Valeria Herklotz, Chaos, Oui Non Editions, 2022. Un’avventura fotografica che riflette sul tema della corporeità, della rappresentazione e della libertà femminile: giovani donne che interagiscono attraverso i corpi, in una danza che è liberazione, scoperta di sé, interrelazione. Giorgia Basch, art director e visual practitioner, dialoga con Valeria Herklotz, fotografa, e con l’editrice Angèlique Piliere.


Le copie del libro sono disponibili alla Libreria delle donne, in esclusiva italiana (scrivere a info@libreriadelledonne.it per richiederle).

Valeria Herklotz, Chaos, Oui Non Editions, 2022. Un’avventura fotografica che riflette sul tema della corporeità, della rappresentazione e della libertà femminile: giovani donne che interagiscono attraverso i corpi, in una danza che è liberazione, scoperta di sé, interrelazione. Giorgia Basch, art director e visual practitioner, dialoga con Valeria Herklotz, fotografa, e con l’editrice Angèlique Piliere.

Le copie del libro saranno disponibili alla Libreria delle donne, in esclusiva italiana.

di Umberto Varischio


Sabato scorso l’assemblea nazionale del PD ha deciso di permettere la candidatura al ruolo di segretaria/o anche a chi attualmente non è iscritta/o; questo atto potrà consentire a Elly Schlein di aggiungersi a Paola De Micheli, iscritta e già candidata.

Dopo una donna diventata effettivamente presidente del consiglio e «un uomo che può portare avanti politiche femministe» (Letta dixit), finalmente anche in quello che si (auto)considera il partito leader del progressismo italiano è almeno possibile che venga eletta una segretaria, la ex vicepresidente della regione Emilia-Romagna; senza dimenticare la recente elezione di Mara Carfagna a presidente di Azione.

Indipendentemente dal fatto che non sono d’accordo con le posizioni di Schlein su GPA e ddl Zan (e anche su altro), come non sono assolutamente d’accordo con le posizioni e i primi atti di governo dell’attuale presidente del consiglio, mi sembra che, almeno dal punto di vista simbolico, si stia creando una situazione che può ulteriormente cambiare l’orientamento negativo riguardo a donne ai posti di comando che sinora ha dominato nel nostro paese. E nel febbraio 2023, oltre a una presidente del consiglio di destra, ne potremo avere anche un’altra in pectore come leader di uno schieramento progressista.

Potrebbe essere un ulteriore passo avanti; e lo sarebbe se il vero problema non fosse quello indicato storicamente dal femminismo della differenza, cioè che l’obbiettivo non può essere quello di conquistare i vertici della politica maschile, ma di cambiarla alla radice; e della situazione attuale noi uomini portiamo pienamente la responsabilità.


(www.libreriadelledonne.it, 23 novembre 2022)

di redazione


Il 20 novembre 2022 è morta all’età di 93 anni Hebe Pastor de Bonafini, la storica presidente delle “Madres de Plaza de Mayo”, associazione di donne che con un fazzoletto bianco in testa camminano ogni giovedì dal 1977 davanti al palazzo del governo. Fra gli scomparsi, sequestrati e catturati dai militari del regime argentino (1976-1983), c’erano due suoi figli, Jorge Omar e Raúl Alfredo, e sua nuora, María Elena Bugnone.

Hebe è stata più volte in Italia, indimenticabile l’incontro con lei e Mercedes Meroño alla Libreria delle donne di Milano nel 2001, in cui ci ha raccontato la modificazione delle Madres da vittime delle circostanze a protagoniste degli eventi, grazie a invenzioni simboliche e pratiche politiche radicali. Ricordiamo anche la laurea honoris causa all’Università di Bologna il 17 ottobre 2007.

Dal discorso da lei pronunciato in Plaza de Mayo il 30 aprile 2012 in occasione del 35° anniversario dell’associazione: «Ci sono cose molto forti: il ferro, il bronzo, il marmo. Ma mi sembra che più forte del cuore delle Madres non ci sia niente […] Noi non abbiamo fondato niente. Noi Madres abbiamo creato e abbiamo partorito. Abbiamo creato questa forma di lotta e di scontro senza volerlo e senza saperlo […]. Sentiamo la necessità di mettere il nostro corpo e di mettere quanto di meglio abbiamo perché un giorno, quando si parlerà di noi, si dica che noi Madres abbiamo partorito in continuazione, non soltanto figli meravigliosi, abbiamo partorito felicità, giustizia, amore, comprensione, solidarietà».


Ricordiamo i libri:

– Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo, Bompiani 2005; presentato in Libreria delle donne il 22 novembre 2005, https://www.libreriadelledonne.it/report_incontri/le-pazze-di-daniela-padoan/ e recensito per DWF / Mostrare il cambiamento, 1° dicembre 2005 da Laura Colombo, https://www.libreriadelledonne.it/letture/le-pazze-di-d-padoan/

– Non un passo indietro! Storia delle Madres de Plaza de Mayo, Ediciones Asociación Madres de Plaza de Mayo

– Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti del laboratorio di scrittura delle Madres de Plaza de Mayo, Ediciones Asociación Madres de Plaza de Mayo (sempre disponibile alla Libreria delle donne)


(www.libreriadelledonne.it, 22 novembre 2022)

di Claudia Fanti


Argentina in lutto per la morte di “Kika”, che ha chiesto una festa in Plaza de Mayo. L’avrà.


Non voleva essere ricordata come una «mujer maravilla», ma Hebe de Bonafini, scomparsa alle 9.20 di domenica all’età di 93 anni, di sicuro non è stata una donna comune. Nelle sue ultime volontà aveva chiesto che si pensasse a lei come una madre di 30mila figli scomparsi che non aveva mai smesso di lottare. E che non si piangesse la sua morte, ma si ballasse, si cantasse e si facesse festa a Plaza di Mayo, nel luogo che, dietro sua richiesta, ne accoglierà le ceneri. «Perché – ha lasciato scritto – ho fatto quello che ho voluto, ho detto quello che ho voluto e ho litigato per quello che ho voluto».

