di Wanda Tommasi


All’università di Verona ho lavorato per più di trent’anni, non mirando né alla carriera a tutti i costi – infatti di carriera ne ho fatta ben poca, il minimo sindacale, diciamo – né tantomeno a posti di potere: questi ultimi proprio non li avrei voluti, li ho sempre evitati come la peste. D’altro canto, nessuno me ne ha mai proposti. Meno male: si capiva che non puntavo a quello.

Ciò che contava per me, ciò che mi dava piacere era l’accendersi di una luce nello sguardo di una/o studente, di un’ascoltatrice di una mia conferenza o di una lettrice di un mio libro: quella luce era indizio di sintonia, di comprensione, di complicità, e poteva dare inizio talvolta a una relazione o a un’amicizia, che andava ben oltre i rispettivi ruoli, istituzionali o meno.

La relazione fondante, fonte sorgiva della mia politica in università, è sempre stata quella con Chiara Zamboni: una relazione politica, ma sorretta anche da un’amicizia profonda e autentica. Ricordo tuttora il piacere che ci concedevamo ogni lunedì pomeriggio, quando entrambe avevamo l’orario di ricevimento studenti: per un quarto d’ora, ci ritiravamo nel mio studio a scambiarci pareri sulle/gli studenti, a fare il punto della situazione, a cercare una misura per come muoverci in università e per contrastare la governance neoliberale che stava avanzando, per orientarci politicamente. La nostra breve conversazione era sempre accompagnata da un piccolo brindisi: bevevamo un goccio di crema al whisky, un liquore a bassa gradazione alcolica, perché poi bisognava essere lucide per le/gli studenti. Per me Chiara è stata ed è tuttora una donna, una pensatrice, una filosofa, a cui riconosco una grandissima autorità. I frutti politici della nostra relazione erano visibili da tutti e ovunque in università, nei Consigli di Dipartimento così come in qualsiasi altra riunione accademica.

Il femminismo della differenza mi ha insegnato che l’autorità bisogna attribuirla a donne degne di fiducia, le quali non sono necessariamente quelle che stanno più in alto, che ricoprono ruoli di potere. Io e Chiara, dal punto di vista della gerarchia accademica, eravamo assolutamente alla pari.

Ricordo una discussione vivace, avvenuta circa un anno fa in Diotima, sulla questione dell’autorità femminile: alcune tendevano ad attribuire autorità solamente a donne di potere in Europa, come Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Mentre la prima aveva guadagnato effettivamente autorità trasformando nel tempo la sua politica e andando a uno scambio autentico con la realtà, le altre due non apparivano altrettanto degne di fiducia. Chiara osservò che occorreva maggiore attenzione per attribuire autorità a donne prive di visibilità mass-mediatica, come le contadine del Nordest del Brasile, con le quali una giovane ricercatrice di Diotima era in contatto e che lottavano – e lottano tuttora – per creare una situazione fertile con la loro terra in una comunità, sia politica sia religiosa, ad autorità femminile. Spesso, per saper riconoscere e nutrire l’autorità femminile, non occorre guardare verso l’alto: basta guardarsi intorno.

Per me sicuramente Chiara e anche le contadine del Nordest del Brasile sono più degne di fiducia di quelle che hanno sfondato il tetto di cristallo: con queste ultime – con l’attuale premier italiana Giorgia Meloni e con la ministra Eugenia Roccella, per fare due nomi di attualità in Italia – non sento alcuna sintonia per la politica di destra a cui appartengono, benché m’interessi stare a vedere che cosa faranno, dal momento che sono pur sempre donne; quindi è in gioco la differenza sessuale che mi sta a cuore e che m’interpella. Tuttavia, là dove c’è massima esposizione pubblica nella politica istituzionale, è più difficile individuare semi di autorità in dispositivi e ruoli nati per il potere.

In ogni caso, ritengo che un buon criterio per decidere se una donna sia degna di fiducia sia il fatto che lei non si consegni tutta alla logica del potere, della carriera o dei soldi. Non tutta: se il suo centro di orientamento è altrove, nel piacere di coltivare relazioni, nella cura della vita, nel gusto della bellezza e nella gioia di aiutare a fiorire ciò che sta nascendo, si può riporre in lei la fiducia che merita.

Questo ce lo insegnano le nostre autrici mistiche. Il loro baricentro era altrove rispetto al già dato, al già pensato, rispetto al reale realizzato: era in un infinitamente piccolo sottratto alla logica del potere e della forza per Simone Weil, era in un Dio salvato dentro di sé nel mezzo della violenza della seconda guerra mondiale e della Shoah per Etty Hillesum. Pur senza giungere alle loro sublimi altezze, possiamo anche noi anteporre al potere, alla carriera o al denaro, il piacere che deriva da relazioni autentiche, politiche o di amicizia, coltivate per un guadagno d’esserci di entrambe le persone coinvolte, e possiamo contare sul fatto che queste relazioni non strumentali siano la leva per smuovere una realtà pietrificata e per far fiorire altro, di cui intravediamo le potenzialità latenti e che spetta a noi, grazie alla fecondità delle relazioni, portare verso il meglio. 


(ViaDoganaTre – www.libreriadelledonne.it, 9 dicembre 2022)

di Silvia Motta


Quando si mette a tema la sessualità femminile – ad esempio nelle riunioni tra donne a cui ho partecipato – c’è una questione che tende a finire in ombra o a essere ignorata. È il legame che c’è tra piacere sessuale e procreazione.

Può sembrare anacronistico parlarne oggi, quando gli anticoncezionali ci hanno liberato (un po’) dalle maternità indesiderate e finalmente noi donne possiamo considerare la legittimità del piacere in sé, slegato dall’orizzonte procreativo. Ma, quando ci addentriamo nella sessualità come fatto relazionale, e se la relazione che prendiamo in considerazione è quella tra una donna e un uomo, le cose a mio parere si complicano.

C’è un’asimmetria o comunque una diversità di realizzazione tra il piacere femminile e quello maschile che complica le cose.

Il piacere femminile in sé non è procreativo se si considera solo la dinamica fisica-corporea che lo può produrre. Nella relazione con l’uomo una donna può trarre piena soddisfazione fisica anche senza la penetrazione. L’orgasmo clitorideo è stato “svelato” da tempo e oggi le donne, che forse hanno sempre saputo della sua esistenza, incominciano a rivendicarne l’importanza.

Il piacere maschile invece non è separato dalla procreazione: la piena soddisfazione (fisica? mentale? entrambe? non so) è raggiunta con l’eiaculazione, cioè con l’azione fecondante. Simbolicamente, nella storia, questa è diventata azione dominante: la più importante, quella che può esercitare il suo dominio sulle donne, su tutto.

Dunque mi sorge una domanda: come si concilia la “meccanica sessuale maschile” con la sessualità femminile liberata dalla costrizione alla riproduzione, se i maschi non prendono coscienza del tipo di sessualità che li ha caratterizzati e se non abbandonano l’irresponsabilità procreativa che hanno avuto finora?

I ripetuti femminicidi, che non sembrano affatto diminuire, non hanno forse qualche collegamento con queste due sessualità a confronto-scontro?

Ma mi sorge anche un’altra considerazione che coinvolge noi donne e che potrebbe confonderci. La potenzialità procreatrice che abbiamo può essere essa stessa, più o meno consapevolmente, un fatto erotico/erotizzante. È il brivido di correre un rischio, l’eccitazione della sfida o la spensieratezza. È un’energia vitale preziosa che non va dispersa. Bisogna però saperla riconoscere per capire qual è la natura del nostro desiderio. Nel contesto non è detto che sia facile.


(ViaDoganaTre – www.libreriadelledonne.it, 9 dicembre 2022)

di Giulia D’Aleo


«Quelli che presentiamo sono dati che dovrebbero essere cruciali per il lavoro del nuovo governo. Perché il problema della violenza sulle donne non è solo il femminicidio». Così la dirigente di ricerca del Cnr Maura Misiti ha concluso l’incontro di presentazione della seconda edizione del progetto ViVa, nato nel 2017 da un accordo tra il dipartimento per le Pari Opportunità e il Consiglio nazionale delle ricerche.

Insieme ad ActionAid, la rete D.i.re e altre quattro realtà impegnate nel contrasto e nell’indagine della violenza di genere, ViVa ha rintracciato nella creazione di rapporti stabili tra Centri antiviolenza (Cav), case rifugio e servizi generali – servizi socioassistenziali, forze dell’ordine, servizi sociosanitari, istituzioni scolastiche, sistema giudiziario e società civile – la chiave per realizzare servizi integrati e aiutare le donne a uscire dalla violenza. Le reti territoriali esistenti, però, sono ancora altamente carenti e faticano a mettere a punto degli interventi che diano centralità alla donna.

Nel 2021 la mappatura Istat segnalava 376 Cav e 431 case rifugio attivi in tutto il territorio nazionale, che hanno dato supporto a 54mila donne e ne hanno accompagnate oltre 19mila in un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Nel 94% dei casi questi fanno parte di una rete composta da associazioni, prefetture, servizi sociali e da tutti gli enti che possono fornire supporto e servizi. Possibilità da cui restano esclusi alcuni territori del sud Italia, dove l’assenza di reti è la causa di un sostegno insufficiente. «I servizi per cui i Cav e le case rifugio ricorrono più spesso alla loro rete di riferimento – spiega Maria Giuseppina Muratore, ricercatrice Istat – sono il sostegno ai minori, alla genitorialità e il supporto linguistico-culturale. I punti più deboli vengono compensati da un aiuto esterno».

Le reti aiutano poi a segnalare i casi di fragilità e rinviare agli attori più adatti le donne che cercano aiuto. «È un’interrelazione complessa. Il 31% delle donne che arriva ai Cav lo fa tramite servizi territoriali: un terzo ha già chiesto aiuto alle forze dell’ordine o al pronto soccorso. Allo stesso modo, le donne che escono dalle case rifugio nel 30% dei casi vengono rinviate ad altri servizi». Le reti differiscono tra loro anche in base a chi le coordina, un ruolo che, nella maggior parte dei casi e con picchi nel nord-ovest, è ricoperto dai comuni stessi, mentre in Sicilia e Sardegna la prevalenza è di reti che rispondono alle prefetture. Condizione insolita, sulla cui efficacia, suggerisce Muratore, «bisognerebbe indagare». In generale, le reti sono un equilibrio di forze spesso fragile, in cui gli attori hanno pesi diversi e modalità di azione opposte e non coordinate.

