di Giuliano Milani


bell hooks, La volontà di cambiare, il Saggiatore, 200 pagine, 19 euro

Che le donne subiscano le costrizioni e la violenza del patriarcato è un dato acquisito, anche se non abbastanza considerato. Molto meno ovvio è che questo sistema danneggi in profondità anche gli uomini. È la tesi di questo libro, con cui Il Saggiatore inaugura la traduzione in italiano delle opere di bell hooks, figura importante del femminismo statunitense e teorica dell’interazione tra i sistemi di dominio, morta l’anno scorso. Fin da bambini i maschi sono portati dalla famiglia, dalla scuola o anche solo dalla cultura di massa a reprimere le loro emozioni, a adeguarsi a modelli predeterminati, a mentire, in primo luogo a sé stessi. In questo modo diventano incapaci di amare ed essere amati per quello che sono. Con esempi tratti da casi clinici e letteratura militante, bell hooks mostra che il patriarcato, veicolato anche dalle madri, è il principale responsabile dell’infelicità dei maschi, al di là del loro orientamento sessuale, perché li sradica dal loro vero sé senza farglielo dimenticare, aprendo ferite che possono essere colmate con la rabbia e la violenza, la ricerca di una sessualità inappagabile o di un’abnegazione nel lavoro. Minando dall’interno una logica di lotta tra i generi, bell hooks propone una rivoluzione affettiva che facendo ritrovare ai maschi la loro integrità paradossalmente distrutta dal sistema che dominano, può arrestare quel dolore profondo che ne genera tanti altri.


(Internazionale, n. 1486, 11-17 novembre 2022)

di Julie Bindel


I “clienti” di prostituzione sanno benissimo di commettere una violenza. Una ricerca sui compratori di sesso dimostra che gli uomini sono perfettamente consapevoli del fatto che la prostituzione è violenza, che le organizzazioni criminali tengono le donne nel terrore e che non c’è “regolamentazione” che tenga. Ma si fermano solo se rischiano una condanna penale, come accade in Svezia, Norvegia, Canada, Francia, Irlanda, Israele e in altri paesi che hanno introdotto il modello abolizionista. Diversamente continuano a considerare lo stupro a pagamento come un loro diritto.

La Germania è conosciuta come il bordello d’Europa. È un titolo conquistato faticosamente. Con più di 3.000 bordelli in tutto il Paese, e 500 solo a Berlino, il suo commercio sessuale vale più di 11 miliardi di sterline all’anno.

La prostituzione, in tutte le sue forme, è legale in Germania, sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Recentemente, però, l’atteggiamento sta cambiando. La gente e i politici chiedono al governo di prendere atto del cosiddetto “stato pappone” e di considerare il terribile tributo che la prostituzione impone alle donne e alle ragazze. 

La “prostituzione industrializzata” della Germania è orribile, secondo chi è riuscita a sopravvivere. Le leggi danno libertà ai papponi, che vengono chiamati “uomini d’affari” e “manager” mentre comprano e vendono donne disperate. A Colonia è stato aperto il primo bordello in auto al mondo nel 2001, e da allora ne sono seguiti altri. In città come Monaco di Baviera e Berlino esistono “mega-bordelli” che possono ospitare circa 650 clienti alla volta, che propongono un’offerta “early bird” di hamburger, birra e sesso. Nei momenti di calma, alcuni bordelli propongono la formula “due al prezzo di una” e “happy hour” con tariffe scontate.

La regolamentazione ha contribuito all’espansione del commercio sessuale in Germania: si stima che ci siano 400.000 prostitute e circa un milione e duecentomila uomini (la popolazione tedesca è di poco superiore agli 80 milioni) che comprano sesso ogni giorno.

Tuttavia, in occasione di una conferenza internazionale tenutasi a Berlino la scorsa settimana, un nuovo rapporto ha contribuito a spostare la narrazione sulla prostituzione e sui suoi danni, in un Paese che ha a lungo difeso e promosso l’interno del corpo di una donna come idoneo a essere considerato un luogo di lavoro. Il rapporto, intitolato “Uomini che pagano per il sesso in Germania e cosa ci insegnano sul fallimento della prostituzione regolamentata”, si basa sui dati raccolti da 96 compratori di sesso tedeschi e convalida gran parte di ciò che le sopravvissute al mercato del sesso e gli studiosi di diritto dicono al mondo da decenni.

Gli uomini, di età compresa tra i 18 e gli 89 anni, erano un gruppo eterogeneo, che spaziava da disoccupati e uomini con lavori non specializzati e a basso reddito, fino a professionisti di alto livello. Gli intervistati hanno fornito informazioni sincere sui loro atteggiamenti, comportamenti e motivazioni quando si tratta di pagare per il sesso. Gli sono state poste domande quali: come funziona la regolamentazione della prostituzione? Rende le donne più sicure? Ha portato a una riduzione della tratta di esseri umani?

La ricerca, guidata dalla psicologa Melissa Farley, rappresenta la parte finale di uno studio sui consumatori di prostituzione in sei Paesi, basato su lunghe interviste a 763 uomini negli Stati Uniti, in Cambogia, Inghilterra, India, Scozia e Germania.

In Germania, la legge sulla prostituzione del 2002 ha introdotto una piena regolamentazione che ha classificato il commercio sessuale come una forma di lavoro e un “lavoro come un altro”. I magnaccia sono diventati uomini d’affari e le donne “lavoratrici del sesso”. Ha spazzato via tutte le restrizioni del dopoguerra che dicevano che la prostituzione non era “proibita ma… immorale”. E, nonostante i tentativi del governo di regolarizzare il commercio sessuale, quasi nessun protettore ha pagato le tasse: solo 44 (su 80.000) donne prostituite si sono registrate come tali, nonostante la legge lo richieda.

Nel 2017, a seguito delle pressioni esercitate dalle femministe e delle testimonianze degli agenti di polizia sui crescenti livelli di criminalità e violenza sotto il regime di regolamentazione, il governo ha introdotto una serie di restrizioni: i protettori non sono più autorizzati a imporre quale tipo di “servizi” le donne devono fornire ai frequentatori, i proprietari dei bordelli devono richiedere una licenza e i frequentatori sono obbligati a usare i preservativi.

«Naturalmente non è stato possibile far rispettare queste norme», mi racconta Angie, una sopravvissuta tedesca al mercato del sesso. «I protettori sono criminali che vogliono solo fare soldi, e [i clienti] non possono essere obbligati a indossare un preservativo. Dovevamo comunque fare quello che ci veniva detto».

In Germania, la prostituzione è vista come una necessità per gli uomini e quasi un bene per la società in generale. Come ha detto un compratore di sesso: «La natura degli uomini è che non hanno alcun controllo su sé stessi. Ma poiché possono usare le prostitute, ci sono meno reati sessuali». Questo concetto è errato: non solo vengono commessi reati sessuali contro le donne che si prostituiscono, ma nei Paesi in cui la prostituzione è regolamentata, i tassi di violenza maschile tendono a essere più alti che in altri.

Molti dei frequentatori tedeschi intervistati hanno visto prove di coercizione, terrore e violenza nei confronti delle donne. Nonostante ciò, tutti sono disposti a pagare per fare sesso. «Il sistema tedesco ha di fatto regolamentato lo stupro, purché sia compiuto su una donna che si prostituisce», ha detto Alice, un’altra sopravvissuta al mercato del sesso.

Uno degli argomenti usati dai sostenitori della regolamentazione è che se gli uomini sanno che non saranno arrestati per aver comprato sesso, saranno molto più propensi a denunciare qualsiasi prova di traffico e di sfruttamento di ragazze minorenni. Tuttavia, solo uno dei 96 consumatori di sesso tedeschi intervistati ha denunciato alla polizia l’esistenza di un caso di tratta di esseri umani.

Il problema è che, come ha detto un compratore: «Una volta che hai pagato, puoi farle tutto quello che vuoi». Agli uomini è stato chiesto se fossero a conoscenza di violenze da parte dei papponi nei confronti delle donne. Molti lo erano, in quanto avevano visto i protettori commettere abitualmente atti di violenza che corrispondono alle definizioni internazionali di tortura. Un uomo ha detto: «C’era un [pappone] che picchiava davvero una delle sue donne. L’ha colpita due o tre volte in faccia con un pugno e l’ha sbattuta contro il muro». Un altro ha riferito: «Quando le donne non pagavano abbastanza il pappone, gli facevano strappare le unghie o le picchiavano a sangue. Le donne erano spaventate e non dicevano mai nulla».

I compratori di sesso hanno mostrato poca o nessuna empatia nei confronti delle donne. «È come bere una tazza di caffè, quando hai finito la butti via», ha detto uno di loro. «È come affittare un organo per dieci minuti», ha detto un altro.

In Germania non c’è vergogna nell’essere un compratore di sesso, e questo è una parte importante del problema. La regolamentazione dovrebbe ridurre la tratta, la violenza e il commercio sessuale clandestino, ma, come sottolinea il rapporto, è accaduto il contrario, con la crescita delle attività illegali accanto a quelle legali.

Per loro le donne prostituite non sono “stuprabili” e se non possono fare sesso con chi vogliono, quando vogliono e come vogliono, saranno costretti, come ha detto un uomo, a «stuprare una donna vera». Tre quarti degli intervistati hanno assunto questo atteggiamento. Come ha detto uno di loro: «La prostituzione è un bene per la società perché gli uomini hanno un desiderio sessuale eccessivo e possono sfogarsi su di loro senza aggredire altre donne o aggredire i bambini».

Fino al 2020, Helmut Sporer è stato un ufficiale di polizia investigativa responsabile delle indagini e del monitoraggio della prostituzione in Germania, compreso il traffico di esseri umani a livello internazionale. Nel corso della sua carriera, Sporer ha assistito a un costante deterioramento sia delle condizioni delle donne coinvolte nella prostituzione sia della risposta delle autorità giudiziarie per affrontare efficacemente la proliferazione del crimine organizzato e gli abusi all’interno del sistema. Per Sporer, questo deterioramento non è avvenuto nonostante la regolamentazione generalizzata, ma proprio in conseguenza di essa.

I compratori di sesso tedeschi sembrano essere consapevoli di quanto sia violenta la prostituzione: «La prostituzione funziona solo perché gli uomini sono dominanti», ha detto uno di loro.