Ma se il governo ha decretato tre giorni di lutto, la festa che desiderava, come hanno annunciato le Madres de Plaza de Mayo, Hebe l’avrà giovedì, nella “sua” e loro piazza, là dove Kika, come la chiamavano gli amici, è diventata Hebe, un simbolo della resistenza alla dittatura, il dolore trasformato in lotta, un grido che ha saputo rompere il silenzio della maggioranza.

Non era lì il 30 aprile del 1977, quando, per la prima volta, 14 madri di ragazze e ragazzi sequestrati dai corpi di sicurezza della dittatura avevano protestato con il fazzoletto bianco sulla testa davanti alla Casa Rosada.

Ma si sarebbe unita a loro pochi giorni dopo, dedicando tutta se stessa prima alla ricerca dei suoi figli e poi anche a quella di tutti i figli e le figlie desaparecidos, in una rivendicazione di maternità collettiva.

Da allora, ogni giovedì, per i successivi 45 anni, lei e le altre madri avrebbero continuato a percorrere quella piazza, fermandosi solo durante la pandemia (ma anche allora proseguendo in modalità virtuale).

Hebe, nata in un quartiere popolare di Ensenada, aveva sposato Humberto Bonafini, operaio come suo padre, e poco tempo dopo aveva partorito Jorge, nel 1950, e, tre anni dopo, Raúl. Ma la sua vita felicemente ordinaria si era interrotta bruscamente l’8 febbraio del 1977, quando Raúl l’aveva chiamata per darle la notizia: si erano portati via Jorge. Poi, il 6 dicembre, era stato il turno di Raúl, due giorni prima che due delle Madri venissero sequestrate nella chiesa di Santa Cruz. Nel 1978 lo stesso destino avrebbe colpito anche sua nuora, la compagna di Jorge.

Nel 1979 Hebe era stata eletta presidente delle Madres, che poi, dopo il ritorno della democrazia, si sarebbero divise in due gruppi: da una parte l’associazione da lei guidata, dall’altra la Línea Fundadora. Una rottura dovuta a divergenze di natura personale – la sua gestione era considerata da alcune troppo autoritaria e verticistica – e soprattutto politica, a causa del suo rifiuto, non condiviso da altre associazioni di difesa dei diritti umani, ad accettare le esumazioni dei corpi («Il rivoluzionario non muore mai») e i risarcimenti («Ci ripugna prendere i soldi dalle stesse mani che hanno concesso l’impunità agli assassini»).

La sua lotta non si sarebbe più fermata, prendendo a bersaglio le forze armate genocide, le complicità di medici, giudici, vescovi e sacerdoti con il terrorismo di stato, le leggi dell’impunità di Alfonsín, gli indulti di Menem, gli appelli alla riconciliazione senza giustizia, gli orrori neoliberisti.

Era scomoda Hebe, sempre diretta, spesso estrema, a volte eccessiva. Molto lontana dal politicamente corretto, molte volte incline all’insulto. Con alcune delle persone che poi avrebbe amato aveva avuto inizi turbolenti: aveva attaccato Fidel Castro per aver salutato Alfonsín dopo le sue contestate leggi (e per questo lui non l’aveva ricevuta nel suo primo viaggio a Cuba), aveva diffidato di Chávez perché era un militare, aveva definito Néstor Kirchner, al suo arrivo alla presidenza, come «la stessa merda con un odore diverso», prima di stringere un’alleanza – da alcuni criticata come un troppo docile allineamento – con lui prima e con Cristina poi.

E aveva parlato di Bergoglio, all’epoca arcivescovo di Buenos Aires, come «spazzatura che si opporrà sempre a chi, come Néstor Kirchner, vuole fare bene le cose», per poi cambiare idea di fronte alle parole e ai gesti di papa Francesco, che l’avrebbe ricevuta a Santa Marta nel 2016 e a cui avrebbe chiesto perdono («Bisogna scusarsi quando si sbaglia»).


(il manifesto, 22 novembre 2022)

di Marina Montesano


«Quello che infatti è il cibo per la conservazione dell’individuo, questo è l’unione carnale per la conservazione del genere umano; ed entrambe le cose non sono prive di piacere fisico. Ma questo piacere, regolato e disciplinato dalla temperanza secondo l’uso della natura, non può essere libidine. Ciò che è nel sostentare la vita un cibo illecito, questo è nella ricerca della prole un rapporto di fornicazione o di adulterio. E ciò che è un cibo non permesso nella ghiottoneria, questo è un rapporto illecito nella libidine senza la ricerca della prole. E all’avidità eccessiva che alcuni hanno per un cibo consentito, corrisponde nel matrimonio il rapporto non gravemente colpevole. Come dunque è meglio morire di fame, che cibarsi di cibi sacrificali; così è meglio morire senza figli, che cercare discendenza».

Il paragone fra i peccati della gola e quelli di lussuria è tracciato chiaramente da sant’Agostino del trattato La dignità del matrimonio. Lo ricorda Chiara Frugoni nel suo libro A letto nel Medioevo. Come e con chi (Il Mulino, pp. 168, euro 22), uscito postumo, quando, verso la conclusione, parla del modo in cui la Chiesa si insinua nei letti e traccia una geografia dei sensi parimenti condannabili.

Il Medioevo della studiosa, tuttavia, ha sempre sfidato le convenzioni, e anche questo breve libro corredato da splendide immagini non delude, mostrando come l’insieme dell’epoca non si possa certo ridurre soltanto a repressione e soppressione della sensualità. Prima di occuparsi di questi aspetti, però, Frugoni parte da quelli più materiali: in quali letti si dormiva, e in che modo? Si dormiva nudi, con un cappello a protezione del capo che resta fuori, mentre le fonti mostrano come a esser temuto fosse soprattutto il gran freddo.

Letti per ricchi e letti per poveri, letti per francesi e letti per italiani: l’autrice ci guida attraverso le differenze con l’aiuto dell’iconografia, con lo stile colloquiale ma attento ai dettagli che l’ha sempre contraddistinta.

