di Nadia Terranova
In queste settimane, sono usciti due libri che dietro un tono lieve, divulgativo, nascondono strutture robuste e uno scomodo interrogarsi: sono libri diversi, ma entrambi si rivolgono alle nuove generazioni per un confronto su cosa significhi essere oggi ragazza, donna, femminista. Uno è Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) pubblicato da Mondadori e firmato dalle filosofe Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo (pp. 216, euro 18,50); l’altro Contrattacco! Ribellarsi e difendersi dalla violenza maschile scritto per Sperling&Kupfer (pp. 256, euro 14,90) dalla giornalista Paola Tavella e illustrato dalla fumettista Teresa Cherubini (che ragazza lo è ancora). Escono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, interpretando un desiderio femminile collettivo, non troppo sotterraneo, di parlarsi fra donne rompendo il puro dato anagrafico. Entrambi si rivolgono alle ragazze contemporanee con uno spessore che li rende godibili a ogni età, ed entrambi hanno cura di tenere la porta aperta perché circoli aria fresca nella doppia direzione dell’ascolto reciproco: possiamo ammirare la libertà che nuovi corpi e voci stanno portando in strada e in rete, e insieme riconoscere altre esperienze e non cancellare segmenti fondamentali della nostra storia.
Tutti e due i libri scelgono una seconda persona che chiama sulla pagina le giovani lettrici, e tutti e due scansano la forma funerea e saccente del lascito, preferendo piuttosto configurarsi come intersezioni vive, accese e scomode. Tutti e due affrontano temi divisivi come la maternità surrogata (Donna si nasce) e la gestione femminile del denaro e del potere (Contrattacco!) cercando una necessaria distanza dalle soluzioni più ammiccanti della divulgazione massificata. Pur presentandosi come manuali, divergono nella forma: piacevolmente eccentrica, la prosa di Tavella che esorta alla consapevolezza del proprio e della propria forza materiale e magica viene completata dalle incursioni fumettistiche di Cherubini, mentre Cavarero e Guaraldo, con sapienza e arte di sintesi, decostruiscono gli slogan confusi che funzionano come sirene vuote per un femminismo di superficie. Se l’Adrienne Rich di Nato di donna e la Simone de Beauvoir del Secondo sesso insieme a Carla Lonzi fanno da comune sostrato, l’analisi di Donna si nasce saccheggia la poetica di scrittrici come Clarice Lispector ed Elena Ferrante e si confronta criticamente con il pensiero di Judith Butler, mentre Contrattacco! ricorda alle ragazze il lavoro di Elena Giannini Belotti e i passi in avanti di bell hooks. Pur presentandosi in vesti editoriali snelle, questi due libri ci ricordano che essere femministe implica una, a tratti sgradevole, postura di libertà, un continuo sforzo di luce e chiarezza.
Nascere donne è un fatto, la cui coscienza è una strada accidentata tutta da percorrere, una strada in cui cultura e biologia non sono avversarie l’una dell’altra, come oggi va di moda sostenere. «La differenza sessuale innanzitutto è un fatto», scrivono Cavarero e Guaraldo, «nella specie umana, così come in molte altre specie viventi, le femmine e i maschi hanno caratteristiche anatomiche e quadri ormonali differenti. Avremmo potuto dire un fatto biologico, se non fosse che il fatto della differenza sessuale viene registrato, interpretato e valutato da tutte le culture di cui abbiamo una documentazione storica fin dall’antichità, ovvero in tempi in cui la biologia non era ancora nata e ben poco si sapeva dei codici invisibili che fanno funzionare i corpi». Anche la cultura ha le sue trappole, ricorda Tavella: «Veniamo educate a farci benvolere, a non disattendere le aspettative degli altri, a sorridere anche quando vorremmo piangere, a non essere mai scostanti, a non fare capricci, a essere carine», e ancora: «Il manuale della femmina adorabile è infarcito di istruzioni sull’arrendevolezza, remissività, pazienza, dolcezza, paura, oltre che di consigli subdoli, tipo: se sorridi sei più bella». Essere arrabbiate è vietato, sottolinea Contrattacco!, che indica chiaramente in questa zona rossa la neutralizzazione maschile della possibilità per le donne di difendersi e di conoscere e gestire le proprie emozioni. L’industria del fitness che oggi spopola insegna un controllo sul corpo dedicato alla bellezza e alla perfezione piuttosto che alla consapevolezza, al mito dell’invincibilità piuttosto che alla conoscenza e all’utilizzo strategico dei propri limiti.
Uno dei nodi più interessanti di Contrattacco! riguarda proprio questo tipo di esplorazione personale, che ha che fare con la forza anche se viene spacciato per debolezza: conoscere i propri confini non significa difettare, ma sapere quali zone di noi sono inviolabili, e imparare a difenderle. In queste pagine, i disegni di Teresa Cherubini mostrano due esercizi a metà tra corpo e spirito, derivati dal percorso yogico di Tavella, che insegnano non solo alla nostra parte cosciente a dire no, che si tratti di una molestia o una proposta più melliflua, o semplicemente qualcosa che non desideriamo ricevere. Se fissiamo confini troppo stretti rischiamo l’asfissia, se troppo ampi non avvisteremo chi vuole travalicarli a forza: per trovare la nostra dimensione dobbiamo, innanzitutto, prendere contatto con noi stesse, tutte intere. Altro che disprezzo della biologia: è attraverso il corpo che sappiamo chi siamo, come ricordano Cavarero e Guaraldo: «La corporeità e i suoi dati elementari, il nostro esser corpo non solo eretto ma sessuato nella differenza, svolgono un ruolo decisivo in quella piena capacità di significazione, altrimenti chiamata linguaggio, che caratterizza la specie umana rispetto alle altre specie animali».
Siamo corpi, dunque, e attraverso la nostra postura, il nostro passo, i nostri movimenti ci definiamo. Lo sanno le ragazze che attraversano le strade al buio e che chiedono oggi, a gran voce, di riprendersi la notte: è una richiesta del corpo, dello spazio che ci è concesso occupare. Lo sanno attraverso la maternità, come figlie o come madri, le donne che fanno l’esperienza di «espellere un frammento vivo del proprio corpo, e di sentirsi figlia come frammento di un corpo intero e ineguagliabile» (la citazione di Elena Ferrante viene riportata dalle filosofe in Donna si nasce, libro che ha, fra gli altri, il non comune merito di parlare di uteri gravidi non come se fossero un difetto o un dettaglio da rimuovere). Sappiamo di essere corpo e allo stesso tempo sappiamo di non essere soltanto corpo: se come femministe decidiamo di abitare questa contraddizione senza forzarla da una parte o dall’altra, senza cedere alla facile tentazione di scioglierla, ci costringeremo a sguardi diversi, a volte sorprendenti, moltiplicando le possibilità di approccio alla vita e aumentando in noi la difesa dalle trappole meno esplicite del maschilismo e del patriarcato. Scrive Tavella: «I corpi femminili sono mortificati, educati e addestrati per perpetuare la disuguaglianza. Ma i nuovi corpi, i corpi ‘cattivi’, quelli da ragazzacce scalmanate che scopriamo e ridisegniamo imparando a difenderci e a contrattaccare, possono essere vissuti e rappresentati per garantirci indipendenza e autonomia, finora esclusiva degli uomini». Quei corpi sono rappresentati da Teresa Cherubini nelle sue efficaci e belle illustrazioni, mentre lo stesso corpo che si spacca e genera un frammento di sé non mostra meno potenza nelle pagine di Cavarero e Guaraldo: la Grande Madre, la Madre Terra, Rea, Gea, Gaia, Cibele, Inanna, Ishtar, Astarte e le altre divinità delle società più arcaiche non vengono tirate in ballo con la fumosa nostalgia di un tempo perduto, ma come simbolo di una forza che non si può cancellare e che mostra come è stato costruito il ruolo della debole e della vittima sul corpo delle persone di sesso femminile. Una decostruzione presente anche nelle pagine di Tavella, che individua precise strade di libertà: «Un corso di autodifesa femminista, la frequentazione di una palestra di arti marziali per donne, iscrivere le nostre bambine a ju jitsu o karate fin da piccole sono tutte esperienze del corpo ma anche della psiche».
Nei collettivi di autodifesa si impara a dare e ricevere sostegno, si impara a fidarsi ed essere oggetto di una riposta fiducia, ma si impara anche che l’aggressività non è per forza sbagliata o evitabile, soprattutto se reattiva. La consegna alle ragazze, in questi due libri, è densa di libertà e indipendenza dagli uomini ma anche da fazioni sclerotizzate. «Come femministe abbiamo imparato a elaborare un pensiero concreto ma libero, non subordinato né ai partiti né alla visibilità mediatica degli schieramenti dati. Non ci interessa essere inquadrate in fazioni politiche progressiste o oscurantiste», scrivono Cavarero e Guaraldo, invitando le ragazze a leggere senza paraocchi. Perché di tutte le strade femministe che si possono percorrere, capire resta la più autenticamente sovversiva.
(il manifesto, 26 settembre 2024)
di Serena Tarabini
Máxima Acuña, la contadina peruviana simbolo mondiale delle lotte contro l’estrattivismo: «Ricevo minacce di morte, ma credo che grazie all’unità delle lotte si possa vincere contro il potere»
Con il suo metro e mezzo scarso di altezza e la sua voce mite, la contadina peruviana Máxima Acuña da più di dieci anni sta tenendo testa a un colosso minerario. Difende un bene ancora più prezioso dell’oro di cui l’industria estrattiva va a caccia senza scrupoli: il suo diritto a esistere e la salute dell’ambiente. La sua origine è umilissima: nata a Sorocucho sulla Cordigliera andina nel 1970, è cresciuta nella casa dov’è nata, con i genitori, anche loro contadini, persone semplici che come lei non sapevano né leggere né scrivere ma che le hanno insegnato a lavorare la terra e a convivere con la natura. Il terreno dove si trova la sua casa e vive con la famiglia, il marito e quattro figli, è l’unica cosa che possiede; si nutre dei prodotti da lei coltivati, beve l’acqua della laguna che alimenta il suo terreno e lavora la lana delle sue pecore per realizzare vestiti e artigianato da vendere. Una vita, la sua e quella di migliaia di altri campesinos che non vale nulla di fronte alla sete di profitto di una multinazionale. Suo malgrado è diventata una famosa attivista e simbolo di resistenza, insignita di premi e riconoscimenti, chiamata da ogni parte a raccontare una storia che non è ancora finita e che riguarda tanti. È venuta di recente in Italia dove fra le altre cose ha partecipato a GEA, la scuola di giustizia ecologica e sociale che si è tenuta a Trevignano.
Quando e perché è iniziata la sua lotta?
La mia lotta è iniziata nel 2011 quando le imprese Yanacocha del Perù e Newmont degli Stati Uniti hanno iniziato a invadere il nostro territorio con i loro macchinari per espandere la loro attività estrattiva. Hanno convinto tutti i nostri vicini a vendere le loro terre anche se in realtà è come se gliele avessero rubate perché sono stati intimiditi e minacciati e alla fine hanno ricevuto una somma molto minore del reale valore delle loro terre. Noi non abbiamo accettato i soldi in cambio della vendita perché crediamo che la terra abbia un valore che non si può quantificare ed è l’unico bene che possediamo. Noi ci sentiamo i custodi della terra.
La società mineraria Yanacocha vuole realizzare un imponente e controverso progetto di estrazione di oro e di rame dal nome “Conga”. Un investimento di 5 miliardi di dollari che mira a creare una miniera estesa per oltre 20 km². Con quali conseguenze per il territorio e chi lo abita?
La realizzazione del progetto Conga porterebbe alla distruzione di migliaia di ettari di territorio andino: l’estrazione dell’oro rilascia metalli tossici nella terra che noi coltiviamo, prosciuga le più di venti lagune che forniscono l’acqua che noi beviamo e utilizziamo per irrigare i nostri campi, rilascia polveri nell’aria che respiriamo. Alcune di queste lagune sono l’unica fonte di acqua per gli abitanti di Celendín e Cajamarca. Inoltre per noi queste lagune non hanno un valore solo materiale, ma anche simbolico importantissimo. L’elemento liquido dell’acqua nella cosmovisione andina è centrale, l’acqua ci dà la vita, senza l’acqua nessuno potrebbe vivere. La gente della città deve pagare per bere l’acqua, noi campesinos prendiamo l’acqua dalle fonti di acqua pura, non dobbiamo pagare niente. Quest’acqua, l’acqua della Pachamama (madre terra in quechua, la lingua andina) dà vita anche a tutte le persone nella città perché arriva dalle lagune.