Quindi cosa potrebbe dissuadere gli uomini dal pagare per il sesso? In Germania, sarebbe necessario un cambiamento della legge. La regolamentazione dovrebbe essere abrogata e sostituita con una legge che criminalizzi l’acquisto di sesso e aiuti le donne a uscire dal mercato del sesso. Incredibilmente, la maggior parte degli uomini ha ammesso che poco altro li fermerebbe se non l’iscrizione al registro dei criminali sessuali o una condanna penale. Questa legge è stata adottata in Svezia, Norvegia, Islanda, Irlanda del Nord, Canada, Francia, Irlanda e Israele, e le prove dimostrano che questo approccio frena il commercio sessuale in tutte le sue forme.

Non sarebbe un’amara ironia se il governo tedesco fosse così sconvolto dalle parole dei compratori di sesso che ciò gli desse l’impulso per mettere finalmente in discussione le proprie leggi? Per dirla con le parole di Rachel Moran, la sopravvissuta irlandese al commercio sessuale, il cui potente discorso ha chiuso la conferenza di Berlino:

«Questi uomini hanno confermato tutto ciò che diciamo da anni», ha affermato. «E non avrei mai pensato di dirlo, ma ringrazio i compratori di sesso tedeschi per aver dato al governo tedesco tutte le munizioni di cui ha bisogno per fermare il commercio del sesso».


(Traduzione di Ilaria Baldini. Resistenzafemminista.it, 16 novembre


2022, https://www.resistenzafemminista.it/germania-il-bordello-deuropa/)

di Gioacchino Toni


Il volume di Alice Mammola, Voci. Storia di un corredo orale (Armillaria, 2022), in uscita proprio in questi giorni, analizza i contenuti di canzoni popolari intonate dalle donne in risposta a un bisogno di prendere la parola e di rompere il silenzio loro storicamente imposto.

Nel libro viene evidenziato come in diversi canti intonati dalle donne si manifesti un «atteggiamento consapevole, risoluto e di sfida delle norme, ben lontano dai sentimenti di sottomissione e rassegnazione che caratterizzano altri linguaggi».

In un contesto in cui la Storia ha tolto voce ed espressione alle donne, per farsi narratrici queste hanno individuato nel canto un’occasione di elaborazione di un discorso autonomo capace di divenire memoria storica tramandata come “corredo orale”. «Una memoria in cui si affermano in prima persona e che ha trasformato la loro voce, fornendo uno spazio per esprimere il loro contributo partecipativo ed emotivo, discostandosi dalle esposizioni che su di loro sono state fatte in letteratura e altri campi».

Si tratta di canti intonati in luoghi pubblici come cortili, lavatoi, stalle, risaie, fabbriche e piazze, raramente accompagnati da strumenti musicali. «Voce vera che dice. Voce sporcata dalla fatica del lavoro. Niente a che vedere col bel canto e l’esercizio del solfeggio. È voce che tiene il ritmo mentre lavora, voce che serve da accompagnamento al fare».

Al pari di altre produzioni orali, i canti popolari, sostiene Mammola, possono essere considerati proprietà collettiva della comunità. «Restituire il contesto storico-sociale in cui queste storie sono immerse, non come singole biografie e nomi propri ma come collettività, ripulendo le narrazioni dall’inquinamento protratto per secoli dal sistema patriarcale, significa riprendere in mano la complessità, ampliare spazi, intravedere le voci messe in sordina che erano anch’esse protagoniste vive e attive».

Quelli analizzati dalla studiosa sono canti che non hanno paura di nominare le sofferenze, i desideri, le aspirazioni lavorative di una collettività, capaci di farsi «strumento di resistenza e di richiesta», di opposizione alla concezione dominante della condizione femminile.

«A differenza della produzione intellettuale e letteraria delle classi più agiate, le canzoni popolari danno voce alle speranze, le rivendicazioni e le emozioni della classe povera e lavoratrice, molto spesso analfabeta o comunque priva di un accesso diretto alla parola scritta. Ne emerge una presa di coscienza in termini di genere, classe sociale, disparità che si traduce talvolta in un grido di denuncia. Il racconto delle cose nomina e riconosce. Le parole diventano patrimonio di tutte. Le figure liminali che hanno trasmesso e riportato molti di questi canti hanno il grande merito di aver tramandato una visione del mondo ricca di elementi sovversivi, rispetto al destino che molto spesso viene tracciato nei canti di stampo maschile.»

Mammola passa in rassegna i canti popolari femminili indagando come le voci delle donne abbiano saputo e voluto narrare dal loro punto di vista la vita quotidiana, il mondo del lavoro, le lotte e la guerra. A proposito di quest’ultima la studiosa si è sofferma soprattutto sui canti corali delle donne nel periodo della prima guerra mondiale in cui «con coraggio sfidavano il destino, rivendicando la loro sessualità, denunciando le oppressioni, ribaltando la condizione di vita domestica e infrangendo le regole della castità, dell’eteronormatività o della mancanza di desiderio sessuale. Nelle canzoni la loro voce diventa quella di un soggetto parlante, desiderante, che si esprime e autodetermina senza la paura di dire come vive e come soffre. Far uscire con la voce cantata problemi come la violenza di genere, le molestie, gli stupri, il diritto a un salario giusto e paritario significava portare queste questioni dal privato al pubblico e quindi farne un tema politico».

In diversi canti le donne denunciano «l’insensatezza della guerra e rivendicano al contempo una forza militante e combattente. Pur nella loro diversità, il servizio militare e il lavoro delle mondariso hanno alcuni punti in comune: sono esperienze di giovani che si allontanano dalle famiglie e dai contesti conosciuti per vivere un’esperienza dura e faticosa insieme a persone provenienti da altri luoghi».

Non a caso, nota l’autrice, diversi vocaboli utilizzati dalle mondine per raccontarsi sono derivati dalla vita militare, così come vari canti da esse creati e intonati sono mutuati da canzoni di caserma. A proposito della vita nella risaia, ad esempio, un canto afferma: «È già da un mese che faccio la monda, / la disciplina è come i soldati: / mangiare, dormire come i carcerati, /e tutto il giorno non debbo mollar».

L’ostilità nei confronti della guerra che si ritrova nelle strofe intonate dagli uomini al fronte – «Prendi il fucile e gettalo per terra, / prendi il fucile e gettalo per terra, / vogliam la pace, vogliam la pace, / vogliam la pace e non vogliam la guerra!» – si ritrova anche nei canti delle donne nelle risaie: «E se qualcuno vuol far la guerra / tutte unite insieme noi lo fermerem, / vogliam la pace sulla terra / e più forti dei cannoni noi sarem».

Dai canti dei soldati in trincea emerge spesso la consapevolezza di come la guerra non rappresenti gli interessi della popolazione e ciò viene espresso attraverso un senso di rassegnazione e fatalismo incentrato sulla retorica dell’uomo costretto ad allontanarsi dall’amata e dalla madre andando probabilmente incontro alla morte.

Le donne a cui rimandano i canti degli uomini al fronte sono le mogli, le fidanzate e le madri a cui si rivolgono spesso in forma di “lettera cantata”, come se si trattasse delle ultime parole rivolte loro prima di andare inesorabilmente incontro alla morte. Sono canti in cui non di rado si «toccano i sentimenti condivisi della famiglia sganciandosi dalla retorica maschilista e patriarcale. Il tono di queste testimonianze è indubbiamente in opposizione alla narrazione ottimista della partenza e all’esaltazione eroica della missione».

Quasi in risposta ai canti intonati al fronte che fanno riferimento al timore del tradimento da parte della fidanzata o della moglie, le mondine delle risaie vercellesi intonano versi come questi: «I nostri richiamati sono andati da Cadorna / perché le loro mogli gli fan portar le corna. / Bom bom bom sotto il rombo del cannon, / Cadorna gli ha risposto, non fate meraviglia / quando andrete a casa troverete più famiglia. / Sta attenta Filomena, che lo dico a tuo marito / che i soldi del sussidio li mangi con l’amico. / Il povero marito faceva il pecoraio, / le capre ci morivano le corna ci restarono».

Ai canti militari enfatici e patriottici disseminati di riferimenti virili e nazionalisti, in cui si racconta «di giovani combattenti valorosi, di mostrine e stelle, di onore e di vittoria contro gli antagonisti nel tentativo di infiammare i cuori della nazione», si contrappongono «quelli di trincea sull’amore, la fame e il desiderio di tornare a casa». La voce delle donne, invece, «mette in guardia dalla morte e dalla stupidità di combattere: la guerra per le donne è maledetta. Il punto di vista femminile nelle canzoni rivela infatti una visione coraggiosa che affronta scientemente l’argomento della guerra. I nemici da maledire sono lo Stato, il re, chi decide di mandare i loro cari a morte certa. La donna canta il lutto e la fatica di restare da sola ma senza far ricorso a un tono pietistico e drammatico, anche in questo frangente i testi delle canzoni sono taglienti. La parola è pragmatica e arrabbiata; nel condannare l’insensatezza del conflitto si fanno i conti con la vita quotidiana […]. Il grido che si sprigiona nei canti femminili che vivono la guerra da un “fronte interno” è ribelle, vibra della consapevolezza che le guerre le decidono i ricchi e le combattono i poveri per conquistare un palmo di terra (da “Fuoco e mitragliatrici”). Conoscono bene le conseguenze drammatiche che peseranno sui poveri, per il loro legame con il territorio depredato, le case distrutte, la fame, la precarietà; sanno la fatica della ricostruzione e denunciano il costo umano che verrà pagato dagli ultimi e dalle ultime».

Ecco allora, scrive la studiosa, che le parole di rabbia delle donne divengono un canto apertamente antimilitarista capace di gridare a voce alta e corale: «E maledico chi vorse la guerra, / i primi son stati gli studentini / e quanta gioventù caduta ’n terra / e quanto sangue sparso pe’ confini. / Vittorio Emanuele re del regno, / o quanta gente hai fatto macellare, / se vuoi i sordati fatteli di legno / ma i’ mi morino lasciamelo stare. / Vittorio Emanuele cosa fai, / la meglio gioventù tutta la vòi, / la meglio gioventù tutta la vòi, / e l’amor mio quando me lo ridai?».

Siamo dunque lontani, sottolinea Mammola, dalla rassegnazione; la voce delle donne «tende semmai a porsi in modo sabotante, a essere controcorrente, un pensiero lungimirante veicolato da parole coraggiose. Nei canti esprimono il rifiuto di partecipare alla distruzione e alla sopraffazione, denunciano come l’autoritarismo intensifichi le disuguaglianze e calpesti i diritti umani. Non hanno il dubbio dell’eroismo e della missione, e soprattutto non hanno niente da perdere nel dichiarare la loro disapprovazione».

