di Virginia Nesi


A un certo punto Penelope domanda a sé stessa: «Si smette forse mai di aspettare? Esiste qualcuno che non aspetta nulla? Tutti aspettiamo qualcosa». Lei aspetta il ritorno del fidanzato dalla Spagna. Jonás è partito con la famiglia alla ricerca delle origini della madre defunta. E per frantumare l’attesa, Penelope tesse e disfa parole su un taccuino, un quaderno Ideal, come la nota marca messicana. In casa a farle compagnia c’è solo il gatto, Telemaco.

Più di una rivisitazione dell’opera omerica, la protagonista di «Quaderno ideale» (Alter Ego), il nuovo libro di Brenda Lozano, è il volto della Penelope contemporanea che mentre aspetta e scrive si ritrova a compiere un viaggio interiore. Di lei non conosciamo un’identità precisa, sappiamo solo che ha trent’anni. «Non volevo focalizzarmi sulla sua descrizione fisica, ma mostrare come vede il mondo», dice Brenda Lozano a La27Ora. Scrivere diventa per Penelope un modo per colmare vuoti, tracciare righe, combinare spazi e incrociare personaggi. Perché nel «quaderno ideale» domina il sincretismo. I personaggi inventati camminano sulle stesse vie di quelli reali. Si connettono generi ed epoche. Il risultato è un crocevia di incontri tra Marcel Proust, Fernando Pessoa, William Shakespeare. Ma anche Shakira, David Bowie, Virginia Woolf.

Spiega la scrittrice: «I classici e i grandi scrittori del XIX secolo si mescolano con il pop, tutto convive nel presente. Mi sembra incredibile poter rileggere adesso un’opera di Shakespeare tradotta in spagnolo in un ristorante giapponese di Città del Messico. La finzione si mescola in continuazione con la mia vita». Quindi aggiunge: «Il linguaggio è lo spazio della libertà assoluta perché la parola traccia idealmente una orizzontalità: possiamo mettere sullo stesso piano Hitchcock, Shakespeare e Rosalia». E tra una riga e l’altra del libro appare anche Federico Fellini: «Da adolescente ho fatto una maratona dei suoi film», ammette la scrittrice.

Sullo sfondo del romanzo, la quotidianità di uno Stato martoriato dalle violenze e

dagli omicidi. In Messico c’è una media di 41 morti al giorno, si legge nel diario della protagonista. Solo nel 2021 i femminicidi registrati risultano più di mille. Anche il Paese in cui Penelope vive aspetta, «aspetta la tranquillità per strada, sul lavoro, all’ora di andare a dormire. Qui la gente aspetta di sentirsi al sicuro, è chiedere molto?».

Quando domandiamo a Brenda Lozano se esiste qualcosa che la spaventi, lei fa una breve pausa, poi dice: «Ho paura di uscire per strada di notte e camminare, ma anche a prendere un Uber a serata inoltrata». Le violenze che subiscono le donne, ci tiene a sottolineare, non sono solo abusi. Così racconta: «Per la mia tesi volevo focalizzarmi su una scrittrice messicana ma il mio tutor mi disse che non dovevo scegliere una donna, meglio scrittori come Rulfo o Borges. Quella è già una forma di violenza nella cultura». E poi aggiunge: «La letteratura fatta dalle donne rischia di rimanere in secondo piano in Messico, Paese di Octavio Paz, Carlos Fuentes; ma anche in America del Sud, continente di Gabriel García Márquez e Mario Vargas Llosa. Sono cresciuta pensando che scrivere per me fosse quasi impossibile». Quindi oggi scrive per rivendicazione? «No, lo considero un atto di resistenza».


(La 27esima Ora, 30 dicembre 2022)

di Vincenzo Trione


Quasi un affronto. Quando Lea Vergine confessa la propria intenzione di curare un’esposizione interamente dedicata all’«altra metà dell’avanguardia» (organizzata nel Palazzo Reale di Milano nel 1980), il critico d’arte Antonello Trombadori le chiede: «Ma una mostra solo di donne? Vi volete fare anche la storia dell’arte per conto vostro?». Da questa infelice battuta muove Self-portait. Il museo del mondo delle donne (Einaudi), capitolo ulteriore dell’originale progetto storico-critico cui Melania G. Mazzucco sta lavorando da qualche anno. Come una nuova ala della pinacoteca senza pareti in parte ordinata in un volume precedente (Il museo del mondo, Einaudi, 2014).

Per allestire la sua galleria «personalissima» e impossibile, fatta di ritratti nei quali la donna è autrice e anche soggetto («detiene il controllo della vita»), Mazzucco indossa gli abiti della curatrice involontaria, polemica verso le sterili rivendicazioni femministe, impegnata a squarciare il velo di censure e di silenzi che per decenni ha avvolto ricerche ostinate e solitarie, a lungo rimosse, a causa di pregiudizi e di omissioni.

Attenendosi all’approccio poetico già sperimentato ne Il museo del mondo, Mazzucco disarticola le cronologie consolidate, incurante anche delle provenienze geografiche, culturali e stilistiche. Elimina nessi e collegamenti, per disporre i vari profili in sezioni monografiche, che ripercorrono le diverse età della vita (Nascita e infanzia, Adolescenza, Giovinezza, Vecchiaia) e alcune esperienze esistenziali decisive (Erotismo, Gravidanza, Aborto, Sessualità, Sorellanza, Maternità, Matrimonio, Lavoro).

In ogni area tematica sono radunate artiste lontane. Di ciascuna viene analizzata una sola opera, che è trattata, per riprendere un rilievo della filosofa marxista Ágnes Heller, come una persona concreta, portatrice di problematiche uniche e inviolabili, dotata di un’identità, di un carattere, di una singolarità, di propri diritti. I quadri sono considerati come palinsesti autonomi e chiusi in sé, eppure attraversati da tanti echi di fondo: rinvii storico-artistici e biografici non sempre consapevoli.

Per accostarsi ai quadri Mazzucco intreccia uno sguardo attento alla specificità del linguaggio pittorico con uno sguardo teso a estrarne vicende e segreti. Per un verso, si china su una fitta trama di figure e di colori. Per un altro, distante dall’ermetismo teorico e concettuale proprio di larga parte della critica d’arte attuale, si ricollega alla tradizione vasariana, attribuendo un’assoluta centralità alle vite degli artisti. Infine, procedendo per indizi e piste laterali, risale alle ragioni intime e private sottese ai dipinti, complessi ingranaggi visivi e materici che racchiudono narrazioni implicite, simbolismi nascosti, aneddoti non rivelati. Dunque, dall’opera alla vita. E dalla vita all’opera.

Le immagini sono trasformate così in discorsi. I quadri diventano drammaturgie, che vengono interrogate da una detective abile nel servirsi di una prosa classica e, insieme, seduttiva. Da Artemisia Gentileschi a Plautilla Briccia, da Carol Rama a Louise Bourgeois, da Marlene Dumas a Giosetta Fioroni e Jenny Saville, passando per Leonora Carrington e Berthe Morisot, per Suzanne Valdon e Marie Laurencin, per Frida Kalho e Georgia O’Keeffe, per Tamara de Lempicka e Gabriele Münther, per Sonia Delaunay e Natal’ja Goncharova. Una cartografia ricca di sorprese, in cui non mancano i nomi piuttosto eccentrici: Pauline Boty, Marie-Guillemine Benoist, Giulia Lama, Tarsila do Amaral, Eva Gonzalès, Marianne von Werefkin, Emma Ciardi, Katsushika Ōi e Helene Schjerfbeck.

Voci diverse che, tuttavia, condividono alcuni tratti caratteriali e la medesima filosofia dell’arte. Siamo dinanzi a «donne forti, eroine a loro modo, che rivendicano il diritto di volgere le spalle ai lavori domestici per contribuire lotta politica, e/o alla produzione culturale», osserva Mazzucco. Artiste erratiche, eretiche ed erotiche, che praticano quotidianamente la disciplina della pittura. E pensano visivamente, per immagini: «Ogni scelta (rinuncia al paesaggio, inquadratura stretta, composizione verticale per accrescere l’effetto di percolo), parla».

Segnate dalle stigmate dell’alterità, spesso condannate a ruoli secondari, queste infaticabili sperimentatrici sembrano comportarsi come Euridice senza Orfeo. Espressione di un’urgenza testimoniale, nelle loro tele evitano ogni pietas. Sfidano le rappresentazioni tranquille, per consegnarci iconografie che trasudano tenerezza, disperazione e sacralità. Elementi distintivi: l’autoironia, il sarcasmo, il coraggio, la capacità di non sfuggire alle follie, alle devianze, ai tormenti e ai dolori, la volontà di raccogliere il vissuto, infine il ricorso alla memoria intesa come dispositivo prodigioso per salvare emozioni passate e come filtro per esorcizzare la morte. Artificio frequente: la deformazione. Tema centrale: la corporeità, luogo dal perturbante, territorio dove si smascherano finzioni e imbrogli.

Nelle mani di queste artiste disubbidienti e angosciate, arte e autobiografia sfumano l’una nell’altra. I quadri sono come lettere su cui vengono registrate inquietudini, tragedie e solitudini. Diari che dicono le imposture del quotidiano e, per ricorrere ancora alle parole di Lea Vergine, descrivono «la malattia mortale per eccellenza: la vita».

Il senso di questi ininterrotti affioramenti è in un’opera di Marlene Dumas, The Painter (1994). Un ritratto e, al tempo stesso, un autoritratto traslato. Al centro, in un contesto poco riconoscibile, una bambina statica, immobile. La bocca serrata, i capelli corti, biondi e radi. Le braccia, ciondoloni. È nuda, senza ornamenti. Si tratta di Helena, la figlia dell’artista. Il titolo del quadro – la pittrice – però, ci porta altrove, suggerendo una certa ambiguità. Di fronte a noi è «la bambina o la donna che la dipinge»?