Nei letti non si dorme soltanto, e anche questo è spiegato. Ma soprattutto il letto non è solitario: intorno c’è una camera che serve anche ad altri scopi (è una stanza «multitasking»): ci si chiacchierava seduti magari su un cassone con cuscini, ma i sovrani potevano anche ricevervi per affari di Stato. Inoltre, il letto non è detto che fosse soltanto nelle camere in cui si dorme. Una deliziosa miniatura mostra due amanti in un letto sistemato all’interno di un bagno pubblico, dove ci si rinfrancava e magari si consumavano incontri a pagamento o clandestini; si cita a riscontro dell’immagine la novella del Decameron nella quale Boccaccio racconta la storia di Salabaetto truffato da Biancofiore, complici gli agi di un bagno dove i due sono lavati da schiave per poi adagiarsi nudi fra lenzuola pulite.


(il manifesto, 22 novembre 2022)

di Alberto Leiss


Venerdì prossimo è la giornata contro la violenza sulle donne. Un’occasione per riflettere meglio, soprattutto noi uomini, sull’uso delle parole che pronunciamo, se le pronunciamo, quando affrontiamo questo argomento. «Di violenza sulle donne si parla molto», scrivono due giornaliste del Sole 24 ore, Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto, in un libro appena uscito con la loro testata: Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere.

Enumerando tv, convegni, libri «e, da ultimo anche campagne elettorali. L’attenzione politica e mediatica da alcuni anni è alta». Nel mondo – stando alle statistiche – circa un terzo della popolazione femminile subisce violenze, e in Italia ogni tre giorni una donna è vittima di femminicidio: «… nonostante l’accresciuta sensibilità, i numeri non migliorano».

Per ragionare sul perché e su come reagire consiglio di leggere il libro, i cui capitoli partono da vere storie di violenza per concentrarsi sugli aspetti comportamentali, le norme e la loro applicazione, il linguaggio nei contesti privati e pubblici, i dati disponibili, e infine sul ruolo e le scelte di chi agisce la violenza, noi maschi. Mi limito ad alcuni aspetti. Il primo è il fenomeno della «vittimizzazione secondaria», me ne sono occupato con altri amici della rete di Maschile plurale nel progetto europeo Never Again.

Un percorso, molto ricco, di formazione ideato dall’Università campana Vanvitelli con l’associazione Dire (Donne in rete contro la violenza), gestito dal gruppo Prodos, con il partenariato anche del Sole 24 ore e del gruppo teatrale M.A.S.C. (Movimento Artistico Socio Culturale), rivolto a magistrati, avvocati, forze dell’ordine e giornalisti. Al centro c’è l’uso delle parole. Quelle che pronuncia un magistrato («Come mai si è decisa a denunciare solo adesso?»), un poliziotto («Ma è sicura di voler inguaiare il padre dei suoi figli?»), un giornalista («Ha ucciso per troppo amore»). Quelle della legge, da interpretare, e delle sentenze, che spesso ripetono stereotipi e pregiudizi che fanno della vittima una complice.

Questo uso delle parole produce nuova violenza su chi già l’ha subita, e contribuisce a demotivare le donne a reagire. In due giornate di discussione che hanno concluso il progetto biennale di cui ho accennato, ho ascoltato Nunzia Brancati, della Polizia di Stato, parlare delle «stratificazioni culturali ataviche» che fanno della famiglia il teatro di queste violenze, e l’avvocata della rete Dire Elena Biagioni ricordare che solo il 30 per cento delle violenze emerge perché la donna trova il coraggio di denunciare.

Le docenti universitarie Teresa Bene e Roberta Catalano hanno fatto un bilancio del progetto, di fronte a un’aula gremita di studenti e studentesse di Legge. Un migliaio di persone raggiunte dalla formazione on-line, in numerosi seminari in presenza, e di nuovo in rete, alcune decine di casi-studio approfonditi, una rappresentazione teatrale sugli stereotipi della «vittimizzazione secondaria» di grande effetto (interpretata da Silvia Vallerani, Martina Zuccarello e David Mastinu su testo di Giulia Corradi). Un sito ricco di informazioni e di strumenti da utilizzare: https://www.vittimizzazionesecondaria.it

Ho visto, partecipando a un webinar rivolto al giornalismo, che la presenza maschile era più numerosa che in altre simili occasioni. Qualcosa comincia a cambiare? 
Per me è stata una buona esperienza agire in una situazione con «più donne che uomini». Abituarsi a stare «in minoranza» e riconoscere l’autorità delle donne con cui lavoriamo può essere è un buon inizio per superare la cultura maschilista. Che ci pesa addosso e che alimenta anche gli esiti violenti.


(il manifesto, 22 novembre 2022)

di Ilaria Venturi


«Si dichiarò disponibile a farmi da relatore per la tesi, mi propose di nominarmi sua “assistente” e quando quel giorno mi molestò diventò il mostro che mi porto dietro nelle notti. Essere costretta a […] a subire umiliazioni devastanti e lavaggi psicologici […] e, ancora, toccamenti, insulti e schiaffi: sono solo alcune delle cose successe in quelle sei ore che mi annullarono completamente. E quando chiesi chiarimenti lui mi rispose: qui dentro funziona così». È il racconto agghiacciante di una studentessa universitaria. E non è il solo. Le testimonianze, con nomi di fantasia – Micaela, Lucia e Sara – sono state rese pubbliche dal collettivo MalaConsilia al quale si erano rivolte le ragazze. Denunce che hanno portato un docente di settant’anni, già in pensione ma che ancora teneva corsi, ex direttore di dipartimento, alla condanna.

Il professore, già allontanato dall’università, a processo ha patteggiato, nei giorni scorsi, una condanna per violenza sessuale a un anno e 8 mesi. La pena è stata sospesa, vincolata al fatto che il docente si sottoponga a un percorso di recupero presso enti o associazioni che si occupano di assistenza psicologica. «Il lavoro fatto da questa associazione è molto serio e coraggioso, credo sia questo il vero lavoro da fare – commenta Milli Virgilio, l’avvocata che ha difeso le studentesse. – Il fenomeno è trasversale come sa ognuna di noi che è stata all’università, e che anche professionalmente ho potuto riscontrare, perché si innesta nei rapporti di potere tra uomini e donne, particolarmente accentuato nel contesto accademico. Bisognerebbe anche ragionare sul fatto che quello che succedeva con questo professore era risaputo. Ma è così anche in altre situazioni: su questi fatti cala il silenzio. È anche questo che va cambiato, siamo sulla strada giusta: adesso comincia a non essere più così».

