? Non è saper comunicare, la politica? Quando Meloni dice «sono pronta a fare quello che va fatto a costo di non essere compresa» parla per la prima volta da secoli di clima e non di meteo: dei prossimi dieci anni e non dei futuri dieci giorni. Poi. Voglio discutere di scafisti e di flussi, di merito e di opportunità, di tasse e di diritti. Di cannabis e di mercati criminali, di cosa sia una famiglia e di chi lo decida. Di corpo, di lavoro, di felicità e di abissi. Sarei contenta di discuterne lealmente, senza che ci siano dietro interessi torbidi, convenienze personali, questioni di soldi e di potere. Sarei contenta, «dentro l’Europa», che chiunque possa sovvertire i pronostici. Non credo che nessuno voglia «disturbare chi vuole fare». Lo auguro ai miei figli e anche a chi di figli non ne ha e non ne vuole, dal profondo del cuore. Giochiamocela, questa partita. Speriamo che sia leale, sincera. Una pastiglia per la tosse sempre in tasca, e anche con la febbre – come siamo abituati a fare, direi soprattutto abituate a fare: andiamo a dire la nostra. Andiamo a lavorare. 


(la Repubblica, 26 ottobre 2022)

di Francesco Varanini


Il libro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo (Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne, ed Moretti & Vitali) mi ha attirato per la sua insolita costruzione, descritta nella introduzione dalla curatrice Giordana Masotto: «Per sette anni ho curato l’inserto Pausalavoro, il quartino centrale della rivista cartacea Via Dogana, che il Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano ha prodotto dal 2008 al 2014 […] Penso che questi testi mettano in scena il processo di elaborazione di un punto di vista politico da parte di quel soggetto inedito che sono le donne libere del nostro tempo». Ho cominciato a guardarlo un po’, e l’ho letto quasi tutto in una notte. È un libro che emoziona e fa riflettere.

È molto bello non solo come testo, ma per come, partendo da un’apparente raccolta di documenti, fa emergere una narrazione con un suo sviluppo: incontri, avanzamenti, gruppi che si intersecano, persone che ritornano, pensieri che si intrecciano. C’è una grandissima ricchezza di storie, personali o collettive. Già questo è avvincente, porta chi legge dentro l’argomento, che è il lavoro in generale, e la ricerca del suo senso.

La storia di questa ricerca, ripercorsa nel libro, riguarda un periodo del recente passato, ma sfocia nell’oggi: tocca temi di grande attualità. Continua nelle narrazioni orali che le donne portano nei loro incontri su questo tema. Perciò il libro è una testimonianza importante, presentata attraverso una narrazione di per sé bella e attraente.

Giustamente le donne vedono e cercano il senso del lavoro dal loro punto di vista, ma credo sia importante ricordare che oggi il senso del lavoro non c’è più per nessuno. Nessuno di noi sa più che cos’è, cosa dovrebbe o potrebbe essere. La cultura del lavoro manca per tutti.

Credo che oggi dobbiamo impegnarci molto tutti e tutte per creare una nuova cultura del lavoro, che sia viva da oggi in poi: il lavoro come elemento vitale, come ricerca di sé.

Il rischio è di stare tutti sul divano, in assenza di un lavoro che non c’è più per nessuno. 

Per chi oggi è coinvolto in questa ricerca del senso del lavoro, avere in mano questo libro è confortante.


(www.libreriadelledonne.it, 26 ottobre 2022)

Maria Teresa Mandriani condivide il suo sentire con la Dea MysteriumDevi attraverso pittura, poesie, immagini, mantra e canti sacri creati con estrema semplicità e umiltà da lei stessa.

Interverranno: Carla Tzultrim Freccero,monaca buddista tibetana, Pinuccia Barbieri, Giulia Coccoli, Laura Modini. Introduce Pinuccia Barbieri.

di Alberto Leiss


Mi è capitato di ricordare, in questo spazio, che per il femminismo della differenza italiano effettivamente non aveva molto senso rivendicare l’aborto come un «diritto». La discussione ora si è accesa su questo punto per gli interventi della neoministra Eugenia Roccella. 
Il confronto coinvolge molte donne, ma penso che non sarebbe male se anche noi maschi provassimo a dire qualcosa.

Provo disagio quando un uomo, magari di sinistra, si inalbera alzando la bandiera del diritto all’aborto senza nulla dire però sul fatto che se una donna rimane incinta sarebbe ovvio interrogarsi anche sulla responsabilità di un maschio. Certo la donna ha la più radicale libertà di decidere sul proprio corpo, che tale rimane anche quando un’altra creatura comincia a esistere dentro di lei.