Negli anni del fascismo, alla retorica del regime che distribuisce medaglie alle madri di famiglie numerose, diverse canzoni delle donne rispondono protestando della situazione in cui si sono venute a trovare con la guerra che le vede lasciate sole a gestire la fame propria e dei famigliari mentre il marito è al fronte. Sempre a proposito di guerra, nell’analisi di Mammola non mancano canti in cui compaiono o prendono la parola donne combattenti, soprattutto durante la stagione della Resistenza.

Oltre al punto di vista delle donne sulla guerra che emerge dai canti popolari, il volume indaga le canzoni intonate a proposito della loro condizione di vita, di lavoro e di lotta ricostruendo una modalità di presa di parola spesso sovrastata dalle voci e dagli immaginari maschili. Certamente un libro utile a chi desidera imparare ad ascoltare.


(Carmilla online, 16 novembre 2022, carmillaonline.com/2022/11/16/voci-di-donne/)

di Umberto Varischio


Abbiamo visto ciò che è accaduto sia prima che dopo il conferimento dell’incarico di formare il governo a una donna: una parata del peggiore paternalismo patriarcale con quasi tutti i commentatori che raccomandavano a Meloni di ascoltare i suggerimenti giudiziosi del Presidente del Consiglio uscente, che assumeva via via i panni del padre o dell’uomo responsabile che doveva guidare la giovane donna inesperta nei meandri della politica nazionale e internazionale.

Immaginiamo uno scenario parzialmente diverso per l’esito delle elezioni politiche del 25 settembre: che a vincerle sia stata sempre la destra, e in particolare FdI, ma che il leader sia, per esempio, Crosetto (o uno qualsiasi dei “fratelli”) e non Meloni. Se il leader di FdI fosse stato un uomo, si sarebbe solo preso atto delle decisioni assunte dal nuovo presidente del consiglio e lo si sarebbe criticato o lodato per le scelte fatte.

Sulla questione dei migranti, al di là dell’inumana e disastrosa gestione da parte del governo di questi ultimi giorni (che probabilmente sarebbe stata la stessa anche se ci fosse stato un “fratello” al comando), nessuno si sarebbe probabilmente permesso di chiedere a un presidente del consiglio (uomo) d’andare a prendere consigli o comandamenti dal lord protettore (come viene definito Draghi) e neppure di criticarlo per “aver dimenticato rapidamente i consigli dispensati” usando i toni del paternalismo patriarcale – come ha fatto, per esempio, Alessandro Barbera su “La Stampa” del 12 novembre. Ha proprio ragione Rebecca Solnit*. Meno male che ci siamo noi uomini che, a tutti i livelli e su tutte le questioni, spieghiamo alle donne qualsiasi cosa… Spesso mi vergogno d’essere uomo.


(*) R. Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose. Saggio sulla sopraffazione maschile, Ponte alle Grazie 2017


(www.libreriadelledonne.it, 16 novembre 2022)

La prima donna presidente del Consiglio, i nuovi nomi dei ministeri, la ministra della famiglia e della natalità che si appropria di parole femministe senza contesto, piegandole alla sua ideologia. Parliamone insieme e facciamo la differenza!

Incontro in presenza alla Libreria delle donne, domenica 13 novembre, dalle 16 alle 18.30, in via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.
È possibile anche il collegamento in Zoom, su prenotazione, scrivendo a
info@libreriadelledonne.it


di Sara Gandolfi


Greta quest’anno non c’è. «È ora di consegnare il megafono a chi ha storie da raccontare», ha detto per giustificare l’assenza a Sharm el-Sheikh. C’è, invece, l’amica Vanessa Nakate, che in passato ha commosso le platee del mondo descrivendo le devastazioni nella sua Uganda. Alla Cop africana, però, la nazione ospite, l’Egitto, non l’ha invitata a parlare – «non chiedete a me il perché» – e non ha dato ai giovani neppure il via libera per manifestare nelle strade, come avvenne ai vertici di Madrid e Glasgow.

Senza Greta e con tutte queste limitazioni la vostra voce sarà ascoltata?

Non saprei, però sono presenti qui diversi giovani di varie regioni del mondo che stanno facendo pressione attraverso la stampa e gli eventi all’interno di Cop27 per rendere i leader responsabili delle proprie scelte e azioni. Il nostro messaggio è chiaro: fermate gli investimenti nei combustibili fossili – carbone, gas, petrolio – e finanziate invece la transizione verso le rinnovabili, affrontando la povertà energetica dell’Africa. I leader devono anche istituire una struttura finanziaria per le “perdite e danni”, che stanno già soffrendo le comunità più vulnerabili.

Molte economie emergenti, però, inseguono il modello cinese: prima lo sviluppo economico, utilizzando i combustibili fossili, poi la de-carbonizzazione…

Molti hanno un’idea sbagliata di cosa sia lo sviluppo. In effetti, diversi leader africani pensano che l’unica strada per raggiungere lo sviluppo delle nostre economie e delle nostre comunità sia quella del Global North, cioè costruire nuove infrastrutture per lo sfruttamento e il consumo di combustibili fossili. Sbagliano. Non possiamo più permetterci investimenti nei combustibili fossili se vogliamo limitare l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5°C. Dobbiamo credere che ci sia un’altra strada per lo sviluppo delle economie, scegliendo le rinnovabili.

Ma chi pagherà?

Quando si parla di chi deve pagare il conto della crisi climatica, tutti noi sappiamo bene chi l’ha causata. L’Africa è responsabile di meno del 4% delle emissioni globali di gas serra. Eppure le nazioni africane stanno soffrendo gli impatti più terribili. I leader del Nord globale hanno un’enorme responsabilità, devono finanziare la transizione energetica non solo nei propri Paesi ma anche nelle nazioni del Sud del mondo e, ripeto, finanziare “perdite e danni”.

Diversi Paesi africani vogliono sfruttare il gas e il petrolio nel loro territorio. Perché negarglielo mentre le multinazionali si arricchiscono con i prezzi alle stelle?

Il gas è un’arma distruttiva per il continente africano. Porta benefici solo ai Paesi del Nord del mondo. Noi dobbiamo sviluppare le energie rinnovabili, abbiamo tutte le condizioni per poterle sfruttare.

L’Italia cerca nuove forniture di gas in Africa…

Ripeto, l’Africa ha bisogno di investimenti nelle energie rinnovabili. I bambini non possono mangiare carbone, bere petrolio o respirare gas.

Finora il movimento dei giovani si è espresso con rabbia. Non è ora di passare dall’allarme alle proposte?

Non possiamo edulcorare la crisi climatica. Dobbiamo dire la verità su quanto sta accadendo. Non possiamo edulcorare il fatto che le persone muoiono di fame in Corno d’Africa a causa della siccità, o la distruzione portata dalle piogge in Pakistan o dalle inondazioni in Nigeria. Ma dobbiamo anche spiegare che se decidiamo di agire, dobbiamo farlo insieme, e se i leader hanno la volontà politica, possiamo fermare la crisi.

Condividi l’opinione di Greta secondo cui questa Cop è “solo greenwashing”?

Qui ho visto casi di greenwashing ed è per questo che dobbiamo esserci. Io vengo da una comunità che è sulla prima linea della crisi climatica e devo utilizzare ogni piattaforma che riesco a raggiungere, anche questa intervista, per parlare delle esperienze drammatiche che sta vivendo, denunciando i leader per l’inazione e il greenwashing.

In Africa c’è un problema di libertà di espressione?

Su questo non posso esprimermi. Ciò che posso dire è che la nostra lotta per la giustizia climatica è una lotta anche per i diritti umani.


(Corriere della Sera, 12 novembre 2022)

Colette Shammah, Dietro la porta chiusa, La nave di Teseo, 2022. Memorie e silenzi, legami e solitudini. Parole dette e parole scritte. In questo libro c’è anche un’indagine di polizia sul ritrovamento di un cadavere: ma noi sappiamo che il vero giallo su cui indagare sono le relazioni. E poi: scrivere ti aiuta a fare i conti con la tua vita? Giordana Masotto in dialogo con Colette Shammah.

Per acquistare online Dietro la porta chiusa:
https://www.bookdealer.it/goto/9788834611760/607

di Redazione Il Post


Il 10 novembre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha accolto il ricorso di una donna e dei suoi due figli che per tre anni avevano dovuto frequentare il padre violento, tossicodipendente e alcolizzato, per decisione dei tribunali civili italiani che si erano occupati del caso. La CEDU ha per questo stabilito che l’Italia ha violato l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che stabilisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, fallendo nel suo dovere di proteggere e assistere i bambini.

Secondo la CEDU, gli incontri tra i figli (nati nel 2010 e nel 2013) e il padre a partire dal 2015, avvenuti senza controlli, avevano alterato l’equilibrio psicologico ed emotivo dei bambini, come peraltro segnalato dai servizi sociali. Durante gli incontri il padre, che aveva sospeso la propria terapia di recupero, aveva un comportamento «aggressivo, distruttivo e incurante». L’interesse dei bambini non era stato preso in considerazione dai tribunali, che non avevano sospeso gli incontri, dunque i loro diritti erano stati violati.

La Corte si è anche espressa contro la decisione dei tribunali italiani di sospendere la responsabilità genitoriale della madre tra il 2016 e il 2019, considerandola «ostile» ai contatti tra i bambini e il padre dato che si rifiutava di partecipare agli incontri. La Corte ha detto che i giudici non avrebbero avuto abbastanza prove per giustificare questa decisione, che ha violato i diritti della madre.

L’associazione Differenza Donna, la cui avvocata Rossella Benedetti si era occupata del caso e del ricorso alla CEDU, ha definito la sentenza «storica» dato che in Italia sarebbe «prassi diffusa nei tribunali civili considerare le donne vittime di violenza domestica che non adempiono all’obbligo di effettuare gli incontri dei figli con il padre e che si oppongono all’affidamento condiviso come “genitori non collaborativi”». Il caso della donna era stato seguito dal centro antiviolenza Casa Rifugio Villa Pamphili di Roma. La CEDU ha stabilito che l’Italia deve risarcire i due bambini coinvolti con 7mila euro.


(ilpost.it, 11 novembre 2022)

di Maddalena Spagnolli


Lo sapevamo.

Lo sentivamo tutti…

troppo furioso il nostro fare…

ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo…

(Mariangela Gualtieri, Nove marzo 2020)


Quando nel marzo del 2020 tutto si è fermato per il Covid, in tante, penso, abbiamo colto questa poesia di Mariangela Gualtieri come una sorta di disvelamento del nostro tempo, di verità offerta a chi sentiva che, con il virus, il caos del mondo si riversava con inquietudine anche sulla propria pelle e che era necessario fermarsi.