Ideale epilogo di questo viaggio divagante, Last Self-Portrait (1945). Con un carboncino, su un foglio di carta, la finlandese Helene Schjerfbeck abbozza una sagoma spettrale. Non ha corpo né capelli. Solo la testa: la bocca, una linea; il naso, un rigo; gli occhi, un cuneo. È come se l’artista si sdoppiasse, per specchiarsi nella sua imminente morte. «Un’inversione – scrive Melania Mazzucco, che potrebbe coronare questo racconto della pittura in cui la donna è s-oggetto. Ma la morte non esclude la rinascita e il ritorno».


(Corriere della Sera, 30 dicembre 2022)


Domenica 25/12/2022 è andata in onda su Radio popolare La domenica dei libri, trasmissione curata da Roberto Festa.

Proponiamo qui uno dei servizi, l’intervista a Liliana Rampello sul primo volume dei Meridiani Mondadori da lei curato, dedicato a Jane Austen (il secondo volume uscirà a breve). La traduzione è di Susanna Basso per tutti i sei romanzi dell’autrice, scritti fra il 1803 e il 1816.
.

Intervista a Liliana Rampello – La domenica dei libri di Radio popolare, a cura di Roberto Festa

di Paola Mammani


Nella bella introduzione all’ultimo incontro di VD3, Stefania Tarantino ha disegnato una mappa dei suoi piaceri che è risultata un invito per ciascuna ad aggiungerne di altri, di propri. Il racconto di molte è parso concordare implicitamente con una delle riflessioni con le quali Tarantino ci ha accompagnate nel suo itinerario: la constatazione che i suoi piaceri possono darsi ed essere vissuti solo al di fuori della dimensione economica, al di là di ogni finalità di profitto che il potere è riuscito ad insinuare quasi ovunque nelle nostre vite. Laura Colombo si è chiesta allora dove collocare l’attività della Libreria delle donne di Milano. Ha notato che eravamo lì, presenti e felici per l’incontro in corso, alcune collegate in streaming, perché la Libreria riesce ad esistere nel più generale contesto economico. Mi dico che è proprio il piacere di stare tra donne il nesso che sembra mancare. Non c’è altro che possa giustificare un così grande e ininterrotto lavoro gratuito, tutto quello che è stato necessario a far vivere la Libreria per quasi cinquant’anni, se non il piacere di coltivare relazioni con le nostre simili. Che altro, se no? Relazioni che hanno originato pensiero, imprese e pratiche politiche.

Certo anche di fatica si tratta, ma simile a quella evocata nella introduzione di Tarantino, a volte estenuante ma non forzata, per la felicità di raggiungere una vetta e godere dello spazio che si apre alla visione. Per questo più d’una ha pensato al lavoro di Ina Praetorius che proprio all’economia si dedica per rivendicarne il significato delle origini. Lavoro e fatica di donne, certo, che non prescinde però dal loro piacere, che si fonda sulla cura della casa e dell’ambiente cui l’umanità appartiene, delle relazioni che vi intrattiene, in connessione con l’universo tutto. A me sembra, in conclusione, che proprio i piaceri delle donne possano essere posti alla base dell’economia, possano ispirare le relazioni di lavoro, la qualità degli scambi sociali e quel che abbiamo chiamato cambio di civiltà. Il titolo del fortunato Sottosopra, Immagina che il lavoro, è questo che chiede, che i piaceri delle donne, i desideri che li informano, regolino le relazioni di lavoro e le attività economiche. Che la ricchezza, dunque, si crei a partire dai piaceri delle donne e si distribuisca per alimentarli e sostenerli.

Mai come in questi tempi però, con donne che sulla scena pubblica sembrano replicare gli stessi desideri e destini degli uomini – dallo schierarsi per le “guerre giuste” all’ossequio per riti e costumi politici che nulla hanno a che vedere con la storia delle loro simili – è utile ricordare che tutto quanto detto sopra ha un senso solo per quelle che tengono fermo il rispetto per il loro sesso e rifiutano di essere omologate agli uomini per via di parità e uguaglianza, che si riferiscono alla relazione con le altre e al piacere che ne traggono, per elaborare pensiero e azione politica originali. Una replica dell’universo maschile, pur resa più vivace e brillante dal protagonismo delle donne, non è piacere e ricchezza per noi.


(ViaDoganaTre, www.libreriadelledonne.it, 30 dicembre 2022)

di redazione


La pedagogista, saggista e scrittrice Elena Gianini Belotti, grande protagonista del femminismo italiano, la prima a parlare nel sessismo nell’educazione con il suo famoso libro Dalla parte delle bambine, è morta a Roma nella notte di Natale all’età di 93 anni. Insegnante per molti anni alla Scuola Assistenti Infanzia Montessori, Gianini Belotti nel 1960 partecipò alla fondazione del Centro Nascita Montessori di Roma, assumendone la direzione che conservò fino al 1980: fu il primo in Italia a occuparsi della preparazione delle future madri al parto e alla cura del bambino nei primi mesi di vita. Nel Centro le gestanti venivano preparate psicologicamente e praticamente al compito di madri rispettose dell’individualità del bambino. Dal lavoro negli asili nidi con i bambini al di sotto dei 3 anni e dall’osservazione dei loro comportamenti precoci, diversificati secondo il genere, è nato il suo primo libro Dalla parte delle bambine, pubblicato da Feltrinelli nel 1973, che, come la stessa autrice sottolinea, analizza «l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita», ovvero «come la società vuole che diventiamo donne, fin dalla nascita, o meglio, fin da quando siamo nel grembo materno». Questo testo, che individuava e analizzava in maniera pionieristica i condizionamenti sociali, culturali cui vengono sottoposti maschi e femmine, ha avuto 57 edizioni per più di 600.000 copie e traduzioni in 15 lingue, tanto da diventare un testo “rivoluzionario” per l’epoca: né l’autrice né l’editore si immaginavano un successo così straordinario. Sull’onda del successo di Dalla parte delle bambine, Gianini Belotti iniziò a collaborare con diversi giornali e riviste, tra cui “Paese sera” e “Noi Donne” e si dedicò alla scrittura di numerose opere, tra saggi e romanzi, e approfondendo lo studio sulla maternità nella letteratura contemporanea. Tra i suoi libri Che razza di ragazza (Savelli, 1979), Prima le donne e i bambini (Rizzoli, 1980), Non di sola madre (Rizzoli, 1983); Educazione dalla nascita (con Grazia Honegger Fresco, Emme Edizioni, 1983). Il fiore dell’ibisco (Rizzoli, 1985, Premio Napoli) è il suo primo romanzo in cui afferma che «i talenti delle donne vanno smarriti nella fatica quotidiana di pensare, organizzare». Seguono Amore e pregiudizio. Il tabù dell’età nei rapporti sentimentali (Mondadori, 1988); Adagio un poco mosso (Feltrinelli, 1993), una raccolta di sette racconti su «vecchie signore solitarie»; Pimpì oselì (Feltrinelli, 1995), in cui racconta uno scorcio dell’Italia degli anni Trenta, nel periodo fascista, visto con gli occhi di una bambina; Apri le porte all’alba (Feltrinelli, 1999); Voli (Feltrinelli, 2001; Premio speciale della giuria del Premio Rapallo); Prima della quiete. Storia di Italia Donati (Rizzoli, 2003, Premio Grinzane Cavour, Premio Viadana, Premio Maiori), che racconta la storia di una maestra toscana che si suicida a causa delle persecuzioni verbali degli abitanti del luogo in cui vive; Pane amaro. Un immigrato italiano in America (Rizzoli, 2006), romanzo sul diario di suo padre che nel 1913 emigrò in America in cerca di lavoro; Cortocircuito (Rizzoli, 2008); L’ultimo Natale (Nottetempo, 2012); Onda lunga (Nottetempo, 2013). Ha inoltre scritto la prefazione a Ancora dalla parte delle bambine di Loredana Lipperini (Feltrinelli, 2007), aggiornamento dei temi trattati 35 anni prima da Elena Gianini Belotti. Nata il 2 dicembre 1929 a Roma da genitori di origine bergamasca, Elena trascorse l’infanzia e l’adolescenza in parte a Roma e in parte nella provincia di Bergamo, dove la madre era insegnante di scuola elementare. Ha vissuto poi tra Roma e Trequanda, nella campagna senese. Dattilografa in un magazzino di articoli industriali, a sedici anni, cominciò a scrivere racconti che vennero pubblicati sulle riviste femminili del tempo. Più tardi, l’interesse per i meccanismi dello sviluppo infantile la spinse a diplomarsi alla Scuola Assistenti Infanzia Montessori, allora privata, dove rimane a insegnare per molti anni la pratica montessoriana dell’osservazione e degli interventi educativi con i bambini. Nel 1960 la svolta della sua vita con la fondazione del Centro Nascita Montessori. L’idea di partenza era di trasformare in azioni concrete le indicazioni teoriche montessoriane sulla precocissima vita psichica del neonato, allora considerato un essere inerte, insensibile, cieco e sordo agli stimoli affettivi e ambientali. Era indispensabile rivedere le modalità del parto e della nascita, intrusive e violente e noncuranti delle necessità della madre e del bambino, e rielaborare, con attenzione e delicatezza, le cure e gli interventi più adeguati, scaturiti dall’osservazione empirica del comportamento neonatale nei primi mesi di vita. A questo scopo con la direzione di Gianini Belotti venne curata la preparazione specifica di assistenti specializzate, iniziarono per le gestanti i corsi di preparazione al parto con il training autogeno e quelli alla cura del neonato, nei quali vennero coinvolti anche i padri, ammessi in sala parto. Vennero organizzati i primi incontri sui metodi contraccettivi e sull’educazione sessuale, consulenze a domicilio sui problemi infantili nei primi tre anni di vita. Più tardi, il Centro Nascita ha assunto la gestione di alcuni asili nido aziendali. Per Elena Gianini Belotti è stato un lavoro appassionante, molto utile per la sua formazione e anche per la sua successiva attività letteraria. La sua passione le consentì peraltro di avviare per il Centro Nascita la raccolta sistematica di testi, saggi, letteratura attorno all’infanzia, nucleo dell’attuale biblioteca che si avvale di oltre 3.000 volumi.