«Nella tutela dei figli, ad esempio, entrano in gioco meccanismi complessi, che evidenziano appieno le differenze di approccio tra i Cav e i tribunali per i minorenni», spiega Maria Rosa Lotti dell’associazione D.i.re, attiva in 18 regioni con 82 centri tra Cav e case rifugio.

I protocolli di intervento dei servizi sono delle procedure talmente standardizzate e con una possibilità residuale di scelta per la donna che contrastano con i percorsi di autonomia messi in atto dai nostri centri

Non prendono attivamente parte alle reti, inoltre, alcuni soggetti – come centri per l’impiego, aziende di edilizia residenziale pubblica, enti di housing sociale, associazioni sindacali e aziende – che sarebbero fondamentali in un percorso di fuoriuscita dalla violenza che aspiri all’empowerment femminile, ovvero una condizione di indipendenza economica, sociale e abitativa. Oltre il 60% delle donne che arrivano nei Cav, infatti, non sono economicamente autonome e, per chi non ha mai lavorato, uscire dalla violenza diventa ancora più complesso.

Il grande assente, però, sono le istituzioni. Le politiche territoriali constano di misure eterogenee e intermittenti, spesso finanziate tramite bandi. «Per raggiungere l’autonomia è necessario partire dai diritti socioeconomici, già scarsamente garantiti alla cittadinanza e ancora meno alle donne – dice Rossella Silvestre di ActionAid –. Blocchiamo gli sfratti nei casi di fragilità, proponiamo la sospensione delle rate del mutuo, rinnoviamo il reddito di libertà, che al momento è soltanto una corsa a chi arriva prima e non un diritto».

Nel rapporto pubblicato a novembre viene precisato, però, come il reddito di libertà possa al più rappresentare una misura di supporto emergenziale. L’indipendenza della donna è, invece, strettamente dipendente da un reddito stabile, percepito tramite un lavoro, e da una condizione abitativa che non siano le case rifugio. «Bisogna dare riconoscimento a questo periodo di momentanea vulnerabilità ed eliminare la neutralità delle politiche pubbliche esistenti», aggiunge Silvestre.

La richiesta per garantire alle donne vittime di violenza di essere riconosciute come soggetti in condizione di fragilità e accedere a vantaggi come la riduzione dei contributi era già stata sottoposta all’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando dalla cooperativa sociale Eva, «da cui abbiamo ricevuto promesse mai mantenute». Lella Palladino gestisce tre laboratori di inserimento al lavoro e accompagnamento all’autonomia, tramite una strategia di «rinforzo dell’autostima, per consentire alle donne di guardarsi con i propri occhi e non con quelli dell’uomo che ha compiuto violenza».

La sicurezza delle donne passa anche dall’azione sull’uomo violento. I Centri per gli autori di violenza in Italia sono più recenti e meno consolidati dei Cav, ma anche questi sono previsti dalla convenzione di Istanbul, che all’art.16 ne sancisce la creazione e il rapporto di collaborazione con i servizi dedicati alle vittime. Nell’indagine di ViVa del 2017 se ne contavano 54 sparsi per il territorio nazionale e 1.200 persone prese in carico. L’obiettivo prioritario non è la loro tutela, ma la sicurezza delle donne e dei loro figli. Le modalità di accesso sono spontanee nel 40% dei casi, mentre per oltre la metà si tratta di soggetti indirizzati da tribunali e avvocati, servizi sociali e autorità giudiziarie.

L’assenza di preparazione degli operatori nel parlare di violenza con chi la commette e contrastare le frequenti forme di minimizzazione, banalizzazione e colpevolizzazione delle vittime è una delle criticità evidenziate dalla ricerca. Un’altra, segnala Alessandra Pauncz, presidente dell’associazione Relive – Rete nazionale centri per autori di violenza, riguarda i tribunali ordinari civili e quelli per i minorenni, che, nei casi di separazione con violenza da parte del partner, applicano misure insufficienti alla tutela della sicurezza della donna.

«Le visite protette tra genitore e figli vengono spesso sospese dopo pochi mesi, dando all’uomo la possibilità di avvicinarsi di nuovo alla donna e commettere violenza, senza che si sia prima agito sul suo comportamento – conclude Pauncz – . Vogliamo un contenimento alla libertà degli autori di violenza, se questa impedisce alle donne di realizzarsi».


(il manifesto, 7 dicembre 2022)

di Zehra Doğan


Dalle montagne curde a Teheran


Nel mondo quello che sta accadendo in Iran viene letto in maniera riduttiva sottolineando soltanto il problema dell’«islam dispotico che obbliga le donne a coprirsi».

Ci si concentra sul diritto di avere la libertà di indossare o meno il velo. È vero, il velo è stato reso obbligatorio per le dipendenti pubbliche in Iran dopo la «rivoluzione del 1979» e i corpi delle donne sono stati imprigionati dall’hijab e da leggi sessiste. Ogni anno migliaia di donne in Iran vengono fermate e arrestate per non aver indossato l’hijab «correttamente». Certo, il velo è un grosso problema in Iran, dove il diritto delle donne di decidere del proprio corpo è controllato dalla pressione statale e religiosa. È a causa della contestazione delle donne all’oppressione sia dello stato sia della religione che il velo, che è solo un pezzo di stoffa al di là delle percezioni attribuite a esso, è diventato un simbolo dell’opposizione delle donne in Iran e in molti paesi governati dall’islam. Le prime informazioni storiche sulla pratica dell’uso del velo per coprire il capo risalgono all’epoca preislamica. Questo tessuto, che in alcuni periodi è uno status symbol, in altri periodi appare come il modo in cui le tribù si autodefiniscono. Molte fonti affermano che durante l’epoca assira solo le donne della classe dirigente potevano indossarlo, mentre a contadine e schiave era proibito. Il velo è il più grande strumento di oppressione contro le donne in Iran, come lo è in tutti i paesi islamici autoritari. Ma sarebbe un approccio sbagliato ridurre la definizione di libertà in Iran alla sola decisione delle donne di indossarlo o meno.

Non esiste solo la questione del velo, ma anche quella di persone di popoli diversi, Lgbtq, poveri, lavoratori, bambini e molte altre identità soggette a un’amministrazione oppressiva che non rispetta diritti fondamentali e libertà. Curdi, beluci, azeri e molti altri popoli sono sottoposti a una forte pressione nazionalista. Per questo è importante discutere sul tipo di sistema che si dovrebbe adottare in Iran come conquista della rivoluzione scaturita dalle proteste che hanno raggiunto grandi masse.

Il fatto che lo slogan «Jin, jiyan, azadî» (donna, vita, libertà) sia diventato il motto della resistenza delle donne nel mondo è una vittoria per la lotta del popolo curdo. «Jin, jiyan, azadî» è più di uno slogan: sottolinea che in Kurdistan le parole donna e vita, dal punto di vista etimologico, hanno la stessa radice, mostra come derivino l’una dall’altra. Questa filosofia è stata espressa per la prima volta dalle guerrigliere del Pkk, che da 40 anni combattono sulle montagne per la libertà dei popoli del Kurdistan, e dal leader del Pkk Abdullah Öcalan, imprigionato dallo stato turco da 23 anni. Le guerrigliere curde hanno creato nel 1993 per la prima volta un esercito separato dai compagni maschi e formato da sole donne sulle montagne e lo hanno consegnato alla storia con lo slogan «Jin, jiyan, azadî». Si deve sapere anche che le donne curde combattono da anni in Iran, Iraq, Turchia e Siria non solo per l’identità curda, ma per la libertà delle donne in Medio Oriente in particolare e in tutto il mondo in generale. Sarebbe ingiusto nei confronti dell’ideologia della liberazione delle donne esprimere la filosofia di «Jin, jiyan, azadî», eredità di migliaia di donne curde rivoluzionarie come Sakine Cansiz e Nagihan Akarsel, solo facendosi catturare dal vento della tendenza popolare, decontestualizzandola e sacrificandola al consumo del neoliberismo. Il fatto che l’essenza delle richieste che si alzano dalle proteste è riassunta nello slogan «Jin, jiyan, azadî» non può essere una coincidenza. Perché questo slogan è una filosofia, un paradigma di vita libertario, democratico ed ecologico delle donne che ha preso vita in Rojava. Se ci sarà una rivoluzione in cui questo paradigma prende vita, sarà con un modello in cui tutti i popoli determinano liberamente il proprio destino, rispettano la natura, la libertà dei generi, in cui non ci sarà corruzione e saranno abolite l’unica voce e l’unica bandiera.


*Artista curda, giornalista ed ex prigioniera politica Versione integrale su il manifesto.it


(Traduzione di Nayera El Gamal, il manifesto, 6 dicembre 2022)

di Viviana Mazza


Che cosa sta succedendo alla «polizia della morale» in Iran?

«Non è ancora chiaro – replica Azar Nafisi, autrice di Leggere Lolita a Teheran, che anche in viaggio da Parigi a Roma segue costantemente le dichiarazioni che giungono dalla Repubblica Islamica –. Non c’è un potere in Iran che possa dirsi responsabile per la polizia della morale. Chiedono ad un alto funzionario della magistratura e lui dice che non è stato il sistema giudiziario a istituirla e che bisogna domandare a chi l’ha creata. Questo mostra quanto controllo abbia perso il regime: non può prendere una decisione sulla sua stessa polizia della morale. Ogni funzionario è responsabile per quello che succede in quel governo, non possono semplicemente dire: “Non siamo responsabili”».

Il funzionario in questione, il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri, ha detto che la polizia della morale è stata chiusa dalle stesse autorità che l’hanno creata, negando che si tratti della magistratura. Nello stesso giorno, Ensieh Khazali, vicepresidente per le donne e la famiglia, ha detto in un programma radiofonico: «Non abbiamo affatto una Gashte Ershad (letteralmente pattuglie di orientamento, cioè la polizia della morale). Si tratta di una polizia della sicurezza sociale che si occupa di tutte le questioni contro la legge e può occuparsi della nudità, anch’essa un crimine». 
«Non è parte della magistratura, non è parte della polizia… Nessuno vuole prendersi la responsabilità: e questo mostra quanto sia debole il regime. Non può decidere su uno dei suoi stessi organi. È una delle cose più folli che abbia mai sentito».