A distanza di due anni dall’inizio della pandemia, molte cose sono successe, abitudini e sentimenti sconvolti nella vita quotidiana e, quando pensavamo di poter ricominciare a riprenderci in mano l’esistenza, con il vaccino e le riaperture, fiduciosi che il peggio dell’epidemia l’avevamo lasciato alle spalle, che la “guerra all’epidemia” si stava vincendo, ci siamo ritrovate/i gettate/i, di punto in bianco, senza soluzione di continuità, in una feroce “guerra vera” alle porte di casa lasciandoci in balia di uno sgomento che, via via, col passar dei giorni e dell’intensificarsi degli effetti devastanti di quell’invasione in Ucraina, si sta trasformando dall’incredulità iniziale in distruzione, terrore, disperazione per chi la sta vivendo e in sgomento, angoscia, strazio per chi la guarda.

Di fronte a questa svolta repentina (ma, a ben guardare, non così imprevedibile) della storia, ad un misto di sentimenti, tra smarrimenti ed impotenza, resta il bisogno di orientarsi in questa “doppia cesura” (covid e guerra) che ci ha gettato in un “tempo nuovo” e inquietante. L’ultimo dei Quaderni di Via Dogana, pubblicato nell’ottobre del 2021 dalla Libreria delle donne di Milano con il titolo Non sembra ma è una grande occasione1, a cura di Vita Cosentino e Marina Santini, può essere un ottimo strumento per fermarsi a mettere in ordine i fili che intrecciano il nostro tempo.

Attraversare questi testi dopo l’irruzione della guerra nella realtà e nei nostri pensieri (dal 24 febbraio 2022), permette a maggior ragione di non soccombere di fronte alle situazioni strazianti a cui stiamo assistendo e di seguire l’esortazione di Virginia Woolf nel saggio Le tre ghinee – scritto nel 1938 in risposta a uno scrittore e amico che le aveva chiesto di finanziare la sua Associazione per fermare il fascismo e prevenire la guerra, ma senza entrare a farvi parte in quanto donna. «Dove ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?». «Pensare, pensare, dobbiamo. Noi non dobbiamo mai smettere di pensare dove ci conduce quel corteo».

Le curatrici del Quaderno di Via Dogana scrivono: «si trattava di pensare, pensare, pensare, pensare». Questa raccolta di testi infatti ci conduce, quasi con mano di tessitrice, in una sorta di fenomenologia non solo di ciò che è accaduto con il Covid e la pandemia, ma anche del nostro tempo. Il Quaderno raccoglie una quarantina di articoli che si sviluppano, intrecciandosi l’uno con l’altro in una sorta di dialogo, mostrando realtà, contraddizioni, esperienze. Nell’insieme propone anche analisi, apre possibilità di azione, testimonia saperi di donne del nostro tempo illuminanti per leggere quanto sta capitando anche con la guerra.

Come scrivono le curatrici, il Quaderno si compone di due parti:

«gli articoli della prima sezione sono più indirizzati a ripensare il paradigma economico, la concezione del lavoro, il rapporto con le nuove tecnologie e la posizione di noi esseri umani nei confronti della natura e degli altri esseri viventi; quelli della seconda sezione sono più centrati sulla politica che trasforma a partire da sé, sulla soggettività che appare comunemente nella sua costitutiva relazionalità, sulle pratiche ancorate alla verità soggettiva, alla differenza, all’autorità, sull’idea di libertà pratica e praticabile.»2

Un racconto ragionato del disvelamento operato dalla pandemia in cui si ritrovano riflessioni e idee già circolanti ma che raccolte in questo testo mostrano in maniera organica e con grande lucidità sfaccettature, intrecci, connessioni, contraddizioni, ma anche speranze, possibilità e trasformazioni del nostro tempo.

L’irruzione della guerra ha spostato repentinamente il nostro immaginario su una realtà inaspettata ma che a ben guardare rivela segni di continuità con la pandemia. Cercherò di tenere insieme pandemia e guerra.

Innanzitutto, l’invito a “pensare” pone l’attenzione sull’uso del linguaggio, tema centrale nella riflessione delle donne: attenzione che è un filo conduttore di tutta la raccolta, un uso fortemente radicato nell’esperienza e di cui metto però in risalto l’uso della “metafora” della guerra3 per parlare della pandemia, con tutto il portato di termini bellici, di logiche oppositive, di schieramenti rispetto alle decisioni, alla “verità” sul bene e sul male, finché la guerra, evocata a parole per raccontare la diffusione del virus, i suoi effetti sugli umani e il modo di “combatterlo”, si è materializzata davvero, alle nostre porte, con esiti così distruttivi che ancora fatichiamo a rendercene conto.

Confusione linguistica-caos della realtà: c’è la necessità di nuove rinominazioni, ancora di trovare le “parole per dirlo”. «C’è bisogno di parole… non parole che ci sono già. Le altre per non restare sassi»4 scriveva Luisa Muraro in un suo intervento all’Università nel maggio del ’99 in una riflessione sulla guerra nei Balcani.

“Per non restare sassi” nella pandemia e nella guerra, accomunate dalla paura ancestrale della morte, capitata/subita con la pandemia, intenzionalmente agita con la guerra, ma che chiede distinzioni ben precise appunto “per non restare sassi”; parole «per distinguere l’immaginario dal reale per diminuire i rischi di guerra senza rinunciare alla lotta, che Eraclito riteneva fosse la condizione di vita»5.

Se la questione della morte ci ha segnato in un modo drammatico negli anni della pandemia e si ripresenta con crudeltà inaccettabile con questa guerra, l’attenzione all’uso delle parole potrebbe riportarci ad uno spiraglio di vita: «Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso della altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane»6. Di fronte alla morte e alla distruzione Weil ci invita a questo lavoro per trovare un orientamento di vita. Ecco allora che ancora prima delle «parole adorne di maiuscole… parole gonfie di sangue e lacrime»7 che Weil elenca insieme ad altre come sicurezza, capitalismo, democrazia, ordine, proprietà, la pandemia e la guerra ci riportano, a mio avviso, alla radice del nostro essere: prima ancora di evocare con grandi discorsi tutti i diritti sanciti dalle più moderne costituzioni, le cesure che stiamo vivendo in questi due anni (pandemia e guerra) chiedono drammaticamente di ritornare al fondamento del nostro essere, semplicemente alla vita.

La trama della vita è l’altro tema di cui è intessuto il Quaderno, tema che nei diversi interventi illumina, come in un caleidoscopio, i molti aspetti relativi alle condizioni della nostra esistenza. Una riflessione sulla vita d’altro canto si impone proprio da una parte con la pandemia, che ci ha costretti a fare i conti con la morte come “impossibilità del respiro”, dall’altra con la guerra nel suo essere sinonimo di morte come distruzione violenta.

La pandemia, ma anche la guerra con gli effetti domino con cui dobbiamo fare i conti, ci hanno costretto ad affrontare aspetti della realtà già ben presenti e posti da tempo in discussione nella riflessione e nel pensiero delle donne: rispetto alle condizioni del nostro vivere, molti interventi si soffermano sul tema del lavoro strettamente intrecciato con quello dell’economia e del lavoro di cura.

La riflessione critica sul mondo della produzione, sull’economia capitalistica di mercato, sulle condizioni del lavoro – lavoro da casa (pro e contro), lavoro per il mercato e lavoro domestico, lavori essenziali – mostrano la necessità di un superamento del dualismo tra economia di mercato e economia della casa, dualismo che si innesta su quello che Ina Praetorius, citata da Vita Cosentino, chiama «ordine bipartito del mondo»: «due sfere diseguali, una più alta, alla quale si associano virilità e libertà, e un’altra più bassa, che si presume naturale, quella delle donne e della dipendenza»8. Un dualismo segnato dalla «misoginia nella politica e nel lavoro»9.

Ciò che si è reso evidente durante la pandemia è stata la presenza e la capacità quasi acrobatica delle donne di far fronte alle situazioni più impreviste e difficili per salvare la vita; si è chiaramente palesata, in quella contingenza, la centralità dell’opera femminile in tutti i campi. Con la guerra, scoppiata quando pensavamo di poter riprendere la vita normale, quest’opera sembra essere ancora una volta, ancora in questo XXI secolo, annientata con l’imporsi nella realtà di logiche machiste, violente, distruttive (non ci sono più parole per dire ciò che già sappiamo da tempo!).

La significativa e vitale presenza femminile in situazioni di emergenza come quella della pandemia e la violenza machista e distruttiva che muove la guerra, mostrano la necessità di un cambio di paradigma per salvare la vita, chiedono un cambio di civiltà: tutto ciò ci ha messo di fronte alla necessità di cercare/sentire l’essenziale e ciò che non lo è.

«Superare quell’ordine simbolico e sociale bipartito», scrive Vita Cosentino, «è già vivere un cambio di civiltà basato su un’altra concezione dell’essere umano»10 che dà origine ad un’altra politica e, come scrive Antonietta Lelario, «la politica delle donne rimettendo in gioco l’esperienza femminile, l’ha riconnessa con la vita e ha intravisto un’altra civiltà e un’altra economia»11.

È più che necessario dunque un cambio di civiltà, ed è proprio questo il senso e la prospettiva del Quaderno: nutrito dal cambio dei valori che non può trascurare il senso di vulnerabilità che stiamo sperimentando, e soprattutto «non si può immaginare rinnovamento politico economico e dei rapporti sociali senza fare spazio a ciò che le donne hanno da dire»12. Come molte riflessioni stanno mostrando ormai anche fuori dal pensiero femminista, si tratta di porre al centro il tema della cura. «L’economia è cura» scrive Ina Praetorius, «manutenzione dell’esistente»13. Non è più possibile tener distinti l’economia dai bisogni, il mondo del lavoro dal mondo della casa, lavoro produttivo e lavoro di cura, lavoro e salute, così come non è possibile tener separate le varie condizioni di vita della realtà umana. Non è più possibile tener separata la riflessione sulla realtà umana dal rapporto con gli altri esseri viventi, dalla vita della terra (sappiamo quanto sia urgente il problema climaticoecologico!) per la stretta connessione di tutti i viventi su questo mondo. Connessioni che hanno ricadute sul piano economico, della salute, sulla nostra stessa possibilità di sopravvivenza (e in questo vediamo come le/i giovani siano i più sensibili, attivi, ma anche inascoltati).