(lastampa.it, 25 dicembre 2022)

di Pinella Leocata


Sfilano lungo via Etnea addobbata di luminarie, tra le persone indaffarate a comprare gli ultimi regali di Natale. Avanzano dietro uno striscione dorato che grida “Donna vita libertà”, lo slogan delle donne iraniane che sono scese in piazza per contestare il regime fondamentalista e dittatoriale la cui polizia “morale” ha trucidato Mahsa Amini solo perché aveva una ciocca di capelli libera dal velo. Un regime che dopo di lei ha massacrato e continua a massacrare ragazze e ragazzi che a migliaia vengono arrestati solo perché protestano. “Jin Jiyan Azadi” recita lo striscione usando le parole curde vita e donna, parole che hanno la stessa radice.

Le donne e le femministe catanesi sono scese in piazza per esprimere “solidarietà alle sorelle iraniane e curde e a tutti i popoli nella lotta contro i regimi opprimenti e dispotici”. E lo fanno a titolo personale, senza sigle. Accanto a loro anche tanti uomini, come tutti sconvolti dalla brutalità del regime e colpiti dalla forza e dal coraggio delle donne e dei giovani iraniani che pagano con la tortura e con la vita la rivendicazione della propria libertà e dignità. “La libertà della donna è condizione per la libertà di tutta la società – recita un documento letto per strada -. La libertà delle donne oggi è garanzia della prosecuzione dell’umanità, del rispetto delle scelte, dei credi, delle opinioni di ognuna e di ognuno, della natura e del vivente”.

Mentre il corteo sfila le donne cantano la versione femminista del canto delle mondine e la versione che le donne iraniane hanno fatto del canto degli Inti Illimani “El pueblo unido jamás será vencido”.  Una canzone che invita a “giurare sul sangue puro dei tulipani”, il fiore simbolo della Persia, e in cui si racconta della “rivolta di baci e lacrime in questo luogo di sofferenze senza fine”. “Nel nome della donna, nel nome della vita – promettono – questi vestiti di servitù verranno stracciati”. E sono tante le donne in corteo che portano un grande tulipano rosso di carta sul petto, mentre altre indossano un piccolo cartello bianco con il nome delle donne trucidate dal regime. Tra chi sfila gira anche l’appello di un gruppo di femministe romane che invita i parlamentari nazionali e regionali ad adottare i condannati a morte in Iran in modo da bloccare le esecuzioni capitali.

Tra i manifestanti c’è anche una giovane donna iraniana che si trovava per caso in via Etnea con il figlio. “Niente nome perché è troppo pericoloso per me e per la mia famiglia che vive in Iran”. Lei ha studiato e si è laureata a Catania dove adesso l’ha raggiunta anche il figlio. Non vuole tornare più al suo Paese. L’ultima volta che c’è stata, l’anno scorso, l’ha trovato triste, le donne coperte da vestiti scuri e velate, il costo della vita carissimo, la crisi economica devastante. E adesso la terribile repressione. “Arrestano anche ragazzine quattordicenni e le stuprano fino alla morte. È terribile. Uccidono per niente. Hanno arrestato anche mia madre, anziana e malata, solo perché andava in bicicletta. Eppure era completamente velata ed è una musulmana praticante. In Iran non si può più vivere, ma sapendo quello che succede nel mio Paese non posso essere contenta neanche qui”. E aggiunge. “Vi prego, parlate di quello che succede, parlatene ancora e ancora. E grazie per questa manifestazione di sostegno”.

Infine, impossibile raggiungere piazza Università occupata dalle bancarelle natalizie, il corteo si ferma sotto la prefettura dove in tanti fanno i propri interventi a microfono aperto.


(La Sicilia, 22 dicembre 2022)

di Giuliano Battiston


«Siete informati di dover sospendere l’educazione delle ragazze fino a nuovo ordine». Con queste parole, in una lettera ufficiale indirizzata a tutte le università pubbliche e private ieri i Talebani hanno annunciato l’interruzione dello studio per le studentesse.

Il decreto porta la firma di Neda Mohammad Nadeem, ministro dell’Istruzione superiore, e ha effetto immediato: sin da oggi, mercoledì. Così, in poche ore decine di migliaia di ragazze afghane vengono private del diritto allo studio, della possibilità di istruirsi e di vivere in un contesto sociale più ampio di quello domestico.

Secondo il ministro, già governatore della provincia di Kabul, la decisione è avvenuta dopo che «i più importanti studiosi del Paese hanno valutato il curriculum e l’ambiente universitario dal punto di vista della sharia, e dopo che io stesso ho presentato il loro rapporto, con alcuni suggerimenti, alla leadership dell’Emirato», ad Haibatullah Akhundzada, la guida dei fedeli. «Se Dio vuole», prosegue il ministro, presto i Talebani riusciranno a far combaciare il diritto allo studio con «un ambiente rispettoso della sharia».

C’è da dubitarne: le scuole superiori femminili sono chiuse da 457 giorni e l’Afghanistan è l’unico Paese al mondo a negare loro l’istruzione. Anche in quel caso le autorità di fatto hanno più volte ripetuto che si trattava di una sospensione, non di una vera chiusura, e che «presto» sarebbero state riaperte. Le adolescenti afghane continuano però ad aspettare, tranne rari casi.

Le loro sorelle più grandi si preparano a una nuova vita, tre mesi dopo aver sostenuto gli esami di ingresso all’università, potendo scegliere un ventaglio di facoltà ridotto rispetto al passato. Le voci sull’eventualità della chiusura circolavano da settimane: l’idea che le università siano incubatori di proteste preoccupa i Talebani, che non hanno esitato a usare le maniere forti anche per controllare i dormitori o, in alcuni casi, impedire che le ragazze potessero uscirne in occasione di proteste o manifestazioni.

La decisione segna un’ulteriore tappa nella transizione del movimento dei Talebani da gruppo di lotta armato a gruppo di potere istituzionale, per quanto non riconosciuto dalla comunità internazionale. E complica ulteriormente i rapporti con gli stranieri: consolida la linea dell’autarchia rivendicata nel luglio scorso dal leader supremo alla Loya Jirga, la grande assemblea di Kabul, quando disse che «non ci saranno compromessi sulle leggi prescritte dalla sharia. Il mondo non dovrebbe interferire in Afghanistan, un Paese sovrano e indipendente».

Per aggiungere: «Anche se useranno la bomba atomica, non faremo neanche un passo contrario a quel che chiede Allah e stabiliremo un vero sistema islamico». Quello dei Talebani non è però il sistema islamico auspicato dalla maggior parte degli afghani e delle afghane, che guardano al diritto allo studio, anche delle ragazze, come tale: diritto di tutte e tutti.

Da qui, l’inevitabile inasprimento del conflitto sociale interno. Sul piano esterno, la decisione dei Talebani arriva proprio nel giorno in cui al Consiglio di sicurezza dell’Onu la rappresentante speciale del segretario generale, Roza Otunbayeva, ribadiva come la chiusura delle scuole avesse inasprito e compromesso i rapporti con la comunità internazionale, portando a uno stallo.

Tutto ciò mentre Martin Griffiths, sottosegretario per gli affari umanitari dell’Onu, ricordava come solo le esenzioni alle sanzioni che pesano su diversi ministri che sono sulla lista dei terroristi Onu abbiano fin qui permesso di evitare la catastrofe umanitaria.


(il manifesto, 21 dicembre 2022)

di Traudel Sattler


Disagio, irritazione, rabbia. Attraverso questi moti dell’anima si può far strada il piacere femminile che dice di non starci all’imperativo del godimento imposto perché sa che c’è altro. Quando questo sentire è stato messo in parole dalle giovani amiche nella redazione ristretta di Via Dogana, la mia prima reazione è stata l’identificazione. Era come se rivivessi l’esperienza degli anni ’70 quando abbiamo detto «non ci stiamo!» davanti alle imposizioni della rivoluzione sessuale con le sue richieste di disponibilità permanente, e abbiamo fatto la rivoluzione nella rivoluzione. Subito però mi sono detta che l’identificazione non è una posizione produttiva nello scambio con l’altra o con l’altro e, soprattutto, che le giovani donne del nostro presente si trovano a vivere in uno scenario profondamente cambiato.

La scommessa politica va quindi ripensata. Grazie al femminismo, oggi le donne sono in primo piano con conquiste innegabili. La legge del padre è stata smantellata, ma il crollo di quell’ordine simbolico ci ha catapultato nel caos post-patriarcale e in una situazione molto complessa. Mentre la nostra generazione, nei gruppi di autocoscienza, si trovava davanti a un non detto sulla sessualità femminile, un vuoto di parole che stimolava creatività, voglia di invenzione e scoperta del piacere, oggi, in un mondo dominato dal mercato neoliberista, dalla rete e dai social, ci troviamo davanti a un troppo pieno, una saturazione, un’infinità di definizioni e identità da indossare a propria scelta. Per scoprire poi che nessuno di quei modelli prefabbricati ti sta bene, e c’è di nuovo un forte disagio. Come osserva Ida Dominijanni nel suo saggio illuminante “Pratica dell’inconscio, inconscio della pratica” (in La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, a cura diChiara Zamboni, Moretti & Vitali 2019, pp.13-33) le donne sono state le prime agenti del crollo del patriarcato e allo stesso tempo prede del mercato neoliberale. L’autrice sottolinea che «il presente non può essere letto solo come un effetto della sostituzione della legge paterna con il discorso del capitalista, ma porta anche l’impronta della rivoluzione femminista». È una rivoluzione che ha comportato tanti guadagni ma che apre nuovi conflitti: ci sono parecchi tentativi di riaddomesticare le donne, e «la libertà femminile diventa insieme oggetto di cattura e spina nel fianco del passaggio dall’economia nevrotica dell’uno, del limite e dell’interdetto all’economia perversa del molteplice senza limite e senza legge».