Perché debole? L’ultima parola non spetta alla Guida Suprema Ali Khamenei?

«Khamenei dovrebbe avere l’ultima parola e, in molti casi, va all’estremo usando ogni mezzo possibile per cementare il regime, ma c’è un disaccordo interno che è fonte di debolezza. Nel regime vedo due tendenze estreme nel modo di reagire a queste proteste degli ultimi due mesi: uno consiste nel negare la propria responsabilità o anche atteggiarsi a opposizione, l’altro di adottare la linea della repressione più dura come se i manifestanti fossero corpi estranei all’Iran. Queste contraddizioni indeboliscono il regime. In teoria Khamenei ha il potere, ma nell’azione concreta non sappiamo chi ce l’abbia e, in rami diversi, le persone agiscono in modo diverso».

Il procuratore generale Montazeri ha aggiunto che bisognerà trovare altri modi per applicare le restrizioni sui comportamenti sociali, senza quindi indicare che ci siano al momento cambiamenti sull’obbligo del velo. Però venerdì è stato annunciato che il Parlamento e il Consiglio supremo della rivoluzione islamica studieranno la questione dell’hijab nelle prossime due settimane. Cosa si aspetta?

«È troppo tardi per fingere che ci sarà qualche tipo di riforma all’interno del sistema. E il governo ha fatto dell’hijab il suo problema centrale. Lo hanno fatto loro. Sono loro che hanno sostenuto che, se le donne girano per strada vestite come vogliono, significa che il regime è finito. E adesso è ciò di cui hanno paura. Non possono fare le riforme. Come faranno? Se domani dicessero “niente più hijab” e “niente più polizia della morale” significherebbe niente più Repubblica Islamica».

Di fatto dopo le proteste, la polizia della morale non si vede più come prima e molte donne stanno violando l’obbligo. Non è una vittoria se la Gashte Ershad viene abolita?

«È vero che se viene abolita è una sorta di vittoria, ma non è quello che i manifestanti stanno chiedendo. Non dicono di abolirla o di essere più flessibili sull’hijab. Dicono: “Non vi vogliamo”. Lo scontro con il regime è legato al fatto che i manifestanti non vedono alcun futuro per sé stessi nel sistema. Hanno bisogno di un nuovo sistema nel quale poter creare il proprio futuro. Ed è per questo che lo slogan è “Donne vita – dicono vita: non una cosa politica – e libertà”. È troppo tardi».


(Corriere della Sera, 5 dicembre 2022, Iran, cosa sta succedendo? «L’abolizione della polizia morale è una riforma finta, non basterà»)

di Stefania Tarantino (Studi Femministi)


Prima di iniziare vorrei condividere con voi alcune immagini. Si tratta di una serie di arazzi del ciclo de La Dama e l’Unicorno da poco restaurati e conservati al Museo Nazionale Cluny di Parigi. In un mio recente viaggio a Parigi sono andata a vederli perché sapevo del loro recente restauro e della loro nuova esposizione. L’emozione è stata grande e mi ha lasciato senza fiato. Non solo per l’imponente e meravigliosa opera di tessitura ma anche per ciò che raffigurano: i cinque sensi e l’interezza enigmatica del sentire, del desiderio e del piacere. L’eccedenza femminile come stato estatico e completo di corpo e mente è sganciato qui da qualsivoglia imperativo. Non c’è nulla cui rispondere o attenersi, ma il richiamo libero di un desiderio e di un piacere colti allo stato libero e puro nello spazio esteriore e interiore del proprio sé. Se l’assetto economico delle nostre società fa leva sulla scindibilità dell’essere umano, su piaceri spezzettati e rivolti a “pezzi” di corpo, qui al contrario l’interezza di ogni poro che ci costituisce e che assorbe e riflette tutte le cose è al centro della scena.

(Toulouse) Mon seul désir (La Dame à la licorne) – Musée de Cluny Paris

Il piacere l’ho sempre legato a qualcosa di musicale e di felino. Musicale perché il piacere ha qualcosa di ritmico e di melodico. Godere, con tutti i sensi, rimanda per me all’essere all’unisono con altri ritmi e con questo non mi riferisco solo a relazioni umane ma alla partitura del corpo-mondo di cui facciamo parte. Felino perché il piacere lo imparo anche dall’arte di vivere dei miei gatti, dal loro savoir faire inaddomesticato che è irrevocabilmente fedele solo a sé seppur nella capacità di amare altro da sé.

So che nel piacere femminile vive questa profondità inscindibile tra anima e corpo. Non c’è confine tra i due e neanche semplice connessione, ma intreccio, danza, pulsazione. Così mi spiego quel piacere capace di derivare anche dalla fatica. Da tutte quelle fatiche che non comportano abbruttimento ma un grande potenziamento e una capacità di intensificazione che fa sentire le cose come “vere”, “reali”. Stancare il corpo fino alla spossatezza e provare gioia: penso sia lo stato perfetto di ogni creazione ben riuscita. La leggerezza che ne deriva solleva e porta sollievo alla gravità e al peso della vita quotidiana.

Per ciò che riguarda la mia passione filosofica essa è legata al piacere che mi deriva dai pensieri femminili e dalla loro ironia. La scoperta di un’intuizione femminile che non strappa violentemente la conoscenza ma che invece si lascia attraversare dall’ispirazione per cogliere ciò che è primariamente importante in una vita pensante di donna in cui sapere e vita sono una sola cosa.

Una fonte di piacere imprescindibile è la possibilità di vivere e di sperimentare l’immaginazione in una forma assolutamente gratuita. Ciò accade quando gioco e invento mondi con le mie figlie. Con loro sono stata ovunque e sono stata tutto ciò che ho immaginato di essere. Ho capito che in un certo senso il piacere non ha veramente nulla a che fare con l’economico. Tutto qui è gratuito e pieno di offerte di sé. Il piacere è così una potenza trasformativa, ha qualcosa di alchemico e di fluidificante.

Un’altra fonte di piacere è il contatto con la natura, un contatto non solo visuale ma che riguarda l’avvolgimento di tutti i sensi. Mi sento parte di qualcosa di immenso: una foglia, una goccia del mare, una nuvola del cielo, un germoglio. Il mio tutto non si riduce più al mio io. Fonte di piacere assoluta dell’espressione in tutte le sue forme. La stessa cosa mi accade nella relazione con altre donne. Studi Femministi e altri luoghi in cui il pensiero conosce la gioia del pensare insieme e in  cui i nodi da sciogliere o già sciolti sono i frutti maturi da raccogliere per la vita.

L’insegnamento che ne traggo: capire ogni volta dove si sta nel proprio piacere nel decentramento dall’ego e nello spostamento in una realtà più vasta. Amare il simultaneo rispetto a ciò che eterno, la parola cantata e danzata rispetto a quella scritta.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 4 dicembre 2022)

di Giorgia Basch


If you think you can grasp me, think again:

my story flows in more than one direction

a delta springing from the riverbed

with its five fingers spread

Adrienne Rich1


La mia riflessione parte da un’immagine, un’immagine fatta di parole, quelle di Luce Irigaray. Due labbra schiuse, indice di una femminilità non riducibile al multiplo, che parla in tante lingue e tante voci. Il movimento delle labbra esprime un toccarsi che è scambio costante, «linguaggio che non ha circolarità»2, non organizzato sinteticamente, libertà di azione e movimento, flusso.

L’intuizione di Irigaray apre a una molteplicità senza fine di linguaggi e soggettività che sfuggono allo schema fallocentrico della rappresentazione e al femminile che si fa concetto.

Il piacere delle donne è plurale, diffuso, attraversa e permea tutto il corpo, ne oltrepassa i confini e quelli delle fantasie individuali, si introduce nelle relazioni, approda nelle pratiche collettive. Il piacere della condivisione, della vicinanza, del toccarsi, del fare mondo insieme. Come viverlo in una società che spinge per l’identificazione definita, che ci chiede sempre di scegliere un ruolo, una forma e che una forma la dà anche al desiderio femminile, per renderlo afferrabile tanto quanto il desiderio maschile, rigido, plasmato, visibile?

I nostri corpi sessuati sono ancora troppo spesso ridotti a superficie, che sia essa schermo, fotografia, merce.

Lo scambio delle donne fa funzionare la società patriarcale, ne servono tante, tutte, a ripetizione: il fascino della mancanza sembra dominare l’economia sessuale fallocratica, che spesso coincide con pornografica, e alimentare il desiderio e l’idea (maschile) di piacere femminile è diventato un necessario esercizio di subordinazione per poter continuare a godere e goderne. Come? Ponendo gli oggetti del desiderio in competizione per il raggiungimento di uno standard comune, quello della donna che trae piacere solo procurandolo. In questo scenario la parola delle donne scompare, i corpi si fanno immagine, «immagini ricevute, stratificate e intrecciate a percezioni dirette ma oscure», come scrive Rossana Rossanda, e si misurano col «vedersi vista»3, col vedersi godere. Nel concreto, il piacere passa dalla vista piuttosto che dal tatto, dalla seduzione online o in presenza attraverso l’assunzione di ruoli, posture, collocazioni che non possono che rimpicciolirci, sfinirci, anestetizzarci, e allontanarci dal nostro essere donne che è senza confini, senza argini stabiliti.

Lavorando con la pratica visiva come art director e fotografa mi interrogo sempre più spesso sulla questione della rappresentazione, o auto-rappresentazione, dei nostri corpi femminili, e in particolare sull’imposizione da parte della società, delle realtà per cui produciamo, degli uomini, di creare un canone, di aderire a una funzione, ogni qualvolta decidiamo di raffigurarci o raffigurare altre donne, correndo spesso il rischio di riduci più o meno inconsciamente ad oggetto appetibile. Agghindate, sottoesposte, lussuriose, castigate, disponibili, irraggiungibili: transitiamo tra categorie opposte per soddisfare ogni loro fantasia, il loro stato di equilibrio, dimentiche delle nostre eccedenze e pulsioni.