Ma chi ha la facoltà, con il proprio seme, di causare la gravidanza, se ne può lavare le mani? Non dovrebbe pensare a come comportarsi se non c’è una decisione comune di mettere nel conto un figlio o figlia? E magari interrogarsi sul fatto che finora i «rimedi» trovati dalla scienza riguardano solo il corpo femminile e non sono privi di effetti invasivi e dolorosi?

Ma il punto da chiarire nella discussione con Roccella – anche per provare ad accogliere il suo invito a provare «curiosità per chi la pensa diversamente», come ha scritto sulla Stampa – è una sua singolare omissione. Certo il femminismo della differenza negli anni ’70 non amava la parola «diritto» per nominare l’aborto, e non gradiva gli interventi legislativi sul corpo delle donne (in genere di segno patriarcale). Però chiedeva la depenalizzazione dell’aborto, oltre a battersi perché lo stupro non fosse più un reato contro la «morale» ma invece contro la «persona».

Era in realtà una posizione assai più radicale – e ci voleva ben un atto legislativo per eliminare il reato di aborto – rispetto al compromesso (tra sinistra e cattolici) poi rappresentato dalla “194”. 
È anche vero che queste cose pochi (e non moltissime) se le ricordano o, se giovani, le sanno.

Basterebbe però andare a leggersi il testo femminista del 1975 sulla questione – Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso – ora ripubblicato nella nuova edizione aggiornata del libro di Lia Cigarini La politica del desiderio, Orthotes, 2022. (Forse su questo volume, e certo anche su altri, si dovrebbero organizzare corsi di formazione per chi intende di occuparsi di politica. Magari anche per qualche giornalista. Se si rilancia in tv e sui giornali la posizione di Roccella con una certa enfasi non sarebbe meglio informarsi su come erano andate davvero le cose?).

Ma veniamo al «che fare» da parte del governo. Giorgia Meloni ha detto che si occuperà del «diritto di non abortire». Una delle sue più infelici e infondate frasi a effetto. Prendiamola per una apprezzabile intenzione di «prevenire» l’aborto.

Più che almanaccare su certe prescrizioni della “194”, il cui limite maggiore è la difficoltà di assicurare il personale medico per via delle molte obiezioni di coscienza, non sarebbe più giusto parlare chiaramente nelle scuole, con studenti e studentesse, di come si può provare il piacere dell’amore senza rischiare una gravidanza non voluta? Far funzionare bene i consultori? 
Questo implicherebbe un’idea del sesso davvero libera dalla prescrizione alla riproduzione. Roccella e questo governo condividono?

E per la «natalità» che cosa si intende fare? Sermoni moralistici alle donne che non fanno figli, qualche altro «bonus», o azioni per capovolgere l’assurdo di un mondo che non vede insieme produzione e riproduzione, «tutto il lavoro per vivere»? 
Un’altra idea femminista che dovrebbe interessare anche noi uomini.


(il manifesto, 25 ottobre 2022)

di Sara De Simone


Più di cento anni fa, nell’autunno del 1904, i fratelli Stephen – Vanessa, Virginia, Thoby e Adrian – traslocano dal quartiere di Kensington a quello di Bloomsbury. Il loro padre, Sir Leslie Stephen, noto intellettuale vittoriano e celebrato direttore del monumentale Dictionary of National Biography, è morto nel febbraio dello stesso anno. Per i giovani Stephen è il momento di cambiare aria: via le pesanti tende di broccato, via i mobili laccati di nero e i velluti scuri che incupivano la grande casa paterna al numero 22 di Hyde Park Gate. Lunga vita alle pareti chiare, ai tessuti colorati e alle alte, luminose, finestre sull’ariosa e vivace Gordon Square. I parenti e gli amici di lunga data dei rispettabilissimi Leslie e Julia Stephen sono esterrefatti: quattro ragazzi di buona famiglia in un quartiere malfamato? Maschi e femmine che vivono insieme? Senza genitori, senza servitù, senza chaperon, senza nessuno che preservi la rispettabilità del loro nome e – per quanto riguarda le ragazze – dei loro corpi? È un’indecenza. Uno scandalo.

Eppure, è proprio in quella casa dello «scandalo» che, a partire dal 1905, comincia a riunirsi un piccolo gruppo di giovani amici: sono intellettuali, artisti, donne e uomini nel fiore degli anni, che non hanno nessun programma, ma molte idee. Desiderano ripensare il mondo che li circonda, e vogliono farlo insieme. Discutono fino a tarda notte di letteratura, s’interrogano sulla bellezza e sull’etica – perché per loro bellezza ed etica vanno insieme –, non hanno paura di amare in modo non convenzionale e, nel tempo, raccolgono attorno al proprio nucleo molti altri amici, giovani e meno giovani, che come loro desiderano dare forma a un’altra vita. Sono Virginia Woolf, Vanessa Bell, Lytton Strachey, Maynard Keynes, Clive Bell, Dora Carrington, Leonard Woolf, Duncan Grant, Roger Fry, e molti altri. Scrivono libri, dipingono quadri, aprono case editrici e atelier di design. Hanno stanze tutte per sé – ciascuno e ciascuna la propria – e le arredano con colori audaci e forme nuove. 
Costruiscono case che sono mondi, e in quei mondi continuano a incontrarsi nel tempo. Dal 26 ottobre, una mostra senza precedenti in Italia ripercorre le esistenze e le opere dei membri del Bloomsbury Group, e di tutte e tutti coloro che vi gravitarono attorno negli anni. La curatrice Nadia Fusini – traduttrice, critica letteraria e massima esperta di Virginia Woolf in Italia – ha scelto di mettere al centro della mostra proprio l’immagine della casa, come spazio in cui si «inventa la vita».