In che modo il conflitto con l’impresa mineraria ha condizionato e danneggiato la sua vita? Quali minacce ha ricevuto?
Abbiamo subito maltrattamenti fisici e psicologici. Siamo stati picchiati dalle forze di polizia locali, su pressione della società mineraria abbiamo subito uno sfratto illegittimo, siamo stati denunciati ingiustamente di invasione di terreno. Ci è stato reso difficile coltivare, abbiamo visto uccidere i nostri animali, i raccolti della nostra terra sono stati rubati. Abbiamo trovato la nostra casa distrutta in più occasioni, una volta anche il tetto e i pannelli solari e la videocamera che avevamo istallato per registrare i soprusi di cui eravamo vittime. La nostra libertà di movimento è limitata perché non possiamo più uscire ed entrare in casa senza essere identificati dai check-point che l’impresa ha insediato. Inoltre, è partita contro di me e la mia famiglia una campagna pubblica di diffamazione in cui si sostiene che siamo dei bugiardi e dei pazzi che si oppongono allo sviluppo. In questo modo hanno convinto i vicini di casa a non avere nessun tipo di relazione con noi. Un’altra conseguenza è che a causa di questa nomea non possiamo trovare lavoro. Non abbiamo più privacy, pace, tranquillità nella nostra casa perché con i loro macchinari sono arrivati sui confini della nostra terra, nel cielo sopra di noi vola un drone, siamo circondati dalla polizia e dalla loro vigilanza privata che ci controllano e che sono corrotti dall’impresa. Ci hanno proibito di andare nelle lagune della nostra terra, hanno anche distrutto i documenti che attestano che la proprietà della terra è nostra.
Nel 2014 la Corte Suprema della regione l’ha prosciolta dall’accusa di occupazione illegale, nel frattempo la sua lotta è diventata nota a livello internazionale, nel 2016 ha vinto il premio Goldman, il più importante per l’ambiente a livello mondiale, una sentenza recente della Corte di Giustizia regionale (agosto 2024) ha accolto la richiesta di fermare il progetto a causa dei danni che provoca all’ambiente; tuttavia la battaglia non è finita.
Io devo ancora lottare insieme alla mia famiglia. Continuiamo a ricevere minacce di morte e a essere mandati in prigione, le denunce non si fermano. Siamo molto più soli e abbandonati, perché la gente dei villaggi che prima ci appoggiava ora è sparita, sono stati intimiditi dalle imprese coinvolte. Il processo giudiziario non è ancora terminato e noi non abbiamo le risorse economiche per seguirlo fino alla fine. Ma il pericolo più grande rimane quello della vita: è un rischio molto concreto, molte volte questo tipo di problemi è stato risolto in questo modo e nessuno lo è venuto a sapere oppure nessuno ha pagato per questo.
In che modo andare avanti? Di cosa c’è bisogno per vincere questa battaglia definitivamente?
L’unico modo è l’unità; un’alleanza fra autorità, organizzazioni, politici, giovani e anche le altre donne che lottano. Penso che questa possa essere la strada per vincere contro questi poteri. Per questo ho accettato l’invito della Scuola Gea di venire a Roma, per tessere nuove alleanze e costruire una rete di lotta comune. Sono molto grata alla scuola Gea perché con loro ho potuto incontrare il partito di Sinistra Italiana e dei Verdi che si sono impegnati a sostenere le mie spese legali e a portare il mio caso nella commissione esteri del Parlamento italiano. Ho incontrato anche il Dicastero dello Sviluppo umano integrale della chiesa di Papa Francesco e loro si sono impegnati a mettermi in contatto con il vescovo di Cajamarca. Solo lottando insieme le ingiustizie contro la mia famiglia e la distruzione di Madre Terra termineranno. La nostra lotta non riguarda solo la nostra terra, ma anche quella di coloro che vivono nelle città e pensano solo ai soldi: la fame un giorno arriverà anche lì, e allora che faremo? Dobbiamo lottare non solo per noi, non solo per voi, ma per il Pianeta intero.
(il manifesto – Extraterrestre, 26 settembre 2024)
di Lara De Lena
Il suo discorso a Venezia in occasione del premio assegnatole dalla giuria presieduta da Isabelle Huppert, ha – come afferma Maura stessa – toccato un nervo scoperto: il silenzio sociale nei confronti di temi come la complessità della maternità al di fuori della sua narrazione più convenzionale e l’ancestrale e ormai inaccettabile difficoltà della sua conciliazione con il lavoro. «Mi auguro che la società – ha dichiarato la regista Maura Delpero nel ritirare il Leone d’Argento – dato che si riproduce attraverso i nostri corpi, inizi a sentire questo problema come suo e non lasci sole le donne».
La piccola e insieme maestosa storia corale di Vermiglio si svolge nel 1944 in un piccolo paese incastonato nella Val di Sole, una terra di confine che accompagna e abbraccia le vicende dei protagonisti diventando paesaggio interiore, bianco e siderale in momenti drammatici e verde e assolato in momenti più teneri. Le vicende si snodano con un rispetto filologico della lingua e del momento storico, ma proprio questa collocazione così puntuale in un tempo e in un luogo specifico diventa funzionale al racconto di una vicenda che può tranquillamente collocarsi al qui e ora. È proprio questa la ragione che ha spinto il Comitato di Selezione per il film italiano a sceglierlo per la 97ª edizione degli Academy Awards per concorrere nella categoria International Feature Film Award, «Per la sua capacità di raccontare l’Italia rurale del passato, i cui sentimenti e temi vengono resi universali e attuali».
Il tuo percorso di formazione parte dalla città di Bologna, credi che sia stato importante per la tua crescita artistica?
Assolutamente sì. Bologna mi ha fatto conoscere il cinema. Ho studiato Lettere all’università, guardando film in Cineteca, dove ho scoperto la storia del cinema e la cinematografia contemporanea attraverso le rassegne che passavano di lì, occasioni che mi hanno aperto al mondo. A Bologna ho passato gli anni della mia formazione e sono diventata un’adulta, la mia formazione ideologica è partita da lì. Io non credo che il cinema sia un’arte giovane, è un’arte per adulti, per aver qualcosa da raccontare devi aver vissuto e io lì ho vissuto tante cose, sono certa che quello che porto adesso nel cinema è frutto di quello che sono diventata attraverso questa città.
Quanto è stata influente la collaborazione con una compagnia teatrale per la tua formazione, se lo è stata?
Difficilmente avrei fatto un lavoro su un altro spettacolo. Quello spettacolo nello specifico era molto cinematografico. Ho sentito che quello spettacolo potesse avere uno sguardo in più che non fosse solo di servizio o ancillare, ma che potesse in qualche modo risignificarlo. Mi piaceva stare in teatro, guardare gli attori tirare su lo spettacolo, è stata un’esperienza a tutto tondo.
Il tuo discorso di ringraziamento per il Gran Premio della Giuria ricevuto a Venezia ha avuto grande eco. Ci vuoi dire qualcosa su questo?
La quantità di messaggi che ho ricevuto dopo quel discorso non mi ha stupita ma mi ha fatto pensare, in fin dei conti è stato un discorso semplice e, nel mio caso, assolutamente sentito perché sono stata io stessa una giovane mamma che girava il suo film con enormi difficoltà. La sensazione che hai quando fai questo mestiere – e non è solo una sensazione, perché a volte te lo senti proprio dire – è che te la sei cercata. Ai miei colleghi maschi questo non è mai stato detto. I registi che fanno film con bambini piccoli sono tanti, ma rimane una questione che non tocca nessuno. Il riverbero che ha avuto questa semplice frase mi ha fatto capire di aver toccato un nervo scoperto. C’è troppo silenzio attorno a questo tema, si lascia che le donne si mettano sulle spalle il peso di questa scelta come fosse un capriccio personale mentre è una questione che riguarda tutti.
Pensa che la società di oggi si stia definitivamente smarcando dal retaggio culturale patriarcale o la strada per la parità è ancora lunga?
Il tema della maternità complessa che tratto in Vermiglio affonda le radici nella mia infanzia, ma è anche un modo concentrato di raccontare nel complesso le questioni legate alla maternità in generale, soprattutto all’interno di una società patriarcale che certo sta cambiando, ma che ancora non ha fatto il passo decisivo. Io mi ritrovo a parlarne in maniera più diretta e subliminale per una questione legata al mio inconscio e alla mia infanzia, ma sono anche contenta dal punto di vista politico di mettere queste questioni al centro dei miei film. È una cosa buffa quella che è successa nei secoli, questa programmatica esclusione di un genere rispetto a un altro. Tutti noi lo abbiamo normalizzato perché siamo nati in un mondo così; tuttavia, io faccio sempre l’esercizio di raccontarmi le questioni come se dovessi rispondere a un bambino che mi fa una domanda, e raccontare la questione di genere a un bambino non può che generare la domanda: «Ma perché?».
A proposito di bambini, come è stato per lei lavorare con attori così piccoli?
Innanzitutto, credo che loro siano preziosi. Il loro sguardo, soprattutto in un racconto duro come quello del film, è uno sguardo che dà futuro e, insieme, leggerezza. I bambini riescono a dire le cose in maniera irriverente e dolce insieme, dicono le cose che noi adulti pensiamo ma non ci permettiamo di dire. Mi è piaciuto, soprattutto in Vermiglio, avere questa sorta di coro greco che commenta di notte i grandi avvenimenti come le micro-questioni della famiglia, avere i loro sguardi sussurrati delle cose che non si possono dire, vivere il processo di rielaborazione nelle loro giovani menti di quello che accade in casa. A loro quando giri non puoi dire tutto, alcuni sono troppo piccoli per storie così dure. Questo porta a volte a creare storie nelle storie pensando a quello a cui anche nella vita reale avrebbero accesso: quando io da bambina entravo in cucina le voci degli adulti si abbassavano e io raccoglievo frammenti. E li mettevo assieme e ora li racconto.
(l’Unità, 26 settembre 2024)
di Redazione
“Vi chiediamo visioni di società senza armi, stati senza eserciti, comunità liberate dal lutto della guerra. E vi chiediamo di farlo nello spazio di un poster”. Questa è la richiesta di Cheap nella loro ultima call for artists.
Cheap è un progetto di arte pubblica fondato a Bologna nel 2013 da sei donne che hanno scelto di lavorare con la poster art. Ogni anno lanciano un invito rivolto a chiunque si occupi di arte visiva per realizzare poster da attaccare nelle strade di Bologna. Il tema di quest’anno è stato: Fuck war!
Il collettivo bolognese ha deciso di dedicare questa edizione alla guerra, con un occhio di riguardo alla Striscia di Gaza. “Era inevitabile che il massacro che si sta compiendo in Palestina fosse al centro del lavoro di molte delle artiste che hanno partecipato alla call. Non è nemmeno una guerra: quello a cui stiamo assistendo è un genocidio che il sistema dell’informazione – soprattutto in Italia – si sta in larga parte rifiutando di indagare e denunciare. Abbiamo voluto tentare di aprire una breccia nella conversazione pubblica surreale che sentiamo attorno a noi su quello che sta succedendo in Palestina. Chiedere il cessate il fuoco non è una richiesta radicale come viene bollata: davanti a 40mila civili uccisi è il minimo a cui ci si possa appellare”.
L’invito ai partecipanti è stato quello di disertare l’immaginario bellico e sabotare la retorica che lo sostiene. Sono arrivati 1.120 poster da 41 diversi paesi nel mondo, 662 partecipanti che hanno lavorato con diverse tecniche e mezzi: fotografia, collage, illustrazione, tipografia, intelligenza artificiale e grafica.