Con la pandemia si è imposta inoltre con prepotenza anche quella “vita parallela” che è il mondo digitale, una realtà già fortemente pervasiva che in quel contesto ha di fatto dominato le nostre giornate, ha fatto irruzione in un modo esplosivo mostrando la subordinazione delle nostre vite a quell’invisibile «Grande Fratello» che sono gli algoritmi. Rispetto a questi sviluppi della tecnica si pongono interrogativi sulle conseguenze legate, nel bene e nel male, alla “vita” online, agli incontri su zoom, alla DAD, alla pervasività della sorveglianza… ecc. Su tutto questo Traudel Sattler registra una difficoltà che così sintetizza: «Mi manca la misura»14. Ecco, sì, la mancanza di misura, vero male del nostro tempo! Come scriveva sempre S. Weil: «In ogni ambito, sembriamo aver perduto le nozioni essenziali dell’intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di grado, di proporzione, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di connessione tra mezzi e risultati»15.

Nei testi, oltre questi temi, vengono affrontati con grande meticolosità e profondità tante altre questioni cruciali che abbiamo vissuto in questi due anni, come l’esperienza nuova del lockdown e lo smarrimento e il senso di isolamento che ne è seguito (il blocco delle attività produttive, delle relazioni, degli incontri in presenza); ma vengono anche registrate le esperienze di solidarietà, di cooperazione, di generosità (sopratutto nella prima fase) e suggerite nuove prospettive di regolazione sociale, come il principio della gratitudine16.

Ciò che viene meno indagato nei testi (per il fatto che sono stati scritti “a caldo”) sono le conseguenze che, in particolare la pandemia, stanno lasciando alla lunga: più aggressività, grande disagio psichico e sociale, soprattutto nelle giovani generazioni; la forte reazione al vaccino e al green pass, maturata in diverse fasce sociali soprattutto con i provvedimenti restrittivi legati alla certificazione e sfociata nelle posizioni “vax e no-vax”, fenomeno liquidato troppo facilmente a mio avviso, ma che andrebbe indagato più a fondo anche per la grande sofferenza che, a sua volta, ha generato in tante persone. Si tratta di fenomeni diffusisi proprio in nome della libertà, tema che conclude (ma nello stesso apre ad altro) la raccolta di scritti del Quaderno con una riflessione di Ida Dominijanni: la libertà, grande vessillo sbandierato anche per imporre la superiorità della nostra civiltà sulle altre, viene indagata nel suo duplice aspetto di libertà individualistica neoliberale e libertà relazionale legata al senso dell’interdipendenza reciproca. La pandemia ha fatto emergere con evidenza, anche nelle sue contraddizioni, la consapevolezza dell’interdipendenza come essenza della vita facendoci toccare con mano la vulnerabilità e la fragilità umana e la necessaria dimensione relazionale del nostro essere. Ecco dunque che nella direzione di un necessario cambio di civiltà va ripensato soprattutto il senso della libertà:

«Nella politica della differenza la libertà non è mai stata solo libertà “di” e “da”, bensì soprattutto “per”: è stata ed è libertà politica, legata al desiderio di aprire la realtà a possibilità inedite, di costruire spazi e di inventare forme di vita a nostra misura, impreviste nell’ordine simbolico dato… È di questo credo che dovremmo urgentemente riprendere a parlare»17.

Se questo valeva in tempo di pandemia, vale a maggior ragione nel contesto attuale in cui siamo quasi annientati dalla realtà della guerra in Ucraina. I testi del Quaderno radicati nel «sapere dell’esperienza» si rivelano un contributo necessario per fare un po’ di distanza, per prendere un po’ di ossigeno e provare a tornare a respirare, a pensare e agire per trovare anche in questo nostro inquietante tempo «la possibilità di aprire il presente ad altre possibilità»18.


Note

1 Non sembra ma è una grande occasione, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano, ottobre 2021.

2 Ivi, p. 6.

3 Ivi, p. 49. Ne parla Marco Deriu.

4 L. Muraro, Guerre che ho visto, Libreria delle donne, 1999, p. 5.

5 S. Weil, Sulla guerra, il Saggiatore, 2013, p. 74

6 Ivi, p. 57.

7 Ibidem.

8 Non sembra ma è una grande occasione, p. 33.

9 Ivi, p. 54-55.

10 Ivi, p. 33.

11 Ivi, p. 31.

12 Ivi, p. 54.

13 Ivi, p. 53. Da Immagina che il lavoro.

14 Ivi, p. 73.

15 S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Sulla guerra, cit. p. 58.

16 Non sembra ma è una grande occasione, p. 34.

17 Ivi, p. 179.

18 Ibidem.


(Per amore del mondo n. 18/2022, www.diotimafilosofe.it)


di Annalisa Camilli


«Non sono naufraghi, sono migranti», dice la presidente del consiglio Giorgia Meloni commentando la decisione della autorità sanitarie di far scendere dopo l’attracco tutte le persone rimaste a bordo delle navi umanitarie Geo Barents e Humanity per diversi giorni, bloccate dall’ennesimo decreto che intende mettere in discussione la legge del mare, il diritto internazionale e i princìpi fondamentali sanciti dalla Costituzione.

La premier definisce “bizzarra” la decisione dei medici, che hanno messo la parola fine al trattamento inumano a cui sono state sottoposte duecentocinquanta persone, minacciate di essere respinte da un paese che già nel 2009 è stato condannato per una condotta simile. Eppure questo non è il primo atto della guerra ai soccorsi in mare e neppure la prima volta che l’Italia prova a respingere i migranti in Libia.

Ma i medici hanno seguito la loro deontologia professionale. Così la prima sconfitta politica per la Presidente del Consiglio arriva sull’immigrazione, uno dei cavalli di battaglia del suo programma. Meloni ha condotto la campagna elettorale promettendo agli elettori “un blocco navale”, cioè il dispiegamento di mezzi militari in uno dei tratti di mare più trafficati e pericolosi al mondo: una misura che nei fatti sarebbe impossibile da realizzare, perché contraria alle leggi internazionali, pericolosa e costosa.

Una scala di vulnerabilità

Ma una volta al potere, nella pratica, la promessa elettorale si è tradotta in un nuovo decreto interministeriale – poche righe, una pagina – che ha preso di mira le navi umanitarie, definite dalla premier “navi pirata”: nel 2017 erano state battezzate “taxi del mare” da Luigi Di Maio e, nel 2018, Matteo Salvini aveva definito gli operatori dei “vice-scafisti”. Ma a differenza del decreto sicurezza bis firmato dall’allora ministro dell’interno Salvini, nel caso del decreto firmato da Matteo Piantedosi non c’è stato bisogno neppure del pronunciamento di un giudice. È bastato un intervento più approfondito delle autorità sanitarie italiane l’8 novembre per stabilire che, dopo aver attraversato la rotta più pericolosa del mondo, quella in cui sono morte 25mila persone dal 2013, si è dei “sopravvissuti”.

Né naufraghi né migranti. Ma sopravvissuti, che riportano spesso infezioni della pelle, denutrizione, stress post-traumatico, disagio psichico, segni di tortura. Ed è arbitrario allora stabilire qualsiasi scala di vulnerabilità, perché tutte e tutti dopo un tragitto del genere hanno diritto a toccare terra. La fragilità è una categoria del tutto pretestuosa (tra l’altro nel decreto non si stabiliscono i criteri medici per fare la selezione dei naufraghi) che decade infatti davanti a un accertamento medico più serio.

In ogni caso i tribunali dovranno pronunciarsi sui ricorsi presentati contro il nuovo decreto dalle organizzazioni umanitarie e l’impressione è che questo ennesimo atto persecutorio verso poche migliaia di persone che arrivano via mare in Italia dopo un soccorso sia destinato a essere smontato, perché una norma d’urgenza come un decreto non può prevalere rispetto a una convenzione internazionale o a un diritto fondamentale previsto nella Costituzione.

Nel frattempo tuttavia il decreto ha provocato un’ulteriore sofferenza alle persone che prende di mira. Eppure nelle ultime due settimane, da quando cioè si è insediato il nuovo governo, solo il 10 per cento di quelle che sono arrivate via mare sono state soccorse dalle navi delle ONG. Da anni ormai la maggior parte degli arrivi avviene autonomamente, le persone toccano la riva (quando ce la fanno) a bordo delle loro imbarcazioni di fortuna oppure sono intercettate poco prima di arrivare sulla costa dalle navi della guardia costiera italiana, che tuttavia raramente escono dalle acque territoriali. E infatti, proprio mentre i sopravvissuti della Geo Barents scendevano finalmente a terra insieme a quelli della Humanity 1 nel porto di Catania, a Lampedusa continuavano ad arrivare in maniera autonoma diverse imbarcazioni, portando più di trecento persone in un giorno.

Il 9 novembre, durante uno di questi sbarchi, una donna ivoriana di 35 anni è stata soccorsa dalla guardia di finanza ma è morta subito dopo essere scesa a terra, probabilmente per un arresto cardiaco provocato da un’ipotermia. È morta di freddo, in sostanza. In un altro barchino che trasportava 51 persone, da giorni alla deriva al largo di Lampedusa, è stato trovato un neonato di venti giorni senza vita, insieme a sua madre, una donna anche lei ivoriana, che teneva il corpo del bambino senza vita tra le braccia. Altro che fragilità.

La presidente del consiglio Meloni si sbaglia, in mare non esistono migranti, né migranti irregolari, nessuna distinzione tra migranti economici o rifugiati. Queste sono categorie che si possono accertare solo una volta che sono arrivati a terra. In mare tutto si riduce a una logica più semplice, una logica binaria: ci sono solo naviganti e naufraghi. Tutti i naviganti possono diventare naufraghi e tutti i naufraghi sono stati naviganti, per cui una legge naturale che affonda le sue radici nell’origine della nostra cultura giuridica ed è alla base del diritto internazionale e del diritto marittimo, stabilisce che ogni navigante è obbligato a soccorrere i naufraghi, perché il mare è un ambiente molto ostile in cui si può perdere la vita con grande facilità.

La battaglia linguistica

Le parole fanno il mondo e in una guerra si deve alimentare l’odio attraverso il linguaggio e la costruzione di un nemico. Nel 2001, nella prima campagna elettorale politica che si è giocata sulla pelle degli stranieri, la parola d’ordine era “clandestini”.