Tutto comincia con una casa, non è vero? 
Sì, una casa a Bloomsbury che ha il senso di una libertà conquistata, che non è più la casa del padre, la casa patriarcale, ma uno spazio fisico che corrisponde a uno spazio del pensiero. Virginia Woolf è molto chiara al riguardo: senza la materialità di un luogo tutto per sé non si può scrivere, non si può creare. 
Al numero 46 di Gordon Square le due sorelle, Vanessa e Virginia, hanno finalmente una stanza tutta per sé, ciascuna la propria. È partendo da questo spazio conquistato, che possono creare un luogo per incontrare i propri amici e condividere con loro un’esperienza comunitaria. Bloomsbury non è un club, e neppure un circolo, è un gruppo di persone che stanno insieme, in maniera vera e feconda, perché pensare assieme li appassiona.

Insieme all’immagine centrale della casa, c’è quella della stanza, che lei ha scelto di utilizzare come filo conduttore della mostra. 
Il Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps – luogo che Virginia avrebbe amato molto – ha messo a disposizione della mostra una sequenza di stanze. Mi piaceva l’idea che i visitatori le attraversassero come spazi fisici e simbolici: dalla stanza tutta per sé di Virginia, al salotto in cui s’incontravano i membri del gruppo, alla stanza della Hogarth Press, la casa editrice dei Woolf, che per anni ebbe sede in uno spazio domestico, la loro casa per l’appunto. La pressa con cui stampavano i libri era infatti sistemata sul tavolo della sala da pranzo: capolavori come Preludio di Katherine Mansfield e i Poems di T.S. Eliot furono stampati così, dentro casa, grazie al lavoro manuale di Virginia e Leonard.

C’erano poi gli Omega Workshops, il laboratorio di design d’interni aperto dal critico d’arte Roger Fry, a cui pure la mostra dedica spazio e attenzione. 
Bloomsbury non è solo un luogo di pensiero, ma anche uno spazio del fare. Queste donne e questi uomini sono degli entrepreneurs, nel senso più alto del termine. Sono intraprendenti, e vogliono realizzare delle imprese: una di queste è quella di trasformare il gesto artistico in un gesto che crea oggetti di uso comune. Vogliono creare cose belle per tutti: tazze, poltrone, tessuti, vasi. Chi ha detto che un piatto non può essere un’opera d’arte? E che un’opera d’arte non debba essere alla portata di tutti? Mi sembra giusto e democratico. E attenua la contraddizione tra estetica e mercato, trattandosi di oggetti unici, singolari, inventati uno per uno dalla mente di un artista.

A proposito di «inventare», lei ha scelto di inserire nel titolo della mostra una frase in inglese, che è quasi un motto: «Inventing Life». Ci dice di più? 
Lavorando negli anni su Virginia Woolf e Bloomsbury mi sono resa conto che la vera forza di questo gruppo è proprio questa: per loro il problema della forma, che per ogni artista è centrale, non è mai esclusivamente «formale». Inventare delle forme significa inventare delle nuove forme di vita. Virginia, Vanessa e gli altri, elaborano attraverso le loro opere anche un nuovo modo di stare al mondo, che sia all’altezza dei desideri e delle motivazioni profonde che ciascuno porta dentro di sé, nel proprio tempo. Nel loro tempo, queste giovani donne e uomini ebbero il coraggio di sfidare codici e canoni che non li rappresentavano, per inventare qualcosa di diverso, senza che questo qualcosa si trasformasse in una nuova ideologia, da contrapporre alla vecchia. Non c’era nulla di ideologico nel loro modo di affrontare la propria diversità: se amavano persone dello stesso sesso, o se non consideravano la fedeltà come la più alta forma di rispetto dovuta alla persona amata, non per questo sentivano il bisogno di trasformarlo in un credo. Lo vivevano e basta. E nel viverlo restavano nel campo della ricerca, del movimento, dell’invenzione.