I manifesti per le strade di Bologna rimandano a un immaginario non solo di pace ma anche di giustizia sociale, invitano ad azzerare la spesa militare per investire in istruzione e sanità, visioni di società senza armi e di stati senza eserciti.
La artiste di Cheap saranno a Ferrara il 4 ottobre, durante il festival di Internazionale, per presentare il loro ultimo libro Disobbedite con generosità (People).
(Internazionale, 25 settembre 2024)
di Alfonso Navarra
Il 26 settembre è la giornata ONU contro le armi nucleari. Oggi, rispetto al periodo della guerra fredda, in cui avvenne l’episodio in cui il colonnello sovietico Stanislav Petrov rimediò a un falso allarme nucleare contro la capitale Mosca, evitando una guerra nucleare per errore*, questo rischio tende ad aggravarsi sia per il caos geopolitico (si pensi alle guerre sul territorio ucraino e in Medio Oriente), sia per i progressi tecnologici male indirizzati (miniaturizzazione delle armi, velocità ipersonica, intelligenza artificiale).
Le spese in armamenti nucleari vanno crescendo ed i 9 Stati dotati hanno superato nel 2023 la cifra di 90 miliardi di dollari per i loro arsenali.
Citiamo la petizione (https://www.petizioni24.com/ricordiamo_petrov_no_rischio_nucleare )
con la quale abbiamo proposto e proponiamo alle attiviste e agli attivisti pacifisti italiani di darsi da fare perché siano intitolate vie o piazze all’obiettore russo (obiettore dell’intelligenza!) per sensibilizzare sul crescente rischio nucleare.
La campagna ICAN (Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari), premio Nobel per la pace 2017, ha appena organizzato, dal 16 al 22 settembre, una settimana di azione globale per dire basta alla spesa nucleare.
Sul sito ufficiale dell’organizzazione (ICAN – Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari icanw.org)abbiamo la notizia che 73 Stati hanno già ratificato il Trattato di proibizione delle armi nucleari.
In Italia le forze aderenti ad ICAN lavorano per coinvolgere gli Enti Locali nell’ICAN PLEGDE (100 città, tra le quali la capitale Roma, grazie in particolare a WILPF Italia), cui attualmente aderiscono circa 30 parlamentari, nella modalità per essi predisposta.
Un altro terreno di opposizione disarmista che si è aperto, con possibili implicazioni antinucleari, riguarda la decisione di installare in Germania nel 2026 missili a raggio intermedio (da 500 a 5.500 km), che è anche frutto della disdetta del Trattato INF (Forze nucleari intermedie), dichiarata, nel 2019, dall’allora presidente USA Donald Trump.
A Berlino, il 3 ottobre 2024, è prevista una grande mobilitazione nazionale del movimento pacifista tedesco. Su questo punto dei cosiddetti EUROMISSILI l’esperienza “storica” del Cruisewatching a Comiso (oggi sede della Pagoda per la Pace) e in Europa, sviluppatasi dal 1984 al 1987, dà l’indicazione di non mollare mai, fino al possibile, riconosciuto, successo (allora costituito dalla firma del Trattato da parte di Gorbaciov e Reagan).
* Il film di Peter Anthony The man who saved the world sulla vicenda del colonnello sovietico Stanislav Petrov che il 26 settembre 1983 salvò il mondo, è visionabile su You tube alla URL: https://www.youtube.com/watch?v=8TNdihbV5go).
(http://www.disarmistiesigenti.org/2024/09/25/petrovday2024/ , 25 settembre 2024)
di Anna Lombardi
Barbe lunghe, niente abiti occidentali, obbligo di andare in moschea: la polizia morale ora perseguita anche i maschi afghani
Dopo aver azzerato i diritti delle donne – impossibilitate a spostarsi da sole, vestirsi come vogliono, andare a scuola e perfino lavorare – nell’ultimo mese i talebani hanno iniziato a imporre regole strettissime anche agli uomini. E ora che tocca a loro, qualcuno si pente di non aver difeso abbastanza i diritti di mogli, madri e sorelle. Diritti negati che secondo associazioni come Amnesty International sono una vera persecuzione di genere, configurabili come crimini contro l’umanità.
Secondo gli osservatori, il cambio di passo segna un mutamento all’interno del regime talebano. Gli equilibri di potere stanno cambiando: la fazione più conservatrice – emanazione delle aree rurali – guadagna influenza. E ora cerca di affermarsi aggressivamente anche nelle aree urbane. Attaccando l’eccessiva – a loro giudizio – occidentalizzazione maschile. Ecco perché, con nuove leggi promulgate a fine agosto – hanno deciso di imporre agli uomini di portare la barba lunga almeno un pugno. Intromettendosi, proprio come già fatto con le donne, anche nel loro armadio: imponendo dunque l’addio ai jeans e ai capelli corti, con regole che impongono look che si allontanino da un tipo di immagine considerata “non islamica”. Non solo: nel nuovo Afghanistan ora gli uomini non possono nemmeno guardare donne che non siano loro mogli o parenti. Figuriamoci parlargli.
Le nuove restrizioni hanno colto di sorpresa la popolazione maschile afgana. E un certo malcontento ora regna anche fra i sostenitori del regime. Lo hanno ripetuto in tanti – a patto di mantenere l’anonimato – al Washington Post che ha fatto una serie di interviste telefoniche sulla questione: «Se noi uomini avessimo alzato la voce quando è toccato alle nostre donne, oggi ci troveremmo in una situazione diversa», ha affermato uno degli intervistati parlando dalla capitale Kabul: «Ora, tutti si fanno crescere la barba perché non vogliamo rischiare di essere arrestati in strada, interrogati, umiliati». Per carità, quello che viene oggi imposto agli uomini è poca cosa rispetto alle imposizioni cui sono state sottoposte ragazze e donne negli ultimi tre anni, dopo, cioè la drammatica uscita degli americani dal Paese. Ridotte letteralmente al silenzio, giacché non possono alzare la voce in pubblico, sono impossibilitate a proseguire gli studi dopo le elementari, escluse dall’università, costrette a sparire sotto pesanti burqa.
Ma gli agenti della moralità religiosa, riconoscibili dalla tenuta bianca, ora bussano anche alle porte degli uomini: e non solo per lamentarsi del loro abbigliamento ma anche, ad esempio, per non averli visti in moschea. I dipendenti pubblici senza barba rischiano il licenziamento o importanti trattenute sullo stipendio. E i barbieri ormai si rifiutano di tagliarla. Non basta: molti tassisti vengono arrestati con l’accusa di aver violato le regole sulla segregazione di genere: per aver cioè accettato di trasportare donne non accompagnate da un parente sulla loro auto. O per aver fatto suonare musica dalle loro autoradio. Sono una delle categorie più colpite: «Da quando non possiamo più portare a casa le donne non accompagnate i guadagni sono crollati del 70 per cento», spiega uno di loro.
Le nuove leggi danno alla polizia morale l’autorità di trattenere i sospetti fino a 3 giorni. E chi ad esempio salta la preghiera in moschea, finisce sotto processo, condannabile in base all’interpretazione rigida che i talebani fanno della legge islamica della sharia. Le nuove violazioni sono punite con multe o pene detentive. Ma chi è colpevole di infrazioni più gravi come l’adulterio, è condannato alla fustigazione o alla morte per lapidazione, come d’altronde già avveniva un quarto di secolo fa.
L’aver toccato i privilegi maschili, piace poco anche ai sostenitori del regime: «Siamo tutti musulmani praticanti, sappiamo cosa è obbligatorio e cosa no. È inaccettabile usare la forza anche contro di noi», ha detto uno di questi al WP. Concludendo amaro: «Anche chi sostiene i talebani ora vuol lasciare il paese».
Questo in realtà vale per chi vive a Kabul, la città più cosmopolita del paese, o in altre aree urbane. I residenti di zone rurali e più conservatrici dicono di aver notato a malapena il cambiamento. Un residente della provincia di Helmand, racconta che quelle regole sono la consuetudine: «Finora non si è presentata nessuna polizia morale qui. Si concentrano sulle città, da noi non serve». Per alcune donne le nuove restrizioni al maschile sono fonte di una qualche speranza: «Rispetto a quel che è stato imposto a noi, gli uomini sono rimasti totalmente in silenzio fin dal primo giorno, il che ha dato ai talebani il coraggio di continuare a imporre regole tremende», ha detto nelle interviste una donna di 24 anni residente a Kabul. «Ora che toccano i loro privilegi i talebani stanno finalmente perdendo il sostegno degli uomini. Chissà che non si finisca per protestare insieme». Ma per molte altre, anche questa è una mera illusione: «Non resta che lasciare il paese» dice un’altra donna. «L’Afghanistan sprofonda nel passato: non c’è più futuro».
(la Repubblica, 24 settembre 2024)
di Antonello Caporale
Voi ebrei! Anche lei a usare il plurale? Abbiamo perso l’identità, è andata al macero la storia personale, la reputazione personale, la memoria e anche, se permette, il senso della misura. Questo flagello quotidiano è insopportabile.
Edith Bruck, potrei controbattere dicendo che ogni critica a Israele, anche la più fondata e prudente, è spesso tacciata di essere freccia nell’arco degli antisemiti.
Non lo sentirà mai da me come del resto sono pronta a riconoscere che Netanyahu sia la vera disgrazia, il cappio al collo di Israele, la frusta che allontana quella terra dalla pace. La insozza di sangue, la tiene in preda a una nevrosi quotidiana. Io contesto e duramente la politica di quel governo, come lo contesta la maggioranza degli israeliani. Altro che voi ebrei!
Si sente particolarmente afflitta dal timore di essere ricompresa in quella che viene accusata d’essere la trincea oltranzista, quella di chi lotta per allontanare la pace e non la guerra?
Un giorno Calvino mi venne a trovare a casa e mi disse: voi ebrei. Gli risposi a brutto muso: Italo, voi chi? C’è qualcosa in più dell’approssimazione, c’è un giudizio, e troppo spesso spregiativo, sull’insieme, sul popolo. È questo che offende. Un ebreo ricco non vuol dire che ogni ebreo è ricco. Se quel tizio è particolarmente rapace, nessuno è autorizzato a pensare che siamo un popolo di Rasputin.
Pensa che il “voi” che lei sente affibbiato addosso abbia un tratto schiettamente razzista?
Anche mio marito un giorno mi disse: voi ebrei. È proprio dentro non al linguaggio ma all’animo, alla coscienza collettiva. E questo è il vero dramma.
Ha letto degli ultimi incredibili fatti di sangue?
Mostruoso! Immettere dentro i cerca-persone cariche di esplosivo per compiere una strage è sinceramente un atto barbarico.
Si dice che sia stato Israele.
Israele dice di no.
Tutti i sospetti portano al Mossad, il servizio segreto di Tel Aviv.
Israele ha il problema di Netanyahu e costui alimenta la guerra perché è il suo unico modo per rimanere sulla poltrona. Per lui rimanere sulla poltrona significa anche allontanare i processi.
La questione personale del primo ministro, condivisa dalla compagine di governo, diviene la bomba su cui esplode il conflitto con i palestinesi?
Io penso così e dico di sì. Il governo di Israele non sembra avere altra chance e non sembra avere altro interesse che proseguire la guerra infinita con i palestinesi.
Hamas è l’autore della strage dei civili israeliani portata a termine il 7 ottobre scorso. Barbarica, indicibile, disumana. La risposta di Israele è altrettanto terribile: Gaza rasa al suolo, la striscia occupata, 40mila morti nella parte palestinese. Non crede che Israele stia tirando troppo la corda?
Credo che Israele sia piegato a questa malvagia dottrina della guerra in permanenza. E credo pure che la maggioranza degli israeliani, parlo del popolo, rifiuti di dare spazio unicamente alle bombe. Le bombe producono altre bombe.
C’è un modo per fare la pace?
Un modo c’è: dare ai Palestinesi uno Stato, una terra su cui issare la propria bandiera. Solo così ci sarà pace.
La sua idea non ha molte speranze di successo. Da quanto manca da Israele?