I racconti delle studentesse

[…] «Mi aveva fatta sentire speciale, aveva fatto apprezzamenti e proposto progetti insieme, ma aveva aggiunto che me li sarei dovuti guadagnare». Confusa e manipolata, Lucia non ne ha parlato con nessuno per molto tempo, «mi sentivo sempre colpevole». Sara, stesso identico copione. […]

Episodi ripetuti in passato, già nel 2012, e l’anno scorso. «Abbiamo lottato contro colpevolizzazioni, etichette e giudizi esterni: “Perché non te ne sei andata?” “Perché sei tornata?” “Come hai fatto a non accorgertene?” “Perché non hai parlato subito?” “Se fossi stata in te…” – raccontano le studentesse – Intere giornate passate a ricordare ogni minimo dettaglio, elaborare il dolore, pianificare, raccontare. Ma non abbiamo mollato, perché avevamo tanto da gridare, e non eravamo sole, eravamo insieme». E alla fine è arrivata la condanna penale.

Lo sportello contro la violenza di genere

«È necessario vigilare sugli spazi universitari affinché eventi del genere non si ripetano» dichiara Silvia Mazzaglia, attivista della MalaConsilia. «In questo caso l’ateneo è intervenuto tempestivamente prendendo provvedimenti, ma sappiamo che di casi simili ce ne potrebbero essere tanti, troppi. I casi che abbiamo raccolto non riguardano solo il 2021, ma anche il 2010 o il 2012 e questo ci dice che la violenza di genere è un problema strutturale all’interno dell’Università, così come lo è in ogni settore della società». Il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza alle donne, MalaConsilia terrà un presidio organizzato dai collettivi femministi al portico dei Servi alle 17.30, per «protestare contro questa violenza e contro tutte le violenze che ancora le donne subiscono».

L’università di Bologna ha aperto a ottobre scorso uno sportello universitario contro la violenza di genere gestito dalla Casa delle Donne per non subire violenza. E sul caso interviene così: «I fatti sono stati portati alla nostra attenzione nel dicembre 2021. Non appena ricevuta la segnalazione, l’Ateneo è intervenuto immediatamente presso la Procura, trasmettendo tutte le informazioni in suo possesso. Congiuntamente, è stata data disposizione di sospendere il docente da ogni funzione didattica fino alla conclusione dell’indagine. […]


(la Repubblica, 21 novembre 2022)

di Elena Basso


La storica presidente dell’associazione che denunciò i crimini della dittatura militare argentina tra il 1976 e il 1977 aveva 93 anni. Il governo argentino ha decretato tre giorni di lutto nazionale.


In Argentina c’è un detto: «Quando non sai cosa fare, guarda dove vanno le Madri». Le Madri a cui si riferisce sono le Madres de Plaza de Mayo, il gruppo di donne argentine che durante gli anni della dittatura di Videla ha deciso di scendere in piazza sfidando il regime per chiedere dove fossero finiti i loro figli, fatti scomparire da un giorno all’altro dai militari. Le Madres sono state la prima crepa che ha causato la fine della dittatura e oggi nel Paese sono così rispettate che, come recita il detto, quando gli argentini non sanno cosa pensare di fronte a una nuova notizia o un fatto politico aspettano il parere delle Madri, guardando da che lato vanno. Oggi per capire dove sta andando una delle fondatrici delle Madres gli argentini dovranno guardare un po’ più lontano: Hebe de Bonafini, leader della storica associazione, è morta stamattina [20 novembre ’22, Ndr].

Come ha divulgato la famiglia, Bonafini, novantatré anni, era stata ricoverata per tre giorni in ospedale alla metà di ottobre per accertamenti che non avevano rivelato particolari patologie. La settimana prima del ricovero Bonafini, come ogni giovedì degli ultimi quarantacinque anni, aveva marciato insieme alle altre Madres in Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, il palazzo governativo argentino. Durante la dittatura di Videla, iniziata con un golpe il 24 marzo del 1976, sono stati almeno 30mila i cittadini fatti sparire dai militari. Chiunque si opponesse alla spietata dittatura veniva sequestrato, torturato e rinchiuso in uno delle centinaia di centri clandestini di sterminio presenti in quegli anni in tutto il Paese, per poi essere ucciso o gettato, ancora vivo, in mare con uno dei cosiddetti “voli della morte”. A cercare i desaparecidos sono rimaste le madri che, giorno dopo giorno, continuavano ad andare nei commissariati chiedendo dove fossero finiti i loro figli. Tutti chiudevano loro le porte in faccia: i desaparecidos semplicemente non esistevano.

Ma invece di arrendersi quelle donne decisero di fare ciò che di più pericoloso si sarebbe potuto fare in quegli anni: un giovedì del 1977, appena un anno dopo l’inizio del regime, scesero in piazza di fronte al palazzo governativo e iniziarono a sfilare in silenzio tenendo in mano la foto dei loro figli scomparsi. Al capo annodarono un pannolino di tela che avevano usato quando i loro figli erano dei neonati, sopra ricamarono il nome dello scomparso, la data di nascita e quella dell’ultima volta in cui era stato visto in vita. Iniziarono a marciare in tondo, facendo una ronda attorno a un monumento al centro della piazza. I militari si avvicinarono, ma non prestarono loro molta attenzione. Era solo un gruppo di casalinghe, presto si sarebbero stancate.

Loro però non smisero e mentre la maggior parte della popolazione le chiamava “le pazze della piazza”, si moltiplicarono e ogni giovedì furono sempre di più. Fra quei fazzoletti bianchi non mancò mai quello di Bonafini, i cui figli Jorge Omar e Raúl Alfredo, furono fatti sparire nel 1977 a La Plata. «Prima del sequestro dei miei figli – ha detto Bonafini durante un discorso – ero una casalinga. Non mi interessava la situazione politica del Paese o la questione economica: per me erano fatti assolutamente estranei. Però dopo la loro scomparsa, grazie all’amore che provavo per loro e per la ricerca di giustizia condivisa con tante altre madri, ho potuto conoscere un mondo nuovo. E ora mi importa di tutto ciò che mi circonda. Mi sono resa conto di fatti fondamentali, di cui tutti dovrebbero curarsi, perché sono cruciali per il destino del Paese e per quello di migliaia di famiglie».