Che significa anche saper restare nell’incertezza? 
Io la definirei una «disposizione creativa». Nella vita, come nell’arte. È un tratto di profonda verità che le artiste e gli artisti di Bloomsbury condividevano. Si possono inventare nuove forme – e nuove vite – solo se ci si espone allo shock della realtà, ovvero all’emozione di uno sguardo e di un ascolto del mondo che scuote, che trasforma continuamente.

E la felicità, in che stanza si trova? 
Nella stanza in cui si sta insieme. «Society is the happiness of life»: a Bloomsbury avevano compreso, e messo in pratica, questo verso di Shakespeare. Soltanto incontrandosi – mettendo esperienze e desideri in comune – si può essere felici. E, insieme, accogliere il rischio e l’avventura di inventare la vita.


SCHEDA. Una grande mostra a Palazzo Altemps


Per la prima volta in Italia, a Palazzo Altemps una mostra che celebra lo spirito che animò Bloomsbury: il luogo dove si sono sperimentate forme di vita e di pensiero nuove che cambiarono i principi vittoriani e il forte spirito patriarcale di cui era ancora intriso il XX secolo. Rimasti orfani nel 1904, Virginia Stephen, non ancora Woolf, e i fratelli Vanessa, Thoby e Adrian si trasferiscono dall’altolocato Kensington nel meno privilegiato quartiere di Bloomsbury. Ben presto un nutrito gruppo di giovani donne e uomini si incontra nella casa al 46 di Gordon Square per inventare una vita nuova e libera. «Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing Life» (dal 26 ottobre al 12 febbraio 2023) è un progetto del Museo nazionale romano e della casa editrice Electa (che èpubblica anche il catalogo), realizzato in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra. Ideata e curata da Nadia Fusini – profonda conoscitrice dell’autrice inglese della quale ha curato l’edizione in due volumi nei Meridiani – in collaborazione con Luca Scarlini – scrittore, drammaturgo, narratore, performance artist – l’esposizione racconta un’esperienza di 
amicizia intellettuale attraverso libri, parole, dipinti, fotografie e oggetti dei protagonisti di questa avventura dell’arte e del pensiero.


(il manifesto, 23 ottobre 2022)

di Alessandra De Perini


Il saggio è pubblicato nella rivista della Comunità filosofica Diotima, Per amore del mondo N.18/2022 *


[…]


La verità delle donne, il loro sentire, la competenza simbolica femminile sul corpo sono assenti dalla storia e dalla filosofia che pur sono impegnate nella ricerca della verità.

La verità delle donne non è astratta, è incarnata, connessa con l’amore ed è appesa al filo d’oro che intreccia la genealogia femminile e materna.

La cultura greca ha sistematicamente ignorato la verità delle donne che si radica nella vita misteriosa e oscura delle viscere. Per secoli la verità delle donne ha continuato a essere trasmessa attraverso la lingua oracolare, la poesia, le visioni, i simboli dell’ordine simbolico della madre.

Nella storia d’Europa per produrre conoscenza è prevalsa con san Tommaso e la Scolastica la modalità del Logos, del pensiero astratto, della parola ragionata, del distacco dalla vita in nome dell’oggettività rispetto alla modalità della visione-rivelazione, della mistica, e dell’allegoria.

Con il trionfo della Scolastica, persa la battaglia per il simbolico, la verità delle donne, che è connessa con l’amore e con la vita dell’anima, dovette trovare altri rifugi, si è andata a nascondere in luoghi poco accessibili, nelle viscere.

La modernità ha negato il valore politico dell’esperienza e nei secoli XIX e XX ha ridotto la politica all’esercizio del potere.

Il femminismo ha riconosciuto la politicità del personale, il valore personale e politico dell’esperienza per conoscere la verità, cambiando così radicalmente il senso della politica e della veridicità storica.

La politica allora, non più confusa con il potere, si è spostata al suo posto originario: l’esperienza.

Oggi, è in atto nella storiografia, nella filosofia, nella scienza e nella politica una “rivoluzione metafisica”, la rivoluzione della verità delle donne e della vita dell’anima. Si tratta di una rivoluzione di “posizionamento” della filosofia e della scrittura della storia, che si lascia alle spalle la verità “concordata”, la pretesa dell’oggettività, il paradigma del “sociale” e salva la vita delle viscere, dove si radica il senso libero e inesauribile dell’essere donna, proponendo un’altra relazione con la verità, quella del sentire, per cui “pensare è decifrare ciò che si sente” e cercare la verità significa innanzitutto desiderarla, immaginarla, mettersi in ascolto delle ragioni dell’amore.

Il saggio di Maria-Milagros Garretas Rivera è come un prisma dal disegno complesso, un viaggio dell’anima corporea attraverso il tempo e le diverse epoche della storia per aprirsi alla visione della verità femminile che in questo tempo post patriarcale sta parlando. Una verità femminile ascoltata e messa in parole da quelle donne, amanti della storia – io mi sento tra queste – che, invece di integrarsi nella storia che già esiste, riconoscono la verità dell’esperienza femminile, radicata nelle viscere, fatta di relazioni, desideri, modi di sentire, progetti, paure, limiti, ambizioni, nodi interiori, e assumono il proprio essere donne come significante inesauribile della scrittura della storia.