Sono oramai quarant’anni. Ho lasciato lì un nipote che mi racconta della nevrosi collettiva, del fatto che non si vive più ma si corre da un rifugio all’altro, da una crisi all’altra, da un’allerta all’altra. È un popolo in preda alla paura, un popolo nevrotico e non potrebbe essere altrimenti. Anche questo bisogna valutare quando si giudica.
Lei lasciò Israele per non arruolarsi nell’esercito…
Chi ha conosciuto i campi di concentramento può accettare di indossare una divisa militare? Corsi via, sbarcai a Napoli dopo aver sposato un marinaio solo per ottenere la cittadinanza. A Napoli incrociai gli sguardi amichevoli, quegli occhi e quei sorrisi, gente sconosciuta che però mi fecero sentire subito a casa. Capii allora che l’Italia sarebbe stata il mio Paese. E sono stata felice e fortunata.
Com’è cambiata l’Italia da quando è stata accolta?
Era sorridente ed è divenuta ombrosa. Era generosa, ora è egoista. L’Italia ha avuto una regressione anche nei comportamenti, nella postura collettiva. Non è un caso che oggi la guidi una donna della destra estrema e non è un caso che ci sia Salvini al governo.
Lei dice purtroppo?
Putroppo, sì. L’Italia è cambiata in peggio. E si vede!
(Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2024)
di Mira Furlani
Papa Francesco critica la democratica Kamala Harris di essere favorevole all’aborto e la paragona a Trump in quanto contrario all’immigrazione. Sostiene che ambedue sono favorevoli alla morte.
A parte il fatto che trovo assurdo un simile paragone (vedere in proposito il post di Massimo Lizzi), vorrei che papa Francesco leggesse quello che ha scritto Luisa Muraro nel 2018:
«Quando papa Francesco ripete che manca una teologia della donna, ha ragione del suo punto di vista, a lui manca davvero perché la teologia cattolica si basa sulla sintesi di Tommaso d’Aquino che si è basato sul pensiero di Aristotele secondo cui le donne sono regolate per definizione da autorità e poteri di questo mondo. Manca al papa un’idea compiuta e articolata della libertà delle donne in sé e per sé, viste cioè in rapporto a Dio e non alle autorità di questo mondo. Che è una lacuna grave per un uomo nella sua posizione, chiamato a pronunciarsi anche su questioni in cui ne va della libertà femminile, come l’aborto. Legiferare sull’aborto è difficile in generale, per la stessa ragione. Ci sono complicazioni dovute alla mancata formulazione di un principio basico della libertà femminile che dice: Niente e nessuno può costringere una donna a diventare madre» (Luisa Muraro, Cambio di civiltà, Sottosopra, 2018).
(Facebook, 22 settembre 2024)
Juan Carlos De Martin
I raccapriccianti atti di terrorismo avvenuti nei giorni scorsi in Libano attraverso cercapersone e ricetrasmittenti sono una eclatante manifestazione di uno degli aspetti meno compresi della rivoluzione digitale.
Relativamente poche persone, infatti, hanno messo a fuoco il fatto il mondo si sta computerizzando, processo che sta causando, oltre al resto, alterazioni profonde nei rapporti con l’ambiente in cui viviamo, oggetti inclusi.
La prima fase della computerizzazione del mondo è stata palese perché è stata semplicemente la fase della diffusione dei computer tradizionali, dai cosiddetti mainframe agli attuali desktop e notebook. Negli ultimi 20-30 anni, però, la miniaturizzazione dei componenti e il drastico calo dei costi (anche della connessione a Internet) ha avviato una seconda fase, meno visibile e soprattutto meno compresa, che sta portando a computerizzare un numero crescente di esseri umani, di spazi e di cose.
Gli esseri umani si stanno computerizzando – volontariamente, ma in larga parte senza essere pienamente consapevoli delle implicazioni – innanzitutto tramite l’adozione e l’uso molto intenso dello smartphone, ormai posseduto da oltre quattro miliardi di persone. Allo smartphone in anni recenti si stanno aggiungendo – in attesa di impianti sottopelle – orologi, braccialetti, occhiali e anelli smart, dove smart è sinonimo di «con computer a bordo dotato di sensori e connesso a Internet». Le persone godono delle spesso notevoli funzionalità degli oggetti smart, che spesso portano con sé anche quando dormono, ma allo stesso tempo si prestano a una raccolta dati, anche estremamente sensibili, su di loro e sull’ambiente in cui si trovano, una raccolta dati assolutamente senza precedenti per vastità e capillarità, con conseguenze – per gli individui e per la società – ancora tutte da mettere a fuoco.
Per gli spazi, invece, basta pensare alla smart city, dove smart vuole innanzitutto dire la disseminazione di computer connessi a Internet negli spazi pubblici. Innanzitutto le migliaia di telecamere smart che stanno distopicamente presidiando le strade e le piazze delle nostre città (oltre che scuole, università, ospedali, uffici pubblici…), ma anche computer (dotati di sensori, ovvero, microfoni, telecamere, geolocalizzatori…) sui mezzi di trasporto (sia pubblici, sia quelli gestiti da privati come auto, scooter, biciclette e monopattini in condivisione), computer nei cassonetti dell’immondizia per controllare la raccolta differenziata, computer ai semafori e agli attraversamenti pedonali, e molto altro ancora.
Una computerizzazione degli spazi che riguarda anche moltissimi spazi privati, non solo molti luoghi di lavoro, ma anche le stesse case delle persone, sempre più popolate di oggetti computerizzati che ascoltano e magari anche vedono, come, per esempio, gli assistenti personali tipo Alexa e le televisioni smart. In generale, sta diventando sempre più difficile passare del tempo in spazi non computerizzati, ovvero, spazi che non ci spiano, un cambiamento fondamentale del nostro rapporto con lo spazio.
E infine, appunto, gli oggetti. Tutti quelli che abbiamo già citato, a partire dagli smartphone, ma anche molti altri che in questi anni si sono progressivamente computerizzati: frigoriferi, lavatrici, termostati, lampade, bilance, forni, allarmi, televisori e molti altri ancora, tra cui le automobili e in generale i mezzi di trasporto, dai monopattini elettrici a elicotteri e aeroplani. Tutti oggetti che, dotati di computer (per quanto rudimentali nel caso degli oggetti più semplici), e di una connessione con l’esterno (quasi sempre senza fili), hanno mutato in maniera radicale la loro natura.
Sono, infatti, diventati – quasi sempre all’insaputa di chi ingenuamente pensa di esserne il padrone – da una parte, oggetti che posso spiare il comportamento di chi li utilizza (eventualmente anche tramite microfoni o telecamere) e, dall’altra, oggetti che possono in linea di principio essere comandati dall’esterno per mutarne le funzionalità (per esempio rallentando o fermando un’automobile in corsa), fino al caso estremo – ma purtroppo di tragica attualità – della deliberata attivazione di una carica esplosiva nascosta come è avvenuto in Libano.
La computerizzazione del mondo finora è avvenuta in larga parte sottotraccia, con al limite qualche preoccupazione per la privacy delle persone. In realtà, è un processo di importanza capitale per il futuro delle nostre società, un processo di cui – senza minimizzarne i potenziali benefici – vanno problematizzati tutti gli aspetti. In particolare, invece di vedere solo gli aspetti positivi, lasciando mano libera alle imprese, peraltro tendenzialmente le solite Big Tech, dovremmo democraticamente decidere se, quando, come e a beneficio di chi computerizzare persone, spazi e oggetti, dando massima priorità alla trasparenza e alla libertà – non solo di scelta – delle persone. Naturalmente per fare ciò è necessario, oltre al resto, padroneggiare le tecnologie della computerizzazione lungo tutta la filiera produttiva. Una sfida, e tra le più importanti, per l’Europa del presente e dei prossimi anni.
(il manifesto, 22 settembre, 2024)
di Franca Fortunato
Due anni fa il 16 settembre moriva la giovane curdo iraniana Masha Amini, studentessa ventiduenne arrestata e pestata brutalmente dalla “polizia morale” per aver indossato il velo in modo improprio. Seguì la “rivolta” delle donne iraniane al grido “Donna, Vita, Libertà”, a cui si unirono anche uomini. Allora Maysoon Majidi, la regista curda iraniana e attivista per i diritti umani, in particolare delle donne, detenuta da nove mesi nelle carceri calabresi con l’accusa di essere una scafista, era nel Kurdistan iracheno, dove – come ha scritto in una lettera dal carcere – era fuggita col fratello dopo aver ricevuto minacce da parte del regime iraniano. In Iraq, dove aveva lavorato in televisione oltre che come reporter e giornalista indipendente, prese parte alla “rivoluzione” organizzando «la prima performance davanti alla sede delle Nazioni unite» e aprendo «il canale “Ack news” per pubblicare notizie in tempo reale». Due giorni dopo quell’anniversario al tribunale di Crotone si è svolta la terza udienza del processo a suo carico e questa volta non è stata lasciata sola, fuori e dentro il Tribunale. A scuotere le coscienze hanno contribuito certamente la sua lettera dal carcere e un appello che il padre, Ismael, vecchio e ammalato, ha rivolto dall’Iran «a tutte le associazioni e organizzazioni che si impegnano nella difesa dei diritti delle persone perché si occupino del caso» della figlia e ha chiesto giustizia perché «le accuse sono prive di fondamento». «Questa è la mia voce! Mi chiamo Maysoon Majidi – si legge nella lettera –, sono nata il 29 luglio 1996. Sono laureata in teatro e ho un diploma magistrale, sono attivista politica e membra dell’organizzazione dei diritti umani “Hana”, partecipo al coordinamento dei Curdi in diaspora, sono attivista dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse. Quanto ai diritti dei rifugiati, ho sempre partecipato alle varie attività come organizzare le manifestazioni dell’Onu in Erbil (Iran) dopo la morte di Behzad Mahmoudi, rifugiato politico. Ho partecipato alle lotte del popolo curdo per sette anni.» Poi, la fuga con il fratello e l’arrivo, dopo tante peripezie, in Turchia, le violenze subite, la partenza e la traversata che, ancora una volta, ha raccontato nei particolari in Tribunale, per dimostrare la sua innocenza. «Fin da piccola – ha scritto il padre – Mayson ha dimostrato capacità artistiche, si è espressa con le matite colorate ancor prima di andare a scuola, sempre incoraggiata da noi di famiglia. Nella classe che corrisponde alla quarta elementare ha cominciato a scrivere poesie, alla scuola media è diventata redattrice della rivista della scuola e nell’ultimo anno ha vinto il premio tra gli studenti narratori in Iran. Appassionata d’arte, si è iscritta all’Università per studiare teatro e regia teatrale» e quando si è «impegnata in politica e nell’attivismo per la difesa dei diritti umani» ha subito «interventi pesanti da parte delle guardie dell’Università, che l’hanno picchiata e torturata molte volte.» Come avrebbero mai potuto immaginare padre e figlia che quello che doveva essere il viaggio verso la libertà si sarebbe trasformato in un “incubo” e in un’accusa “assurda” di “scafista”? Accusa da cui nel tribunale di Crotone si sta difendendo anche un’altra donna iraniana, Marjam Jamali, fuggita dal regime con il figlio di otto anni. È stata accusata da due uomini, che durante la traversata hanno tentato di molestarla. Dopo sette mesi di carcere, vive a Roccella Jonica ai domiciliari insieme al figlio, cosa che è stata negata per tre volte a Maysoon, separata dal fratello. Mi auguro che alla fine a queste due “Donne” sarà resa giustizia, restituendo loro “Vita” e “Libertà”.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io Donna”, 21 settembre 2024)
di Diotima
Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 4 ottobre 2024, dalle 17.20 alle 19, per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 22 novembre.
Venerdì 4 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Diana Sartori – Se manca la terra sotto i piedi, vivere in lacuna
Venerdì 11 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula da destinarsi Wanda Tommasi – Terre ferite.
Venerdì 18 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi Snejanka Mihaylova – Metanoia: il cuore dell’ascolto.
Venerdì 25 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Margherita Morgantin – L’esilio ereditato. Dov’è il mio accento?
Venerdì 8 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Antonietta Potente – La terra dentro.
Venerdì 15 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Elisabeth Jankowski – Dentro la Torre di Babele.