Dalla notizia della scomparsa di Bonafini (per cui il governo ha decretato tre giorni di lutto nazionale) sono arrivati da tutto il mondo migliaia di messaggi di cordoglio. Il più comune e quello con cui sicuramente la leader delle Madres verrà salutata al suo funerale è stato: «Hebe, presente, ahora y siempre» (Hebe è presente, adesso e per sempre), lo stesso grido con cui i familiari dei desaparecidos scuotono le piazze argentine da oltre quarant’anni.


(la Repubblica, 20 novembre 2022)

 L’Associazione Lucrezia Marinelli presenta il film Wild nights with Emily Dickinson. Regia di Madeleine Olnek  – USA, 2018, 84’. Commedia briosa e irriverente che demolisce la figura iconica di una Emily Dickinson reclusa e dolente. Basato sulle sue poesie e lettere, il film esplora l’amore, eccessivo e incontrollabile, “inestinguibile fuoco”, dell’artista per l’amica – e poi cognata – Susan e ci mostra una donna vitale, ironica, passionale. Lontana dagli schemi in cui la sua biografia l’ha congelata. Introduce Silvana Ferrari.

Donne di Parola presenta Deledda mon amour, (1h e 10’) spettacolo multimediale su ispirazione e adattamento del romanzo di Grazia Deledda L’edera (1907). I tre tempi, accompagnati dal video, raccontano la biografia della scrittrice, il romanzo e la sua libera interpretazione ambientata ai nostri tempi. Testo, regia e video di Donatella Massara. Con Claudia BadioliDomitilla ColomboDiana Quinto, Aurelia RaffoAnnamaria Valentini e con il sostegno di Marisa Guarneri.

di Franca Fortunato


Il prossimo 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne sarà accompagnata da due sentenze che rendono giustizia a quelle madri a cui da anni vengono sottratti i figli perché tentano di proteggerli dal proprio ex compagno, uomo violento e maltrattante. Mi riferisco alla sentenza della Corte di Cassazione del 26 marzo di quest’anno che ha sentenziato che «la sindrome di alienazione parentale (Pas) non ha alcun fondamento scientifico e non deve entrare nei processi» e a quella del 6 novembre scorso della Corte europea dei diritti umani che ha condannato lo Stato italiano perché non ha protetto i figli minorenni dagli abusi e minacce del padre. Sentenze “storiche”, emanate in seguito al ricorso di due donne, Laura Massaro e I.M., entrambe assistite dalle legali dell’associazione Differenza Donna, che ne ha dato la notizia. Sono donne, come molte altre, a cui dopo la separazione dal proprio compagno, denunciato per violenza, il Tribunale dei Minori, contro la loro volontà, ha imposto l’affido condiviso (legge 54/2006) e l’obbligo per i figli di incontrare il padre. Accusate dagli ex di essere madri “alienanti” cioè di allontanare da loro l’affetto dei figli che si rifiutano di incontrarli e frequentarli, entrambe, in base a una diagnosi di sindrome di alienazione (una malattia inventata nel 1985 dal medico americano Richard Gardner) sono state condannate e punite con la perdita dei propri figli e la sospensione della responsabilità genitoriale. Con la sentenza della Corte Laura, dopo dieci anni di battaglie giudiziarie, ha riavuto suo figlio, oggi dodicenne. Negli ultimi due anni, ogni giorno col freddo e col caldo, con la pioggia e col sole, Laura si è incatenata per protesta davanti al Tribunale per i Minori di Roma. Altre madri, a poco a poco, si sono unite a lei con cartelli e foto dei propri bambini “persi”, proprio come le Madri di Plaza de Mayo. La Corte europea ridà anche a I.M., che vive in un Centro antiviolenza, il proprio figlio e ha condannato lo Stato italiano perché «ha mancato al suo dovere di protezione e assistenza durante gli incontri organizzati con il padre dei bimbi, tossicodipendente e alcolista, accusato di abusi e minacce durante le visite». Entrambe le sentenze hanno condannato come «fuori dello Stato di diritto» la decisione dei tribunali di «sospendere la responsabilità genitoriale della madre considerata come un genitore ostile agli incontri con il padre», incontri che «hanno turbato l’equilibrio psicologico ed emotivo dei bambini». Le due sentenze mettono fuori dai tribunali la Pas, condannano le diagnosi di psicologi/he, che andrebbero espulsi/e dalla professione, e smantellano la legge dell’affido condiviso, della bigenitorialità, divenuta uno strumento di rivalsa e di vendetta dei padri che prima della legge si sentivano esclusi dagli affidi alle madri (90%), non riconoscendo il primato della relazione materna. Un esempio esemplare di come le politiche delle pari opportunità siano una trappola per le donne, un boomerang, che nei tribunali le/i giudici utilizzano contro di loro. La legge va abrogata e non emendata perché è contro le madri ed è responsabile di quella che le donne chiamano “violenza istituzionale”. Una violenza che si ripete ogni volta che a una madre vengono strappati con la forza i figli, come è accaduto anche l’8 novembre scorso quando forze di polizia in borghese, vigili del fuoco, personale sanitario hanno tolto a una giovane madre i due figli di 4 e 6 anni, terrorizzandoli, con la solita accusa di essere una madre “ostativa” alla “bigenitorialità”.


(Il Quotidiano del Sud, 19 novembre 2022)

Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangueAntonia Pozzi e la sua poesia, Áncora, 2022. A 110 anni dalla nascita di Antonia Pozzi un confronto con Graziella Bernabò, autrice della nuova edizione ampliata. Uno sguardo su una dirompente figura di donna e sulle sue relazioni, con particolare riferimento a quelle femminili, e una riflessione sull’originalità della sua voce poetica, oggi straordinariamente riscoperta nel mondo. Letture sceniche dell’attrice Aglaia Zannetti. Introduce Luciana Tavernini.