(*) Si tratta della traduzione italiana, realizzata da Luciana Tavernini, di “La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente”, saggio pubblicato in Magda Lasheras y Teresa Oñate (a cura di), Filosofía de la historia y feminismos, Dykinson, Madrid 2020, pp.111-138, a seguito della conferenza La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente, tenuta dall’autrice il 12 dicembre 2018 all’Università Nazionale Autonoma (UNAM) di Messico, organizzata da Instituto de Investigaciones sobre la Universidad y la Educación (IISUE), attraverso il Seminario Escritos de Mujeres e la Facultad de Filosofía y Letras della UNAM, la cui videoregistrazione si trova al link


http://www.mariamilagrosrivera.com/video/la-verdad-ausente-de-la-filosofia-la-historia-viviente/


(www.libreriadelledonne.it, 23 ottobre 2022)

di Annarosa Buttarelli


Il tempo è arrivato. Si potrebbe iniziare in questo modo per invitare a una presa di coscienza della inarrestabile presenza di donne sui diversi scenari della crisi globale. Vediamo sugli schermi e nelle piazze donne con una forte passione politica e un senso di responsabilità verso le sorti del mondo, tanto da rischiare, come è già capitato troppe volte nella storia, prevedibili contraccolpi repressivi e perfino l’aggressione ai propri corpi e alle proprie menti, entrambi generativi di vita, a differenza di quelli della gran parte dei maschi, troppo spessi auto-sacrificati all’agire mortale e mortifero. Se si guarda realisticamente a quanto sta accadendo, si può vedere che è in corso un’avanzata del percorso rivoluzionario delle donne, tanto da attribuire (finalmente!) a questa avanzata il nome di “egemonia”, come ha rilevato recentemente Cristina Comencini. Si evidenzia, infatti, una qualità femminile ignorata nelle false narrazioni storiche, e sempre più disattesa nel mondo degli uomini perennemente belligeranti: il coraggio. Se ci si pensa, appare perfino comica la continua attribuzione di “coraggio” all’agire storico maschile, compreso quello eroico, Né l’eroismo, né la guerra, né la dissidenza suicida sono le vie seguite dalle donne nella storia, cercando – lo intuisco empaticamente – di testimoniare “come si fa” a salvare la propria vita e quella degli altri nel momento in cui si deve smettere di “dare a Cesare quel che è di Cesare”, e impegnarsi invece a “dare” alla sovranità del coraggio l’agire per la trasformazione.

Le iraniane stanno cercando di trascinare uomini e donne nella rivoluzione finalmente scoppiata, grazie a loro. Hanno tentato la stessa cosa le afghane, nel momento vergognosa della ritirata statunitense dal loro paese. Lo hanno fatto e lo stanno facendo le russe, lo hanno fatto le molte americane del “metoo”, lo fanno le curde inascoltate, lo hanno fatto le creatrici delle primavere arabe; lo ha fatto anche Angela Merkel, a suo modo, qualche giorno fa, pronunciando una formula stupefacente che racchiudeva la sua proposta per risolvere la guerra sul territorio ucraino: «Bisogna pensare l’impensabile». Leggendo questa traduzione comparsa in un articolo di Barbara Spinelli, ho

fatto un salto sulla sedia: oltre ad essere una formula sapienziale perfetta, è anche una formula fondamentale in psicoanalisi, adottata da una geniale psicoanalista inglese, Nina Coltart (1927-1997). La riproposta di questa formula da parte di Angela Merkel è un invito a immaginare al di fuori dell’ovvio, del “razionale”, del “politicamente corretto” storicamente determinato, del cinismo della ragion di Stato. Grazie al coraggio e alla determinazione mostrata dalle donne nel campo politico contemporaneo, vengono a cadere l’idea della “rendita della vittima” che ha accompagnato il femminismo esclusivamente rivendicativo, la necessità di chiedere la moltiplicazione dei posti di potere alle donne per raggiungere la parità, e la pratica della “stampella” che si dovrebbe fornire per sostenere le decrepite istituzioni patriarcali. Il movimento femminista rivoluzionario è oltre, presenta un di più di autorevolezza, ed è per questo che è egemone. La differenza delle donne può anche dare un’indicazione sempre più preziosa per conservare la vita della mente: bisogna uscire dall’irrealtà delle ragioni razionali (sic!) che portano a far scorrere sangue innocente in ogni conflitto tra eserciti e tra persone. C’è la realtà impensata là fuori, e aspetta di incontrare il coraggio e la nostra sapienza.