Dominijanni ci invita a reinterrogare la nostra scommessa sulla politica del desiderio e del simbolico a partire da un nuovo disagio femminile che si manifesta in sintomi come l’anoressia e la depressione. Noi in redazione non abbiamo affrontato questi sintomi, ma preso il disagio e la rabbia come indicatori che c’è altro, che esiste un piacere femminile non riconducibile a quello fallico che oggi spesso viene imposto anche alle donne. E in primis c’è stata la consapevolezza che non si tratta di problemi psicologici e privati, ma di una questione squisitamente politica. Lo sapevano le Compromesse che hanno affrontato il discorso attraverso la pratica di scambio di parola nel loro gruppo, lo sapeva Giorgia Basch che ha ripreso le parole di Luce Irigaray, come una matrice alla quale si può tornare sempre, anche in condizioni storiche completamente cambiate. Il riferimento alla stessa matrice fa da sfondo per uno scambio in redazione per me molto arricchente: mi permette di vedere le donne più giovani nella loro soggettività e di conoscere la contemporaneità che condividiamo attraverso il loro punto di vista. Politicizzare il disagio e trovare le parole per il piacere femminile eccedente, rivela di nuovo che le donne hanno una «marcia in più» (Dominijanni) per affrontare la crisi di oggi. Me ne rallegro.


(ViaDoganaTre – www.libreriadelledonne.it, 21 dicembre 2022)

di redazione


Una notizia molto triste: la nostra Lorenza Minoli, autrice della Mappa femminile della città di Milano, con la quale abbiamo condiviso intensi anni di lavoro, ci ha lasciato. 
Siamo onorate di aver potuto fare un pezzetto di strada insieme a lei. Il suo lavoro di ricerca è stato incredibilmente vasto e approfondito, tanto da dare, a tratti, le vertigini.  
La nostra unica consolazione è quella di essere riuscite a pubblicare l’opera a cui ha dedicato tutta se stessa in modo che potesse vederla, finalmente, realizzata. Sappiamo che ne è stata felice. 
Aveva altri progetti, avremmo voluto parlarne insieme. Invece non è stato possibile.  
Ci mancherai molto, Lorenza. Cercheremo di fare tesoro del tuo prezioso lavoro, di non disperdere quanto hai seminato.


(Enciclopedia delle donne, 20 dicembre 2022)

di Silvia Truzzi


La scrittrice scozzese J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter, finanzia (integralmente) un nuovo rifugio per donne a Edimburgo. Beira’s Place, si chiamerà così, offrirà aiuto a donne dai 16 anni in su che hanno subito violenza sessuale o abusi in qualsiasi momento della loro vita. «Essendo io stessa una sopravvissuta a una violenza sessuale – ha detto la scrittrice – so quanto sia importante che le vittime abbiano la possibilità di usufruire di un’assistenza incentrata sulle donne e fornita dalle donne in un momento così vulnerabile. Spero che Beira’s Place consentirà a un maggior numero di donne di elaborare e recuperare il proprio trauma». Iniziativa lodevole, no? L’annuncio invece ha provocato la reazione indignata (e figurati) del centro antiviolenza pubblico scozzese, il Rape Crisis Scotland, guidato da una donna trans, che accusa nuovamente la Rowling di non voler accettare donne trans e persone non binarie. Va detto che la Scozia sta per approvare una legge che permette di cambiare sesso con una semplice autocertificazione, senza che sia necessario un percorso medico e psicologico. Rowling, accusata di essere una Terf (ovvero una femminista transfobica) ogni volta che apre la bocca, ha dichiarato che chi nasce di sesso maschile non può semplicemente dirsi donna e avere accesso a luoghi come bagni o spogliatoi (o carceri) riservati alle donne perché potrebbe essere pericoloso. Cosa non si capisce di questo ragionamento?


[*Babbano è un termine tradotto da “Muggle” che serve a definire, classificare o indicare nei libri di Harry Potter, gli esseri umani che non sono dotati di poteri magici. Nei romanzi della Serie Harry Potter è il termine gergale con cui maghi e streghe definiscono coloro che non possiedono e non sono a conoscenza della magia.]


(Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2022)


di Vita Cosentino


Riprendere a parlare del piacere femminile significa tirare le fila, anche molto sommariamente, di un discorso che è cominciato negli anni ’70 con Carla Lonzi e Luce Irigaray. A mio modo di vedere non si è mai interrotto, ma è proseguito sotterraneo, interessando anche altri ambiti, cito per esempio la ripresa che Luisa Muraro fa di Lacan in Dire Dio in lingua materna, quando parla del «godimento extra» di cui fanno esperienza le donne. Di recente poi è stato riportato in piena luce da María-Milagros Rivera Garretas con il suo Il piacere femminile è clitorideo. Questo per dire che si è accumulato un sapere al riguardo da rigiocare oggi.

Sia Irigaray che Lonzi e, adesso, Rivera Garretas mettono l’accento sulla particolarità del piacere femminile. Una caratteristica che tutte individuano è l’autonomia, in quanto mostrano come nella donna il piacere sessuale è separato dalla procreazione. Carla Lonzi e María-Milagros Rivera Garretas insistono sulla clitoride, Luce Irigaray parla delle grandi labbra e delle piccole labbra che si toccano in continuazione, quindi non c’è bisogno di una mediazione esterna. Secondo me una giovane donna lo deve sapere, perché così va all’incontro con l’altro o con l’altra in modo più consapevole. Nella nostra redazione sono infatti le più giovani che vogliono riprendere in mano questo discorso.

L’altra caratteristica che mettono in evidenza tutte queste teoriche ─ anche se lo dicono in modi molto differenti che forse bisognerebbe riprendere e riproporre ─ è che è un piacere diffuso, si irradia, non è fissato nell’organo come il piacere maschile. È il piacere maschile, infatti, che è fissato nell’organo sessuale, ha un apice, poi finisce, ed è quella meccanica lì che coincide con l’atto della procreazione.

Proprio il fatto che sia diffuso tiene insieme il piacere sessuale con i «piaceri dell’anima». Quando Wanda Tommasi ci ha raccontato del suo lavoro all’università, non è passata a un altro discorso: il discorso è lo stesso, è una sessualità fatta in modo diverso.

Di quella sessualità che Freud interpretava come «mancanza» ─ mancanza del pene ─ queste teoriche invece ci dicono che è altra, che quel vuoto può aprire alla possibilità di creare un altro modo di stare al mondo. Lo conferma anche Paola Francesconi quando, introducendo il volume collettivo Una per una, richiama da Lacan la donna come «non tutta», non tutta nel rapporto sessuale complementare, non tutta nei codici esistenti.

Questo insieme di riflessioni mi porta a pensare che dare oggi voce e parola al piacere femminile possa essere una leva per sottrarre la propria vita alle logiche del potere e alle richieste di prestazioni individualistiche.

La questione per me centrale è che il piacere così come si va delineando, inteso come apertura indeterminata, così lo definisce Irigaray, è intensamente relazionale. Pur nella sua autonomia, le due cose vanno insieme. La cifra è quella della relazione. Se pensiamo alla nostra Libreria delle donne, che della relazione ha fatto una politica autonoma, vediamo oggi con più chiarezza ─ io non ci avevo pensato prima ─ che è una politica che attiva il piacere femminile e ne fa una risorsa. In effetti quando ho incontrato la politica delle donne ne sono rimasta affascinata. Era quello che inconsapevolmente cercavo: una politica che coincide con la vita stessa.

Oggi sento fortemente la necessità di riparlare dell’essenziale della politica delle donne perché da quando ci sono donne nei posti apicali dei governi e delle istituzioni internazionali, sembra che lo sguardo debba volgersi lì, in una sorta di incantamento, che idee e desideri possano affermarsi solo se trovano una mediazione istituzionale, sembra che tutto debba essere agito e visto nella prospettiva del potere.

Così si rischia di perdere il piacere di fare politica per se stessa, di essere una donna nella polis, con le proprie idee e i propri progetti, di trasformarsi e trasformare, di portare avanti un agire politico in cui la soddisfazione è nell’agire stesso e non dipende da avere riconoscimenti o ottenere denaro e posti di potere.

Ora che per età anagrafica la sessualità attiva si è assopita, non per questo rinuncio a quelle forme di piacere che posso rigiocarmi per quella che sono, invalidità compresa. Per esempio per me fare Via Dogana, che significa stare in relazione vitale con le altre, leggere e pensare, confrontarmi, fidarmi di loro per azzardare temi rischiosi come questo del piacere femminile… è molto appagante.