È possibile riappropriarsi del potenziale della rappresentazione, che per me come per altre donne coincide con una passione, e farne uno strumento di liberazione? Non più ruoli imposti ma incarnazioni riconoscibili del nostro sentire presente, diapositive del qui e ora, corpi vibranti, godenti, e con a disposizione una varietà pressoché infinita di configurazioni e scelte, anche contraddittorie. Ritrarci non deve per forza coincidere con una fissità come siamo portate a credere, possiamo essere tanto, tutto, tutto assieme.

Scompaginare l’ordine sociale vigente è immaginabile partendo dal piacere per come lo intuiamo noi, un piacere in cui ci riconosciamo. Il vederci con occhi nostri può aprire all’ascolto con tutti i sensi, aprire a un coinvolgimento pieno. Sensuale.

Il nostro sentire, il nostro sentirci toccate, deve restare la nostra bussola per poter navigare libere in una società in cui non troveremo, e non vogliamo, un posto così com’è. Il cambiamento passa anche attraverso la riscoperta del nostro piacere femminile espanso, dell’erotico4 che si fa eccesso non solo nel sesso, ma nella pratica comune di tutti i giorni, nel fuoco della creatività che alimenta noi e il nostro lavoro, i nostri progetti di vita, che tiene vive le nostre relazioni.

Interrogando in che misura i nostri bisogni sono effetto d’un funzionamento sociale, rimettiamo in gioco la nostra sensibilità, ritorniamo a pensare col corpo. Sottraendoci alla frammentazione e alla mercificazione delle nostre figure e desideri, alle categorie imposte, agli imperativi, pronunciano dei “no”, riprendiamo parola, e lo facciamo disturbando l’ordine del discorso. Auspicabilmente, dando vita a un discorso nuovo. Un parlare donna che non rinuncia ma rivela.


1 Adrienne Rich, “Delta”, Time’s Power: Poems 1985-1988, WW Norton & Co, 1989

2 Luce Irigaray, Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli Editore, 1977 p. 174

3 Rossana Rossanda, Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri, 2018, p. 75

4 Mi riferisco alla concezione di erotico di Audre Lorde in Uses of the erotic, 1978


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 4 dicembre 2022)

di Marina Santini


Il 20 novembre 2022 sullo Specchio de La Stampa è comparso (con la firma di Maria Corbi) un articolo sul nuovo calendario Pirelli della fotografa Emma Summerton dal titolo “Se ti fotografa una donna sei più sexy” che a nostro avviso mostra in modo chiaro l’uso del femminismo e della libertà femminile per il piacere maschile. La retorica del “curvy”, il movimento “body positive”, amarsi per come si è, è solo apparentemente liberatoria. Lo esplicita, non in chiave critica, Maria Luisa Agnese su la 27ora: «Tanto vale decidere di star bene nella propria pelle, perché si sa che gli uomini alla fine preferiscono proprio le rotondità». La ricerca del sexy ha come finalità il piacere degli uomini, e l’asservimento allo sguardo maschile viene spacciato per “empowerment”.

Le giovani donne che frequentano i social, ma non solo, per “poterci essere”, si trovano a doversi misurare con un linguaggio che il neocapitalismo, in modo strumentale, prende dal pensiero femminista. Ed è proprio questo linguaggio, che vuol essere libero e liberante, che invece le imbriglia, orientandole a richieste di performance e godimento che poco hanno a che fare col desiderio profondo di ciascuna. Le più attente avvertono l’inganno e sentono la necessità di svincolarsi da questa trappola e ricercano, nello scambio con altre, di trovare il proprio piacere.

Ripartiamo, allora, da Carla Lonzi, il cui pensiero è ancora nutrimento per le giovani donne. Ne abbiamo conferma in Libreria con le numerose richieste dei suoi libri. Sentiamo in questa riscoperta e nel bisogno di misurarsi con un pensiero altro il segnale di un malessere diffuso fra le più giovani.

Carla Lonzi nel 1971 con La donna clitoridea e la donna vaginale aprì alle donne la strada per riconoscere il proprio piacere autonomo, distinto da quello maschile; questa autonomia sarà ripresa in seguito da Luce Irigaray nel 1977 con Questo sesso che non è un sesso.

Con la pratica dell’autocoscienza tutte noi abbiamo cominciato a individuare quando il nostro piacere era subordinato alla performatività maschile e a trovare le “parole per dirlo”; con la politica delle relazioni con le altre donne abbiamo cominciato a ricavare energia e forza per immaginare e costruire un diverso rapporto con il reale.

Siamo libere solo se siamo in contatto con il nostro corpo.

L’interrogazione sul piacere è una costante del pensiero femminista, scorre in forme carsiche e in alcuni momenti ha l’urgenza di emergere.

La storica e pensatrice María-Milagros Rivera Garretas nel suo recente libro Il piacere femminile è clitorideo ci fa fare un passo avanti rispetto a Carla Lonzi: tutte nasciamo clitoridee. Indipendentemente dalle scelte sessuali, il piacere per le donne è clitorideo e si irradia nel sentire a tutto il corpo, non rimane circoscritto all’organo sessuale. È dunque un modo di stare nel mondo, di avvicinarsi alle cose e di conoscere. Citando Maria-Milagros, «Non c’è piacere clitorideo se non lo vivi nell’anima carnale, piacere cognitivo, perché noi donne pensiamo e amiamo senza divisioni, senza separazioni». Cogliere questo vuol dire liberarsi dalla «violenza ermeneutica» in cui molte di noi si sono formate. La violenza ermeneutica cerca di cancellare il pensiero dell’esperienza, dà valore solo a ciò che altri hanno già detto: rimanere fedeli a questo pensiero (pensiero del pensiero) distrugge il piacere del conoscere e del creare come donna. Da brave studentesse prima, poi, da buone ripetitrici, avremmo dovuto riproporre nei nostri comportamenti e modi di pensare il pensiero maschile. Per tante questo non è avvenuto: per me nella scuola, per altre nelle loro professioni; sperimentare il piacere di lavorare in relazione con altre donne, mostrare questa relazione, fare ricerca, trovare nello scambio con l’altra o l’altro la possibilità di una trasformazione di sé e del mondo è stato possibile quando abbiamo cominciato a dare voce al nostro sentire, a tenere insieme corpo e pensiero, scoprendo che questo è politica.

Prima di dare la parola a Giorgia Basch della Redazione di Via Dogana Tre e a Stefania Tarantino di Studi femministi, seguendo la lezione di María-Milagros, auspico di trovare insieme l’orgasmo della parola giusta.


(ViaDoganaTre – www.libreriadelledonne.it, 4 dicembre 2022)


Domenica 4 dicembre 2022, ore 10.30-13.00

Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3


Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano


Trovare le parole del piacere femminile

In un tempo di imperativo al godimento indotto dal capitalismo neoliberale, ci sono segnali che le donne non ci stanno o provano un disagio che non le lascia esprimere con libertà e forza.

Per non rinunciare a stare con agio nel mondo, vogliamo reinterrogare il piacere femminile, che non è tutto compreso nell’ordine vigente. Cosa del piacere resta escluso dall’ordine vigente? L’intensità della relazione, del trovarsi con altre a scambiare parole mai usate che ti muovono dentro? L’esistenza di una sessualità femminile autonoma?

Sul piacere il pensiero femminista, inaugurato da Carla Lonzi, ha prodotto significative riflessioni e ha investito l’intero stare al mondo di una donna.

Oggi, mentre la richiesta di prestazione si fa sempre più pressante nella sfera personale e pubblica, vogliamo trovare le parole che ridicono il piacere femminile e ne fanno una bussola che ci orienta nella politica, nel lavoro e in ogni aspetto della vita.


Introducono Marina Santini, Giorgia Basch e Stefania Tarantino


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Si consiglia la mascherina.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.

È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.



Appuntamento: domenica 4 dicembre 2022 ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29,

Milano, tel. 02 70006265.


Potere, dominio, decisione
Conduce Annarosa Buttarelli, Filosofa e Direttrice scientifica della Scuola di Alta formazione Donne di Governo. Per la partecipazione è previsto un contributo previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it

Daniela PizzagalliI ViscontiIl sogno della corona, Rizzoli 2022. Abili e rapaci strateghi, disposti a tutto per affermare il loro potere, i dodici Visconti hanno impresso il loro stile a Milano, facendone una capitale ricca, evoluta, europea. Intrecciando pubblico e personale, Daniela Pizzagalli, nota finora per le sue biografie femminili, conclude la trilogia dedicata alla stirpe milanese che traghettò la cultura lombarda dal Medio Evo al Rinascimento. Daniela Pizzagalli dialoga con Marta Morazzoni. Introduce Mirella Maifreda.     

Per acquistare online I ViscontiIl sogno della corona:

https://www.bookdealer.it/goto/9788817161060/607

di Angela Strano


Il 25 novembre come giornata internazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto agli abusi che le donne hanno subito nei millenni. Una serie di iniziative susseguitesi a Catania per fare in modo che questo non accada più o quantomeno si acquisisca una coscienza critica. Vi teniamo sempre con noi è il nome del flashmob svoltosi lo scorso venerdì pomeriggio in piazza Università.

Esso ha trovato organizzazione con la Ragnatela, rete di associazioni, gruppi, realtà varie contro la violenza sulle donne.

Composizione del flashmob

Vi teniamo sempre con noi prende il nome dalle sagome femminili collocate sul pavimento di piazza Università. Esse indicano tutte le donne vittime di femminicidio, in quanto si sono opposte al dominio maschile permeato di retaggi patriarcali. Tra queste figura Valentina Giunta, che viveva nel quartiere di San Cristoforo, uccisa la scorsa estate dal figlio, imbevuto dai condizionamenti familiari paterni.

A queste sagome si è accompagnato il tappeto rosso, con cartelloni sulle artiste che hanno rappresentato il tema della violenza sulle donne e la strenua opposizione a questo. Artemisia Gentileschi, Frida Kahlo, Elisabetta Sirani (pittrice italiana), Zehra Doğan (artista curda), Barbara Kruger e Sue Williams (artiste statunitensi) hanno caratterizzato la mostra allestita da Carmina Daniele e Concetta Rovere in cui emerge tutto il potenziale femminile. Quest’ultima ha pure esposto alcune sue creazioni, assieme a Cettina Tiralosi. Lungo il mandala della libertà hanno trovato spazio gli acquerelli di Monse Pla, il cui richiamo alla natura è strettamente correlato al femminile, con la Grande Madre. Nel corso dell’iniziativa c’è stata la lettura di alcuni brani tratti dal libro Ferite a morte di Serena Dandini, da parte di Carmina Daniele e Mati Venuti. Un’interpretazione scandita dalle note del contrabbasso di Enrico Sorbello, il quale ha suonato musiche di Bach nonché brani improvvisati.