Per acquistare online Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia:
https://www.bookdealer.it/goto/9788851425180/607

Fare il bene, secondo Françoise Dolto. Conduce Annarosa Buttarelli, Filosofa e
Direttrice scientifica della Scuola di Alta formazione Donne di Governo. Per la
partecipazione è previsto un contributo previa iscrizione scrivendo una mail a
prenotazione@libreriadelledonne.it


Cosa significa pensare? La vita, la buona politica, i rapporti, hanno necessità di uomini e donne che tornino a “filosofare”, fuori dalle astrazioni dell’accademia e dai luoghi comuni spacciati per pensiero.

La filosofia può essere un cammino che ognuno e ognuna può percorrere: ritrovare i significati originari e dirompenti delle sue parole-chiave, diventare consapevole dell’uso che se ne può fare in una vita quotidiana innalzata e onorata dal pensare veramente.

Questa Accademia è un esperimento di pensiero: l’autorità femminile ci guida alla scoperta di parole che crediamo di conoscere, per ritrovarne la radice e la potenza.

Conduce: Annarosa Buttarelli, Filosofa e Direttrice scientifica della Scuola di Alta formazione Donne di Governo


Fare il bene, secondo Françoise Dolto

sabato 19 novembre 2022  ore 10.30-13.00


Fare il male, secondo Hannah Arendt e Iris Murdoch

sabato 26 novembre 2022  ore 10.30-13.00


Potere, dominio, decisione

sabato 3 dicembre 2022  ore 10.30-13.00


Vicissitudini dell’autorità

sabato 17 dicembre 2022  ore 10.30-13.00


Gli incontri si terranno in presenza a Milano presso la Libreria delle Donne, in via Pietro Calvi 29. Per la partecipazione è previsto un contributo: 50 euro per l’intera Accademia, 15 euro per singolo incontro, previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it  oppure telefonando al numero 02-70006265

Fare il bene, secondo Françoise Dolto. Conduce Annarosa Buttarelli,  Filosofa e Direttrice scientifica della Scuola di Alta formazione Donne di Governo. Per la partecipazione è previsto un contributo previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it

di Salvatore Cannavò


«È una guerra alle idee». Donatella Di Cesare, filosofa, volto noto dell’odierno pacifismo, commenta così la notizia, rilanciata dal quotidiano online Open, che la vede bersaglio del governo ucraino.

«Il Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina – si legge infatti sul giornale fondato da Enrico Mentana –, ha pubblicato un tweet in cui accusa, attraverso il canale Telegram del suo Centro anti-disinformazione, la filosofa Donatella Di Cesare di “diffondere narrazioni identiche a quelle russe sui media occidentali, coprendosi con le immagini di un ‘europeo purosangue’ e di ‘intellettuale’”».

Si tratta di una messa all’indice, da parte di un istituto governativo di un Paese in guerra, di una studiosa che si presenta nel dibattito pubblico solo con le proprie idee. La segnalazione proviene da un organismo statale, il Consiglio per la sicurezza e la difesa, che è presieduto dallo stesso Zelensky, e in particolare dal suo Centro per la lotta alla disinformazione, «organo di lavoro del Consiglio di sicurezza e difesa», si legge nel decreto di costituzione del 2020, «creato al fine di raggiungere gli scopi e gli obiettivi della Strategia di sicurezza nazionale dell’Ucraina».

Non un pubblico scambio di idee, quindi, ma una lista di proscrizione redatta da un Paese in guerra e che quindi espone i suoi obiettivi a ogni tipo di conseguenza. Immaginiamo con la soddisfazione di tanti liberali occidentali che non perdono occasione di accusare qualsiasi pensiero critico come colluso con Vladimir Putin (si guardi, ad esempio, la campagna quotidiana che conduce contro il nostro quotidiano Gianni Riotta).

Conversando con il Fatto, a cui collabora regolarmente, Di Cesare si dice «stupita da questo attacco, ma non mi lascio intimidire. Come filosofa ho parlato sempre guardando alla pace, condannando l’invasione russa, ma rifiutando sempre con coerenza la logica bellica degli schieramenti. Sono dalla parte dei disertori e spero che il conflitto si fermi presto. Lo dirò anche ad Amsterdam. I più poveri e i più deboli, da una parte e dall’altra, hanno tutto da perdere».

Ad Amsterdam, la filosofa parteciperà alla conferenza annuale organizzata dall’Istituto olandese Nexus all’interno del convegno “War and the future” che si svolgerà il 19 e 20 novembre prossimi. La sua è praticamente l’unica voce schierata contro l’interventismo occidentale in un confronto tra esperti, filosofi, scrittori di varie esperienze e provenienze, e in vista del convegno, il quotidiano olandese Nrc Handelsblad ha pubblicato un’ampia intervista in cui la filosofa ha espresso le sue opinioni sulla guerra in corso, sul ruolo dell’Europa, sul pacifismo italiano. In seguito a questa intervista è apparsa la nota del Consiglio ucraino. Le cui ultime segnalazioni riguardano argomenti come il «falso documento riguardante le manifestazioni di violenza sessuale nelle forze armate dell’Ucraina»; «i dossier del propagandista Volodymyr Kornilov»; le notizie che denunciano «sullo sfondo della crisi energetica provocata dal terrore della Federazione Russa» la comparsa di «falsi social network, che in realtà duplicano i canali ufficiali delle compagnie energetiche ucraine». La libera opinione di una studiosa, quindi, viene equiparata alle fake news e alla propaganda di guerra russa e lei stessa additata come quinta colonna della Russia. «Una guerra alle idee» sostiene Di Cesare, che respinge nettamente le insinuazioni ucraine: «Ho le mie idee e le espongo liberamente, perché devo essere presentata come un nemico dell’Ucraina?».


(Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2022)

di Giuliana Giulietti


In Toccate dal Male, María-Milagros Rivera Garretas e Barbara Verzini affrontano il tema del Male a partire dalla certezza della radicalità del Bene e dal rifiuto della contrapposizione dialettica tra il Bene e il Male. I quali esistono ognuno per conto proprio, senza un legame di opposizione binaria, senza fare antinomia del pensiero. Il Bene è. Il Male è. Nella storia delle donne il Male conosciuto e sperimentato è arrivato dal patriarcato, ma c’è un Male che esiste anche tra donne, portato dall’invidia e dalla gelosia e sul quale troppo spesso chiudiamo gli occhi, o che sottovalutiamo, pur di non fare i conti con una verità così dolorosa. Ma nominare e smascherare il Male quando cerca di entrare nella relazione tra donne avvelenandole, è un gesto simbolico di prima grandezza che ci riavvicina – leggo nel quarto di copertina – «al nostro piacere clitorideo, piacere che è sempre indice di bene, di felicità e di libertà femminile». Ed è con mani sapienti e immaginazione creativa che Milagros e Barbara, abilissime tessitrici, sono riuscite a intrecciare mirabilmente, nel loro libro, i fili del sentire, dell’esperienza, del pensiero. Ciascun filo con un suo particolare brillio, una sua sfumatura, un suo colore. Sì che la sua lettura è stata per me un’esperienza felice perché, pur avventurandomi nei territori del Male, mi sentivo protetta e guidata dalla luce del Bene che si irradia da ogni pagina, di capitolo in capitolo, da un’immagine a un’altra. Nato da un lungo dialogo tra le due autrici sul proprio vissuto personale del Male, il libro è diviso in due parti. Nella prima Milagros ci accompagna in un viaggio attraverso i cinque elementi: Quintessenza, acqua, aria, fuoco, terra, che nell’esperienza delle donne si mescolano armoniosamente senza dualismi, né opposizione binaria. Ma quando il Male vi penetra la sua azione è devastante. E negli elementi contaminati dal Male la Quintessenza, cioè l’Amore, non c’è più, non vive. Le relazioni tra donne vanno in malora. Senza amore, senza orientamento al Bene, l’acqua del piacere clitorideo si secca, l’aria diventa soffocante, il fuoco arde nell’ira, la terra perde la sua gravità. E senza attrazione e né direzione – scrive Milagros – non riesco ad atterrare, a mettere radici. Solo il Bene radica, dà radicamento e felicità. Nella seconda parte, Barbara ci porta con sé a cavallo insieme ai quattro cavalieri dell’Apocalisse cercando nei loro colori: il Bianco, il Rosso, il Nero, il Verdastro, le sfumature di alcune esperienze che fanno parte della sua vita. E raccontare una fiaba (nelle favole il male è sempre presente e appare all’improvviso sottoforma di un lupo, di una matrigna, di una maledizione) è sembrato a Barbara il modo migliore per parlare del male tra donne perché nel fantastico – lei scrive – si aprono strade magiche dove si riescono a trovare le parole per nominarlo dalla giusta distanza e, contemporaneamente, sottrarsi al suo tocco. Dalle fiabe, Barbara ha imparato che il Male si muove, si sposta e può essere spostato. Arriva dall’esterno, come un vento, o con il suono sordo dei suoi zoccoli. Come gli zoccoli dei cavali dei quattro Cavalieri dell’apocalisse. “Toccate dal Male” è un libro potente e bellissimo e certamente questo mio breve testo non può restituire la ricchezza di esperienza e di pensiero che esso ci dona. Io mi sono limitata a segnalare alcuni di quei fili luminosi a partire dalla certezza che è al cuore del libro: la certezza della radicalità del bene. Un’idea concepita da Hannah Arendt quando, nel 1961, si recò a Gerusalemme per assistere al processo del criminale nazista Adolf Eichmann. La cosa straordinaria che fa Milagros è che prende questa idea, che è più propriamente un sentire, e la situa nell’origine, nella nascita, nell’amore. Il Bene è l’unico radicale – scrive Milagros – perché viene sempre prima, perché nasciamo da una madre e nasciamo nel Bene, nell’amore, nella bellezza, nell’abbondanza. Il Male arriva sempre dopo, in seconda, terza o ultima battuta. Ma il Male – ci avverte Barbara – si muove, si sposta e può essere spostato. E a farci da guida verso il Bene, Milagros ci offre una parola: Sensualità (non sessualità). «Sensualità è una parola che celebra un’unione amorosa, mistica, nel piacere clitorideo, nell’anima corporea, anima e corpo inseparabili. È l’unione dei sensi con ciò che si sente e con il senso. I sensi, il sentito e il senso formano una Triade piacevole, gustosa. A volte la Triade appare come orgasmo della parola giusta, del segno giusto. Il Male è stato fermato».


(Facebook, 18 novembre 2022)

di Francesca Maffioli


Paola Bono, con Le mie suffragette (Iacobelli editore, pp. 224, euro 15) riesce nell’impresa di dipingere con le parole un reportage storico appassionato sugli episodi al centro del movimento suffragista inglese – di quelle donne che militarono e lottarono per il riconoscimento della piena cittadinanza e del diritto di voto.

Il volume racconta la storia di un movimento plurale attraverso gli anni e le vicende delle sue protagoniste, le cui vite si srotolano attorno alla Storia, tramite capitoli che si presentano come ritratti di esistenze minute, seppur dirompenti.

Il racconto è agito tramite i ricordi di una giovane domestica, Nellie. La scelta del punto di vista della voce narrante è già di per sé parlante e lo è per vari aspetti. Innanzitutto perché a parlare sono le esperienze delle suffragette, personagge delle lotte, tramite il racconto di un’altra personaggia, i dettagli della cui esistenza sono verosimili e esemplari di un’epoca. Poi, nel senso che la prospettiva della visione di Nellie – che passa tramite l’espediente narrativo del ricordo continuato – è decisamente situata e rivelatrice di quanto il movimento inglese delle suffragette fosse composito e tutt’altro che uniforme. Nellie infatti, accolta in casa Pankhurst da bambina, cresce osservando ma anche vivendo le vicissitudini, gli entusiasmi attorno alla formazione dell’organizzazione fondata da Emmeline e le sue figlie.

Sappiamo fin dalle prime pagine che Nellie non appartiene allo stesso milieu sociale della famiglia che la adotta, e la sua visione dei fatti e delle relazioni rivela spesso un sentimento d’estraneità, talvolta anche divertita, capace di restituire quella ricchezza propria delle visioni composite, quando cioè il punto di vista è situato e si pone all’intersezione – nel suo caso – delle appartenenze di genere e di classe.