(ViaDoganaTre – www.libreriadelledonne.it, 19 dicembre 2022)

di Franca Fortunato


Il dieci dicembre 1927 a Stoccolma una donna, una grande scrittrice italiana, ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, la prima e unica ad oggi. Il suo nome è Grazia Deledda, nata a Nuoro nel 1871. Una donna determinata e testarda che, credendo in se stessa, ha saputo farsi strada nel mondo letterario del suo tempo, un mondo misogino e sessista, ostile a ogni donna che pretendesse di fare della scrittura la propria professione. Appassionata di libri e di storie sin dall’infanzia, leggeva sempre e ovunque e così cominciò a scrivere giovanissima. Amava andare a scuola ma, come per tante della sua generazione, i genitori le proibirono di continuare dopo la quarta elementare perché “femmina” ma non le negarono lo studio che continuò a casa con un precettore e poi da sola. A 17 anni pubblicò la sua prima novella, dove in modo spietato descriveva l’ipocrisia e l’arretratezza della realtà del suo paese natio. Fu un grido unanime, “vergogna”, fu accusata di scrivere menzogne e calunnie. Anche i genitori e le zie la rimproverarono e la criticarono. Che si cercasse un marito, scrivere non è da “femminina”. Grazia deluderà tutte/i, continuando a scrivere e a pubblicare, restando fedele al suo desiderio profondo di diventare una grande scrittrice. Inseguirà il suo sogno e la sua ambizione fuori dalla Sardegna, a Roma, la “Gerusalemme della cultura”, dove si trasferisce con Palmiro Madesini, l’uomo che diventerà suo marito e suo agente letterario. Grazia vuole scrivere ma anche sposarsi, vuole lavorare ma anche avere figli, non vuole scegliere tra maternità e lavoro, aiutata e sostenuta in questo dall’uomo che ha scelto come suo compagno, un uomo che non la invidia, che non è geloso del suo successo, anzi è contento, la sostiene e la rende felice. In un tempo patriarcale come quello del primo Novecento, un uomo che lascia il lavoro per mettersi al servizio di una donna, un’intellettuale, suscita negli altri uomini disprezzo. È così che Luigi Pirandello lo ridicolizzerà in una sua opera, lui invidioso della scrittrice “ignorante” che gli aveva sottratto il Nobel. Lasciata la Sardegna per inseguire il suo sogno, Grazia non cesserà per tutta la vita di amare e raccontare con “la sua potenza di scrittrice” la sua terra e “la vita quale è nella sua appartata isola nativa” – come si legge nella motivazione al Nobel –. A quella terra natia da cui è fuggita, al suo amore per essa che, consapevole o meno, la tiene legata simbolicamente alla madre, la sua origine, deve la sua forza e la sua arte, come ha ricordato nel suo discorso a Stoccolma, dove sul palco è salita mano nella mano con il marito. «Sono nata in Sardegna. La mia famiglia composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche una biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei (…). Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo». Un’arte originale, cioè radicata nelle sue origini, la terra, la madre, che ha fatto di lei una grande scrittrice e l’ha resa degna di quel Nobel assegnato quest’anno alla scrittrice francese Annie Ernaux.


(Il Quotidiano del Sud, 17 dicembre 2022)


In Libreria delle donne abbiamo i libri di Grazia Deledda e si possono acquistare anche online al seguente link: https://www.libreriadelledonne.it/ordina-un-libro/ (ndr)


Vicissitudini dell’autorità

Conduce Annarosa Buttarelli, Filosofa e Direttrice scientifica della Scuola di Alta formazione Donne di Governo. Per la partecipazione è previsto un contributo previa iscrizione scrivendo una mail a prenotazione@libreriadelledonne.it

di Giovanna Branca


Appena 25enne, il volto da bambino, altissimo ed esile, Alexander Belik potrebbe essere uno dei coscritti della mobilitazione annunciata a settembre da Putin, mandati a combattere, uccidere e morire in Ucraina. Invece è coordinatore del Movimento degli Obiettori di coscienza russi, per il quale lavora dall’Estonia dove si è trasferito il 28 marzo, a un mese dall’inizio dell’“operazione speciale” di Putin. Ieri era a Roma – ospite del Movimento Nonviolento e Un ponte per – nel cinquantennale dell’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza in Italia. Per l’occasione, Belik insieme alle associazioni pacifiste consegnerà al Consiglio dei ministri la raccolta firme per l’appello all’Unione europea perché riconosca lo status di rifugiati politici agli obiettori russi, bielorussi e ucraini. Come denuncia Alfio Nicotra di Un ponte per, infatti, tutti i paesi europei con l’eccezione della Germania «hanno chiuso i propri confini agli obiettori russi», e dopo «una prima simpatia sui media» sono sparite le notizie sull’«altra Russia: quella che rifiuta di imbracciare le armi». Con la sua organizzazione sin da prima del 24 febbraio Belik fornisce consulenza a chi rifiuta la leva e la chiamata nell’esercito. Un rifiuto «consentito – spiega – dalla Costituzione russa, anche se si cerca di nasconderlo». Dunque anche nei territori occupati dell’Ucraina e illegalmente annessi alla Federazione: «Prigioni come quella di Brianka, nel Lugansk, dove venivano detenuti e torturati obiettori e disertori, e come continuano a spuntarne in gran numero dopo la mobilitazione di settembre, sono illegali per la stessa legge russa». 
Uno degli obiettivi della sua organizzazione, racconta, è quello di «creare alleanze con associazioni della società civile della Federazione». Da quelle dei popoli indigeni – «la maggioranza dei coscritti», una sorta di pulizia etnica di Putin – ai gruppi Lgbtq «colpite solo due settimane fa dalla legge contro la “propaganda omosessuale”». Questioni «strettamente connesse» alle operazioni belliche: «Putin racconta ai russi di combattere nel Donbass contro l’“ideologia Lgbt” occidentale».

Come e quando avete cominciato ad aiutare obiettori e renitenti alla leva? 
Sono entrato nell’organizzazione quando studiavo legge all’università statale di San Pietroburgo. Già al primo anno ho deciso che volevo lavorare nel campo dei diritti umani e loro mi hanno accolto. Da quando ho lasciato il Paese ho continuato a lavorare online come facevamo prima, quindi da quel punto di vista non è cambiato nulla, a eccezione del fatto che non posso più incontrare la squadra: gli organizzatori sono sparpagliati in tutto il mondo – Buenos Aires, Madrid, stati baltici… La guerra non è cominciata 10 mesi fa ma 9 anni fa: dal 2014 (anno della guerra nel Donbass, ndr). È da allora che abbiamo cominciato a organizzarci. Prima dell’invasione su larga scala lavoravamo principalmente con coloro che non volevano fare il servizio militare obbligatorio: spiegavamo come fare richiesta per prestare servizio civile, per esenzioni mediche, o come restare in sicurezza senza presentarsi davanti alla Commissione militare dopo la chiamata. Dopo la mobilitazione aiutiamo anche coloro che vogliono abbandonare il servizio anche se sono già stati mandati nei campi di addestramento in Russia, o perfino al fronte: è legale anche in quel caso.

A queste persone la vostra organizzazione offre consulenze online attraverso Telegram. Come funziona? 
Trasmettiamo le consulenze attraverso Telegram, che permette a tantissime persone contemporaneamente di partecipare alle chiamate. Dalla mobilitazione di settembre il nostro canale è cresciuto esponenzialmente: da 1.500 follower a 55.000. Nei primi giorni dopo la coscrizione le chiamate raccoglievano circa un migliaio di persone ciascuna: solo nel primo giorno sono stati in 5.000 a rivolgersi a noi.

Ovd-Info riporta che dal 24 febbraio sono quasi 20.000 le persone detenute in Russia, e 400 i processi penali aperti, per aver partecipato a proteste contro la guerra in Ucraina. Che futuro vede per l’opposizione al conflitto dall’interno del Paese? 
La domanda da porsi riguarda le grandi proteste, quelle di massa, che potrebbero cominciare presto, per esempio quando Putin annuncerà la seconda mobilitazione: credo sarà un grande errore che lo seppellirà. Non sappiamo di preciso quale evento le farà scoppiare, ma siamo convinti che ci saranno.

Putin non terrà la tradizionale conferenza di fine anno, e in molti ritengono che voglia evitare domande sulla guerra. Lei cosa ne pensa? 
Credo sia così, ma la questione principale non è la conferenza stampa, quanto l’incontro con i due rami del parlamento che tutti gli anni, come da previsione costituzionale, si riuniscono per ascoltarlo – quest’anno non ci sarà. Né il tradizionale “incontro” in cui risponde alle domande dei cittadini. Tutti questi appuntamenti mancati secondo me indicano che sta perdendo la sua connessione con la popolazione, che la teme.

Ha percepito un cambiamento nell’opinione pubblica russa da quando è iniziata la guerra? 
Il supporto alle politiche di Putin è innegabile: la maggioranza della popolazione le sostiene pubblicamente, ma potrebbero anche dissentire segretamente. Ma cosa accadrà quando sarà meno del 50% della popolazione a sostenerlo, e la maggioranza dissentirà apertamente? Un grafico di Russian Field – gruppo di ricerca socio-politica che raccoglie i dati attraverso sondaggi telefonici – mostra che quel giorno si starebbe avvicinando sempre più. Una linea del grafico, sempre più in discesa, mostra il sostegno nel tempo all’“operazione speciale”. La linea al di sotto indica la percentuale dei contrari. Le due linee stanno per incontrarsi. E quando accadrà, credo sarà il momento in cui vedremo i cambiamenti.


(il manifesto, 15 dicembre 2022)

di Loredana Aldegheri


Domenica 4 dicembre la Libreria delle Donne di Milano ha lanciato un dibattito, tra le convenute in sede e le tante collegate on-line, sul “trovare le parole del piacere femminile”.

Il tema ha suscitato molto interesse, poiché davvero alta è stata la partecipazione alla discussione e anch’io ho sussultato proprio per il piacere di non perdere l’occasione di questo stimolante confronto.

Avevo dentro la notizia, riportata da quasi tutti i giornali generalisti, sullo studio del Censis che fotografava un’Italia malinconica e semmai prossima alla depressione.

Sentimenti presentati in una chiave di diffuso impoverimento umano, benché la psicanalisi annoveri la malinconia e la depressione come il preludio di una “rinascita”, se assunte e attraversate senza rimozione.

In Libreria, tra i contributi iniziali, molto vivi e aderenti alle differenti soggettività anche generazionali, mi avevano toccata le immagini con le quali aveva esordito la filosofa napoletana Stefania Tarantino. Si trattava di arazzi che rappresentavano i cinque sensi e uno rappresentava armonicamente l’insieme “dell’umano sentire”, arazzi custoditi nel Museo Nazionale del Medio Evo di Cluny a Parigi. Un incanto! Poi Tarantino aveva offerto altre immagini con le parole dell’esperienza: il suo muoversi nella natura, tra odori, brulichii, quindi del suo piacere a prendersi cura dell’appezzamento di terra dove coltiva anche le olive, partecipando con energia alle necessarie funzioni contadine.