(Lo Specchio-La Stampa, 23 ottobre 2022)

di Sebastiano Canetta


«Woman, Life, Freedom». Sono oltre 80 mila a scandirlo, in inglese e in farsi, tra la Colonna della Vittoria e la Porta di Brandeburgo: il doppio di quanti ne erano attesi, dieci volte l’imprudente stima della polizia federale. Basta e avanza a certificare lo straordinario successo della manifestazione «That is the Time», se non fosse che la mobilitazione in solidarietà alle donne iraniane ieri a Berlino è andata davvero oltre la cifra oceanica.

Un evento politicamente di massa, inimmaginabile anche solo una settimana fa durante i preparativi per riunire nel cuore dell’Ue la tutt’altro che compatta diaspora iraniana. Invece sono arrivati letteralmente da tutta Europa a bordo decine di treni e riempiendo il centinaio di pullman che ha mandato in tilt non solo il traffico della capitale: impossibile non sbatterci addosso fisicamente e soprattutto impossibili da ignorare per i politici di Bruxelles come per i turbanti di Teheran. Il messaggio non solo è chiaro ma anche a furor di popolo.

Marjane, franco-iraniana di 23 anni, gira lo schermo dello smartphone compulsato per trovare il link al video delle studentesse universitarie che in mattinata hanno cantato «Woman, Life, Freedom» a Tabriz. Poi passa alle foto degli arresti indiscriminati a Zahedan che qualche minuto prima hanno innescato lo slogan: «Mullah go home!». «Sono qui per sostenere la lotta delle mie coetanee, che è arrivata alla sesta settimana. Anche per denunciare l’ipocrisia dell’Europa che ci aiuta sempre e solo a parole».

Trenta metri più avanti qualcuno ha riconosciuto le studentesse iraniane di feminista.berlin (il gruppo artistico-politico che ha indetto la manifestazione di ieri insieme al collettivo “Women* Life Freedom”) che dieci giorni fa hanno montato le tende davanti al quartier generale dei Verdi in Invalidenstrasse mettendo in scena la performance con magliette insanguinate all’attenzione di Robert Habeck e Annalena Baerbock. «I leader dei Verdi parlano sempre di diritti umani. La ministra degli Esteri ha anche promesso una politica estera “femminista”. Poi però non fanno nulla» sintetizza Setajesh Hadizadeh tra le casse che sparano una canzone rivoluzionaria persiana in versione Deutsch.

In fondo al corteo un capannello di donne imbandierate nel tricolore si consulta per capire a che ora parla Hamed Esmaeilion – portavoce delle vittime del volo Ukrainian Airlines 752 abbattuto due anni fa dai Pasdaran a Teheran – tra gli interventi più attesi della manifestazione. «Ha tenuto viva fuori dall’Iran l’indignazione per l’assassinio di Mahsa Amini. Venti giorni fa ha organizzato 150 manifestazioni in tutto il mondo» sottolinea con una punta di orgoglio la signora originaria di Kermanshah, la città-natale di Esmaeilion.

In prima fila, invece, a favore di telecamere, nel primo pomeriggio si erano spolmonati contro gli Ayatollah i filo-scià con gli inconfondibili simboli Pahlavi: per loro ieri è stato un appuntamento non troppo diverso da ogni sabato di protesta davanti alla Porta di Brandeburgo, solo che questa volta i vessilli sono stati sovrastati dalle bandiere senza il leone. Si sente parlare in curdo ma ci sono anche famiglie originarie del Balucistan, la provincia iraniana dimenticata al confine col Pakistan, e soprattutto una marea di cartelli e striscioni di ogni tipo. Su quello srotolato dagli iraniani d’Australia si chiede di «espellere i diplomatici di Teheran e ritirare l’ambasciatore australiano» ma spiccano anche le richieste della «Iran-Revolution» post-khomeinista.

«Oggi abbiamo dimostrato che siamo capaci di mettere da parte le differenze politiche. Brutto segnale per la teocrazia di Teheran. Se gli iraniani cominciano a fare massa anche all’estero…» è l’analisi-auspicio lasciata in sospeso da Sakhine, fuggita a Lund (Svezia) con figlia e marito prima dell’ultimo giro di vite del regime dei Mullah. A voler seguire il suo dito che scorre dietro gli alberi del Tiergarten il successo della protesta coincide con il fiume di bus parcheggiati tra il Reichstag e la cancelleria federale: «Siamo arrivati da tutta Europa: Londra, Parigi, Bruxelles, Bologna».