Erano i migranti che avevano il permesso di soggiorno scaduto, e che non riuscivano a regolarizzare la loro condizione, a rappresentare il nemico simbolico della destra di allora, Alleanza Nazionale e Lega Nord. Quella condizione, la cosiddetta clandestinità, è diventata perfino un reato. E ancora oggi nella legge del 2002, la Bossi-Fini, che regola l’immigrazione in Italia, è presente il reato di clandestinità.

Poi, intorno al 2013 la parola clandestino è stata definitivamente debellata (non senza una battaglia molto dura di cittadini e associazioni) ed è stata sostituita dal più neutro “migranti”, participio presente del verbo migrare. Già nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati, il canale Al Jazeera metteva in guardia dall’uso indiscriminato e disumanizzante della parola “migrante” che di fatto era diventato un modo per dire “essere umano di serie B”.

«Il termine migrante è diventato una categoria ombrello, uno strumento che disumanizza e serve a prendere le distanze dalle persone di cui si parla», scriveva all’epoca Al Jazeera, che annunciava parallelamente di volere chiamare tutti i migranti, le persone in movimento, “rifugiati”, al di là del loro status giuridico, per segnalarne la vulnerabilità.

Nel frattempo nel 2017 la parola “clandestino” è tornata a fare capolino in un documento ufficiale: è riapparsa non a caso nel Memorandum Italia-Libia, l’accordo che prevede il finanziamento dei centri di detenzione e della cosiddetta guardia costiera libica. Nello stesso documento, i centri di detenzione dove sono stati documentati torture, estorsioni e trattamenti inumani sono stati definiti “centri di accoglienza”.

Dal 2017 il tema dell’immigrazione, e in particolare il soccorso in mare, ha ripreso a essere un terreno di scontro politico e, di nuovo, l’indicatore del degrado è stato misurabile nei termini usati: “taxi del mare”, “vice-scafisti”, “pacchia”, “estremismo umanitario”, “mar west”. Ognuno di questi sostantivi è servito ad allontanare il senso di appartenenza a uno stesso genere umano, ogni volta si è fatto un passo in avanti nella disumanizzazione di chi è sottoposto a leggi discriminatorie e feroci. E alla fine perfino un termine neutro come migrante è diventato denigratorio e disumanizzante.

«Non sono naufraghi, sono migranti», dice Giorgia Meloni. E ci si chiede allora quand’è che si è smesso di riconoscere ai “migranti” i diritti fondamentali che invece sono garantiti a coloro che possono beneficiare della definizione di “persone”.


(Essenziale, 10 novembre 2022)

di Giada Carnevale Schianca


Nasci. In un attimo mi sento scivolare la vita dal mio stesso corpo. Un’altra vita, penso: chi sei? Sei l’Altro, nel tuo caso l’Altra. E questo pensiero mi resterà incollato addosso per tutte le prime settimane. Sei l’Altro, non mi fido. Sei veloce, troppo veloce. Vuoi me. Mi chiami, mi richiedi, mi brami. Sei così determinata nel tuo desiderio di me che quasi non riesco a riconoscerti come mia simile. 

Eppure, dopo i tanti tentativi di piegarti alle mie richieste – che a voler vedere bene, non erano nemmeno così mie – dopo aver provato a decidere io per te, a manipolarti come se fossi argilla fresca e morbida tra le mie mani, dopo tutta questa fatica, inizio finalmente ad ammirarti. 

Mi permetto di osservarti con profonda adorazione vedendo in te ciò che di più amo al mondo: la capacità di credere in sé stessi, di gridare al mondo: «IO VOGLIO». Tu, minuscola, desideri e desideri così ardentemente da non accettare un no, da non mollare mai, e io di questo ti ringrazio infinite volte, di non aver mai mollato con me. Urlare, scalciare, piangere fino a non avere più fiato e poi, una volta ottenuto il desiderato: la pace, la quiete, la soddisfazione che arriva dal piacere, la purezza e la libertà. 

C’è stato un momento in cui ho avuto bisogno di sentirmi validare il mio essere madre nel modo in cui mi sentivo di esserlo. Ho iniziato così, anch’io, a chiedere alle donne della mia vita; la loro risposta, «Ma dalle quello che vuole», accompagnata da un sorriso, è stato tutto ciò di cui avevo bisogno. 

Inizio così a essere la madre che sono per natura, ma non solo, inizio così a essere la donna che sono, inizio finalmente a pensare: anch’io posso esaudire i miei desideri, posso chiedere, pretendere, volere. Posso anche godere di ciò che ho voluto tanto, sentirmi in pace, felice, per il mio desiderio realizzato. Mi sento liberata da me, grazie anche a te, piccola bambina testarda, mi sono decisa a non accettare niente di meno, a soddisfare le mie richieste, a esigere il mio piacere. 

IO VOGLIO, voglio un sacco di cose, voglio poesia, voglio guardare il mare, voglio un phon costosissimo, voglio abbracciare te e annusarti la testa, voglio essere me, voglio essere madre.

Il giorno della tua nascita non sono nata anch’io, sei nata tu, ma io mi sono liberata e da quel giorno so, che, se voglio, posso avere tutto.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 10 novembre 2022)

di Alessandra Bocchetti


Gentile ministra Roccella,

affrontiamo prima i due argomenti che di questi tempi sembrano al centro del mondo. Primo: come vede la chiamo ministra. Che una donna voglia usare per sé il maschile è solo segno di quella miseria che si attacca tristemente alla pelle delle donne quando sentono di non avere storia. Un gesto ai miei occhi drammatico e triste. Secondo: sono proprio d’accordo con lei, l’aborto è il lato oscuro della maternità. Ma non è il solo. La maternità può essere oscura in sé quando non è desiderata. Può essere un abisso. Disgraziato chi viene al mondo senza il desiderio della madre. Per questo considero l’aborto una necessità prima che un diritto. L’autorizzazione ogni donna l’ha presa dalla storia delle donne a fronte di ogni inferno promesso o prigione minacciata e questo sarà sempre così. Ho letto che ha accettato il suo incarico volentieri perché il ministero delle Pari Opportunità è stato un ministero voluto dal movimento femminista. Mi permetto di correggerla. Non è stato così. Noi femministe non abbiamo mai chiesto un ministero delle Pari Opportunità. Dal primo momento in cui fu costituito lo abbiamo considerato un luogo pericoloso e ambiguo. Si dava alle donne l’idea che finalmente avessero una “stanza tutta per sé” e di questo avrebbero dovuto essere contente e soddisfatte. In realtà si voleva creare un mondo a parte delle donne, metterle in un angolo. Non era un’apertura, era un recinto. Le pari opportunità sono state la risposta delle istituzioni alla grande creatività del femminismo, il modo di arginare la sua grande potenza. Io lo chiamo femminismo di Stato. Le donne non sono una categoria, una minoranza, sono fondanti della società, che infatti senza donne non esisterebbe; a loro, in quanto cittadine libere e contribuenti, spettano tutti i ministeri, quello del lavoro, quello della sanità, quello dell’economia, quello dell’istruzione… insomma tutti. Così scrivevo nel 1996 alla ministra Finocchiaro, parlando di questo imbroglio.

Da allora a oggi questo ministero, che non ha fatto cose da ricordare, è stato sempre senza portafoglio e questo la dice lunga. La ministra sempre si deve arrabattare a elemosinare fondi di qua e di là. Così i progetti diventavano progettini, i convegni convegnucci e le ambizioni si fanno piccole piccole. Per lei ministra Roccella mi sembra anche che il carico si sia appesantito perché alle pari opportunità sono state aggiunte natalità e famiglia, due carichi pesanti. Quindi la mia raccomandazione vale anche per lei: non si arrenda all’imbroglio del “mondo a parte”, per di più povero in canna, le donne non lo meritano. Anche perché adesso le donne sono cambiate e non si chiedono più se sono capaci di fare quello che fanno gli uomini ma cominciano a pensare di saperlo fare meglio. Siamo oltre le pari opportunità.

Si avvicina il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza alle donne. Si celebra dappertutto, soprattutto nelle scuole. Lei vedrà ragazze truccate con occhi neri, bocche cucite da filo di ferro, teste spaccate, sangue, e anche manifesti per la città con immagini orrende. Difficile camminare quel giorno con una bambina per mano, ma anche con un bambino, che possono chiederti cosa significa e tu non vuoi rispondere, perché il messaggio che è sotteso a tutto questo è “Potrebbe succedere anche a te”. Perversamente sta diventando una festa, io lo chiamo il nostro Halloween. È la grande giornata del soggetto per eccellenza del femminismo di Stato: la vittima. Quel giorno tutte le donne diventano vittime, di chi non si dice. Possibile non ci si accorga dell’ambiguità di tutto questo? La violenza alle donne è una tragica realtà a cui si deve porre rimedio ma non è un tema politico.

Eppure tutti i partiti non sanno fare che questo, il perché è chiarissimo a chi lo sa vedere: la donna vittima, in realtà, rassicura tutti che nulla sta cambiando veramente e che l’ordine patriarcale della società non corre ancora alcun pericolo. La politica celebra proprio questo, anche se non lo sa. Io potrei suggerirle di istituire un minuto di silenzio da osservare nelle scuole, negli uffici pubblici, contro la violenza degli uomini sulle donne. Ma avrebbe difficoltà a fare passare questa proposta. Passerebbe invece la versione alleggerita, un minuto contro la violenza alle donne. Violenza anonima. Sono molto contenta che lei si dichiari femminista perché allora si accorgerà della falsa politica e lavorerà non sulla debolezza delle donne, non sulla loro vulnerabilità – siamo tutti vulnerabili – ma sulla loro forza che è immensa. Poche femministe sono entrate nei palazzi e debbo dire che non hanno fatto granché, presto prese in una logica estranea, costumi e usi che toglievano loro la parola piuttosto che darla. Spero non sarà così per lei. Comunque sarà difficile. Sa perché? Perché le donne non hanno bisogno di pari opportunità ma di opportunità in più. Bisogna saper fare delle ingiustizie per loro, uscire dall’idea di risarcire le donne ed entrare nell’idea di investire su di loro per una vita dignitosa per tutti. Ma le difficoltà sono due, molto grandi. La prima è che gli uomini sono vecchi e non sono pronti alla libertà delle donne e sono attaccati al potere, magari non per cattiveria, ma per abitudine. Qualsiasi obbrobrio della storia, e ce ne sono stati tanti tutti prodotti dalle loro decisioni, non li ha mai disautorizzati al potere. La seconda è riuscire a far guardare alle donne l’umanità, come un contadino guarda un campo di grano, come a una loro opera. Se le donne non trovano in sé stesse il senso grande di essere al mondo, poco potrà cambiare. Questo significa riuscire a superare tutti i secoli di negazione, di emarginazione, umiliazione, ignoranza che hanno fatto credere alle donne di essere meno, di essere umanità minore e che le ha fatto pensare, come unica via per fuggire da un destino pesante, di volere essere uguale agli uomini, perdendo il senso prezioso della loro differenza e la loro storia e la loro forza. Ministra Roccella, si metta all’ascolto delle giovani donne che per vivere fanno tre o quattro lavori contemporaneamente, che Dio sembrerebbe averle abbandonate, che la Patria con loro è più che avara e che la Famiglia per loro è un sogno impossibile. E sia così brava da riuscire a capire quello che le donne stanno dicendo senza parole. Tra i suoi mandati c’è la natalità. Le donne fanno meno figli, è un fatto. Questo mette in pericolo la società tutta, la sua sopravvivenza.