Venerdì 22 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Vittoria Ferri – Scrivere la terra. L’immaginazione come posizione politica.
Gli incontri si terranno in aula Menegazzi, ex palazzo di Economia, Università di Verona, via dell’Artigliere 19, angolo via San Francesco.
Per le studentesse e gli studenti: a chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritta/o alla laurea triennale e magistrale di Filosofia e alla laurea triennale e magistrale di Scienze dell’educazione verrà inserito nel piano di studi 1 Cfu.
Camminare sulle acque per pensare la terra
Siamo arrivate al tema della terra, che quest’anno proponiamo al seminario, attraverso le domande politiche che le guerre contemporanee e le emigrazioni coatte sollevano. In una guerra è sempre questione di terra e di lingua assieme, così come lo è in un esilio costretto che porta lontano da dove si è nati.
Terra occupata, strappata, martoriata, bombardata e poi divisa, spartita alla lettera. Metaforicamente, terra delle radici, delle origini, dei miti, terra dei luoghi amati nei quali ci si riconosce, terra della speranza, del futuro. L’aspetto letterale e quello metaforico non possono mai essere del tutto separati e occorre tenere conto di questo intreccio.
Abitare e pensare la terra significa percepirla dentro un contesto comune che coinvolge sia gli esseri umani sia quelli non umani, dagli animali alle rocce, agli esseri tutti.
Allo stesso tempo portiamo la terra dentro di noi. Siamo presso il mondo e in noi stessi contemporaneamente e senza contraddizione. Questo modo di sperimentare la terra tra dentro e fuori ne fa una sorgente di possibili esperienze e significati. Mai esauribile.
Le domande politiche che sentiamo riguardo la terra, la guerra, la lingua e le migrazioni sono molto forti. In un certo senso schiaccianti. Lasciano poco spazio e chiudono in sensi di colpa per non aver fatto abbastanza, che risultano sterili. Quello che possiamo davvero fare è invece rivolgerci alla pratica del simbolico, la pratica femminista di esprimere il reale, guardandolo con tutte noi stesse e legando le parole, il corpo, e l’esperienza del mondo, che noi patiamo, con quella finezza che ci viene dall’aver imparato a mettere a frutto la differenza sessuale. Le azioni ne verranno di conseguenza, con la misura che viene da questa pratica e non dalle risposte suggerite dal simbolico già circolante e ripetitivo. Piuttosto che entrare nei conflitti già disegnati, questa pratica propone di stare sulla terra e vicino ad essa, di guardarla dal punto di vista delle acque, che scivolano, confondono i confini. Camminare su di esse. È un’immagine di leggerezza: sfiorando la nostra paura di andare a fondo, invita ad avere una visione più ampia, aperta, a partire da ciò che riusciamo a vedere come vitale e che di solito emerge come imprevedibile, là dove meno ce lo aspettavamo. Aprendo nuove strade.
Bibliografia:
Mahmud Darwish, Oltre l’ultimo cielo. La Palestina come metafora, Milano 2007.
Anna Maria Mori e Nelida Milani, Bora. Istria. Il vento dell’esilio, Venezia 2021.
Hannah Arendt, Vita activa, Milano 2019.
Eva-Maria Thüne, All’inizio di tutto la lingua materna, Torino 1999. Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano 2002.
Diotima, La sapienza di partire da sé, Napoli 1996.
(Università degli Studi di Verona, 19 settembre 202)
di Betti Briano
Con la pubblicazione della recensione di Betti Briano Eredibibliotecadonne non vuole offrire soltanto un consiglio di lettura ma si propone di anticipare spunti di riflessione in vista di un’occasione di dibattito sui controversi temi trattati nel libro che potrebbe avvenire con un pubblico incontro con alcune delle autrici da tenersi a Savona in autunno/inverno (ndr).
A giugno è uscito un volumetto snello, ma assai ‘corposo’ nei contenuti, il cui titolo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Ed. Castelvecchi) dichiara l’intenzione di rompere la cappa del politicamente corretto che grava a sinistra su una serie di temi che hanno pesanti ricadute sulla condizione delle donne, sulla loro esistenza materiale e simbolica. Un libro di cui c’era bisogno per aprire un dibattito necessario; un pamphlet coraggioso, che le autrici hanno dato alle stampe pur sapendo che non avrebbe avuto vita facile e che la sua promozione sarebbe stata un percorso a ostacoli; una raccolta di saggi che scoperchia la malsana minestra che sobbolle nella pentola progressista, dove ogni saggio prende in esame un ingrediente per svelarne la tossicità e ad ogni ingrediente corrisponde una delle questioni che risultano più urticanti, divisive, se non addirittura dei veri e propri tabù, nell’ambiente politico e culturale al quale il testo è principalmente rivolto.
Il primo saggio, La misura della parità di Silvia Baratella, introduce i paradossi che si vengono a creare per effetto di leggi, nate nella seconda metà del secolo scorso per rispondere alle nuove domande di agio e possibilità da parte delle donne, che finiscono per risolversi in limiti e danni alla libertà femminile; perseguire l’uguaglianza con gli uomini non ha significato ‘liberare’ le donne, ma in molti casi aggiungere iniquità e svantaggio nella loro vita. L’autrice mette in guardia da politiche (assai in voga nella sinistra e in certo femminismo) scaturenti dall’equivoco che moltiplicare le leggi volte a ‘parificare’ diritti e opportunità sia la strada maestra per realizzare la giustizia tra i sessi, e auspica un cambiamento di paradigma in cui “le donne in relazione siano fonte e legittimazione della propria libertà e negozino con gli uomini un nuovo e più civile spazio pubblico”.
L’intervento di Marcella De Carli Ferrari La cancellazione della madre attraverso la legge sull’affido condiviso disvela la minaccia che rappresenta per le madri e i bambini la Legge 54/2006, voluta dalle associazioni dei padri separati (appoggiati dalle destre), votata da tutti i partiti e accolta persino da qualche frangia del femminismo paritario. L’idea contrabbandata di coinvolgere maggiormente i padri nella gestione dei figli si risolve concretamente in un sistema atto “a mantenere il controllo paterno sui figli e sulla ex moglie”. La legge non solo non tiene conto del differente legame del figlio e della figlia con la madre rispetto a quello col padre, ma costringe le madri a ripartire la convivenza con i figli persino col coniuge violento e maltrattante per non incorrere nell’accusa di alienazione parentale con le vicissitudini sociali e legali che ne conseguono.
Lorenza De Micco e Anna Merlino in C’era un’assemblea civica sulla genitorialità sociale a Milano raccontano attraverso una personale emblematica esperienza come può avvenire che attraverso il condizionamento, se non addirittura la manipolazione, di ‘assemblee’ di democrazia diretta mirate a fornire ‘pareri’ in merito a questioni d’interesse trasversale, si vengano a formare orientamenti che danno origine specie in sede europea a deliberazioni e proposte legislative su materie sensibili (quali genitorialità e Gpa) che di fatto non sono rappresentative del sentiment popolare ma riflettono gli interessi di determinate categorie e lobby influenti e abili nel farsi ‘ascoltare’ da chi detiene il potere.
Anche Daniela Dioguardi parte dalla propria esperienza per denunciare in Mercato, libertà e censura del pensiero i pesanti attacchi con cui si cerca di intimidire e silenziare chi oggi esprime posizioni critiche nei confronti di alcune idee e politiche che caratterizzano il mondo Lgbtq+, Non Una di Meno e il transfemminismo. Chi si oppone alla teoria dell’identità di genere, alla Gpa come al riconoscimento del sex work ‘da sinistra’, in contrasto ad un’idea liberista e mercantile dell’uso dei corpi e dell’esercizio della libertà personale, non solo deve scontare le accuse classiche di bigottismo, conservatorismo e fascismo o a quelle più trendy di omo-transfobia e avversione ai/alle sex worker, ma va spesso incontro anche a ‘scandalosi’ episodi di negazione di agibilità politica e di spazi di dibattito proprio da parte degli ambienti che dovrebbero vantare i maggiori tassi di democrazia nel DNA.
Nel testo Prostituzione, pornografia e libertà Caterina Gatti mette in luce una delle conseguenze più aberranti cui sta portando la degenerazione del principio di libertà che ha preso piede nel campo progressista e in parte del movimento delle donne; si tratta dell’idea che il sex work sia un lavoro come un altro e che la conquista dell’autodeterminazione includa anche la possibilità di scegliere di vendere il proprio corpo attraverso l’attività prostitutoria o quella pornografica. Ci sono note scrittrici che, avendo raccontato, partendo proprio dalla conoscenza diretta, la condizione di degrado fisico e psichico cui vanno incontro le donne nel mondo della prostituzione, hanno incontrato ostacoli alla promozione dei loro libri e subito veri e propri boicottaggi, come successo a Rachel Moran per la presentazione di Stupro a pagamento addirittura presso la Casa Internazionale delle donne. D’altronde le posizioni abolizioniste vengono non solo marginalizzate ma osteggiate con veri e propri attacchi intimidatori e ‘squadristici’ nei confronti di chi le porta avanti.
Cristina Gramolini parla con amarezza di una “Rivoluzione gentile” che non è più gentile. Si riferisce alla trasformazione della originaria gentilezza, con la quale molte istanze del mondo Lgbtq+ erano state portate avanti con successo, in intolleranza e violenza nei confronti delle donne contrarie ai nuovi cosiddetti diritti sostenuti da quel movimento: maternità surrogata, blocco della pubertà, sex work. Descrive alcuni sconcertanti episodi esemplificativi: la cacciata di ArciLesbica dalla sede che condivideva con Arcigay nel 2018, la contestazione di una conferenza di Sheila Jeffreys da parte di un’assemblea transfemminista a Milano nel 2020, l’interruzione della presentazione di Sex work is not work (Ilaria Baldini et al., Ortica 2023) alla Fiera dell’editoria femminista di Roma nel 2023. Nel precisare che dall’ambiente progressista non è levato alcun cenno di indignazione per così gravi attacchi alla libertà di pensero e al dibattito democratico, conclude che il consenso delle nuove lobby e del popolo dei pride viene considerato con tutta evidenza irrinunciabile.
Persino esperienze significative di dialogo tra associazioni femministe con gruppi di uomini impegnati nella lotta alla violenza nei confronti delle donne subiscono i contraccolpi dell’assalto che il transfemminismo intersezionale sta portando alla differenza sessuale in nome dell’inclusione dei soggetti non binari. Anche Doranna Lupi in I sessi sono due come oltraggio all’inclusività porta come esempio paradigmatico una vicenda avvenuta a Pinerolo, la sua città, di cui è stata diretta testimone: la trasformazione dell’ottima prassi di celebrare la Giornata del 25 Novembre con un simbolico incontro tra le donne e gli uomini, che avevano intrapreso un percorso di presa di coscienza e di fuoriuscita dalla violenza sulle donne, in una anonima e neutra occasione di lotta contro la ‘violenza di genere’, dove la ‘donna’ sparisce per lasciare il posto a tutte le altre ‘identità’ e la Giornata finisce per celebrare la lotta contro la violenza nei confronti di chi non si sa, da parte di chi nemmeno.
Laura Minguzzi in Vietato dire donna si chiede se del vecchio ordine patriarcale tramontato non sia rimasta la pesante eredità della misoginia, che si manifesta con la cancellazione delle “donne di sesso femminile” in nome dell’inclusività, della nuova morale dettata dal politicamente corretto. Tutto è iniziato, secondo l’autrice, quando si è preso a banalizzare l’esperienza della nascita e a negare la “disparità/asimmetria” tra donne e uomini nella procreazione dissolvendo così il fatto fondativo della differenza sessuale in una generica e neutra attività generativo-produttiva. Il risultato è che pur essendoci liberate dal patriarcato ci vediamo ricacciate, ad opera di fratrie violente quanto pervasive, nel “cono d’ombra dell’insignificanza… e rappresentate da un neutro indifferenziato che si propone di cancellare la madre”.