Un racconto, il suo, che risuonava in me come una preghiera, procurandomi l’effetto di un balsamo.

In chiusura, viene detto da Tarantino che il piacere è tale per il fatto che si situa al di fuori dell’economico, ovvero nella sfera del gratuito.

Sostengo l’importanza “politico-educativa” del suo discorso a nutrire un pensiero alto per così andare oltre l’economico che imperversa e che spesso sfianca. Nello stesso tempo, ho potuto reinterrogare la mia scelta di vita, orientata a rendere praticabile un’economia non solo schiacciante e abbruttente, ma semmai fonte di ben-essere, oltre ogni economicismo, fino al piacere e all’amore a concretizzare attività, opere, servizi e lavoro che, senza eludere fatiche e preoccupazioni, si materializzano in soddisfazioni, in valore spesso collettivo, includendo il transito del denaro necessario.

Detto ciò, è come se coabitassero positivamente in me la bellezza dell’arte, che mi ha insegnato ad apprezzare Anna Di Salvo negli incontri di Città Vicine, e l’operare nel mercato senza per questo appiattirsi sul mercato.

E mentre scrivo queste note, mi si affastella la mente di situazioni in cui vedo volti femminili felici fare ciò che semplicemente sentono di essere chiamati a fare, ma non a testa bassa. Vedo Dora, cittadina bulgara, prendersi cura con vera passione di mia cugina Carla “semidemente”, tanto che il medico curante, quando la sapeva in ferie, diceva che doveva tornare al più presto per farla guarire dagli altri acciacchi, dove lui, con i suoi strumenti, non stava arrivando.

Vedo gli occhi, spesso commossi, di Paola che, rinunciando al lavoro tradizionale di architetta, con la sua associazione Quarta Luna, affidata alla Mag, si è intestardita a recuperare una villa abbandonata di proprietà comunale e, dedicandovicisi anima e corpo, tra contestuali raccolte fondi e interventi mirati al tetto, tra feste di comunità e pulizie del parco da detriti vari – sempre con guanti e stivali – ha disseminato piacere tra grandi e piccini, pronti a far rivivere nella villa le fiabe di sempre. E ora arriva anche il PNRR a completare l’opera.

L’economia del desiderio ha aperto la strada all’economia pubblica che pure vogliamo.

Così siamo tutte contente nel vedere l’evolversi di una complessa “trama”, sperata ma non scontata, senza cancellare i tanti paletti frapposti dalle burocrazie municipali.

Da ultimo, ricordo qui, lo splendido sorriso di Giovanna della cooperativa CLM che ha lavorato oltre quarant’anni tra lamiere per termosifoni e simili. Ogni venerdì organizzava la cena dei soci e delle socie della cooperativa nella taverna di casa, per ricaricarsi insieme attraverso discussioni e risate interminabili. Diceva: «la nostra è una cooperativa vera, nel marasma delle cooperative finte», perché «se volemo ben»«fasemo tante ore, prendemo un buon stipendio, come è scritto mensilmente nel tabelon; tutto in regola, e dasemo lavoro ai giovani».

A conclusione sento che non solo non c’è inimicizia tra bellezza ed economia, ma che semmai può esserci un continuum, sempre che l’economia – in pratica – resti fedele al suo radicale significato etimologico: la cura della Casa Comune.

La bellezza, le arti ed il piacere generato possono accompagnare tale fedeltà.


(ViaDoganaTre, www.libreriadelledonne.it, 15 dicembre 2022)

di Julie Bindel


Il lancio di un centro antiviolenza per le donne è sempre una buona notizia ma, se nasce da un’idea di J.K. Rowling, ha sempre qualcosa di nuovo. Soprattutto perché la filantropa femminista e scrittrice di fama mondiale ha adottato misure preventive intelligenti per superare in astuzia i suoi detrattori.

JK Rowling ha finanziato e progettato un nuovo centro antiviolenza per sole donne, Beira’s Place, che apre oggi. «Ho fondato Beira’s Place per fornire ciò che ritengo sia un bisogno attualmente non soddisfatto delle donne nella zona di Edimburgo» ha dichiarato la scrittrice. «Come sopravvissuta a una violenza sessuale, so quanto sia importante poter scegliere un’assistenza riservata alle donne e offerta da altre donne quando si è così vulnerabili. Il Beira’s Place incrementerà la presenza di servizi in zona e, spero, consentirà a un maggior numero di donne di elaborare il proprio trauma e di risollevarsi».

Situato nel cuore di Edimburgo, è un servizio per le donne che hanno subito violenza maschile. Prende il nome dalla dea scozzese dell’inverno, come ha spiegato Rowling: «Beira governa la parte buia dell’anno e passa il testimone a sua sorella, Bride, quando torna l’estate. Beira rappresenta la saggezza, il potere e la rigenerazione femminile. La sua è una forza che resiste nei momenti difficili, ma il suo mito contiene la promessa che non dureranno per sempre».

Ci è voluto un anno di duro lavoro da parte della Rowling e del suo staff per farlo decollare, e sono felice di essere stata invitata all’inaugurazione top secret sabato insieme alla crème de la crème delle femministe scozzesi e a molti altri sostenitori. Oggi è la prima volta che la gente sentirà parlare di Beira’s Place, a parte chi è stata coinvolta nel progetto.

Il consiglio di amministrazione, di cui fa parte anche Rowling, è composto da esperte da lungo tempo impegnate contro la violenza maschile sulle donne e le ragazze. Tra loro, l’attivista per i diritti LGB Rhona Hotchkiss, l’ex-leader laburista scozzese Johann Lamont, la medica Margaret McCartney e Susan Smith, direttrice del gruppo femminista For Women Scotland. L’amministratrice delegata è Isabelle Kerr, veterana del movimento Rape Crisis.

Il Beira’s Place è rigorosamente riservato alle donne, come definite nella sezione 212 dell’Equality Act che stabilisce che una donna è una «persona di sesso femminile di qualsiasi età». Ogni donna di almeno 16 anni residente nel Lothian (la regione di Edimburg) che avesse subito violenze sessuali o abusi in qualche momento della vita ora ha a disposizione un servizio gratuito e confidenziale.

Il servizio è finanziato esclusivamente da JK Rowling e non è stato strutturato come ente di beneficenza (charity), il che impedisce ai transattivisti di presentare istanza alla Charities Commission per farlo chiudere.

Rowling sa perché le donne hanno bisogno di servizi con personale esclusivamente femminile dopo stupri e aggressioni sessuali. Come ha scritto sul suo blog nel giugno 2020: «Mi rifiuto di cedere a un movimento che col tentativo di erodere la categoria politica e biologica di “donna” credo stia causando un danno evidente e offrendo una copertura inedita a maltrattanti e aggressori sessuali».

È scioccante che fino all’apertura di Beira’s Place a Edimburgo non fosse rimasto un solo rifugio antiviolenza per sole donne.

Il centro antiviolenza Edinburgh’s Rape Crisis Centre (ERCC) accoglie sia uomini che «si identificano come donne», sia donne. Nel maggio 2021, la transessuale Mridul Wadhwa ne è stata nominata amministratrice delegata, nonostante il posto fosse ufficialmente riservato a una donna. Tre mesi dopo la nomina, in un’intervista Wadhwa aveva definito “bigotte” le donne vittime di stupro che non volevano avere a che fare con gli uomini nel servizio di assistenza. Si è permessa perfino di suggerire che dovessero «rivedere il proprio trauma».

Le “bigotte” di cui parla Wadhwa sono donne che vogliono consulenze per sole donne e spazi per sole donne nei centri antiviolenza, perché non si sentono sicure con gli uomini e anzi sono traumatizzate dalla loro terribile esperienza.

Ma le donne reagiscono. Una vittima di violenza maschile ha fatto causa a Survivors Network, il centro di crisi antistupro di Brighton, dove le avevano dato della transfobica per aver richiesto di accedere a un gruppo di auto-mutuo-aiuto di sole donne. A Sarah Summers (nome di fantasia), sopravvissuta ad abusi sessuali infantili e a stupri da adulta, è stata negata la terapia con sole donne. In compenso, tanto ERRC che il centro di Brighton accolgono come utenti le donne trans in qualsiasi fase della transizione.

«Per gran parte della mia vita ho visto violare dagli uomini i miei confini. Sono stata manipolata, forzata e costretta a fare sesso con uomini», dice Summers. «È impossibile per donne come me riprendersi dal trauma della violenza sessuale maschile in uno stesso spazio con uomini, anche se questi si identificano come donne.

I gruppi di mutuo-aiuto tra donne sono l’unico spazio in cui le donne dovrebbero potersi sentire al sicuro. Costringerci a negare la realtà conferma che ciò che proviamo non conta e i confini del nostro essere sono considerati irrilevanti».

La gran maggioranza delle donne la pensa come Summers. Il gruppo femminista di base Women and Girls in Scotland ha pubblicato l’anno scorso un rapporto basato su una ricerca che ha rilevato che secondo l’80,1% delle donne intervistate, le donne vittime di violenza maschile dovrebbero poter accedere a centri antiviolenza e case rifugio per sole donne, mentre il 71% non si sentirebbe a suo agio se in questo servizio fossero presenti maschi trans-identificati.

Al giugno scorso è stato registrato un enorme aumento di stupri e aggressioni sessuali contro le donne in Scozia. I dati della polizia mostrano che tra il 2018/19 e il 2021/22 i casi di stupro contro le donne sono aumentati del 25%.