Se da femminista guarda a questo, saprà capire che non fare figli è il giudizio più severo che le donne danno a questa società, alla sua organizzazione, alle scelte delle sue priorità. Fare figli per le donne non è più un destino, è una scelta e la sentenza è amara per tutti. Questa è la guerra delle donne, che non è come quella degli uomini che fa morti. La guerra delle donne non fa più vivi. Quindi c’è da mettere mano a tutto: lavoro, sanità, scuola, casa, imprese, organizzazione della vita… Sarà così coraggiosa da mettere bocca dove non è prevista la sua voce? Da presentarsi dove non è aspettata? Perché questo deve fare, uscire dall’angoletto che le hanno riservato e trasformare il suo ministero in un laboratorio operoso al lavoro per una diversa visione della società senza servi né serve, lavoro che sicuramente gli altri ministeri non si sognano di fare, né ne sarebbero capaci.


(Il Fatto quotidiano, 10 novembre 2022)

di Letizia Paolozzi


Arrivano le prime gesticolazioni identitarie del governo di Giorgia Meloni.
Già in precedenza “il presidente”, come in spregio al suo e nostro sesso vuole essere chiamata, aveva annunciato ai vertici europei che “è finita la pacchia” con la risolutezza di chi non ammette repliche.
Sicurezza, certezza, espulsione del dubbio: linguaggio dei politici? In più, come scrive Marco Belpoliti (su La Repubblica del 6 novembre), nei regimi autocratici c’è “un uso performativo delle parole”: Lo so e basta. Se lo dico, significa che è vero.
Nel decreto omnibus il suo governo, anzi, l’ex prefetto Matteo Piantedosi (quello che non si era accorto che Forza Nuova stava per assaltare la sede della Cgil), ora ministro degli Interni, si è immaginato una nuova fattispecie di reato (in Italia la moltiplicazione delle leggi somiglia a quella dei pani e dei pesci): pene durissime per chi organizza feste e raduni con più di cinquanta persone.
Feste e raduni riferite ai rave e alla cultura-sottocultura-controcultura plur: Peace, Love, Understanding, Respect. Bé sì ci si sballa, si ascolta musica techno, si ingurgitano sostanze. A quest’idea del fare festa di migliaia di ragazzi, il governo dice no, la società deve essere altro, la festa deve essere altro.
Dopo le critiche dei costituzionalisti di ogni colore e appartenenza politica, il decreto anti-rave cambierà in parte fermo restando l’asse punitivo ma Giorgia Meloni, sempre nel suo modo categorico (sottintendendo Chi siete voi per dubitarne?) ha affermato: “Rivendico la norma, ne vado fiera”

Nel frattempo, fierezza per fierezza, sull’ “ergastolo ostativo”, tutto resta immutato. Quanto alle carceri, all’alto numero di suicidi, dopo la visita del ministro alla Giustizia, Carlo Nordio, la risposta è stata: “Costruiremo nuove carceri”.
Il reintegro del personale sanitario non vaccinato per opera del ministro della salute, Orazio Schillaci, si può tradurre nella celebrazione della fine di restrizioni (anche illogiche) a scapito però dei più deboli.
E dei più indifesi, i rifugiati ai quali si impedisce di sbarcare sulla terra ferma, con l’eccezione, anzi la selezione dei più fragili. E chi stabilisce l’accoglienza selettiva? Non sono poi tutti naufraghi che hanno diritto a sbarcare in un porto “più vicino e sicuro”?
Ecco, nun me piace ’o presepe e non mi piace il paese che “la democrazia decidente” promessa da Giorgia Meloni disegna.
Non si tratta solo di provvedimenti che vengono lanciati, corretti, rinviati, ma del progetto culturale che ispira questa idea di democrazia.
Un progetto nel quale ci sono vincitori e vinti, considerando vinti gli sconvolti del rave, gli oziosi, i percettori del reddito di cittadinanza, i migranti, i carcerati, le donne che non vogliono figli, gli uomini e le donne che vogliono mettere su famiglia con un/una persona dello stesso sesso.
C’è stata un’apertura di credito per un simile progetto?
Sicuramente, da parte dei media una sorta di affettuosa attenzione nei confronti di Giorgia Meloni perché “l’opposizione fascismo-antifascismo è caduta in disuso; il fascismo è morto e lei non c’entra con quella storia lì data la sua giovane età”. Accompagnando il tutto con la forza del messaggio simbolico di una donna a capo del governo.
Tranne che bisogna stare attenti alla banalizzazione di “quella storia lì”; scappa fuori sempre qualche suggestione che rimanda al nazionalismo più o meno muscolare e suppone di poter ricorrere all’uso mascherato di soluzioni autoritarie.
Bisogna stare attenti perché la democrazia, in Italia, non ha solidissime radici. Troppo frettoloso il mutamento con cui è stata voltata la pagina del fascismo. Sicché i rigurgiti sono sempre in agguato nonostante le spinte alla riconciliazione (“i ragazzi di Salò”) di posizioni inconciliabili, all’addomesticamento della memoria, ai ricordi edulcorati.
Giorgia Meloni ha ringraziato il Papa per l’invito alla concordia. Ma Francesco ha pure detto che “un governo è per tutti”. Non sembra che finora sia questo il proposito del/della presidente del Consiglio e dei suoi ministri.

Quanto alla pace, certo, la presidente del Consiglio l’ha nominata, ma si riferiva a quella fiscale.


(DeA donne e altri, donnealtri.it, 7 novembre 2022)

Luciana Castellina


«Beh, siamo più di cinquanta, ma non siamo pericolosi». Così, ironico, Landini ha cominciato il suo discorso che ha concluso la manifestazione per la pace di Piazza San Giovanni a Roma ieri. Poteva essere più che ironico nei confronti di Giorgia Meloni – ma anche di tutti quelli che avevano prevista una piazza semivuota, perché «gli amici di Putin sono una assoluta minoranza» – vista la gigantesca folla che è arrivata, molti solo quasi alla fine per via delle dimensioni del corteo.

Ai tempi del vecchio Pci il nostro metro per giudicare i raduni in quella piazza è sempre stata la statua di San Francesco che sorge dalla parte opposta della Chiesa, calcolando di quanto la folla esbordava il santo dirimpetto a Giovanni. Ieri straripava, occupando anche le strade laterali, impossibile vedere tutti quanti.
Il popolo della pace. Non solo tante organizzazioni (600) ma anche tutte le persone dell’ampia area di sinistra che da tempo raramente rispondeva alle mobilitazioni. Riconoscerle è stata una gioia. C’erano anche Conte e Letta.

Non so cosa abbia pensato il segretario del Pd a trovarsi là in mezzo, sono contenta che sia venuto (e non sia andato a quella che a Milano Calenda e Renzi hanno promosso in polemica con quella di Roma, insieme a Letizia Moratti), ma spero che questo bagno di folla lo aiuti a capire quanto, con garbo, ha suggerito Raffaella Bolini, che ha parlato per l’Arci: «Per stabilire la pace non è utile partecipare alla guerra». Aspettare che le truppe si ritirino, e solo poi cominciare a parlare di pace, rischia di rendere così lunga l’attesa che potremmo nel frattempo essere tutti morti.
Tutti disciplinati: nessuno con le bandiere di partito, come da consegna. Ma tantissimi striscioni che indicavano la società civile; e poi il rosso dominante per i vessilli della Cgil, una presenza davvero massiccia per un impegno straordinario che la Confederazione ha posto in questa battaglia.
Il fatto più nuovo, e di grande interesse, è stata però la presenza cattolica eccezionale che si è riflessa nei discorsi dal palco, che hanno pesato. Oltre quello di Ricciardi, presidente della Comunità di Sant’Egidio – che con tono polemico ha invitato Zelenski ad accettare una seria trattativa di pace, anziché rifiutare ogni incontro. E quello di don Luigi Ciotti, che senza mezze parole ha affrontato le «coscienze pacificate» che non si indignano per l’attuale sistema economico che produce disuguaglianze e ingiustizie.

Don Ciotti ha definito la grande finanza, le grandi ricchezze, le multinazionali «terre meno visibili», «subdole», mai oggetto di critica, evidente allusione al peggio del fronte che irride al pacifismo: la grande commozione per l’Ucraina aggredita che però non ha riscontro in altrettanta preoccupazione per tutto quanto di male viene prodotto da questo sistema.
Un attacco sacrosanto perché ogni giorno più pesante si fa l’arroganza di questo nostro Occidente che pensa di potersi permettere qualsiasi cosa che invece indigna se la fa qualcun altro. Non penso solo a quanto viene fatto ai danni della Palestina o dei curdi, all’Iraq o all’Afghanistan, ma a quanto si continua a fare silenziosamente pur continuando ad affermare che si vuole la pace.

È recente la notizia che verrà accelerata la produzione su larga scala di B61-12, nuovi congegni nucleari, sì da poterli avere a disposizione già a dicembre prossimo, anche nelle basi italiane.
Dove del resto già ci sono gli F-16 C/D (ad Aviano e a Ghedi), che verranno ora dislocati anche in ogni parte dell’Europa, naturalmente intorno alla Russia. Nel 2021 è stato firmato da 50 paesi l’accordo sulla denuclearizzazione militare proposto dall’Onu. L’Italia, in quanto membro della Nato, naturalmente non l’ha ratificato.