In Il femminismo al tempo del RUNTS Laura Piretti riporta un esempio eclatante di quale assurda conseguenza arrivi a comportare l’ossessione paritaria nell’applicazione di norme che regolano aspetti qualificanti della vita politica come l’agibilità di spazi pubblici da parte dell’associazionismo femminile. Si riferisce all’avviso, rivolto dal RUNTS (Registro unico nazionale del terzo settore) dell’Emilia- Romagna ad alcune sedi UDI della regione, di non conformità dei loro statuti alle regole di “democraticità e apertura che devono caratterizzare le APS” in quanto queste, prevedendo l’iscrizione di sole socie, discriminerebbero gli uomini; vale a dire che una gloriosa istituzione nata dai Comitati di difesa della donna che porta il nome Unione Donne Italiane dovrebbe aprirsi agli uomini per avere riconoscimento pubblico…
Tocca in ultimo a Stella Zaltieri Pirola denunciare in “Per me le cose sono due” lo svuotamento che sta subendo la parola ‘femminismo’ qualora venga “utilizzata per finalità contrarie agli interessi delle donne” e la risignificazione cui va incontro quando si presenta accompagnata dai prefissi trans e post o quando alla desinenza si sostituisce l’asterisco o la schwa. La neo-lingua che viene avanti si accompagna non a caso con un uso sempre più degenerato del principio dell’autodeterminazione, che viene ormai esteso fino alla vendita del corpo per pornografia, prostituzione o Gpa; ne consegue così che mentre ci si adopera per esecrare la violenza domestica, si finisce per acclamare la violenza sessuale a pagamento.
Le vicende paradossali e persino grottesche raccontate nei dieci interventi richiamano tutte in qualche modo la storia del disegno di legge Zan, ricordata da Francesca Izzo nell’introduzione alla raccolta; una proposta di legge che, pur riscuotendo un ampio consenso intorno alla lotta all’omotransfobia, ha finito per cadere a causa delle rigidità sul principio dell’identità di genere, proprio quello su cui molte femministe avevano sollevato obiezioni e proposto modifiche che erano state respinte dai sostenitori e bollate come “assist alle pulsioni omofobe e reazionarie”. Tutto ciò- sostiene Francesca Izzo- rivela la “crisi dissolutiva delle culture politiche” che stanno alla base della nostra democrazia, la loro inadeguatezza a confrontarsi col nuovo protagonista della storia che è la libertà femminile.
Non si può non convenire sull’evidenza che le politiche democratiche ad oggi non solo non sono state in grado di andare oltre l’orizzonte della parità ma rivelano sempre più dimestichezza con l’idea, prevalente nel mondo Lgbtq+ (di grande successo anche nel mainstream mediatico e accademico), che per affrontare alla radice la discriminazione nei confronti delle donne si debba annullare la differenza sessuale. Siamo al punto in cui sostenere l’indifferenziato e il neutro è di sinistra e progressista, parlare invece di ‘donne’ e ‘uomini’ anziché genericamente di ‘persone’ è retrogrado e reazionario. C’è da chiedersi dove si vuole arrivare, a quale deriva di civiltà si stia andando incontro. Il libro lancia un allarme che non deve restare inascoltato, ma va accolto e rilanciato, per le generazioni future e per il rispetto delle donne che negli ultimi due secoli hanno lottato per farci uscire dal “cono d’ombra”.
(https://eredibibliotecadonne.wordpress.com/, 18 settembre 2024)
di Alberto Leiss
Non cessa lo spettacolo inquietante e misero di un mondo in cui sentiamo le nostre vite appese ai cattivi sentimenti di uomini che stanno lì a misurarsi il missile dalla gittata più lunga. Tra Ucraina, con i suoi alleati, e Russia, o tra Israele e gli Houthi dello Yemen. In mezzo la tragedia degli uomini, delle donne e dei bambini che muoiono, anche in altre parti del mondo, a migliaia, decine e centinaia di migliaia. Soldati e civili.
Oggi me la cavo citando due testi che osano parlare della politica come amore. A prima vista non sembra che ci siano relazioni possibili tra il “dialogo notturno” che intrattiene un uomo con la persona che ama, addormentata (ma il suo corpo forse è in ascolto), e la pluralità di voci diurne femminili e femministe (ma c’è anche qualche voce maschile) che si susseguono in incontri alla Libreria delle donne di Milano. Femminismo mon amour, è il titolo del volumetto che raccoglie questi ultimi. Riunioni domenicali sotto il segno della storica rivista Via Dogana, che da un po’ di anni è un luogo virtuale sul web, ma che ora sente il bisogno di riprodurre anche una testimonianza cartacea.
Eppure è proprio Lia Cigarini, tra le fondatrici della Libreria (spazio che l’anno prossimo celebrerà mezzo secolo di vita) a citare l’autore in questione: «…molti uomini l’hanno già capito, dopo il disastro della politica maschile, che quella del partire da sé e della relazione è una forma politica viva ed efficace…». E in nota si legge: Niccolò Nisivoccia, Il silenzio del noi, Milano 2023. Un altro piccolo libro di cui mi è capitato qui di parlare. Del testo più recente, Un dialogo notturno, ha scritto su queste pagine Alberto Fraccacreta. Io mi limito a due citazioni: «L’amore è un discorso, innanzitutto, è una conversazione…». «…secondo me non esiste differenza fra la politica e l’amore, fra l’amore e la politica. Anche la poesia: è politica anche quando nasce come poesia d’amore. L’amore come gesto anche politico, quindi; e la politica come forma d’amore, come forma di cura, come gesto concreto».
Anzi tre. Citazione di una citazione. Il padre del bambino morto su quella spiaggia turca, che ci aveva tanto commosso, quasi 10 anni fa. «Vi prego, chiamatelo Ãlãn e non Aylan, come hanno scritto tutti i media del mondo…». Un’imprecisione da poco? Ma sbagliare un nome, da parte della politica e dell’informazione, parla di una commozione finta. «Teniamo la vita a debita distanza, non vogliamo che ci tocchi…».
Amore e linguaggio diventano politica, cambiano le cose, solo se si incarnano nelle vite, nei nostri corpi, nelle relazioni con altre e altri. Forse questa è la chiave per leggere anche Femminismo mon amour. C’è una traccia forte nei 4 capitoli del libro, che corrispondono a altrettanti dialoghi. “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare”. Dalle domande su quanto resta vivo di invenzioni e esperienze del passato, al che pensare e che fare oggi, come interpretare le emergenze che viviamo. Delle tante opinioni e analisi espresse, mi resta l’ansia e la passione per la ricerca delle parole giuste e attuali. E anche la convinzione che l’amore e l’amicizia «è politica in quanto ha a cuore il mondo»: c’è un terzo tra noi due. E questo può avvenire anche se non c’è «accordo con l’altra».
Qualcosa di fondamentale quando anche il femminismo è attraversato da conflitti acuti. E che mette in guardia tutti dalla trappola delle identità chiuse e contrapposte.
(il manifesto, 17 settembre 2024)
di Chiara Cruciati
C’è sempre un albero. Nei ricordi e nei racconti di chi giunge nel Levante c’è sempre un albero. Spesso più di uno. A volte non è un albero, è un arbusto o un campo coltivato. Un essere vivente inanimato – i nonumani li chiama Paola Caridi – fa sempre da sfondo a una narrazione, un viaggio, un’avventura, una scoperta. Da sfondo o, ancora più spesso, da protagonista: che sia dove ha le sue radici, o dentro una cucina dove i suoi frutti si preparano a far danzare il palato, nell’esplosione di un sapore insolito, ma familiare.
C’è sempre un albero, e stupisce non averci pensato prima. C’è quando in un angolo di Palestina ci si sente a casa – «sembra la Puglia», «sembra l’Umbria» – o quando la prima volta si resta a bocca aperta perché il Levante è lì, a due passi, appena al di là del Mediterraneo, eppure l’immaginario europeo è irragionevolmente piatto e banale: deserto, sabbia, rocce, venti caldi.
E invece no, in un fazzoletto di terra convivono e si danno il cambio tanti habitat diversi, tante biodiversità, dal mare alla collina, dal deserto alle foreste del nord.
L’AMBIENTE non è uno sfondo, o una coreografia. È parte integrante delle storie e della storia. E allora leggereIl gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi significa davvero addentrarsi in un manifesto di botanica politica. Scritto dalla giornalista e autrice Paola Caridi, edito da Feltrinelli (pp. 160, euro 17), ricorre ai ricordi personali e alla leggenda, agli archivi e all’attualità per provare a raccontare la storia del Medio Oriente dal punto di vista di chi c’è e c’è sempre stato, silenzioso ma inevitabile, sfruttato, servito, amato o perduto.
Nei complessi equilibri regionali la flora ha un ruolo, anzi ne ha tanti: strumento di propaganda sionista agli inizi del Novecento (il deserto da far fiorire), ancora a cui aggrapparsi per mantenere un legame con la propria terra (le arance di Giaffa nell’immaginario dei rifugiati palestinesi e l’appropriazione successiva dello Stato di Israele, a dire «noi possediamo questa terra»), bacino di sfruttamento del colonialismo europeo (i gelsi libanesi e la catastrofe annunciata), alleato inconsapevole della rimozione (i pini importati dall’Europa dal Jewish National Fund per assecondare il gusto del nuovo arrivato e occultare il peccato originale, la distruzione dei villaggi palestinesi).
Nel caso palestinese è la memoria di una presenza, lo è la flora in sé ma lo è anche il modo in cui si è intrecciata alle vite delle persone, fin dall’antichità assecondata perché fornisse l’opulenza dei suoi frutti. La rete idrica di Battir, meritevole del riconoscimento dell’Unesco, sta là a testimoniare l’equilibrio con la terra, come i giardini in miniatura che spuntano sui terrazzi nelle viscere dei campi profughi stanno a testimoniare il sollievo antico di uno spazio verde, ampio e senza confini.
CARIDI, profonda conoscitrice della regione, dove ha vissuto per anni, ci regala una piccola perla, inusuale e inattesa, un viaggio storico e politico dalle tinte fosche ma che non tace la dolcezza: la bellezza che emerge dalle pagine, il colore e il sapore del nonumano che è sempre lì, presente. Testimone silenzioso o quieto alleato, quando segnala la vita che fu. Come i fichi d’india: vecchie linee di confine, continuano a crescere nei villaggi palestinesi svuotati con la Nakba e guidano alla scoperta dei resti di case e piazze. O come i sicomori alla cui ombra dolce tante storie sono state narrate e trasmesse; o lo za’atar, il timo della tradizione culinaria, la cui raccolta è una sfida ai divieti posti dalle autorità israeliane, perché a volte basta un sapore o un odore per sentirsi a casa propria.
Il libro di Paola Caridi è un atto politico in un periodo di buio della ragione, una sfida al colonialismo che fu e che è, che come Israele modifica i luoghi per piegarli alla propria immagine o che come quello europeo dei secoli scorsi impone monocolture feroci o si impossessa della terra battezzando a proprio gusto i nonumani. Come se un nome non ce l’avessero già. Sono parte della famiglia.
(il manifesto, 17 settembre 2024)
di Ombretta De Biase
Un video in cui si narra la storia di un libro eretico medievale e della sua Autrice, una donna morta sul rogo per aver rifiutato di rinnegarlo.
Conobbi l’esistenza di questo libro molti anni fa quando incontrai casualmente la filosofa Luisa Muraroche mi chiese di tradurre in forma teatrale un manoscritto mistico di una donna del trecento intitolato Lo specchio delle anime semplici, scritto in medio-francese e in forma dialogata. Fu come un colpo al cuore fin dalle prime righe e, da allora, ho cercato di divulgarlo in teatro e ora con il video Margherita Porete, il libro e la vita in cui racconto le parti più laicamente accessibili del libro e anche la storia della sua Autrice. Una storia che venne alla luce a sei secoli di distanza, nel 1946, quando la studiosaRomana Guarnieriscoprì, in un verbale dell’Inquisizione di Parigi, che quel sublime libretto non era stato scritto da un ignoto monaco, come credette anche Simone Weil, ma da una donna, certa Margherita, detta Poirette da Valenciennes.Il predetto verbale riportava che lei non si era pentita ed era rimasta in prigione per due anni in totale silenzio, fino alla sua morte come eretica relapsa, cioè non pentita. E dunque il video persegue l’intento di far conoscere in estrema sintesi tutta questa stupefacente storia, a mio avviso più significativa di quella ben più celebre di Giovanna d’Arco.