Vi teniamo sempre con noi: le voci espressesi

Introduce il dibattito Anna Di Salvo, della Città Felice, ricordando Valentina Giunta e affermando che negli ultimi decenni la civiltà delle donne ha preso piede e occorre contribuire al suo consolidamento. Sussiste, infatti, una regressione delle conquiste femminili. A tal proposito, Nunzia Scandurra ha affermato che gli attacchi contro le donne sono sistematici. Occorre continuare a condividere gesti, simboli, luoghi, esperienze. I corpi incarnano l’essenza femminile, aspetto minacciato con la prevalenza del genere neutro. La libertà delle donne messa a dura prova da leggi che la reprimono.

Segue l’intervento di Oriana Cannavò, del centro antiviolenza Penelope, la quale ha auspicato un maggior interesse, in termini di atti concreti, da parte degli enti locali. Ella, inoltre, si è riferita alle attività svolte presso la Casa sociale delle donne. Hanno trovato esposizione, infatti, le creazioni del laboratorio di sartoria gestito da Emily e Amelia di Trizzi d’Amuri. Agata Palazzolo, segretaria del SUNIA di Catania, ribadisce la necessità dell’indipendenza economica e abitativa per le donne, specie le vittime di violenza. Occorrono quindi incentivi alle donne affinché riescano a trovare una casa indipendente. Tina Palella afferma che è fondamentale ascoltare i/le ragazzi/e che frequentano la scuola. Se tra questi/e sussiste chi vive in un contesto familiare difficile, si può risalire al nucleo della violenza.

L’unione contro la violenza sulle donne

Vi teniamo sempre con noi continua con le parole di Valeria Sicurella, del centro antiviolenza Thamaia, sostenendo che il femminicidio non consiste solo nell’uccisione finale. Esso concerne pure tutto ciò che logora e annichilisce una donna. I processi penali, infatti, costituiscono la punta dell’iceberg rispetto a un problema che resta sommerso. Thamaia ha sempre creato rete con le scuole, nonché lavorato con persone competenti e accolto circa 250 donne l’anno. Giusy Milazzo, di SUNIA Sicilia, espone le attività di questa realtà, rivolta ai quartieri popolari; luoghi in cui la voce delle donne spesso resta inascoltata. Pina La Villa, insegnante, afferma che, per prevenire la violenza contro le donne, occorre la sensibilizzazione nelle scuole. La comunicazione con gli/le alunni/e è fondamentale.

Gli interventi di Sesto Schembri e di Chiara Petrelli hanno una connotazione politica. Il primo afferma che il maschilismo è conseguenza di una società borghese; la seconda sostiene che in qualunque sistema economico la donna ha avuto più difficoltà nell’affermare la sua soggettività. In ultimo il discorso di Cettina Tiralosi, la quale evidenzia l’importanza della relazione tra donne, intesa come reciprocità. Questo porta a definire la matrilinearità e a disinnescare la cancellazione del femminile. Un incontro sentito e partecipato che porta a volgere verso altri spunti nel confronto tra donne, in cui emergono necessità importanti da mettere a fuoco, come il tema della violenza. Vi teniamo sempre con noi ha incarnato tutto questo.


(https://catania.italiani.it/vi-teniamo-sempre-con-noi-contro-la-violenza-sulle-donne/, 1° dicembre 2022)

di Paola Mammani e Tiziana Nasali


Lettere – non pubblicate – al Direttore de La Stampa: omicidi di donne, uomini che mancano all’appello e legge Merlin. (La redazione)


Milano, 22 novembre 2022


Gentile direttore,

alcune amiche hanno apprezzato lo spazio che La Stampa ha dato allo sconcerto suscitato in molte donne dall’articolo di P.B. “utilizzatore finale” delle prestazioni di una delle due povere donne cinesi prostituite e trucidate di recente a Roma. Ma mi chiedo: perché far intervenire due giornaliste a difesa della scelta del giornale? Buon per loro che ne sono soddisfatte, ma che cosa si dimostra? Che vi è un’opinione di donne contraria alle lettrici protestatarie? Certo, le donne non sono un gruppo di interesse omogeneo, sono libere, sempre di più, e hanno opinioni e giudizi differenti. Ma sono le indignate quelle che dovrebbero essere per lei interlocutrici degne di attenzione. Era troppo sperare che lei non contrapponesse alle lettrici delle giornaliste soddisfatte del suo operato? Si trattava di individuare come seri interlocutori delle indignate, uomini dotati di maggiore consapevolezza delle responsabilità del loro sesso, diversamente dallo scrittore cui lei ha aperto le pagine del suo giornale.


Paola Mammani (della rete per l’Inviolabilità del corpo femminile)


Milano, 24 novembre 2022


Gentile Direttore,

apprezziamo che lei abbia tenuto aperto l’importante dibattito sulla prostituzione. Vogliamo fare alcune brevi riflessioni. Non crediamo che il cosiddetto modello nordico, la criminalizzazione del cliente, proposto sul suo giornale dalla Senatrice Maiorino attraverso una modifica della legge Merlin, sia una buona soluzione. Riconosciamo invece alla legge Merlin una particolare forza, soprattutto simbolica, che è interpretazione profonda e umanamente lungimirante del fenomeno prostitutivo. Considera infatti reato solo lo sfruttamento della prostituzione e affida a tutti noi, forse più agli uomini che alle donne, il compito di estinguere le cause che ne originano e perpetuano l’orrore, prima fra tutte la richiesta di sesso a pagamento da parte degli uomini. È questa battaglia simbolica, di capovolgimento di significato, di cambiamento dell’immaginario e della narrazione della sessualità maschile, che va combattuta. Le buone leggi poi seguono, se servono.

Veniamo infine ad alcune considerazioni sulle prospettive.

L’attuale governo è ben lontano dalla possibilità di trovare una maggioranza a riguardo. Se ne riparlerà tra 5 anni o comunque dopo la caduta del governo Meloni, e solo in via ipotetica.

Infine, in un paese come l’Italia, in cui non risulta efficace nessuna forma di controllo, è quasi impossibile immaginare l’avvio di serie azioni sanzionatorie nei riguardi dei clienti della prostituzione.


Grazie per l’accoglienza,


Paola Mammani e Tiziana Nasali

della Libreria delle donne di Milano


(www.libreriadelledonne.it, 1° dicembre 2022)

di Guido Caldiron


È «l’ultima dichiarazione» che spetta agli imputati nell’aula di un tribunale, una parola libera in un Paese che non conosce più il pluralismo, il diritto al dissenso e all’opposizione. E che da dopo l’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio scorso, considera ogni voce critica alla stregua di un nemico. Da reprimere, neutralizzare, cancellare. I testi riuniti in Proteggi le mie parole in libreria da domani per e/o (a cura di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio, prefazione di Marcello Flores, pp. 178, euro 16,50) raccontano la Russia di Putin attraverso venticinque testimonianze che, lungo gli ultimi cinque anni, tracciano l’orizzonte di una resistenza che continua pur tra mille difficoltà e rischi.

Sono le dichiarazioni pronunciate da imputate e imputati in processi politici svoltisi nel frattempo nel Paese: voci note come quelle di Aleksej Naval’nyj o dello storico Jurij Dmitriev, di una ex deputata o di un militante anarchico, ma anche di tanti uomini e donne comuni che devono rispondere di una protesta di strada, di un cartello contro la guerra agitato sulla pubblica via. Come gli scritti raccolti nei samizdat dell’epoca del dissenso al regime sovietico, si tratta di testimonianze di prima mano di ciò che le autorità e il potere putiniano negano o cercano di rendere invisibile: la violenza, la repressione, la censura, la stessa guerra in Ucraina. Uno scenario che si intreccia non a caso al tentativo di controllare il passato della storia russa, rimuovere i crimini staliniani e le ombre che continuano a proiettare sul presente. Come segnala Sergej Bondarenko, classe 1985, uno degli storici dell’associazione Memorial, sorta negli anni Ottanta su iniziativa dell’ex dissidente Andrej Sacharov per documentare l’orrore dei gulag e delle persecuzioni politiche nell’Urss, che il regime di Putin ha messo al bando proprio alla vigilia della guerra in Ucraina. A Memorial è andato quest’anno il Nobel per la pace.

Nell’introduzione lei fa riferimento al passato di repressione dell’Urss e al celebre caso dei dissidenti Daniel – Sinjavskij. Nella Russia di Putin si è tornati a quel clima, al tentativo di annichilire ogni voce libera? 
Assolutamente. Anche se in realtà si potrebbe sostenere che il clima non sia mai cambiato del tutto: ne abbiamo solo conosciuto delle fasi diverse ai tempi di Eltsin o nei primi anni di Putin. Si può iniziare dall’idea stessa di «sistema giudiziario indipendente», che in realtà non era assolutamente tale in epoca sovietica e ne è una sorta di parodia in questo momento. Si può comunque sostenere che la situazione è peggiorata molto negli ultimi 10-12 anni del mandato di Putin. Anni nei quali, inoltre, non è più presente alcuna opposizione legale in parlamento. Già dai primi anni 2000 l’opposizione era sotto pressione, ma almeno a quel tempo se ne vedeva un po’ in tv grazie alle manifestazioni politiche che venivano organizzate. In questo momento non c’è quasi nulla: la resistenza contro la guerra è molto coraggiosa, ma si fa notare a malapena fuori da Internet. Le ultime parole che gli imputati possono pronunciare in tribunale diventano così l’unica forma di discorso politico pubblico nella Russia di oggi.