Cosa succede a Edimburgo da quando è arrivata l’ondata trans? Era un epicentro del femminismo radicale. Ero al lancio di Tolleranza Zero a Edimburgo nel 1992. Si trattava di una campagna allora innovativa che utilizzava immagini di donne forti su manifesti e cartelloni pubblicitari in giro per la città, affermando che nessun livello di violenza degli uomini nei confronti di donne e ragazze dovrebbe essere tollerato. Al suo trentesimo anniversario il mese scorso, la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon, che sta attualmente promuovendo una legislazione per consentire agli uomini di essere collocati nelle carceri femminili, nei reparti ospedalieri e nei rifugi, è stata l’oratrice principale. Prima dell’evento, ai partecipanti è stato chiesto di non menzionare la propria identità o di mettere in discussione la definizione di “donna”. Tutti i partecipanti tranne una hanno obbedito, lasciando una donna coraggiosa e arrabbiata a rimproverare Sturgeon per «[aver dato alle scozzesi] delle bigotte per aver difeso i diritti delle donne», mentre gli altri sedevano lì con aria imbarazzata.

Ma Sturgeon non ascolterà nessuno, neppure Reem Alsalem, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze. Alsalem ha detto a Sturgeon che le riforme presentavano «potenziali rischi per la sicurezza delle donne in tutta la loro diversità» e che «l’evidenza empirica» ​​suggeriva che gli uomini abusanti potrebbero cercare di approfittare della legge.

Le donne transessuali di Edimburgo sono molto soddisfatte dei servizi antiviolenza, ma le donne nate donne no. Innumerevoli donne scozzesi hanno espresso a Sturgeon le loro paure sull’autoidentificazione di genere; la stessa Rowling l’ha definita sarcasticamente la prima femminista per aver imposto alle donne e alle ragazze scozzesi una legislazione così pericolosa per loro. Ma Rowling non si limita a parlare, dove mette bocca mette anche i soldi. Come ha detto a Suzanne Moore: «È importante che si facciano avanti le donne come noi, quelle che hanno le spalle larghe…».

Se cinque anni fa mi avessero detto che aprire un centro antiviolenza per sole donne avrebbe inesorabilmente sollevato controversie, mi sarei messa a ridere. E invece ora siamo a questo punto. Le sopravvissute ad abusi sessuali, come Sarah Summers, e tutte le altre donne che sono rimaste lontane dai servizi antiviolenza a causa della presenza delle donne trans, meritano di meglio.

Ho parlato con molte donne che si sono accorte immediatamente di avere a che fare con un maschio nei centri antiviolenza, per quanto gli interessati credessero di passare per donne. Le utenti dei centri che sono donne di nascita sono state traumatizzate, e sono stati uomini i responsabili di quel trauma.

L’inaugurazione di Beira’s Place è stata entusiasmante. Non si è parlato di transattivismo, ci sono stati solo elogi per la fantastica squadra che anima l’iniziativa. Non si è parlato dell’inferno che le operatrici dei centri antiviolenza e delle case-rifugio hanno dovuto affrontare per tentare di salvaguardare la destinazione esclusiva di quei servizi alle donne, c’è stato solo entusiasmo per l’avvio di questa nuova avventura. Beira’s Place sarà un’oasi e, si spera, segnerà l’inizio di una nuova rivoluzione femminista. Ancora una volta, la Rowling ha fatto una magia.


(UnHerd.com, traduzione nostra, 12 dicembre 2022, https://unherd.com/2022/12/jk-rowling-works-her-magic-again/)

di Alessandra De Perini


Tra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, con alcune giovani donne incontrate ad un convegno nazionale intitolato “Da desiderio a desiderio” (Impruneta, 1987), ci siamo chieste quanto il nostro piacere fosse veramente autonomo dal simbolismo vigente, come l’intensità delle relazioni che vivevamo nell’intimità con altre donne potesse diventare forza politica spendibile nella vita di tutti i giorni. Da lì è nato un percorso di ricerca e trasformazione in cui, scambiandoci parole che nascevano dall’esperienza diretta di ognuna, abbiamo interrogato una forma della sessualità femminile storicamente esclusa dall’ordine simbolico dominante e cercato di mettere in parole il piacere e il sapere dei nostri rapporti. Il percorso si concluse nel 1997 con un librino intitolato Il desiderio senza nome pubblicato in trecento copie e scritto per salvare il senso di una storia comune fondata sul piacere della carezza, gesto elementare che restituisce la garanzia primaria di esistere. La carezza, infatti, mostra di che stoffa è il piacere femminile, ne svela l’origine materna, ricollegando ogni donna all’amore della madre, nel momento in cui lei, toccata dall’interno per la prima volta, percepisce la sua creatura e si mette in cammino.

Nella carezza la mente scivola su qualcosa di vivo, tocca la verità di un godimento sottile, conduce il pensiero fuori dal monologo di universi paralleli e si fa dialogo. Anche i baci sono carezze. Ognuna entra lentamente nell’accarezzare, vincendo la tentazione di sparire, mentre il suo corpo acquista peso, consistenza. Opera di alchimia, le carezze sono testimoni di una trasformazione: il corpo si scioglie goccia a goccia, gli elementi si separano, poi si riuniscono; le mani raccolgono nel loro andirivieni colori, suoni, segni, immagini delle forze nascoste che ci avvolgono e ci costituiscono nel profondo. Attraverso un lavorio continuo di lettura, la carezza fa scorrere ininterrottamente acqua dalle dita, riordina la nostra vita, lettera per lettera, combina tra loro le sillabe di una lingua sconosciuta.

Ci sono due “regole” da rispettare nella pratica della carezza: non difendersi dal piacere e non avere fretta, nessuna ansia produttiva né paura di protendersi nel vuoto. Le carezze obbediscono alla promessa di non diventare gesto automatico, teso al possesso, pena la perdita del piacere insieme alla perdita di senso e di intelligenza.

L’effetto della carezza è quello dell’onda infranta dall’onda, della pioggerellina che tintinna sulle foglie, dei granelli di sabbia e di sale lasciati scivolare sulla pelle. Un pulviscolo dorato si forma intorno ai nostri corpi, restituendoli alla rotazione dell’universo che fin dall’inizio è in stretto rapporto con la rotazione dei sensi che procedono senza stacchi bruschi l’uno dall’altro, in un gioco di rimandi.

Per conoscere la capacità trasformativa delle carezze bisogna averne sperimentato in cerchi concentrici lo splendore, aver reso le mani obbedienti a un principio di natura vegetale. Ci vuole, infatti, la forza, la tenacia e la delicatezza di una pianta che si rivolge al sole per guarire dall’estraneità, dalla disabitudine al piacere, dalla mancanza di un ritmo.

Le carezze conoscono l’arte antichissima del ricamo: sulla stoffa di cui è fatto il piacere femminile, con precisione amorevole, innumerevoli fili si intrecciano e si disfano in un disegno sempre nuovo.

Passo dopo passo, le carezze ci conducono verso la perdita momentanea dei nostri contorni: esperienza di esaltazione, di uscita da sé. A volte possono dare tormento, allora c’è bisogno di riposarsi per tornare a desiderarne ancora e ancora, sempre di più.

Stupore rinnovato delle carezze, canto a più voci che ci porta a una tradizione ininterrotta di tattilità femminile. Mani a coppa non a forma di taglio. Non percussione, ma sfregamento, sfioramento, fruscio, scivolamento, lenta discesa fino a incontrare le onde sonore dei pensieri che si confondono con quelle olfattive e visive. Nella carezza la comunicazione avviene per echi, assonanze, analogie.

La carezza obbedisce al principio di individuazione per cui non c’è la donna, una donna, le donne, ma questa donna, lei, proprio lei e non un’altra. Il principio di espansione rende la carezza trasmissibile nel tempo e nello spazio. Sui volti e nelle parole di alcune donne ne riconosciamo i segni. Questa è la visibilità elementare, la prima forma di somiglianza segreta tra donne, resa possibile dalle carezze: sensualità di sguardi, cura nei gesti come fossero rituali di una cerimonia antichissima che si rinnova; dita che non si inarcano per evitare il contatto, ma si raccolgono in piccole culle di silenzio, fluidità e sensualità nei movimenti, forza di affermazione nella voce.

La carezza fa da ponte, costituisce nel difficile equilibrio tra finito e infinito un piano d’appoggio su cui innalzare il mondo secondo l’amore femminile per tutto ciò che vive, luccica, respira, canta, lotta, si trasforma, disegna spazi imprevisti di relazione.

Per fare politica occorre avere un corpo che ha acquistato spessore, intelligenza del reale, passando per un piacere che, nonostante la storia del potere patriarcale, ha attraversato i secoli ed è giunto intatto fino a noi. Grazie alla consapevolezza di questo antichissimo piacere, in tante abbiamo provato la passione della differenza, inventato pratiche politiche e ci siamo misurate con la sfida enorme di cambiare il mondo.


(ViaDoganaTre – www.libreriadelledonne.it, 12 dicembre 2022)

di Farian Sabahi


Il ventitreenne Mohsen Shekari lavorava in un caffè ed era un amante dei videogiochi. Arrestato durante le proteste, era stato processato il 10 novembre. È stato impiccato ieri mattina. Come d’abitudine in Iran, anche al tempo dello scià, gli è stata estorta una confessione, servita a comminare la pena capitale per il reato di mohabereh, «propaganda contro Dio».

I capi d’accusa sono stati «l’aver bloccato una strada, l’aver partecipato ai disordini, l’aver estratto un’arma con l’intenzione di uccidere e l’aver accoltellato intenzionalmente un paramilitare basiji».

Questa prima impiccagione di un giovane che ha preso parte alle proteste, innescate dalla morte della ventiduenne curda Mahsa Amini il 16 settembre, vuole essere una forma di intimidazione nei confronti di tutti coloro che osano sfidare il regime. Secondo l’ong Iran Human Rights con sede a Oslo, sono almeno 458, di cui 63 minorenni e 29 donne, le persone uccise nella repressione e oltre 18mila quelle arrestate.

L’altro ieri sera, nel terzo giorno di sciopero nazionale e in concomitanza con la giornata iraniana degli studenti universitari, le forze dell’ordine hanno sparato colpi d’arma da fuoco contro il ventunenne Houman Abdollahi nella città nordoccidentale di Sanandaj, nella provincia iraniana del Kurdistan dove le autorità usano la mano pesante contro ogni forma di dissenso.