Un’ora prima del concentramento sotto la Colonna della Vittoria, sempre nel crocevia che divide in quattro il Tiergarten, la Sinistra aveva chiuso il comizio dell’«Autunno Solidale»: mobilitazione per chiedere il tetto al prezzo dei beni di prima necessità e agli affitti. «Due manifestazioni, una lotta» riassume l’ex segretaria della Linke, Katja Kipping, camminando spedita insieme a 3.500 persone in direzione del Regierungsviertel, il quartiere governativo di Berlino. Fa in tempo a spiegare che le due proteste si fondono non per la prossimità geografica ma perché la lotta delle donne iraniane è una questione di politica interna, dato che il regime di Teheran fa ampio utilizzo di licenze made in Germany per tenere in piedi la sua finta autarchica.


(il manifesto, 23 ottobre 2022)

di Franca Fortunato


“Chi ha paura della libertà delle donne? Sciogliere i nodi della violenza maschile” è il titolo del convegno on line delle Città Vicine del febbraio scorso i cui atti sono stati pubblicati nel numero speciale di questo mese della rivista della Mag di Verona “Autogestione e politica prima”. Dalla lettura dei tanti e interessanti interventi viene fuori una ricchezza di pensiero, di idee, di esperienze, di testimonianze, di pratiche politiche, di confronto tra donne e tra donne e uomini, con l’inevitabile racconto di tutte le forme di violenza e di attacco maschile alle donne, in questo tempo post patriarcale dove “il corpo delle donne resta” sì “il campo di battaglia elettivo” ma dentro la realtà che è cambiata “grazie all’agire femminile di questi cinquant’anni”. Realtà che “bisogna saper leggere” e “trovare delle nuove parole capaci di contrastare le diverse forme della violenza”, parole “rigeneranti che saldino” tra loro le generazioni di donne. Alle forme di violenza che sembrano sempre uguali (stupri, molestie sessuali, femminicidi) se ne aggiungono di nuove come il “genere” che nega e cancella il corpo femminile, rimuove «la genealogia madre/figlia, la nostra radice» e ripropone la contrapposizione tra “natura e “cultura”. «Affermare che siamo tutti nate/i da donna e che esiste la differenza sessuale non significa sbilanciarsi verso un nuovo “naturalismo” contrapposto alla cultura, bensì ribadire che differenza sessuale e corpo della madre non si possono cancellare». Nuova è la violenza istituzionale che toglie figli/e alle madri dopo che denunciano le violenze del proprio compagno, per via della legge sulla bigenitorialità e sull’alienazione parentale (la cosiddetta Pas). Nuova la violenza dentro le aule di giustizia imposta anche da donne ad altre donne, dove «guai a parlare di assegni di mantenimento per le donne, perché quello che passa culturalmente è che le donne sono ormai alla pari degli uomini e se vogliono lavorare che ci vadano». Nuova la violenza subdola degli uomini nel tentativo «di mercificare la potenza generatrice delle donne o i loro corpi prostituiti con la chimera di lucrosi guadagni per le meno abbienti con l’utero in affitto o i riconoscimenti di diritti sindacali pensioni e cure sanitarie nei tentativi di legalizzare e regolamentare quella che chiameremmo invece induzione alla prostituzione». Meno norme, meno codice penale, più femminismo, più politica delle relazioni e pensiero femminile per trovare «le risposte adeguate», lasciando aperto il «conflitto dialogante» con gli uomini, che devono «esprimersi di più» sulle varie forme di violenza sulle donne, e il dialogo con le giovani che «fanno fatica a ereditare quanto le ragazze del ’68 e del primo femminismo hanno elaborato, detto e fatto per affrancarle dal dominio del patriarcato e dei singoli maschi». Sono queste, tra interrogativi e domande, le indicazioni venute dai vari interventi al convegno. Sono le città, come a Teheran, teatro della paura degli uomini della libertà delle donne, ma sono anche teatro del cambiamento delle ragazze e dei ragazzi come ci dicono le manifestazioni per l’ambiente dove «tutto è partito da una ragazza» e le denunce per molestie sessuali contro professori al liceo di Castrolibero. La rivista, sin dalla copertina, è impreziosita dalle immagini delle opere dell’artista afghana Shamsi Hassani che «da esule non ha smorzato la sua volontà politica e artistica di segnare e edificare simbolicamente la sua città: Kabul». Una rivista bella, speciale, da leggere e fare conoscere. Un convegno importante che interroga donne e uomini.


(Quotidiano del Sud, 22 ottobre 2022)

di Michele De Palma


La lettura del libro del Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo (Moretti&Vitali, pp. 359, euro 22, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione») è avvenuta in occasione dell’Assemblea nazionale delle metalmeccaniche della Fiom. La presentazione del volume, curato da Giordana Masotto, è stata una finestra aperta dalle metalmeccaniche su un lavoro che, utilizzando le parole di Michela Spera che ha aperto i lavori, ha messo ordine e reso fruibile la documentazione su il «lavoro» del pensiero politico delle donne sul lavoro.