Perché le autorità hanno deciso di mettere al bando Memorial, nata per documentare la repressione di epoca sovietica: nascondere i crimini del passato serve per controllare il presente e rendere possibile che tutto ciò accada ancora? 
Credo si tratti di parte del processo che ho già cominciato a descrivere. Ancora 10 o 12 anni fa si poteva pensare che l’avvento di Putin potesse offrire qualche chance al Paese. Ora ci rendiamo conto del contrario: abbiamo conosciuto alcuni anni di speranza durante l’ultimo periodo della Perestrojka e il mandato di Eltsin e prima della guerra cecena. Dopodiché si è arrivati lentamente alla situazione che si vive attualmente. Per Memorial è accaduto lo stesso: all’inizio l’associazione si occupava del passato sovietico, solo che questo si è trasformato molto rapidamente nel nostro presente. E per certi versi, il presente è persino peggiore dell’ultima fase sovietica: ora non abbiamo solo prigionieri politici, abbiamo omicidi politici, abbiamo la guerra. Dall’inizio degli anni ’90 Memorial lavora in due diversi campi: sul piano storico e su quello della difesa dei diritti umani oggi. Solo che in questo momento tali piani sembrano coincidere: stiamo rivivendo i nostri peggiori incubi. Quindi che si sia voluto liquidare Memorial non è così sorprendente se la si guarda dal punto di vista del regime che vuole fermare tutti coloro che possono contestare pubblicamente la versione propagandistica ufficiale della guerra.

Cosa ha rappresentato per Memorial e l’attività che svolge il fatto che l’associazione sia stata insignita del Premio Nobel per la pace? E di questo riconoscimento che eco si è avuta in Russia? 
Non posso parlare a nome di tutti, da dopo i mesi passati in tribunale e la messa al bando dell’associazione, per me ha rappresentato un segno di vita. E la cosa più importante è che non è stata premiata solo Memorial ma tre organizzazioni attive in Ucraina, Bielorussia e Russia. Ovviamente continueremo il nostro lavoro dentro e fuori la Russia e il Nobel è solo uno dei segnali di incoraggiamento che è arrivato insieme ad altri. Sappiamo che la Russia non è solo Putin e il suo governo. Con il Nobel, Memorial è in buona compagnia, accanto a Pasternak, Solzhenitsyn, Sakharov e Muratov: anche tutti loro sono stati messi sotto pressione dal regime prima e dopo aver ricevuto il premio. Ora dobbiamo solo essere all’altezza delle aspettative.

Le dichiarazioni raccolte nel libro non contengono solo informazioni legate ai singoli casi, ma sono un’occasione per denunciare la situazione del Paese, la violenza subita dagli oppositori, la guerra. Si può parlare di questi testi come di voci della resistenza russa contro il regime? 
Senza dubbio. Come spiegavo, lo consideriamo uno degli ultimi modi per dire qualcosa pubblicamente, in un contesto «ufficiale», che resti a verbale. L’idea che si possa parlare liberamente in un tribunale quando per altri versi tutto ciò è completamente vietato o soggetto a censura rappresenta una sorta di problema tecnico che si verifica dentro un sistema. Del resto, è una vecchia tattica di guerriglia quella di rivoltare il sistema contro se stesso e provare a dire qualcosa di vero usando a tal fine le contraddizioni dei meccanismi repressivi.

Gli ultimi testi sono stati raccolti nei tribunali dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina: cosa è cambiato da quel momento per la società russa e per coloro che si battono per la libertà e il rispetto dei diritti umani? 
L’intero sistema in cui ci muovevamo è crollato. Siamo privati delle cose più semplici – non puoi dire che sei contro la guerra o pacifista (o anche che vuoi che la guerra finisca con la vittoria ucraina, qualunque cosa significhi). Molte persone hanno lasciato il Paese, per il momento con la speranza di tornare. Molti dei miei colleghi sono rimasti in Russia e continuano il loro lavoro e anch’io sto cercando di fare lo stesso: dall’inizio della guerra ho trascorso sei mesi in Germania e due in Russia. Vivo fuori dal Paese da agosto, ma quel che posso dire della Russia è che proprio il tentativo di costruire una mobilitazione dopo il 24 febbraio ha condotto molti a rendersi conto della realtà in cui viviamo. L’elenco delle opzioni è infatti breve: cosa puoi fare se sei contro la guerra e sei ancora in Russia?

Lei è costretto a vivere a Berlino per poter svolgere il suo lavoro per Memorial: cosa significa operare in esilio e dopo la messa al bando dell’associazione? Infine come vede il futuro della Russia? 
Ho lasciato la mia casa con uno zaino, due libri e un paio di stivali e non l’ho mai considerato come un viaggio di sola andata. Allo stesso tempo devo dire che questa è una posizione privilegiata: molte persone in Russia non hanno modo di andarsene. Qui ho un posto dove stare con la mia famiglia. Ovviamente non è facile, ma considerando cosa sta facendo l’esercito del nostro Paese in Ucraina in questo momento, sono al sicuro. In Russia, molti dei miei colleghi lavorano ancora per aiutare le persone a non finire nell’esercito o a lasciare il Paese o ad essere rappresentate da un legale in tribunale. La mia unica speranza è che rimaniamo tutti relativamente sani di mente senza fermarci finché la situazione non cambierà.


(il manifesto, 29 novembre 2022)


Cari amici, cari voi che mi leggete e mi pubblicate all’estero, in Russia stiamo vivendo un momento terribile, ancora più tremendo di quello vissuto durante la seconda guerra mondiale, quando Hitler ci attaccò. Quella volta il popolo russo, la Russia, i nostri soldati erano sacri per il mondo intero; il nostro sangue era versato a difesa di tutti, e le grandi nazioni venivano in nostro soccorso, prime fra tutte l’America e l’Inghilterra. E in Europa, chiunque aveva un po’ di cervello si dava alla macchia per combattere contro Hitler. 
Noi, invece, vivevamo nel profondo della Russia. La mia famiglia faceva la fame, io avevo la tubercolosi, chiedevo l’elemosina per strada, cantavo per un tozzo di pane. Avevo sette anni quando la guerra finì. Eppure ricordo ogni cosa! E sono cresciuta orgogliosa del mio popolo. 
Dei poveri, delle donne che nelle retrovie difendevano la patria con tutte le loro forze. Le loro disgrazie, infatti, sono tutte nei miei libri, nei miei testi teatrali. 
Oggi la Russia delle donne è stata offesa, è stata umiliata. I generali di Putin la disonorano, la calpestano, le portano via i figli per una guerra meschina e rivoltante; una guerra contro quelli che sono suoi fratelli e sue sorelle, contro quell’Ucraina che tanto amiamo e che è parte di noi. Non faccio che piangere, mentre leggo le notizie su Internet. Sono là anch’io, insieme a loro mi nascondo dalle mie stesse bombe! Insieme a loro proteggo dal fuoco i nostri bambini, li proteggo dagli spari dei ragazzi russi; e con loro, con l’Ucraina, mi preparo a fare la fame e a chiedere l’elemosina. 
Voi che siete altrove, vi scongiuro: aiutate la santa Ucraina! 
Di questa guerra accuso il criminale numero uno, Putin. 
Che il sangue dei morti ricada sulla sua vecchia testa, che gli imbratti la faccia e le mani. 
Accuso lui di questa carneficina. È un assassino. 
Mi arrestino pure, sono pronta, come sono pronta alle botte e allo sciopero della fame e della sete. Sono pronta a subire tutto ciò che accade a chi protesta e viene arrestato per strada. 
Di queste parole, però, rispondo io e io soltanto. I miei figli, i miei nipoti e pronipoti non sanno niente. 


Ljudmila Petruševskaja


(www.unistrasi.it, traduzione di Giulia Marcucci e Claudia Zonghetti, 28 novembre 2022)

di Tomaso Montanari


Cosa può insegnarci Ljudmila Stefanovna Petruševskaja? Molto, moltissimo. Per questo l’Università per Stranieri di Siena (della quale chi scrive è rettore) le ha conferito, mercoledì scorso, una laurea honoris causa.

Nata nel 1938, e oggi vitale come una ventenne, questa donna apparentemente fragile e in verità solida come una quercia, è tra i maggiori scrittori russi viventi: narratrice, drammaturga, favolista e poeta, ma anche cantautrice e pittrice. Appartenente a una famiglia di “nemici del popolo” sempre dissidenti rispetto all’ortodossia del potere sovietico, nipote del linguista Nikolaj Feofanovič Jakovlev (interlocutore e amico di Roman Jakobson) e di una nonna che fu corteggiata da Majakovskij, Ljudmila Stefanovna viene dalla più eletta tradizione intellettuale moscovita. Contemporaneamente, è una donna che ha vissuto senza protezioni gli orrori della storia travagliatissima del suo Paese, una donna “che per anni – ha ricordato la russista Giulia Marcucci nella laudatio accademica – non aveva neppure uno vero spazio per dormire, e che sapeva raggomitolarsi scalza nei negozi di alimentari per un poco di cibo, una donna pioniera che ha scritto capolavori che non poteva pubblicare a causa della censura, e ha protetto la sua creatività cantando da bambina nei cortili, e poi, da adulta, traducendo dal polacco e alimentando la circolazione clandestina dei Samizdat”. Rimanendo fedele a questa doppia genealogia di cultura e sofferenza, Petruševskaja ha sempre saputo schierarsi dalla parte giusta. Durante il discorso tenuto in occasione del conferimento di un importante premio letterario, ella continuò una famosa poesia di Anna Achmatova, aggiungendo questi suoi versi: “Io invece dirò: parlate! / Io vi ascolto, mendicanti, perseguitati!”. Quando, nel 2021, Vladimir Putin ha chiuso l’associazione Memorial – prima ong russa che raccoglieva la memoria dei dissidenti –, la nostra scrittrice gli ha platealmente restituito il prestigiosissimo premio di Stato che proprio lui le aveva consegnato nel 2002. In questi mesi, Petruševskaja è impegnata in una tournée del suo spettacolo di cabaret letterario nei paesi che ospitano i ragazzi fuggiti dalla Russia per non combattere: con l’idea commovente di sollevare il morale non delle truppe, ma dei disertori!