Secondo il sito IranWire in cui sono operativi numerosi giornalisti della diaspora iraniana, il ragazzo sarebbe stato colpito mentre si trovava nel quartiere Hassan Abad e sarebbe morto nell’ospedale Kosar in seguito alle ferite riportate.

Intanto, nonostante il rallentamento di internet, gli attivisti continuano a comunicare con giornalisti ed emittenti straniere. Gli operatori sanitari in Iran hanno fornito al quotidiano britannico The Guardian le foto delle ferite devastanti sui corpi dei manifestanti.

Un medico della provincia centrale di Isfahan ha raccontato di aver «curato una donna sui vent’anni, che è stata colpita ai genitali da due pallottole. Altri dieci pallini erano nella parte interna della coscia. Questi dieci pallini sono stati rimossi facilmente, ma quei due pallini erano una sfida, perché incastrati tra l’uretra e l’apertura vaginale».

Il medico ha aggiunto che le autorità stanno prendendo di mira uomini e donne in modi diversi «per distruggerne la bellezza». Gli operatori sanitari hanno sottolineato che i colpi agli occhi di donne, uomini e bambini sono particolarmente comuni.

A invitare le forze dell’ordine a sparare in viso pare sia stato Ali Akbar Raefipour, un docente universitario vicino ai pasdaran che ha usato i social media per intimidire coloro che scendono in strada. In un tweet del 6 dicembre scorso aveva scritto: «Se volete perdere la vita, unitevi alle proteste, specialmente se avete un bel viso». Twitter ha bloccato il suo account.

Mercoledì, in occasione della giornata nazionale degli studenti universitari, agenti in borghese si sono intrufolati negli atenei, malmenato i ragazzi e rapito i giovani Mohammad Shebahati, Arian Heydari, Amirhossein Garshasebi, ed Erfan Zarei.

Nel frattempo, la repressione in Iran ha convinto la Corte costituzionale del Belgio a escludere lo scambio di prigionieri, e quindi il ritorno a Bruxelles del volontario Olivier Vandecasteele, nel carcere di Evin dallo scorso febbraio. Doveva essere scambiato con il diplomatico iraniano Assadollah Assadi condannato a vent’anni da un tribunale di Anversa.

La repressione di regime fa anche crescere la rabbia. Di certo, ayatollah e pasdaran sono consci di correre il rischio di un ribaltamento del sistema, e per questo si stanno preparando la via di uscita. Non sorprende quindi la segnalazione di diversi elicotteri in volo dalla casa del leader supremo Khamenei verso l’aeroporto di Teheran.

Pare che la dirigenza iraniana stia negoziando con le autorità venezuelane affinché i funzionari della Repubblica islamica e i loro familiari possano richiedere la residenza. Sono notizie rivelate da una fonte venezuelana all’emittente saudita Iran International che il manifesto non è in grado di verificare. Un’altra possibile destinazione per gli uomini di regime e le loro famiglie pare possa essere il Cile.


(il manifesto, 9 dicembre 2022)

di Maurizio Molinari


«L’Iran di oggi è come il Sudafrica dell’apartheid, da noi il razzismo è contro le donne ma il regime perderà anche questa volta». Azar Nafisi, scrittrice iraniana in esilio ed autrice di best seller come “Leggere Lolita a Teheran”, coglie l’occasione della sua presenza a Roma per “Più libri più liberi” e viene in visita alla redazione del nostro giornale. Si unisce alla riunione di redazione. Si informa sugli ultimi eventi in Iran e poi sottolinea l’importanza del ruolo della libera stampa nei Paesi democratici “perché fa sentire le donne meno sole”. E nell’intervista che segue, con voce tenue ma ferma, spiega quale è la genesi del coraggio di chi sfida la teocrazia iraniana togliendosi il “velo dell’oppressione.

Perché una donna trova dentro di sé la forza di sfidare l’hijab?

Perché questo è un regime che sfida e ha sfidato la nostra stessa esistenza di donne. Non è solo una questione politica è una questione esistenziale e fin dall’inizio della Repubblica Islamica, prima di avere la nuova costituzione loro hanno cancellato le leggi di protezione familiare che davano alle donne diritti e protezione a casa e fuori. L’ayatollah Khomeini l’8 marzo 1979 provò a rendere il velo obbligatorio. Ma all’epoca decine di migliaia di donne scesero in piazza. Il loro slogan era “la libertà non è né orientale né occidentale, la libertà è globale”. Questo accadde all’inizio della rivoluzione e come donna la sensazione fu che stavo perdendo me stessa. Se non potevo scegliere cosa indossare, come parlare, come sentire, come connettermi con altra gente, allora avrebbe significato che non ero più io. Quindi mi sento di dire che le donne stanno lottando per la loro vita.

Che rapporto avevano le donne col velo prima della Repubblica Islamica?

Il governo non se ne occupava, non metteva bocca su quel che le donne indossavano. Eravamo libere. Avevo parenti che lo indossavano a cui eravamo molto vicini ed erano donne brillanti e intelligenti come tutto il resto delle donne iraniane. Non c’erano problemi. Mia nonna era una musulmana ortodossa e mia madre non indossava mai il velo. Eppure, vivevano fianco a fianco. Mia nonna diceva che il vero Islam non forza le donne a indossare il velo.

Perché per la teocrazia iraniana il velo obbligatorio è così importante?

È un efficace mezzo di controllo. In pratica ci dicono “non possiedi te stessa”, “non possiedi il tuo corpo: siamo noi i tuoi padroni, ti diciamo cosa fare”. È una lotta per il potere. Questo è il motivo per cui oggi indossare il velo è diventato un simbolo, una dichiarazione a favore o contro il regime. Il regime è un sistema totalitario, che impone una divisa ai suoi cittadini, che controlla attraverso la repressione e ci porta via la nostra identità nazionale e individuale.

Questa è la genesi della rivolta delle donne?

Quello per cui stiamo lottando non è a favore o contro il velo, ma libertà di espressione e libertà di scelta.

Chiunque venga in Iran percepisce immediatamente l’energia delle donne. Il loro carattere è una peculiarità del Paese. Dove si origina?

L’Iran ha una storia antica che va indietro fino alla cultura romana. Gli iraniani sono un mix culturale, ma restano fedeli all’immagine dell’Iran nella sua interezza, l’Iran preislamico e post-islamico. Questo gli dà un senso di identità. Attraverso i secoli, per esempio, gli iraniani hanno continuato a festeggiare il Capodanno secondo la tradizione zoroastriana. All’inizio Khomeini e gli altri leader religiosi provarono a dire che era sbagliato. Ma gli iraniani non hanno ascoltato. E infatti si festeggia il 21 marzo, secondo il calendario zoroastriano e anche con più clamore, proprio perché il governo diceva che non si doveva fare. Questo sfidare il governo, non solo politicamente, ma in termini culturali e di identità nazionale, va avanti da 43 anni.

E ora come fa la rivolta a continuare?

Questa generazione, paradossalmente, è quella dei figli della rivoluzione. Non hanno visto come era prima. Eppure, le loro mamme, nonne e bisnonne lo ricordano bene. E a casa vedono che ci sono due Iran, quello privato e quello pubblico imposto dalla Repubblica Islamica. È questa giovane generazione che non vede futuro per sé stessa all’interno del sistema.

Perché il regime non riesce a domarla con la repressione?

Non riesce perché l’unica lingua che usa è la forza. Per questo regime, come per qualunque altro regime totalitario, riforme significa rivoluzione. Non possono cedere di un millimetro perché poi si vorrà di più e di più. Non puoi essere un po’ conciliante, devi essere totalitario. Vedono la loro sopravvivenza nell’eliminazione delle voci del popolo iraniano. Come ho già detto, questa non è una lotta politica, ma esistenziale. Per il regime come per il popolo è una lotta per la sopravvivenza. Se fosse stata solo una rivolta politica, sarebbe stato facile prendere i leader dei gruppi politici ed ucciderli.

E invece è una battaglia per i diritti…

L’Iran di oggi è come il Sudafrica dell’apartheid. Il razzismo in Sudafrica era contro i neri, in Iran oggi è contro le donne. Ci sono migliaia di persone che scendono in piazza e non puoi certo ucciderle tutte. E anche se ne uccidi qualcuna ce ne sono ancora altre. E in questo modo il regime sta spingendo sé stesso contro il muro. Non può farcela. Imploderà come avvenuto con il Sudafrica davanti alla sfida di Nelson Mandela.

Come vede l’ondeggiare del regime? Parlano con voci diverse, fanno timide aperture ma poi tornano indietro. Che succede a Teheran?

Le contraddizioni ci sono state fin dall’inizio all’interno del regime e con le proteste delle donne ci sono state anche defezioni interne al regime. Anche queste crepe ricordano il Sudafrica dell’apartheid, quando l’élite bianca iniziò a dividersi.

Come possono le democrazie aiutare le donne iraniane?

Parlando di loro. Perché il regime gli dice in continuazione che sono sole, nessuno al mondo si interessa a loro. È una guerra psicologica. Se l’opinione pubblica nei Paesi liberi parla di loro, compie l’opera più decisiva, importante. Non farle sentire sole. Per questo sono importanti eventi di solidarietà come quello in programma domenica al Teatro Parenti di Milano che voi avete organizzato.

Perché alla fine degli anni Novanta lasciò l’Iran?

Avevo raggiunto il punto in cui non potevo restare, dovevo essere sincera con me stessa. Non potevo vivere con quella censura, mi faceva odiare me stessa. Compresi che venendo via avrei potuto avere un ruolo e dare voce all’altro Iran ma mi sono anche sentita in colpa. E ciò è vero anche ora, perché vivo al sicuro. Mentre queste giovani persone vengono uccise ogni giorno. Il mio cuore si spezza ogni giorno.


(la Repubblica, 9 dicembre 2022)