È tramite gli espedienti linguistici, le storpiature e caricature grammaticali, ma anche l’ironia sorpresa di Nellie, che vede compiersi il desiderato ma anche l’inatteso, che Paola Bono tesse la storia delle sue suffragette – ponendosi ben oltre e intelligentemente lontana da quella fantasmatica neutralità del punto di vista sulla Storia e sul mondo.

La storia di Nellie, raccontata all’incipit di questo speciale memoir, apre il testo «dal basso», rivelando uno spaccato di quella miseria economica che tra l’Ottocento e i primi del Novecento abitava le umili case d’Inghilterra. È infatti l’immigrazione del padre in America e la difficoltà a trovare lavoro della madre, e poi la sua morte, a condurre Nellie prima in un ospizio per i poveri di Manchester, poi, fortunosamente a casa e alle cure della famiglia Pankhrust.

È allora attorno a Emmeline Pankhrust e alle sue figlie che le azioni delle suffragette vengono raccontate – attorno al loro desiderio non tanto di violare la legge ma fare delle leggi capaci di consentire alle donne la piena cittadinanza tramite suffragio.

Nellie riporta le parole determinate di Emmeline durante il processo, tenutosi a seguito del suo discorso dell’ottobre 1908 a Trafalgar Square, in cui è imputata insieme a Flora Drummond e alla figlia Christabel: «Siamo spinte a farlo, siamo determinate a proseguire con questa agitazione, perché ci sentiamo obbligate moralmente a farlo, sul nostro onore. Proprio come era dovere dei vostri predecessori, così è nostro dovere rendere questo mondo un posto migliore per le donne di quel che è oggi. Se aveste il potere di mandarci in prigione non per sei mesi, ma per sei anni, per sedici anni, o per tutta la vita, il governo non deve credere di poter fermare questa agitazione. Proseguirà. Siamo qui non perché abbiamo infranto la legge, siamo qui perché ci adoperiamo per poter fare le leggi».

Alcuni dei capitoli del testo si svolgono come veri e propri ritratti parlanti, che vedono i fatti salienti del movimento per il suffragio femminile passare attraverso la narrazione delle relazioni tra quelle donne che lo resero possibile. La pluralità d’appartenenza propria al movimento delle suffragette si esplica ad esempio grazie alla presenza di Annie Kenney insieme a quella di Lady Constance Lytton. Da una parte c’è quindi Annie Kinney, operaia tessile, che dopo aver assistito a una conferenza di Christabel Pankhurst, tenuta all’Oldham Clarion Vocal Club nel 1905, iniziò a essere attiva nella Women’s Social and Political Union (Wspu) e assunse l’incarico di aprire la sede londinese in ordine al trasferimento da Manchester. Dall’altra, eppure insieme, c’è Lady Constance Lytton, nobildonna, che durante gli arresti scelse di travestirsi da cucitrice, usando il nome di Jane Warton, e subì di conseguenza tutte le pene e i trattamenti disumani imposti alle prigioniere appartenenti alle classi sociali subalterne. 
Lady Constance Lytton scrisse un libro intitolato Prisons and Prisoners (1914), a denuncia delle sevizie subite e del diverso trattamento adottato dal governo a seconda dell’appartenenza sociale delle prigioniere. 
Ci sono poi le vicende che vedono le incarcerazioni ripetute di Kitty Marion, attrice e cantante di varietà di origine tedesca. Tramite la cronaca della sua vita, Nellie ci parla anche di una delle strategie di lotta attuate dalle suffragette – la pratica di lotta rappresentata dallo lo sciopero della fame. Ci racconta anche di come le autorità carcerarie praticassero metodi di nutrizione forzata e come per le prigioniere la tortura fosse drammaticamente all’ordine del giorno.

«E dopo mi hanno riportato in cella e lì ho sentito in corridoio le urla di una compagna anche lei trascinata a subire quello stesso orrore. Disperata, ho afferrato una sedia e l’ho tirata contro la finestra rompendo il vetro, e mi sono arrivate le voci delle mie compagne suffragette radunate davanti alla prigione che gridavano “Il voto alle donne!” e cantavano le nostre canzoni». 
Poi ci fu lo scoppio della prima guerra mondiale, che rappresentò per tutte una sorta di freno alle azioni. Fu il caso di Kitty Marion, tedesca, che si ritrovò cittadina di un impero in guerra con l’Inghilterra e che nel 1915 scelse di emigrare in America, dove partecipò al movimento a favore del controllo delle nascite. Fu anche quello di Emmeline e la figlia Christabel, che dichiararono l’arresto temporaneo dell’attivismo militante per concentrare gli sforzi contro il nemico tedesco. La Wspu quindi sospese le sue azioni suffragiste, anche se Sylvia e Adela Pankhurst continuarono la lotta.

Nell’appassionato volume di Paola Bono, il racconto di Nellie si ferma in concomitanza allo scoppio della Grande Guerra, a voler suggerire che la storia delle suffragette si sia conclusa in verità prima dell’approvazione della proposta del diritto di voto per le donne, proprio con la scelta patriottica di Emmeline Pankhrust e la sospensione delle attività della Wspu. 
La Storia ci dice che nel 1918 il parlamento del Regno Unito approvò la proposta del diritto di voto per le donne con certi requisiti; dieci anni dopo, il 2 luglio 1928, il suffragio fu esteso a tutte le donne del Regno Unito.


(il manifesto, 18 novembre 2022)

Moreno Montanari e Sara Oliva Boch (a cura di), Verrà la pace e avrà i tuoi occhi. Piccolo vademecum per la pace, AnimaMundi edizioni, 2022. Scommettere sulla propria e l’altrui umanità, farne la vera posta in gioco proprio quando tutto intorno sembra negarla. È la testimonianza dei 46 autori e autrici raccolti in questo libro da ogni parte del mondo. Una pluralità di sguardi, pensieri ed esperienze. Uno strumento prezioso per provare a ribellarsi all’impotenza a cui ci costringono l’odio e la guerra. Elena Petrassi dialoga con Moreno Montanari e Sara Oliva Boch.

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