Quando, nello scorso febbraio, l’Università per Stranieri di Siena aprì una sezione del suo sito dal titolo Voci contro la guerra (traducendo in italiano, e riproponendo in russo, in modo che se anche cancellate in patria, rimanessero sulla rete, le riflessioni di colleghe e colleghi russi, delle università o della cultura, schierati contro la guerra), il testo più impressionante era un post comparso sulla pagina Facebook di Petruševskaja: “Cari amici, cari voi che mi leggete e mi pubblicate all’estero, in Russia stiamo vivendo un momento terribile, ancora più tremendo di quello vissuto durante la seconda guerra mondiale, quando Hitler ci attaccò. Quella volta il popolo russo, la Russia, i nostri soldati erano sacri per il mondo intero; il nostro sangue era versato a difesa di tutti, e le grandi nazioni venivano in nostro soccorso, prime fra tutte l’America e l’Inghilterra. E in Europa, chiunque aveva un po’ di cervello si dava alla macchia per combattere contro Hitler. Noi, invece, vivevamo nel profondo della Russia. La mia famiglia faceva la fame, io avevo la tubercolosi, chiedevo l’elemosina per strada, cantavo per un tozzo di pane. Avevo sette anni quando la guerra finì. Eppure ricordo ogni cosa! E sono cresciuta orgogliosa del mio popolo. Dei poveri, delle donne che nelle retrovie difendevano la patria con tutte le loro forze. Le loro disgrazie, infatti, sono tutte nei miei libri, nei miei testi teatrali. Oggi la Russia delle donne è stata offesa, è stata umiliata. I generali di Putin la disonorano, la calpestano, le portano via i figli per una guerra meschina e rivoltante … Sono là anch’io, insieme a loro mi nascondo dalle mie stesse bombe! Insieme a loro proteggo dal fuoco i nostri bambini, li proteggo dagli spari dei ragazzi russi; e con loro, con l’Ucraina, mi preparo a fare la fame e a chiedere l’elemosina. … Di questa guerra accuso il criminale numero uno, Putin. Che il sangue dei morti ricada sulla sua vecchia testa, che gli imbratti la faccia e le mani. Accuso lui di questa carneficina. È un assassino”. La regressione al nazionalismo bellicista che oggi attanaglia anche l’Occidente non si combatte certo con la russofobia, ma anzi praticando i valori di internazionalismo, fratellanza tra i popoli, scambio culturale. Per questo è particolarmente prezioso l’esempio di chi sa prendere le distanze dalla propria patria e dal proprio governo, criticandolo, e anche condannandolo, apertamente. Per questo le parole coraggiose e lucide di una grande scrittrice russa contro il governo russo e contro un’idea malata di patria e di nazione, sono davvero un modello anche per noi: e per il nostro rapporto con il potere, la patria e la nazione di casa nostra.


(Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2022)

di Annie Marino


Mentre i fatti si stanno ancora svolgendo e le procure sono impegnate a fare chiarezza, mi è capitato di riflettere sugli eventi che sono seguiti alla denuncia della ginnasta Nina Corradini.

Tre circostanze, in particolare, hanno dato impulso a queste riflessioni. La prima riguarda la dimostrazione di solidarietà nei confronti di Nina Corradini da parte della compagna Anna Basta, che si è unita alla denuncia. Anna si è mossa con agilità e coraggio, anticipando, con un post Instagram molto efficace, l’innesco dei farraginosi processi della burocrazia e delle federazioni, per verificare e rendere quindi immediatamente credibile e autorevole l’informazione veicolata nella denuncia di Nina. Anna ha condotto in questo modo un’operazione saggia: per prima cosa, infatti, attraverso la verifica immediata dell’informazione, è stato possibile evitare che la denuncia semplicemente si disperdesse tra le decine di notizie “ad alta risonanza” a cui tutti siamo esposti in questi mesi incredibili – di guerra e crisi sociale, prima che energetica. Di più, è stato possibile scongiurare un’altra conseguenza, quella opposta e più disastrosa, che la denuncia degli abusi fosse gettata in pasto alle opinioni, generalizzata, trattata come una cosa neutra e, infine, forse, deformata o sgonfiata, passando per l’ennesimo scandalo sportivo o, più probabilmente, per un caso isolato.

In questo, ciò a cui finora abbiamo assistito ripropone – con sapienza, come ho già scritto sopra – certe modalità di linguaggio e azione analoghe a quelle che abbiamo visto in opera con il Me Too, fenomeno più volte rievocato nel corso delle ultime settimane (si veda, per esempio, qui). È questa la seconda circostanza che mi ha spinta nuovamente a riflettere – più propriamente, essa ha determinato l’esigenza di una puntualizzazione.

La denuncia degli abusi subiti da Nina Corradini e Anna Basta non mette direttamente in discussione il contratto sessuale, non è quello il punto, il campo visivo appare sgombro dalla presenza degli uomini1 – fatta salva qualche comparsata, come quella del presidente del CONI, Giovanni Malagò. Non vedere o non riconoscere questo, significa negare che ci sono delle nuove domande.

Qui abbiamo delle giovani donne che hanno denunciato abusi – umiliazioni e incuria, con conseguenze gravi, che avrebbero potuto essere più gravi – da parte delle loro allenatrici e insegnanti: con che sguardo alcune allenatrici e insegnanti hanno guardato queste giovani donne? Quale valore hanno dato ai loro corpi e come lo hanno misurato2?

Per ultimo, mi sono chiesta quali e di chi fossero i desideri di cui quei corpi sono, in qualche modo, diventati un mezzo. Potrebbero essere sfuggiti a me, nell’analisi della vicenda, un passaggio chiave o una parola rivelatrice, ma mi sembra che il cortocircuito sia proprio al principio, cioè nel fatto che il desiderio non sia stato espresso o compreso chiaramente – sia esso, supponiamo, un desiderio di «trarre godimento dalla ginnastica ritmica praticata ai massimi livelli» da parte delle giovani donne oppure «di vincere tutte le competizioni» da parte delle allenatrici. Insomma, è macroscopicamente fallita una relazione, quella insegnante-allieva, che ha come presupposto l’affidamento e, al di fuori di questo, difficilmente può essere.

Questo, appunto, riguarda il principio. Adesso, la vicenda si trova al punto in cui un desiderio è stato espresso: «Io e Nina vogliamo fare la differenza. […] Io e Nina vogliamo dire basta al dolore, al terrore. Io e Nina vogliamo alzare la testa anche per chi non ha più forza, perché noi eravamo nella stessa situazione di chi ora non riesce a muoversi. […]»3. Queste parole scritte insieme da due donne, con forza e libertà ritrovate nella loro relazione, hanno modificato radicalmente i fatti.   

1 Un caso di Me Too nel mondo dello sport è stato invece quello che ha coinvolto Larry Nassar, medico della nazionale USA di ginnastica (di cui si può leggere qui o qui).

2 Miriam Patrese, insegnante di ginnastica ritmica e atleta, che si è dichiarata contraria alle pratiche denunciate, come quella della “pesatura in pubblico”, in un’intervista a Repubblica ha fornito degli elementi di contesto che possono agevolare la riflessione. Riporto un estratto significativo: «Tutti sanno che i giudici tendono a premiare la magrezza. Se non sei filiforme e magrissima vieni frenata. Fai un esercizio da oro, ma arrivi quarta se non hai tutti i centimetri a posto, se non hai sembianze da bambina. Gli allenatori? Loro si chiedono se sia giusto investire su una ginnasta se sanno che in gara verrà penalizzata […]».


3 Si tratta di un estratto dal post Instagram di Anna Basta già richiamato sopra.


(www.libreriadelledonne.it, 27 novembre 2022)

Valeria Manzi, Voci non in elenco,  La Vita Felice, 2022. Tra le Voci non in elenco di Valeria Manzi, poeta e artista visiva, appaiono Speranze lontane a macchie colorate; mentre Scorre l’occhio, corre come un cane senza guinzaglio, le parole diventano spazi “visibili”. Ne parlano con l’autrice Elena  Petrassi, poeta e Francesca Pasini, critica d’arte.  

Per acquistare online Voci non in elenco: https://www.bookdealer.it/goto/9788893466288/607


Fareil male,secondo Hannah Arendt eIris Murdoch. Conduce Annarosa Buttarelli, Filosofa e Direttrice scientifica della Scuola di Alta formazione Donne di Governo. Per la partecipazione è previsto un contributo previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it

di Riccardo Staglianò


La ragazzina è cresciuta. Rispetto alle prime foto che hanno formato l’imprinting nella nostra memoria, ora Greta Thunberg ha lineamenti e uno sguardo da adulta. Dalla cucina dell’appartamento a Stoccolma che divide con alcune amiche, dopo una lunga serie di appuntamenti cancellati last minute, risponde alle domande su The Climate Book (Mondadori), il ponderoso libro sulla crisi climatica che ha concepito coinvolgendo i principali esperti in circolazione. Essere interpellata come un oracolo è, per questa diciannovenne terribilmente precoce, tanto normale quanto per una qualsiasi coetanea discutere di quale maglietta abbinare ai jeans. Per tutta l’intervista starà molto attenta a non criticare le scelte, sempre più radicali, di altri sottoinsiemi del movimento ambientalista che ha battezzato. E che, a dispetto di alcuni titoli di stampa, non ha alcuna intenzione di abbandonare. Alla fine, segnalandole una contraddizione, riuscirò addirittura a strapparle una risata che restituirà all’attivista in servizio permanente effettivo una tenera dimensione umana.

Quando ha avuto l’idea di questo libro e quanto tempo c’è voluto per metterlo insieme?

Con la pandemia, non potendo più fare scioperi e marce, avevo del tempo a disposizione e ho ragionato su come metterlo a frutto. La scelta, per studiare meglio le cause del problema che volevamo risolvere, è stata di fare un libro che diventasse la destinazione per tutti quelli che volevano approfondire. Ci son voluti quasi due anni.

Come ha scelto gli esperti?

L’idea centrale era di mettere insieme storie ed esperti. Prima ho buttato giù una lista di temi. Poi ho chiesto a persone di cui mi fido di suggerirmi chi poteva spiegarli bene. Tranne rare eccezioni di gente che non aveva tempo, ho raccolto un’incredibile disponibilità di cui ancora ringrazio.

Ci sono cose nuove che ha imparato da questo lavoro?

Ho capito meglio che la crisi climatica è collegata con molte altre crisi. Che è anche una crisi del sistema economico, di oppressione del sud del mondo che ha meno responsabilità ma paga un prezzo più alto. Che l’approccio giusto non è quello binario ma piuttosto quello intersezionale, che analizza non solo l’oppressione ma i modi e le culture che l’hanno generata. Insomma mi ha aiutato a connettere i punti e ad allargare lo sguardo.