La realizzazione è stata possibile grazie alla sensibilità e collaborazione di attori e attrici del calibro di Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e di Paolo Tedesco che ha anche realizzato il filmato con alta professionalità e perfetta aderenza al mio intento.
Lo specchio delle anime semplici è oggi universalmente considerato dagli studiosi uno dei massimi capolavori della letteratura spirituale di tutti i tempi e paragonato alle opere di Platone, Hegel, Spinoza e, come livello di scrittura, alle opere di Dante e Shakespeare.
Bibliografia essenziale di riferimento
Romana Guarnieri, “Quando si dice il caso”, rivista Bailamme, 1990
Luisa Muraro, Lingua materna scienza divina, M. D’Auria editore,1995
ead., Le amiche di Dio, a cura di Clara Jourdan, M. D’Auria editore, 2001; 2a ed. Orthotes 2014
ead., Il Dio delle donne, Mondadori, 2003; Marietti, 2020
Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, ed. San Paolo, 1996
(www.libreriadelledonne.it, 17 settembre 2024)
di Francesca Luci
Settembre 2022. Da anni la società iraniana vive delusione e amarezza. La pesante pressione delle sanzioni economiche occidentali, l’alto costo della vita e l’inflazione, insieme a un potere statale oppressivo che nega libertà e dissenso, provocano una depressione nazionale, una diffusa stanchezza e una passività collettiva.
La speranza di rilanciare l’accordo sul nucleare è ai minimi quando, il 13 settembre, una giovane donna viene fermata a Teheran per non aver rispettato il copricapo islamico. Tre giorni dopo, il 16, Mahsa Amini muore mentre è ancora in custodia dei servizi di sicurezza. La tragedia risveglia la rabbia repressa della società, ridando voce a corpi un tempo silenziosi.
Le donne, represse per anni all’ombra dell’umiliazione, diventano la forza di cambiamento, trascinando in piazza migliaia di ragazze e ragazzi, donne e uomini, riuniti in una solidarietà nazionale in tutte le città dell’Iran e tra gli iraniani nel mondo. Il potere reagisce con una repressione brutale su vasta scala. In pochi mesi, il movimento «Donna Vita Libertà» paga un pesantissimo tributo in termini di vite umane: secondo alcune stime 550 persone, tra cui 68 bambine, vengono uccise.
Le manifestazioni diminuiscono con il passare dei mesi, ma le proteste assumono la forma di disobbedienza civile: boicottaggi di eventi governativi, proteste simboliche, rifiuto di pagare le nuove tasse e mancanza di collaborazione. Intanto giovani ragazze continuano a mostrarsi pubblicamente senza copricapo, sfidando i mille controlli e rendendo di fatto irreversibile in pratica un diritto che il governo rifiuta di riconoscere. La nuova legge proposta dal governo conservatore nel 2022 sul copricapo delle donne viene bloccata in un ping pong tra il parlamento e il Consiglio dei Guardiani.
Oggi, due anni dopo, il sistema subisce un forte choc dopo che la maggioranza della popolazione diserta le urne delle elezioni parlamentari del primo marzo 2024, segnando la percentuale di partecipazione più bassa della storia della Repubblica islamica. La nomenclatura ha la conferma di non avere più l’appoggio della maggioranza delle classi sociali su cui aveva costruito il suo potere. La morte del presidente conservatore Raisi, a maggio, dà la possibilità al regime di ricorrere a ripari abbandonando il piano di uniformare politicamente il paese e aprendo alla formazione di un governo riformista.
Secondo molti analisti iraniani, l’apertura del sistema a i riformisti è un effetto diretto del movimento cominciato due anni fa che ha avuto il merito di mettere in luce una frattura profonda tra la popolazione e il potere. Un passo avanti, anche se dall’insediamento del moderato Pezeshkian, avvenuto il 28 giugno di quest’anno, non ci sono stati segni di sensibile cambiamento percepiti dalla popolazione.
Tuttavia, si nota un maggior cambiamento nella politica estera del paese. La mancata (per ora) ritorsione promessa dalla Repubblica islamica in risposta all’uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, eseguita da Israele secondo molti osservatori, è considerata il primo risultato del governo Pezeshkian.
L’apertura dei negoziati sul nucleare per rimuovere le sanzioni e migliorare la situazione economica del paese rimane l’obiettivo centrale del governo iraniano, anche se emergono segnali contrastanti. La fornitura di 200 missili balistici alla Russia non sembra allinearsi al tentativo di ridurre le tensioni con l’Occidente, anche se l’Iran l’ha smentita.
Perseguendo la nuova politica estera, Pezeshkian – dopo la sua prima visita ufficiale a Baghdad l’11 settembre – è diventato il primo presidente iraniano a visitare il Kurdistan iracheno. La storica visita, con incontri a Erbil e Sulaimaniyah, ha cercato di bilanciare le relazioni con i due partiti curdi al potere e segna un miglioramento nelle relazioni, a meno di un anno dall’attacco iraniano contro presunti obiettivi israeliani a Erbil.
Per capire la prossima mossa di Pezeshkian per riavviare i colloqui sul nucleare con l’Occidente, bisognerà attendere la fine di settembre quando farà la sua prima apparizione internazionale all’Assemblea generale dell’Onu. Nel frattempo, la popolazione iraniana resta in attesa dei miglioramenti economici e sociali promessi dal nuovo presidente.
(il manifesto, 15 settembre 2024)
di Franca Fortunato
Nella vicenda Gennaro Sangiuliano – Maria Rosaria Boccia quello che mi ha interessata di più è il comportamento di Giorgia Meloni, che non perde occasione per sottolineare di essere una donna e alcune femministe le hanno dichiarato la loro simpatia per aver portato nella politica il “femminile”. Meloni è una donna che gode della libertà conquistata dalle femministe a cui deve se è arrivata dove è arrivata, ma di “femminile” in politica ha portato solo il suo corpo di donna, che ha subito cancellato facendosi chiamare al maschile, il presidente. Per il resto le sue politiche e il modo arrogante di gestire il potere, come comando – da qui l’idea del premierato – la rendono simile ai suoi “Fratelli d’Italia”. Delle sue politiche contro le donne basta ricordare l’apertura dei consultori alle associazioni pro-vita, col fine di dissuadere le donne che decidono di abortire, colpevolizzandole. E che dire del suo bellicismo a oltranza? Del suo decreto Cutro fatto per impedire alle Ong di salvare vite umane in mare? Ma torniamo a Sangiuliano e Boccia. Mi chiedo che cosa ha fatto o detto Meloni di fronte alla potenza politica e mediatica della destra che si è scatenata contro la donna, per screditarla e renderla non credibile agli occhi dell’opinione pubblica? È andata in Tv per difendere il ministro e farsi garante della “sua” verità, smentito poi da Boccia. Ha liquidato la vicenda come gossip e questione personale e ha umiliato la donna chiamandola “quella persona”. Niente c’è di più politico di questa vicenda in quanto ha a che fare con i rapporti tra uomini e donne. Il punto politico, come scrive Ida Dominijanni su fb, è l’idea di «molti uomini politici che prendono il proprio potere come licenza sessuale, lo usano di conseguenza pensando di avere a che fare con delle bambole mute invece che con donne dotate di parola che prima o poi la usano per confutare le loro menzogne», come hanno fatto con Berlusconi Patrizia D’Addario e le olgettine pentite, e Maria Rosaria Boccia con Sangiuliano. Torna il passato e Meloni non si contraddice. Anche allora difese Berlusconi liquidando la vicenda che metteva a nudo un “sistema di scambio tra sesso e denaro” come “vicenda privata”, votò in parlamento senza scomporsi sulla nipote di Mubarak mentre la stampa di destra si scagliò violentemente contro quelle donne per screditarle. Non fu risparmiata neppure l’“ingrata” Veronica Lario per aver denunciato il “lerciume” di quel sistema. Oggi, come allora, per discreditare una donna la si accusa di essere “falsa”, “infida”, bugiarda”, “arrampicatrice”, “seduttrice”, “ricattatrice”, “spia”. Meloni non ha dato, oggi come ieri, alcun credito alla parola di una donna neppure quando Boccia rispondendo alla domanda “perché ha registrato tutto da un certo punto in poi?”, ha detto: «Perché il ministro mi ha detto una frase che mi ha colpito molto. Ha detto: “Io sono il ministro, io sono un uomo, io rappresento l’istituzione e in futuro nessuno crederà a tutto quello che tu dirai”». Quanta misoginia c’è in queste parole! Quanta protervia per il solo fatto di essere un uomo! Quanta arroganza del potere! All’uomo tutto è perdonato, per la donna nessun rispetto. «Non credo di dovermi mettere a battibeccare con questa persona – dice Meloni ai giornalisti – lo dico per tante donne che hanno guardato a questa vicenda come me. La mia idea di come una donna debba farsi spazio nella società è completamente diversa da quella di questa persona» considerata meno di “niente”. Comunque, al di là di tutto, di questa vicenda resta il fatto che le donne parlano, non accettano più di stare zitte e sfidano gli uomini di potere pur sapendo cosa rischiano e a volte fanno dimettere ministri e cadere governi, come nel caso di Berlusconi.
(Giorgia Meloni e la faccenda Sangiuliano-Boccia, Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 14 settembre 2024)
(Il Quotidiano del Sud, 14 settembre 2024)
di Antonella Mariani
Un anno fortunato, per Fatou Baldeh: due premi prestigiosi ricevuti a Washington (International Women of Courage Award, 8 marzo) e a Ginevra (International Women’s Rights Award, 15 maggio). E lei, attivista contro le mutilazioni genitali femminili, sopravvissuta al “taglio” (così lo chiama, the cut) subìto a 8 anni, ad Avvenire dice che è orgogliosa di tanta visibilità, per sé stessa e il suo lavoro, ma soprattutto perché le ragazze del suo Paese, il Gambia, che non hanno opportunità e pensano di non poter far altro della propria vita che sposarsi molto giovani e aver molti figli, guardando lei potranno capire che sì, anche una donna può cambiare il mondo.
Un modello di ruolo, dice parlando su Whatsapp dal suo ufficio a Brusubi, località sulla costa atlantica a pochi chilometri da Banjul, la capitale di questo piccolo Paese dell’Africa occidentale, 2,5 milioni di abitanti, tutto stretto dentro il territorio del Senegal. Fatou Baldeh, appena superati i 40 anni, sorriso aperto, inglese sciolto e velocissimo, una gran massa di capelli scuri che le incorniciano il volto affilato, è la fondatrice e la presidente di Will, Women in Liberation & Leadership. «Siamo in 8, tutte “tagliate” (infibulate, ndr): giriamo per villaggi e comunità rurali a parlare con gli abitanti per spiegare che le mutilazioni non sono un bene per le donne, che provocano malattie fisiche e mentali e che tradizione e abitudini si possono cambiare».
Un lavoro difficile, in un Paese che detiene il record mondiale del 75% di ragazze e donne sottoposte a mutilazioni genitali (Fgm) nonostante dal 2015 esista una legge che le vieta. «Io stessa, quando da ragazza sono andata in Scozia per procurarmi un’istruzione, pensavo che la mia situazione fosse normale. Ho dovuto leggere e studiare molto per capire che è una tortura, deleteria per la salute fisica e psichica. Sono tornata in Gambia con l’obiettivo di aiutare il mio Paese a svilupparsi, a crescere. Nessuno può farlo per noi, dobbiamo impegnarci noi gambiani. Ma il “taglio” ha radici profonde nella nostra società, nelle credenze e nelle superstizioni, è parte della nostra identità, considerato un rito di passaggio all’età adulta e spesso sono le nonne che lo impongono alle nipoti. Talvolta mi trattano come se fossi una traditrice dei valori tradizionali, mi accusano di essermi fatta corrompere dall’ideologia occidentale. Serve tempo e soprattutto educazione».