Di questi tempi dare un ordine al pensiero che sia accessibile e consultabile o restituire un grado di libertà nell’ordine di esplorazione e di lettura non è certamente uno sforzo facile. Si pensi per fare un parallelo alla discussione che seguì alla decisione di divulgare i «quaderni dal carcere» la decisione di dare un ordine ai materiali non è neutro. La curatrice di questa pubblicazione decide di offrire la libertà della consultazione perché la Libreria delle Donne nasce dalla necessità di «andare a vedere che cosa avevano scritto le donne», creare occasione d’incontro per le donne decidendo di ragionare sul lavoro. Non il lavoro delle donne. Le donne esprimono la propria soggettività passando dal «problema femminile» ad essere un soggetto che elabora un punto di vista sul lavoro.

Primo passo è, come ci dice Giordana Masotto, «leggere la realtà partendo da sé». Secondo passo è disoggettivare i numeri: come sono stati raccolti, le parole di narrazione a corredo danno un senso. Mettere in discussione i dati, andare oltre, dietro, ad analizzare permette di elaborare pensiero e dargli parola. Discutere i dati dà autorevolezza e il libro è una bussola in questa ricerca. L’ultimo capitolo è quello legato alla parola contrattazione. Termine che apre un mondo perché mette in relazione la soggettività con la realtà, il mondo intero. La dimensione della contrattazione è chiaramente legata al riconoscimento delle altre e degli altri: un mettersi in relazione che cambia se stessi, la realtà. Contrattare è quindi fare politica: cambiare la realtà.

Per me, a cui il Comitato centrale ha concesso la fiducia di una investitura a Segretario generale della Fiom, il libro è sembrato una fune tesa per attraversare una Assemblea delle metalmeccaniche che mi ha fatto conoscere la vertigine del vuoto di relazione che pur una organizzazione sociale e contrattuale dovrebbe praticare.

Come scrive Lia Cigarini nel volume: «ma oggi la democrazia rappresentativa è messa in crisi e noi ne vediamo i limiti. Fa politica chi apre conflitti, chi lotta per il cambiamento (…) l’altra è politica che formalizza ciò che è già accaduto. Non sono d’accordo nel chiamare politica quella esterna a chi pratica il conflitto». Queste parole offrono un riferimento di movimento a chi rischia di rimanere impantanato nelle sabbie mobili di chi «formalizza la realtà». Il conflitto è la vittima eccellente dell’attuale forma di capitalismo. Il conflitto è escluso mentre la guerra si fa normalità nel discorso pubblico. La guerra come distruzione della differenza, come annientamento della critica uniforme del pensiero, è la minaccia con cui fare i conti. Il lavoro crea, la guerra annichilisce.

È necessario il conflitto per impedire la guerra, la contrattazione è la definizione in divenire della soggettività, sapendo che la soggettività per eccellenza del ‘900 è stata il movimento operaio. Oggi quella soggettività ha dovuto fare i conti con il dominio del capitale patriarcale. Affermare «il patriarcato è morto», come ha fatto Masotto, «perché non esistono più le donne disposte a riconoscerlo», permette di comprendere meglio l’intervento di una donna partigiana kurda e le manifestazioni scoppiate in Iran in queste settimane. Affermazione di una soggettività nel conflitto che non vuole cambiare per sé ma per tutte e tutti.

Tale cambiamento è frutto del lavoro, «tutto il lavoro necessario per vivere» che abbatte il muro di separazione tra produzione e cura. Conflitto necessario a dare una possibilità all’umanità a partire da una presa di coscienza della realtà e della propria soggettività. Il portato delle metalmeccaniche e dei metalmeccanici nella vita della Fiom si è dotato di un «vademecum» con questo testo. Già nel rinnovo del contratto nazionale avevo potuto constatare come la forza relazionale delle donne sia stata capace di determinare un miglioramento per tutti. Un insegnamento tratto dalla realtà. Un riferimento per il futuro della Fiom. Un libro che sceglie le parole e le condensa per una pratica del conflitto, della contrattazione.


Michele De Palma è segretario generale Fiom-Cgil


Il 22 ottobre 2022 alla Libreria delle donne di Milano (Via Pietro Calvi, 29), si è tenuto l’incontro «Donne uomini lavoro: qualcosa sta cambiando», a partire dalla presentazione del volume «Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo» del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano (Moretti&Vitali). Hanno aperto la discussione Giordana Masotto (curatrice del libro) e Michela Spera (Fiom Nazionale).


Materiali utili:


Cambiare il lavoro a partire dal nesso vita/lavoro. Una discussione pubblica tra Giordana Masotto (Dalla servitù alla libertà) e Luisa Pogliana (Una sorprendente genealogia) nell’ambito dell’ultima edizione del Festivaletteratura di Mantova.


(il manifesto, 22 ottobre 2022)