Esiste un consenso nella comunità scientifica sulle soluzioni da adottare contro la crisi del pianeta?

L’unico consenso è sul fatto che rapidissimamente dobbiamo abbandonare la nostra dipendenza dalle fonti fossili. Su come farlo ci sono ancora molte opzioni diverse.

Pensavo a soluzioni come la geoingegneria. Una volta era la scusa usata dai negazionisti per non mettere mano al nostro stile di vita. Oggi anche persone come Elizabeth Kolbert, che nel libro firma uno dei contributi, sono più aperte all’idea. Lei che ne pensa?

Che ancora oggi è spesso una scusa per non cambiare radicalmente le cose. Rischia di essere una grande distrazione. Solo i Paesi più ricchi potrebbero provare davvero a mettere in piedi sistemi del genere ma, se le cose andassero male, le conseguenze le pagherebbero maggiormente i Paesi poveri che non hanno avuto voce in capitolo nel decidere di realizzare, ad esempio, scudi di aerosol contro i raggi del sole.

La pandemia ha dimostrato che, volendo, grandi cambiamenti di abitudini possono accadere di colpo. Perché non succede per i comportamenti che nuocciono al clima?

Perché la gente percepisce le conseguenze come distanti, sia geograficamente che nel tempo. Ma è un errore: basta pensare alle conseguenze delle inondazioni su decine di milioni di persone in Pakistan o quelle che la siccità ha sul cibo di oltre dieci milioni nel Corno d’Africa. Il fatto è che i potenti non sono mai direttamente coinvolti. E le aziende più responsabili dei guasti mettono le loro enormi risorse a disposizione dei lobbisti che puntano a rimandare o negare la necessità di qualsiasi tipo di azione. Diffondendo, com’è successo in passato per altre industrie pericolose, dubbi e altri elementi di distrazione dell’opinione pubblica.

Oppure fingendo di aver capito la lezione, cercando di rifarsi una verginità verde, come succede nel cosiddetto greenwashing?

Le stanno provando tutte pur di non cambiare niente. Quella del greenwashing è una forza enorme, tanto più ora che le aziende energetiche hanno fatto profitti stratosferici. A voler cercare un aspetto positivo di questa vicenda, c’è che il greenwashing è la conseguenza della maggior consapevolezza della popolazione che un cambiamento è necessario. Prima non serviva perché i consumatori non si rendevano conto di quanto grave fosse la situazione.

La guerra in Ucraina poteva diventare un’occasione unica per spingere sulle rinnovabili, e invece registriamo nuovi record di uso del carbone. Non facciamo mai la cosa giusta?

Dei vari programmi di aiuti finanziari europei solo il 2 per cento è dedicato alle cosiddette energie verdi. È l’ennesimo fallimento. Mentre le compagnie energetiche fanno segnare profitti inediti.

I Fridays for future sono sempre stati un movimento pacifico: non teme che, in assenza di soluzioni reali, qualcuno potrebbe passare all’azione violenta?

È possibile. È molto comprensibile che le persone siano sempre più disperate. L’unico modo per evitare che ciò accada è di agire alla sveltissima prima che anche la società vada fuori controllo. D’altronde l’unica certezza è che abbiamo provato vari metodi di lotta ma nessuno ha ancora funzionato.

Come far saltare un oleodotto, libro del suo connazionale Andreas Malm, ha ricevuto attenzione in tutto il mondo. In che modo i vostri approcci divergono?

Noi forse siamo più concentrati sul capire le cause della crisi climatica. Le “azioni dirette”, senza spiegare le cause, a mio modo di vedere potrebbero confondere le persone. La ragione comprensibile dell’interesse però è la solita: sono sempre più quelli che vogliono un cambiamento, in un modo o nell’altro.

In questi giorni si parla molto di azioni dimostrative di attivisti che si incollano a un quadro di Goya o lanciano zuppa contro un Van Gogh. Non crede che, sfuggendo il nesso con la lotta ambientale, potrebbero alienarsi una parte dell’opinione pubblica?

Il rischio esiste. Ma io sono una persona singola ed è difficile dire agli altri cosa è giusto fare. Tanto più che sin qui non sappiamo ancora quale sia la strategia più giusta per cambiare le cose. Niente ha veramente fatto la differenza. Abbiamo bisogno di aiuto da tutte le parti. Ricordandoci però che, oltre a catturare l’attenzione dei media, bisogna recuperare la prospettiva intersezionale della lotta, che tiene conto di chi è in prima linea, degli indigeni che subiscono le conseguenze più gravi e così via.

Mentre noi parliamo, i governi del mondo discutono in Egitto alla Cop27. In passato ha avuto parole dure nei confronti di queste riunioni, l’ormai famoso “Bla, bla, bla”. C’è qualcosa che potrebbe farle cambiare idea?

Non credo che sia utile concentrarsi su questi eventi. Ricordo solo che l’industria fossile ha inviato seicento lobbisti che sono più di quanti ne hanno mandati, messi insieme, i dieci Paesi che hanno subìto l’impatto più serio della crisi climatica. Non riescono nemmeno a mettersi d’accordo sul minimo sindacale, ovvero un fondo per aiutare chi ha subìto i danni climatici maggiori. E quest’anno è forse anche peggio, dal momento che i margini di movimento degli attivisti sul terreno è ancora più ristretto.

Un rapporto del think tank Germanwatch ha appena detto che nessun Paese riuscirà a mantenere l’aumento della temperatura sotto il grado e mezzo che era stato indicato come traguardo. Cosa prova di fronte a queste ammissioni?

Bah, ammetterlo è già meglio di mentire o impegnarsi in acrobazie di greenwashing. Essere chiari è il primo passo per capire quanto più ambiziosa dev’essere la nostra risposta al problema. So che è un’asticella bassa, ma almeno è un punto di partenza.

Tra le soluzioni individuali che indica ci sono il volare meno e il diventare vegetariani. Altre contromisure pratiche?

Sono solo due esempi. Se sei un politico hai responsabilità molto più ampie. Idem se, come me, hai una piattaforma grazie alla quale le persone ti ascoltano. Più in generale le cose che tutti possono fare sono istruirsi il più possibile sul tema e poi diventare, in qualsiasi forma, attivisti, nel senso di condividere queste informazioni. Solo se questa consapevolezza è sempre nella testa delle persone, allora è possibile che si formi l’effetto valanga di cui abbiamo bisogno per cambiare lo status quo.

Quanto al non volare, da giornalista faccio dell’andare a vedere ciò di cui scrivo un punto d’onore. I pezzi e le interviste dal vivo, piuttosto che via Zoom come questa, vengono meglio. Non crede che anche lei potrebbe avere un impatto maggiore se raggiungesse più posti in aereo piuttosto che viaggiare solo in treno o nave?

Forse il caso del reporter è diverso, ma una come me non ha davvero bisogno di essere sempre sul campo, dal momento che gli attivisti locali possono fare un lavoro buono quanto il mio. Mi sembra di essere più utile alla causa con questo gesto simbolico dell’astenermi da voli inutili. In ogni caso l’80 per cento della popolazione mondiale non ha mai messo piede su un aereo, e quindi dire che anche noi privilegiati ne possiamo fare a meno forse serve a comunicare che siamo dentro a un’emergenza piuttosto seria.

Che impatto ha avuto sulla sua vita essere diventata in soli quattro anni uno dei nomi più riconoscibili del mondo?

Un impatto enorme. Praticamente ogni ora che sono sveglia la dedico a essere un’attivista. La mia vita è cambiata completamente. Però questo le dà anche un senso che prima ignoravo.

Recentemente avrebbe detto di essere pronta lasciare il suo ruolo di portavoce informale del movimento ambientalista a qualcun altro: si è stancata?

(Sorride). Non so neanch’io bene come dalla dichiarazione originaria siamo arrivati a quel titolo rilanciato da molti siti e giornali. Ciò che io ho veramente detto è che c’è bisogno di mettere il megafono nelle mani delle persone più colpite direttamente dalle conseguenze della crisi. In altri termini, serve decolonizzare il movimento per la lotta climatica. Sono un’attivista e intendo continuare a esserlo. Continuo a fare gli scioperi del venerdì e questo libro è solo un altro modo di lottare. No, non ho alcuna intenzione di fare un passo indietro.

Cosa immagina per il suo futuro prossimo? Non prende in considerazione di entrare in politica?

No, non è la cosa giusta per me. Mi diplomerò a primavera, dopo aver saltato un anno, e non ho assolutamente idea di cosa farò dopo. L’unica certezza è che voglio essere un’attivista e portare un cambiamento reale.

Il suo è un librone pesante che è stato stampato e spedito nel mondo. Ma anche la sua versione elettronica, che pesa sui 200 Mb, è l’ebook più pesante in cui mi sia mai imbattuto. Non potevate optare per qualcosa di più leggero, con un’impronta di carbonio più bassa?

(Ride di una risata che non so dire se più imbarazzata o liberatoria.) Nel volume propongo un ripensamento di consumi con un impatto decisamente più rilevante di quello dei libri, che almeno servono per acquisire consapevolezza. E sì, è un volume pesante, ma questo lo si deve perlopiù ai grafici che sono davvero magnifici e, si spera, faranno capire molte cose a molte persone. È vero, certo, che anche le cose digitali sono energivore e dunque hanno un impatto sul clima. Ma se la tua casa va a fuoco la prima cosa che fai è scappare, e solo in un secondo momento pensi ai dettagli che, altrimenti, rischiano di confondere rispetto al metterti in salvo.

Sia nel suo Paese che nel mio le ultime elezioni hanno visto il successo di forze di destra che, storicamente, non hanno dimostrato grande sollecitudine nei confronti del clima: ne è preoccupata?

Posso dire che sia destra che sinistra sono stati, sin qui, molto lontani dal trovare una soluzione al problema. Il nostro precedente governo progressista si è distinto per una fenomenale attività di greenwashing. Il nuovo, però, come prima azione, ha dimezzato il budget per l’ambiente fino al 2025. E ha abolito il ministero per l’Ambiente, inglobandolo in un altro. Sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Quindi sì, entrambi sono gravemente insufficienti. Ma le differenze ci sono. Eccome.


(Il Venerdì – la Repubblica, 25 novembre 2022)