Chi dice che chiedere trattative è inutile perché Putin non le accetta, si rende conto che ratificare quell’accordo, rifiutare la presenza di armi nucleari nelle basi italiane, potrebbe aiutare a convincerlo? Perché allora non danno battaglia a questo scopo, aggiungendosi a quanti vogliono condurre una battaglia almeno sulla cosa più pericolosa di questa guerra, il rischio che lo scontro diventi mondiale e nucleare? Possibile che in otto mesi non sia emersa una, dico una, proposta di pace su cui cominciare a trattare con la Russia da parte dell’Unione Europea?
La pace non è facile, ma dovrebbe essere un obbiettivo condiviso; e se è un obbiettivo bisogna cominciare col delineare e percorrere la strada che può permettere di raggiungerlo. Occorre preparare una mediazione possibile da proporre, che per prima cosa riguarda la sorte dei territori ucraini dove una larga parte della popolazione ha chiesto di ottenere le stesse condizioni di autonomia di tante altre regioni speciali europee.
È difficile, lo sappiamo, ed è possibile che sul merito del compromesso necessario non saremo tutti d’accordo, ma quelli che si rifiutano persino di chiedere una trattativa potrebbero almeno cominciare a fare proposte e a iniziare qualche battaglia contro quanto si fa per aggravare la guerra? Giustamente Landini concludendo ha insistito proprio su questo, aggiungendo il sacrosanto tema della riduzione della produzione di armi che continua ad avere, adesso con l’aiuto straordinario del ministro Crosetto, l’Italia come una protagonista di punta.


(ilmanifesto.it, 6 novembre 2022)

di Franca Fortunato


Oggi [sabato 5 novembre ’22, Ndr] mi unirò alla manifestazione promossa dall’associazione “Europe for Peace” per chiedere che in Ucraina tacciano subito le armi e si apra un negoziato di pace per scongiurare il pericolo di una guerra nucleare. Mi unirò sventolando la bandiera della pace, che sta sul mio balcone dall’inizio della guerra. Dopo otto mesi di distruzione e morte, di invio di armi e sanzioni, passo dopo passo, ci hanno portato sull’orlo di una guerra nucleare. A chi vuole continuare la guerra fino all’annientamento del nemico, ricordo che quella a cui andremmo incontro non sarà la continuazione di quella che abbiamo visto fino ad oggi. La sola possibilità di una guerra nucleare, che, irresponsabilmente, nessuno esclude, cambia anche questa in corso. Qualsiasi ragione di chi è stato invaso, qualsiasi ideale di libertà o “valore” occidentale, diventa debole, molto debole, a fronte della catastrofe che ne potrebbe seguire. È questa la consapevolezza collettiva che accompagna la manifestazione e che si sta facendo strada in tutti i Paesi occidentali. Il giorno dopo un’eventuale guerra nucleare non ci saranno più terre da contendersi, da invadere e difendere, non ci saranno ucraini da aiutare e russi da sanzionare, non ci saranno “valori” da affermare e culture da bandire, ma solo distruzione e morte, terra sterile e aria avvelenata. La paura di una guerra nucleare ha accompagnato donne e anche uomini per tutta la storia della Repubblica, quando erano ancora vive nella memoria collettiva le immagini delle bombe atomiche sganciate dagli Usa su Hiroshima e Nagasaki. Quella paura, oggi, è tornata in un mondo il cui arsenale nucleare è tale da poter disintegrare l’intero pianeta e ogni essere vivente. Sale in Europa la richiesta di mettere al bando tali armi nel mentre gli Usa si preparano, a fine anno, a schierare in Italia, Belgio, Germania, Paesi Bassi, Turchia e Grecia, 150 bombe nucleari di ultima generazione. «Dove ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?» Era la domanda, presa da Virginia Woolf, che rivolgevo alle donne all’inizio di questa guerra. La risposta ora c’è: ci conduce alla guerra nucleare. Alessandra Bocchetti, una femminista della differenza, negli anni ’80 di fronte all’orrore di una guerra nucleare, con sapienza ha argomentato come solo gli uomini potevano pensare, inventare, costruire un’arma che mette in pericolo la sopravvivenza sulla terra, portandone tutta la responsabilità di una tale eventuale guerra e delle sue atroci conseguenze. «Una donna – scrisse –, almeno per come sono le donne fino a oggi, non avrebbe mai potuto dimenticare che in un posto di questo pianeta c’è anche la sua casa, non avrebbe mai potuto dimenticare il suo corpo tra gli altri, quindi non avrebbe potuto immaginare una guerra dove non vince nessuno». È triste pensare che oggi, che una tale orribile eventualità è reale, ci siano donne che si stanno rendendo corresponsabili mentre altrove altre continuano l’opera materna, faticando e lottando per la vita e non per la morte, per la libertà loro e di tutte/i. Donne che stanno all’apice delle istituzioni europee, di Stati e Parlamenti e anche dentro partiti, esiliate dal pensiero delle proprie simili e dalla propria storia, non sanno riconoscere e dare senso alla loro differenza. Donne belliciste, dimentiche della potenza materna di dare la vita, delle lotte delle madri per permetterci di andare ovunque, dei loro sacrifici per darci una vita migliore della loro. Il bellicismo è la morte della madre, della donna. La pace è la vita, è la madre, e nessuna donna dovrebbe allontanarsene, per non perdere se stessa.


(Il Quotidiano del Sud, 5 novembre 2022)


Elisa Bellè, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Rosenberg&Sellier, 2021. Una giovane trentina di oggi si è messa in gioco per capire come sono nati e hanno preso forza il trovarsi solo tra donne e l’autocoscienza: il soggetto politico autonomo. Dall’ università alla città e oltre: pratiche, esperienze e relazioni di uno dei primi gruppi femministi italiani. Con Elisa Bellè dialoga Silvia Motta, una delle protagoniste della stagione del “Cerchio spezzato”.


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Paola Masi è morta e la ferita sappiamo che è grande, anche se non ne vediamo ancora la profondità. Femminista, economista, redattrice di DWF dal 1985, fondatrice insieme ad altre del Centro culturale Virginia Woolf.

Non stava male, non ci aspettavamo di dover scrivere questo messaggio. Solo due sere fa stava conducendo una intervista per il prossimo numero di DWF.

Il suo pensiero largo, la sua parola limpida, il suo passo svelto per arrivare e poi andar via da riunione. Le sue mani frettolose a sistemare. Ci prendiamo il tempo per stringerci forte e trovare le parole giuste per salutare una compagna appassionata, che ha dedicato la sua vita alle donne e a tutte noi.

Ci diamo intanto appuntamento lunedì 7 novembre alle ore 11 per celebrare un funerale laico presso il giardino della Magnolia della Casa internazionale delle Donne di Roma (via della Lungara 19).


La redazione di DWF


(https://www.dwf.it, 5 novembre 2022)

di Umberto Varischio


I toni utilizzati e alcuni commenti – come, per esempio, quello di Radio Popolare di Milano in una corrispondenza serale da Roma sabato 23 ottobre – riguardanti l’elezione dei presidenti di Camera e Senato e l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri dato a Giorgia Meloni, mi fanno pensare che in sottofondo ci sia la convinzione che si stia affermando una nuova forma di fascismo che si servirebbe di sovranismo e patriarcato.

Sono interpretazioni che mi lasciano molto perplesso: in primo luogo per il riferimento a una tragica epoca storica, che a differenza del periodo che stiamo vivendo, non si sostanziava solo di forme sociali e culturali, ma di specifiche strutture istituzionali e repressive che per il momento non sono all’orizzonte. Il fascismo come fenomeno storico e come l’abbiamo conosciuto nel secolo trascorso non è alle porte, e soprattutto non lo è nelle stesse forme di allora, anche se non possiamo fare a meno di preoccuparci di derive autoritarie e di criminalizzazione del diverso.

Sono, al contrario, convinto come veniva affermato nel Sottosopra del 1996, che «la fine del patriarcato non è e non sarà [certamente] una cosa da ridere», e che questo possa comportare, come scriveva Ida Dominijanni, la possibilità che «insieme ad esso crollino le strutture della vita associata che ad esso sono storicamente connesse; […] e che la virilità possa reagire in modo violento alla perdita del controllo sul corpo femminile». Ma quelli che stiamo osservando non sono i segnali di un nuovo totalitarismo, ma colpi di coda di un patriarcato alla fine, che è semmai la causa dello stato cose presenti, non uno strumento per realizzarlo.

Un patriarcato al suo termine come sistema di dominio degli uomini basato sul consenso, o sul silenzio-assenso, delle donne, che cerca di rivitalizzarsi basandosi sul profondo delle nostre emozioni e sentimenti di uomini, sulle pulsioni che anch’io, nel mio intimo, riconosco: una struttura sociale e di potere che di fronte alla molteplicità creativa e vitale che la libertà femminile rappresenta, cerca disperatamente di ricreare un ordine di vecchio stampo. Che può utilizzare anche richiami a forme politiche ormai centenarie, ma si sostanzia di queste pulsioni e si esprime, per esempio, a livello più generale, in Russia con il mito dell’uomo solo al comando e con la retorica guerrafondaia, ma anche in Ucraina con i continui richiami militaristi e con le parole d’ordine di eroismo, in Iran con la violenta e omicida repressione che tenta di negare la libertà alle donne, ma anche in Italia con la miseranda campagna elettorale che prima ha messo fortemente in dubbio la novità rappresentata da una probabile affermazione di una donna. Ed è in questo quadro che recentemente un patriarca in decadenza e un altro più giovane, ma che del primo sembra una caricatura in minore (entrambi emblemi del crollo del sistema sociale che rappresentano) hanno tentato di opporsi strenuamente a questa donna. Una donna che, certo, si nutre di cultura regressiva e reazionaria, e che per questo non mi piace assolutamente, ma che con il suo ruolo potrebbe promuovere in futuro, anche contro i suoi stessi desideri, la normalità di una donna ai massimi livelli decisionali anche in questo paese, segnando così un’indubbia novità sul piano simbolico. Una novità che viene contrastata non solo da un simbolico di stampo maschilista che cerca di negarla, ma anche attraverso strategie di contenimento o di paternalismo spinto, oltre che dalla stessa donna che la incarna, quando si nega in quanto portatrice di una differenza sessuale.

Mi chiedo se, invece di concentrarsi sulla denuncia continua del nuovo fascismo con modi che spesso originano dalla stessa matrice maschilista, come nel caso dell’appellarsi a una “vigilanza antifascista”, non sia il caso per noi uomini di costruire una “coscienza antipatriarcale” oppure una “consapevolezza antipatriarcale” che, oltre a prestare attenzione a (e contrastare) sviluppi legislativi e normativi nefasti che già stanno arrivando con il nuovo governo, prenda coscienza dei motivi profondi dei nostri comportamenti maschili. Non certo solo per descriverli e riconoscerli, ma per cambiarli.


(www.libreriadelledonne.it, 3 novembre 2022)