Quando è accaduto a lei, non sapeva cosa stesse succedendo, c’erano altre 10 bambine, furono stese a terra e una donna iniziò a inciderle gli organi genitali, senza farmaci, senza antidolorifici, solo con un coltellino affilato. «Può immaginare quanto è stato traumatico», dice. Fu trattata per diversi giorni con acqua e sale e impacchi di erbe, lei non smetteva di piangere dal dolore. Quando la ferita si rimarginò, ci fu una grande cerimonia, una festa. Era diventata grande. Le mutilazioni genitali femminili sono talmente radicate in Gambia che lo scorso luglio per un soffio non è stato abrogato il divieto del 2015, rendendo nuovamente legale ciò che ancora viene praticato ma perlomeno fuorilegge.
«È stata la prima volta che ho visto le donne del mio Paese lottare per se stesse», racconta. «Per fortuna la legge non è passata e il bando alle Fgm è rimasto. Ero contenta, ma anche arrabbiata: un Parlamento di soli uomini (58 i seggi, solo 5 le donne, ndr) ha messo a repentaglio la salute e la vita delle ragazze del Gambia».
La donna a cui Fatou si ispira – racconta – è la madre, che prima si opponeva al suo lavoro e oggi è la sua prima supporter, tanto da aver salvato una nipote, la prima della famiglia a non essere stata “tagliata”. Ma non sono solo le Fgm a rendere inquieta e nello stesso tempo combattiva Fatou: la violenza di genere è così endemica in Gambia che «le donne pensano di meritarsi le botte dai mariti se escono senza il loro permesso. E purtroppo nel Paese non esistono case di accoglienza, strutture che possano salvarle. Vengono da noi, facciamo il possibile, ma non riusciamo a dare sufficiente protezione. Questo mi rende tristissima». Fatou è sposata e ha due figli maschi. E questa è la sfida della sua vita: «Crescere ragazzi che rispettino le donne e le diversità. Da qui inizia il vero cambiamento».
(Avvenire, 12 settembre 2024)
di Antonella Mariani
La “gestazione per altri” sta cambiando i suoi equilibri: la guerra in Ucraina ha fatto spostare le rotte dei commerci sulle mamme in affitto verso Tblisi. E non solo. Ma lo squallore resta uguale
In Georgia molti tirano un sospiro di sollievo: la temutissima legge che avrebbe messo al bando la Gestazione per altri (Gpa) per le coppie straniere a partire dal primo gennaio 2024 è definitivamente naufragata, seppellita sotto le pressioni delle cliniche e dei mediatori che accolgono clienti da ogni parte del mondo. Presentata a giugno 2023 dall’allora primo ministro conservatore Irakli Garibashvili (dimessosi nel gennaio scorso) come un passo necessario per fermare lo sfruttamento delle donne e il potenziale traffico di neonati, messa a punto dal Ministero della Salute e appoggiata dalla Chiesa ortodossa georgiana, la bozza di legge, che avrebbe permesso la sola Gpa altruistica ai propri cittadini, è vissuta fino alla terza lettura in Parlamento, poi non se ne è saputo più nulla. Necessita di ulteriori approfondimenti, è stato detto in via ufficiale, ma secondo altre versioni – compresa quella del quotidiano francese La Croix che al tema della Gpa in Georgia ha dedicato nei giorni scorsi un approfondito reportage – sono state le cliniche «a saper convincere il governo della manna finanziaria che maneggia questa industria».
Quindi il business continua. Le cliniche, nei loro siti, hanno provveduto a rassicurare le coppie straniere (ammessi solo gli eterosessuali, sposati o conviventi, in possesso di certificato medico di infertilità o altre patologie). Salvo poi suggerire che in caso di ripensamento del Parlamento c’è già una soluzione pronta. Sul sito di Vireo, ad esempio, si informa della possibilità di spostare le proprie attività nella vicina Armenia. Intanto si affaccia con prepotenza sul mercato dell’utero in affitto l’Albania, con i suoi prezzi ancora più convenienti. La Georgia si è affermata come destinazione per le coppie committenti dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha fatto saltare centinaia di contratti. Le tariffe sono competitive: il pacchetto completo in una delle 25 cliniche che operano in un Paese di 3,7 milioni di abitanti costa intorno ai 50mila euro, un terzo di quanto si spende negli Usa. Alle madri portatrici arrivano all’incirca 20mila euro. Tanto, per nove mesi di lavoro, se si pensa che il Pil pro capite del Paese è circa 8mila euro.
Il problema sono proprio loro, le madri: nonostante le garanzie di trasparenza e tutela sbandierate dalle cliniche, le testimonianze raccolte da alcune testate giornalistiche e anche dalla piccola Chiesa cattolica con il suo Ufficio per la vita e la famiglia parlano di donne molto povere, incapaci di mantenere sé stesse e i figli, in cerca di una possibilità per acquistare un piccolo appartamento o semplicemente sopravvivere. Il boom della domanda – nel 2022, dicono i dati, in Georgia sono nati 2.000 bambini con la Gpa – rende difficile trovare abbastanza giovani donne disposte a portare avanti una gestazione per altri. Così le agenzie si rivolgono alle vicine Repubbliche centro-asiatiche, Kazakhistan in testa. Lo status del bambino, spiegano ancora i centri per la Gpa, è molto chiaro: è figlio, fin da subito, della coppia committente, o almeno così appare sui documenti. Ma non sempre tutto fila liscio, né tutte le ambasciate sono disposte a chiudere un occhio.
Così è accaduto che una coppia italiana al suo rientro in patria si sia vista contestare, con un avviso di garanzia, la dichiarazione di nascita del neonato. Le accuse poi sono state archiviate dalla Procura di Piacenza. Una vera e propria industria, quindi, con risvolti problematici sul piano dello sfruttamento delle donne più vulnerabili. Questa è una delle motivazioni che hanno portato l’aula di Montecitorio ad approvare nel luglio 2023 la legge che descrive l’utero in affitto come reato universale, cioè contestabile a cittadini italiani dovunque sia commesso. Si attende il passaggio al Senato.
(Avvenire, 12 settembre 2024)
di Martina Ferlisi
Quasi 17mila vaccini contro morbillo, parotite e rosolia, un milione di alberi piantati, 535 case convertite all’energia solare. Sono solo alcuni esempi di quanto si potrebbe ottenere se Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, India, Israele, Pakistan e Corea del Nord decidessero di destinare rispettivamente un secondo, un minuto e un’ora della loro spesa per la produzione e manutenzione delle armi nucleari a rispondere ai reali bisogni delle persone.
Li ha conteggiati la Campagna internazionale per la messa al bando delle armi nucleari (Ican) –insignita del Premio Nobel per la pace nel 2017 –, coalizione di più di seicento organizzazioni in cento Paesi, impegnata nella lotta per l’abolizione delle armi nucleari e nella promozione per la firma del Trattato per la loro proibizione (Tpnw), approvato dalle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 e attualmente ratificato da settanta nazioni, tra cui non c’è l’Italia.
Dal 16 al 22 settembre ha infatti lanciato una settimana di mobilitazione dedicata all’attivazione contro l’assurda quantità di denaro destinata alle armi nucleari con lo slogan: “No money for nuclear weapons – Niente soldi per le armi nucleari”.
I programmi sulle armi nucleari tolgono fondi pubblici all’assistenza sanitaria, all’istruzione, ai soccorsi in caso di calamità e ad altri servizi vitali. Ci sono pertanto 91,4 miliardi di altri impieghi per cui questo denaro potrebbe essere investito meglio che corrispondono ai 91,4 miliardi di dollari di spesa annua –173.000 dollari al minuto o 2.898 dollari al secondo – sostenuta dai nove Paesi dotati di armi nucleari per i loro arsenali, secondo l’ultimo rapporto dell’Ican “Surge: Global Nuclear Weapons Spending 2023”.
Nello specifico sono gli Stati Uniti a spendere la quota maggiore, pari a 51,5 miliardi di dollari e superiore a quella di tutti gli altri Paesi dotati di armi nucleari messi insieme. A seguire, troviamo la Cina che ha speso 11,8 miliardi di dollari e, al terzo posto, con 8,3 miliardi di dollari, la Russia.
Dal report emerge inoltre che la spesa è aumentata del 13,4%, pari a 10,8 miliardi di dollari, rispetto all’anno precedente. La cifra è in crescita già da alcuni anni. Allo stesso tempo i dati del rapporto annuale dello Stockholm international peace research institute (Sipri) sullo stato degli armamenti del 2023, rilevano che all’inizio del 2022, il numero complessivo di testate nucleari nel mondo era in diminuzione.
“Quello che sta succedendo, e che penso sia molto grave, è che i Paesi in possesso di armi nucleari affermano che non ricorreranno mai a queste perché sono troppo pericolose, troppo distruttive –commenta Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete italiana pace e disarmo. – Eppure, guardando i numeri, i Paesi stanno investendo le loro risorse non tanto in termini quantitativi ma qualitativi, stanno cioè ammodernando i propri arsenali, le proprie testate, i propri lanciatori e questo è in contraddizione con le loro dichiarazioni.”
Secondo Vignarca campagne come quella lanciata da Ican sono quindi fondamentali non solo a livello comunicativo per accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica sulle spese nucleari, soldi pubblici di cui il settore privato ha guadagnato almeno il 30%, “ma servono anche a rendere evidente la direzione dello sviluppo strategico delle armi nucleari – osserva Vignarca. – Contrariamente a quanto viene detto, sono un pericolo reale in quanto stanno diventano sempre più centrali per le superpotenze, e questo non ci fa stare tranquilli”.
La Rete pace disarmo, in Italia uno dei partner principali di Ican, aderisce e promuove la settimana che sarà l’occasione per organizzare momenti di confronto e webinar in collaborazione con Ican stessa, pubblicare materiale di approfondimento e rilanciare i dati della campagna internazionale focalizzandosi sul nostro Paese.
Sarà importante anche ampliare la discussione e far emergere quanto il tema delle spese nucleari sia strettamente connesso con quello del coinvolgimento delle banche che finanziano il settore. “Rendere chiaro questo aspetto può contribuire a orientare le scelte dei consumatori e spingerli a fare pressione affinché gli istituti finanziari siano più trasparenti e rendano conto dei loro investimenti”, spiega Vignarca.
Con Rete pace e disarmo ci sarà anche la campagna Senzatomica. Insieme dal 2016 promuovono la mobilitazione “Italia, ripensaci” per l’adesione del nostro Paese al Trattato di proibizione delle armi nucleari.
“Questa settimana di mobilitazione ci aiuta a rilanciare un’idea che noi promuoviamo da quando siamo nati, nel 2011: il fatto che sia necessario rimettere al centro le persone e la società civile – dice Alessja Trama coordinatrice delle politiche e della ricerca di Senzatomica. – È così diffuso il senso di impotenza e rassegnazione sul tema del nucleare, alimentato anche dall’assenza di dibattito pubblico in merito, che uno dei lavori più impegnativi per noi è quello di andare a disinnescare questo sistema di convinzioni che finisce per rendere accettabile la loro esistenza.”
Senzatomica lavora quindi principalmente con i giovani, attraverso laboratori nelle scuole e una mostra itinerante, multimediale e gratuita che dal 2011 ha raggiunto 420mila persone in più di 80 città. L’obiettivo è quello di aiutarli a prendere consapevolezza affinché rivendichino un mondo senza armi nucleari e rifiutino il paradosso della sicurezza fondata su queste. Come è possibile parlare di sicurezza ricorrendo agli gli unici dispositivi mai creati in grado di distruggere tutte le forme di vita complesse sulla Terra? Second Ican, basterebbe infatti meno dello 0,1% della potenza esplosiva dell’attuale arsenale nucleare globale per provocare un devastante collasso agricolo e una carestia diffusa.
Nonostante ogni 29 agosto si celebri la Giornata internazionale delle Nazioni Unite contro i test nucleari e si ribadisca l’impatto negativo dello sviluppo di questi ordigni inumani sulle comunità che vivono nelle vicinanze dei luoghi di queste esplosioni. E nonostante il prossimo anno ricorreranno gli ottant’anni dalle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. C’è ancora bisogno di parlare di armi nucleari.
(Altreconomia, 11 settembre 2024)